Nelle nostre carceri si torna ai 10 minuti di telefonata a settimana. Cresce la tensione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2023 Nelle carceri italiane siamo tornati ai tempi del pre-Covid, soprattutto per quanto riguarda i colloqui telefonici. I detenuti potranno infatti chiamare i familiari per soli dieci minuti e una sola volta a settimana. Non solo la fine delle misure deflattive. Da qualche tempo, nelle carceri italiane, si è ritornato al periodo pre-Covid anche per quanto riguarda i colloqui telefonici. Se durante la pandemia i detenuti hanno avuto la possibilità di effettuare chiamate giornaliere con i propri famigliari, ora si è ritornati al colloquio telefonico alla settimana, della durata massima di dieci minuti. Qualcuno sta già protestando, e si tratta dei detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo che si dicono pronti ad intraprendere uno sciopero della fame se non dovessero essere ripristinati i colloqui giornalieri. Hanno reiterato la loro richiesta dopo la prima istanza presentata da 800 detenuti alla quale non è stato dato seguito. Il 6 gennaio scorso, infatti, era stata inviata al garante della regione Sicilia Giovanni Fiandaca dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta. La richiesta, otto pagine scritte a penna dal palermitano Ludovico Collo - che è il primo firmatario - ha l’obiettivo di mantenere delle regole introdotte nel periodo pandemico relative ai contatti telefonici tra i detenuti e i propri familiari, e anche con gli avvocati difensori. “Da quel che ho compreso - ha commentato il garante Fiandaca nella sua nota inviata al legale - in linea tendenziale si è favorevoli a consentire un numero di telefonate maggiore di quello regolamentare. Ma - ha aggiunto il garante - non si potrà perpetuare il regime eccezionale delle telefonate giornaliere, una volta che occorre ritornare a un regime di normalità. Non è escluso che in proposito saranno date indicazioni anche da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap)” Ma nulla è cambiato, per questo hanno reiterato l’istanza. L’avvocato Vito Cimiotta, ha annunciato che i detenuti sono pronti a una forma di protesta pacifica, non alimentandosi e non comprando i beni alimentari del sopravvitto, se la richiesta non dovesse essere accolta. Ma il problema è generale e riguarda tutti i detenuti d’Italia. Ricordiamo che l’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (la cosiddetta legge penitenziaria) stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. E a tal fine, numerose disposizioni dell’ordinamento penitenziario valorizzano i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, quale strumento per l’esercizio del diritto delle persone detenute al mantenimento delle relazioni con i propri congiunti. E’ il caso dell’articolo 18, comma 4, che riconosce “particolare favore (...) ai colloqui con i familiari”, degli articoli 1, comma 6, e 15 dell’ordinamento penitenziario, i quali collocano i contatti con l’ambiente esterno nell’ambito del trattamento rieducativo, attribuendo ad essi rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e risocializzazione delle persone condannate, che costituisce l’obiettivo costituzionale della pena; dell’articolo 73, comma 3, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), che contempla il mantenimento del diritto ai colloqui con i familiari anche in caso di sottoposizione della persona detenuta alla sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune. Coerentemente con questa impostazione, persino alle persone sottoposte al regime differenziato disciplinato dall’articolo 41- bis, comma 2- quater, lett. b), Ordinamento penitenziario viene riconosciuto il diritto al colloquio visivo e la possibilità di accedere alle telefonate, pur con talune previsioni restrittive in relazione al numero e alle relative modalità di svolgimento. Una delle fondamentali modalità con cui le persone detenute possono tenere i contatti con l’esterno è rappresentata appunto dalle conversazioni con il mezzo del telefono, le quali, ai sensi dell’articolo 39, regolamento esecuzione ordinamento penitenziario, possono essere autorizzate dall’Autorità competente quando riguardino congiunti o conviventi ovvero, in caso di persone diverse, ove ricorrano “ragionevoli e verificati motivi”. Al telefono si è aggiunto la videochiamata, prima sperimentale, ma ora - soprattutto per reazione alla pandemia - si è diffuso il suo utilizzo in tutte le carceri. Con l’emergenza covid, per ovviare alla mancanza dei colloqui visivi, le telefonate e videochiamate erano diventate giornaliere. Ma, finita l’emergenza, si è ritornati nel passato. In realtà, attraverso la circolare del 26 settembre scorso, il Dap ha ricordato che l’attuale regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario consente ai direttori degli istituti carcerari di avere un’ampia discrezionalità nella concessione dei colloqui, anche quelli telefonici. Quindi, nonostante la legge detti un massimo di 10 minuti di telefonata a settimana, i direttori potrebbero comunque ampliare il limite. Ma sempre un limite rimane e, come dimostra il caso del carcere di Pagliarelli, non tutti i direttori penitenziari usano questa loro discrezionalità. Per questo sarebbe il caso di valutare la proposta contemplata anche nella relazione della commissione presieduta da Marco Ruotolo (ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma Tre) voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Tra le linee guida c’è appunto la ‘ liberalizzazione’ delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano “particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità”. In particolare, la proposta prevede la possibilità di acquistare al sopravvitto apparecchi mobili “configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative (senza scheda e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati) per evitare qualsiasi forma di utilizzo indebito”. Per cui il detenuto sarebbe libero di utilizzare l’apparecchio nei tempi e con le modalità indicate dall’Amministrazione (es. solo nella camera di pernottamento). “Ciò - si legge nella Relazione depositata oramai da un anno - consentirebbe di alleggerire il sistema con evidenti benefici per coloro (e non sono pochi) che, non avendo disponibilità economiche, potrebbero chiamare gratuitamente avvalendosi delle video-chiamate con Skype o simili applicazioni, come già sta avvenendo”. E risolvere anche l’annoso problema, legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i detenuti stranieri. Le video chiamate potranno essere effettuate con i cellulari di recente acquistati dall’Amministrazione (3.200) o nelle sale attrezzate e video sorvegliate, già predisposte in diversi istituti, secondo le esigenze organizzative interne di ciascuno di questi. A ciò si aggiunge che, nel merito, sono rimaste nel limbo due proposte di legge provenienti dalla regione Toscana e il Lazio. Proposte che fanno il paio con quella rilanciata dall’associazione Antigone, dove si chiede di riformare il regolamento, consentendo appunto la liberalizzazione delle chiamate. Utile soprattutto per prevenire i suicidi, così come d’altronde recita l’appello di don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio: “Una telefonata ti può salvare la vita”. Donne ai margini di un carcere che parla al maschile di Federica Brioschi Il Riformista, 10 marzo 2023 Il nostro sistema penitenziario è declinato nelle norme e nell’organizzazione istituzionale al maschile. Non vi è una specifica attenzione rivolta alle donne detenute nelle leggi, nei regolamenti penitenziari e nel management penitenziario anche per via dei numeri esigui che, in Italia come altrove, rappresentano questa minoranza le cui necessità rischiano di rimanere inascoltate. Proprio per portare una specifica attenzione su questi bisogni, Antigone ha deciso di dedicare loro uno specifico rapporto, presentato non a caso l’8 marzo, in occasione della Festa Internazionale della Donna. Rapporto che è anche stato un’occasione di riflessione. Le donne infatti radicalizzano una serie di caratteristiche della popolazione carceraria nel suo complesso che sempre più sono rappresentate nella massa delle persone che la società rinchiude in galera. La massa della popolazione detenuta è costituita da persone che provengono dagli strati più marginali della società, che sperimentano povertà economica ed educativa, che vivono un’emarginazione che il periodo di detenzione non fa altro che approfondire, che presentano uno scarso spessore criminale (i reati per cui vengono condannate sono meno gravi e le pene comminate inferiori) e anche una scarsa pericolosità penitenziaria. Se si guarda ai dati erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito, ovvero il 4,2% dei detenuti in Italia. A queste donne si aggiungono anche le circa 70 donne trans ospitate in apposite sezioni protette all’interno di carceri maschili. Infine, inserite all’interno del circuito penale minorile sono presenti anche alcune ragazze minori e giovani adulte. Al gennaio 2023, sui 385 giovani reclusi nelle carceri minorili italiane solo 10 erano ragazze, le comunità ospitavano 58 ragazze sottoposte a misure penali e altre 1.300 (il 9,4% del totale) erano in carico ai servizi per la giustizia minorile. Vista l’esiguità dei numeri, le carceri femminili presenti sul territorio italiano sono solamente quattro e si trovano a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. Ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono distribuite in 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Le celle che ospitano le donne generalmente non differiscono molto da quelle che ospitano gli uomini. Le condizioni strutturali sono però spesso migliori, e solitamente appaiono anche più pulite e più curate. In particolare, il bagno, molto più spesso che nel caso degli uomini, è in ambiente separato e dotato di doccia e di bidet. Venendo invece alla vita in carcere risultano scarsissime le attività in comune con gli uomini, presenti soltanto nel 10% degli istituti che ospitano donne. Dal punto di vista delle attività lavorative e di formazione professionale le donne risultano tendenzialmente più rappresentate rispetto alla media delle loro presenze in carcere. Invece dall’analisi dei numeri relativi all’istruzione emerge come nei gradi inferiori di istruzione le donne iscritte e promosse rispetto al totale delle donne presenti tendano a essere percentualmente più rappresentate degli uomini iscritti e promossi sul totale degli uomini presenti. Tuttavia nei gradi più alti (università inclusa) la situazione si ribalta. Oggi come in passato, le donne tendono a frequentare corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana e gli altri corsi di primo livello, accedendo meno ai corsi di secondo livello. Sono questi dati e questa analisi che portano Antigone a chiedere che si riparta dall’immaginare un modello di detenzione nuovo e più aperto, dove il tempo della pena acquisti direzione e significato, dove il raccordo con il territorio circostante sia capillare e continuo. *Ricercatrice Associazione Antigone Fratelli d’Italia blocca la legge sulle madri detenute, Anastasìa: “La politica non c’entra, va garantito l’interesse del bambino” di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2023 Il provvedimento aspetta solo il via libera definitivo di Palazzo Madama, ma Fdi vuole far saltare tutto e ha presentato alcune richieste di modifica. Il Garante dei detenuti del Lazio: “Questo blocco non è una buona notizia, speriamo sia momentaneo”. Rischia di non vedere la luce la proposta di legge sulle detenute madri, concepita per evitare che i bambini al di sotto dei sei anni finiscano in carcere con i genitori detenuti. A dare lo stop, Fratelli d’Italia, che in Commissione Giustizia l’8 marzo ha chiesto modifiche a un testo già approvato alla Camera nella scorsa legislatura (e sul quale il partito di Meloni si era astenuto). Dopo la caduta del governo, per salvare il provvedimento era stata imboccata la procedura d’urgenza affinché diventasse legge entro sei mesi e l’approdo in Aula era previsto per il 13 marzo. Ora però il voto è rinviato a data da destinarsi e la bozza sarà riesaminata a fine mese. Gli emendamenti - Il blocco arriva perché Fratelli d’Italia vorrebbe modificare due passaggi sulla condizione penale delle madri. Era già previsto che per reati di “eccezionale rilevanza” la custodia fosse assegnata agli istituti a custodia attenuata per madri (Icam) anziché alle case famiglia protette. FdI ora chiede che a incidere sulla valutazione dei giudici siano anche le situazioni di recidiva. La recidiva è il cuore delle modifiche proposte dalla maggioranza, che ha avanzato un secondo emendamento su questo tema (art. 2-bis) per fare in modo che chi reitera l’illecito perda i benefici della legge sulle detenute madri. Se passassero i desiderata del centrodestra di governo, a seconda della gravità del reato commesso, si potrebbe sospendere o revocare del tutto la responsabilità genitoriale, cioè separare i figli dalle madri detenute. Questo abolirebbe il principio stesso su cui si fonda anche la legge in vigore (62/2011) cioè quello di tutela e valorizzazione del rapporto tra genitori detenuti e figli molto piccoli. Cosa significano le modifiche proposte da FdI- “Vincolare alla recidiva delle madri l’accesso alle strutture e alle soluzioni alternative oppure prefigurare la decadenza della responsabilità genitoriale non serve a risolvere il problema dei bambini in carcere” - dice a ilfattoquotidiano.it Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà del Lazio. “Questo blocco non è una buona notizia. Speriamo che sia momentaneo e la prossima settimana la proposta di legge venga approvata. Speriamo poi che su questo provvedimento non ci siano conflitti tra le forze politiche che non c’entrano con il merito della norma”. Secondo Anastasia, le modifiche chieste da FdI non possono coesistere con questo provvedimento, che con gli emendamenti sulla recidiva non preserverebbe più il rapporto tra figli minori e i loro genitori in carcere. “La proposta - spiega Anastasia - mira a garantire l’interesse del bambino ad avere una relazione con la propria madre in un ambiente non detentivo. Una misura che va in senso opposto non ha ragione di essere compresa in questa proposta e se si hanno altre motivazioni si dovrebbero fare altre proposte di legge”. Cosa prevede la proposta di legge - Anche secondo il Pd, le modifiche “stravolgerebbero” la legge. Debora Serracchiani, promotrice nella nuova legislatura, ha rivolto un appello a Giorgia Meloni affinché si impegni a fare approvare il testo così com’è. “I bambini non possono vivere in carcere. Devono vivere fuori e non possono pagare per le colpe dei genitori o delle loro madri. E’ una legge di civiltà” dice Serracchiani sui suoi canali social. Presentata nel 2019 dall’ex deputato Paolo Siani (Pd), la proposta di legge ha l’obiettivo di ridurre al minimo il ricorso al carcere nel caso di una madre detenuta con figli al seguito, a prescindere dal tipo di reato commesso. Il testo di fatto potenzia in due modi la norma già esistente (62/2011): esorta i giudici a valutare al massimo le soluzioni alternative al carcere per una madre con figli minori di sei anni e istituisce finanziamenti pubblici per le case famiglia protette. Nei casi di reati molto gravi, le detenute andrebbero in un Icam, un istituto di pena pensato per i bambini, dove l’impatto con l’estetica del carcere è minore, con agenti in borghese e porte senza sbarre. Secondo l’ultimo rapporto diffuso Antigone, sono 17 i bambini ristretti insieme alle madri in Italia, mentre secondo l’ultimo report del Viminale (aggiornato fino alla fine di febbraio) sono 24. Un numero fortemente diminuito dopo la pandemia ma che torna a crescere. “Durante il Covid la magistratura ha fatto l’uso più attento possibile del ricorso al carcere. Per togliere i bambini dal carcere servono le leggi ma serve anche la cultura”, dice Anastasia. Cospito ricorre alla Cedu contro il reato di “strage politica” a Fossano: sotto accusa la Cassazione di Carmine Di Niro Il Riformista, 10 marzo 2023 Il caso di Alfredo Cospito potrebbe finire davanti ai giudici della Cedu, la Corte europea dei diritti umani. Lo ha comunicato la stessa Corte facendo riferimento anche al numero di protocollo, il 10552/23, assegnato al ricorso dell’anarchico recluso al 41 bis e in sciopero della fame da oltre quattro mesi. Nel ricorso presentato dal suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, Cospito denuncia che è stato violato il suo diritto a non essere condannato per un crimine che al momento in cui è stato commesso non costituiva un reato in base alla legge italiana. Il riferimento è all’attentato commesso dall’anarchico alla caserma dei Carabinieri di Fossano, quando Cospito mise due ordigni fuori la scuola allievi carabinieri in provincia di Cuneo, esplosi poi senza provocare morti o feriti. Nel corso del processo Cospito è stato condannato prima per strage e quindi, dopo la pronuncia della Cassazione, per strage politica. Secondo i suoi legali la qualificazione giuridica di quanto gli è stato contestato, ovvero il reato di “strage politica” così come normato dall’articolo 285 del Codice penale, non era prevedibile alla luce della giurisprudenza, quando Cospito ha compiuto i fatti per i quali è stato condannato. Cospito dunque chiama in causa la sentenza 38184/22 della Corte di Cassazione: secondo i suoi legali la qualificazione giuridica di quanto gli è stato contestato da parte degli Ermellini in Cassazione non era prevedibile alla luce della giurisprudenza nazionale esistente al momento dei fatti. Contro l’anarchico della Fai vi sarebbe secondo i suoi legali un “trattamento arbitrario da parte dello Stato” e “l’aggravamento del trattamento sanzionatorio” da strage comune a strage di Stato “ha ripercussioni negative anche sulla pena in quanto preclude l’accesso ai benefici penitenziari “, fatto questo che ha “causato un danno incommensurabile”. Nelle 12 pagine del ricorso alla Cedu, di cui ha preso visione l’Agi, la difesa del 55enne sostiene che quando l’anarchico si rese responsabile dell’attentato alla caserma di Fossano “era consapevole che, a fronte di un fatto in cui non sarebbe stata arrecata lesione alla vita di alcuno, sulla base del diritto esistente sarebbe stato condannato al più per il delitto di strage comune”. In sostanza quindi secondo l’avvocato Flavio Rossi Albertini la Cassazione avrebbe commesso un errore nell’interpretazione della giurisprudenza relativa all’ipotesi di reato di ‘strage politica’. Nel ricorso, presentato a febbraio, il collegio difensivo invoca l’articolo 7 della Convenzione secondo cui “nessuno può essere condannato per un’azione che al momento in cui è stata commessa non costituisce reato secondo il diritto interno e internazionale” e, allo stesso modo, “non può essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”. Come sottolinea l’Ansa, per ora la Corte europea dei diritti umani ha unicamente registrato il ricorso Cospito: i magistrati di Strasburgo dovranno quindi valutare se non vi siano ragioni palesi per rigettare il fascicolo e che questo sia completo. In assenza di problematiche, il ricorso verrà ritenuto ammissibile in via preliminare e verrà dunque comunicato al governo italiano. Atto quest’ultimo che aprirà una fase in cui le parti potranno avere un accordo ma, in caso questo non dovesse succedere, si entrerà in una seconda fase che è quella del contenzioso: qui le due parti saranno chiamate a fornire informazioni sulla ricevibilità e il merito del ricorso, e il ricorrente potrà inoltre specificare se chiede un risarcimento e quantificarlo. Inchiesta Covid. La nostra scienza è stata chiamata troppo spesso alla sbarra e in Tv di Gilberto Corbellini* Il Dubbio, 10 marzo 2023 L’Italia ha la “capacità” di polarizzare qualsiasi argomento. E neanche la pandemia non si è salvata. Ogni giorno ha la sua pena, e in Italia non ce ne facciamo mancare nessuna. Anche quando sono in gioco questioni di scienza e salute, che dovrebbero indurre all’uso della razionalità nel prendere decisioni. Mentre accade l’opposto. Un filosofo confuciano del VII secolo scriveva che “schierarsi pro o contro è una malattia mentale”. Infatti, alcune democrazie occidentali sono sempre di più malate di “polarizzazioni”. La scienza sembrava poterne restare fuori e costituire un’ancora contro la deriva relativista che da decenni ammorba il pensiero di sinistra come quello di destra. Invece no. Dopo oltre due anni di sovraesposizione mediatica di esperti e scienziati, che ragionavano in televisione sulla pandemia come fossero aruspici, e mentre finora le minacce alla razionalità scientifica venivano da integralisti settari e pseudoscienziati, abbiamo fatto un salto di qualità non da poco. Contro 19 figure istituzionali coinvolte nel complesso e incerto processo decisionale di istituire le misure antipandemiche contro Covid 19 in alcune zone del bergamasco, è stata montata un’accusa che vagamente ricorda quella rivolta al povero barbiere Gian Giacomo Mora, giustiziato durante la peste di Milano del 1630 e di cui racconta Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame. Se valgono ancora le sentenze di Cassazione Penale che indicano i requisiti per i periti e per le perizie, è improbabile che la relazione in oggetto sarà presa sul serio da un giudice. Ma l’effetto distopico rimane. Anche un certo Cardinale Bellarmino era uomo di spiccata intelligenza ed erudizione, persino disposto ad aiutare chi doveva inquisire, ma nondimeno prima concorse a istruire il processo e a condannare al rogo Giordano Bruno nel 1600, e 16 anni dopo a scrivere l’ammonimento a Galileo Galilei di non diffondere il copernicanesimo, che presagiva al processo del 1633. I pregiudizi oggi non sono dogmatico-religiosi, ma basati sulla autorefenzialità di argomentazioni spacciate come scientifiche su basi reputazionali, ovvero su assunzioni speculative, metodologie creative e ricostruzioni aneddotiche. Comunque si crede che esista una verità assoluta che aspetta di essere colta da chi è unto, in questo caso dalla scienza invece che dal Signore. Il principio di autorità o di investitura politico-religiosa, che le prime comunità scientifiche del Seicento cacciarono dalla porta, oggi sembra venga fatto entrare surrettiziamente dalla finestra dagli stessi scienziati. I segnali che il “populismo penale” in Italia sta infettando anche la scienza sono numerosi. Prima dell’indagine della procura di Bergamo, si è discusso per giorni della “guerra” intorno a dei test rapidi condotta tra “virologi” presso il tribunale di Padova. La scienza è stata chiamata inopportunamente alla sbarra troppo spesso in Italia negli ultimi decenni: per gli ogm, i vaccini, le staminali, Xylella, i terremoti, l’omeopatia, le diete, le manipolazioni di dati, etc. Quasi sempre, però, per separare la scienza dalla pseudoscienza. Si mette molto male se anche gli scienziati cominciano a coltivare un’idea tribale di giustizia, prendendo parte a procedimenti che sembrano più sfide personali che processi basati su procedure garantiste. I processi potrebbero essere il naturale sbocco delle polemiche su tutto (origini del virus, evoluzione delle varianti, distanziamento, lockdown, mascherine, clorochina, vaccini, etc.) a cui abbiamo assistito durante la pandemia. Qualcuno diceva che la scienza aveva però finalmente guadagnato le pagine dei giornali e gli studi televisivi. Ma la scienza non coincide con gli scienziati. Anche sostenere che i battibecchi stessero invece danneggiando la credibilità o percezione della scienza era discutibile. Tutto cambia per rimanere sempre uguale. La scienza in Italia manca di autorevolezza culturale e gli esperti tendono a confondere i fatti scientifici con i loro interessi accademici o professionali. Naturalmente anche con le loro inclinazioni politiche. I temi della pandemia sono stati discussi quasi esistessero fatti alternativi, in un Paese che tende a politicizzare tutto. Gli esperti/scienziati - non sempre esperti e scienziati competenti di Covid-19 - sono stati presenti nei media 24/7. Troppo spesso litigando come nei peggiori talk show. La selezione naturale/televisiva basata sul gradimento di un pubblico da circo equestre ha portato alla persistenza di quelli più efficaci a stimolare i circuiti cerebrali della ricompensa o della rabbia nei frequentatori di media. Per consuetudine si crede che i protagonisti di discussioni intellettuali abbiano in qualche modo il controllo della loro psicologia. Qualcuno, che ha studiato il problema, sostiene che nelle dinamiche sociali e comunicative, anche in ambito scientifico, venga premiato il narcisismo. Su cui non abbiamo controllo. La scienza si svolge in contesti sociali e competitivi, per cui gli scienziati narcisisti sono abbastanza frequenti, e spesso geniali. Nei Paesi che producono scienza di qualità, ci sono regole definite e si sanzionano i comportamenti eticamente scorretti e illeciti. Per cui i tratti di personalità manipolatori sono canalizzati spesso verso risultati utili. Purtroppo, l’etica della responsabilità manca del tutto in Italia. Chi crede di agire bene sulla base delle proprie convinzioni invece che facendo riferimento a fatti e conseguenze e allo stesso tempo si crede migliore o superiore, finirà per comportarsi in modi arroganti, presuntuosi o privi di autocritica. Cioè a mancare di senso civico e danneggiare la convivenza civile. Malgrado l’intelligenza e la bravura scientifica. *Ordinario di Storia della medicina presso la Sapienza Università di Roma Luciano Violante: “Non si può indagare col senno di poi. Vale anche per la pandemia” di Errico Novi Il Dubbio, 10 marzo 2023 “Serve senso del limite. Serve ai magistrati ma anche alla politica. Magistratura e politica scontano a volte il vizio dell’onnipotenza. Che non nasce dai difetti dei singoli ma da un problema culturale. Ecco, mi aspetterei che le correnti della magistratura riflettessero su questo. Un tempo avevano grande capacità di offrire contributi culturali di carattere strategico proprio sulla funzione costituzionale del giudice, sui limiti e sui poteri. Mi pare che la magistratura, da parecchio tempo, non approfondisca il tema dei limiti della giurisdizione in un sistema fondato sulla separazione dei poteri. Anche alla luce delle indagini sul covid, può essere utile un ritorno a quella capacità di analisi”. Luciano Violante potrebbe approfittarne. E forse nell’intervistarlo lo si potrebbe compulsare perché inondi di critiche severissime i pm di Bergamo, che hanno chiuso le indagini sul covid con ipotesi di epidemia colposa a carico di un premier, Conte, di un ex ministro della Salute, Speranza, di assessori regionali e svariati consulenti scientifici di tali autorità. Violante potrebbe infierire, forse, ma non lo fa. Almeno l’ex presidente della Camera sembra in grado di contenersi in quel senso del limite che esorta a ritrovare. Cosa le è venuto in mente quando ha saputo dell’indagine di Bergamo? Non credo interessi cosa io pensi, ma una cosa si può dire: le inchieste giudiziarie non andrebbero condotte col senno di poi. Non si può valutare con lo spirito di oggi quanto accaduto allora. Si riferisce alle caratteristiche del virus? Mi riferisco alla condizione generale del 2020: decisori stretti fra chi invocava la chiusura di tutto e chi denunciava indebite compressioni della libertà, la chiusura delle fabbriche e il blocco dei commerci, con gli interventi dell’Ue ancora lontani. Negli altri Paesi, la stessa drammatica situazione e la stessa incertezza sulle risposte. C’è un altro rischio, oltre a quello di guardare al passato con le consapevolezze del presente. Quale? L’idea di dover assecondare l’opinione pubblica. È giusto ascoltare le istanze delle vittime, ma poi la magistratura giudica non in forza delle istanze, ma sulla base della legge. Non può trasformarsi in una commissione d’inchiesta. È il rischio che vede dietro l’indagine di Bergamo e in quella ora trasferita alla Procura di Roma? Dico che ci sono due tipi di indagine. La ricostruzione storica spetta all’autorità politica, che può istituire appunto commissioni d’inchiesta. All’autorità giudiziaria compete la verifica delle responsabilità penali, secondo le regole, non secondo le istanze delle vittime alle quali, ripeto devono rispondere le istituzioni politiche. In Italia abbiamo il mito del maxiprocesso, la tentazione di replicare l’irripetibile modello di Falcone e avviare percorsi giudiziari con troppi indagati o, come per il covid, con un numero immane di vittime? Il processo di massa è difficile da gestire, può essere animato dalla tentazione dell’onnipotenza, che però può riguardare anche la politica. Il conflitto diventa micidiale quando nessuno dei due poteri riconosce i propri limiti. Un vizio tutto italiano? Non direi che la sindrome da onnipotenza sia stata inventata qui: il nodo dell’equilibrio fra poteri e la presunzione politica di onnipotenza investono ora Israele con Netanyahu, l’Ungheria con Orban, ma ci sono problemi in Polonia, nella Repubblica Ceca. A Bergamo i pm peccano di onnipotenza? Rispetto quei magistrati. Le loro indagini implicano valutazioni difficili, innanzitutto la distinzione fra ciò che le autorità politiche potevano prevedere e cosa invece era imprevedibile. Ma vede, siamo davanti a un paradigma ricorrente: la giustizia di transizione. Di cosa si tratta? Quando si passa da una fase storica a quella successiva e si pretende di giudicare il vecchio con il nuovo. Lo puoi fare solo in casi estremi: nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, dal nazismo alla democrazia, per esempio. Sul covid rischiamo di ripetere l’errore compiuto con la trattativa Stato-mafia? A Bergamo ci si è trovati di fronte a denunce e andava comunque presa una decisione: archiviare o indagare. Poi c’è una responsabilità della comunicazione: parte dell’opinione pubblica immagina già i ministri in carcere. E invece ci sono solo ipotesi d’accusa. Ci sono anche costi notevoli: c’è proporzione fra le risorse investite nell’inchiesta sul covid e i risultati che potrebbero derivarne? C’è il drammatico numero dei morti, ci furono i camion carichi di bare. C’è da indagare, certo. Con la riservatezza necessaria. Ha ricordato l’eccesso di aspettativa fra i cittadini: sono indagini che alimentano aspettative esagerate a lasciare troppo esposti giudici come quello di Rigopiano, quasi linciato mentre leggeva la sentenza? Certo, c’è un altro aspetto, che riguarda il principio di responsabilità. Mi spiego con un esempio: il caso Stamina, quella poltiglia preparata da un soggetto poi condannato per frode, che era riuscito a ottenere una convenzione con gli Ospedali Riuniti di Brescia. Venne emanato un decreto legge in base al quale solo chi aveva già iniziato la terapia avrebbe potuto proseguirla. Ma arrivarono molti ricorsi, e l’autorità giudiziaria in molti casi disapplicò il decreto e stabili che la cura poteva essere somministrata anche a chi non aveva già iniziato a seguirla. Era appunto una poltiglia... Immagini se la stessa decisione fosse stata presa dagli assessori alla Salute: si sarebbero trovati tra la Corte dei Conti per il danno erariale e la Procura della Repubblica per l’abuso d’ufficio. Si tratta di casi di onnipotenza: si è violata la legge senza che alcuno sia stato chiamato a pagare il costo della violazione. E scusi, presidente, ma allora le blande forme di controllo sull’operato dei giudici introdotte con la riforma Cartabia, come il fascicolo di valutazione, sono acqua fresca? Servirebbero ben altre sanzioni dissuasive? Faccio il giurista da più di mezzo secolo e, me lo lasci dire, ho maturato una certa diffidenza per l’eccesso di regole. A cosa si riferisce? Se pensiamo che il modo giusto per frenare un comportamento sbagliato sia una nuova punizione, non ne usciamo. Il discorso dell’onnipotenza, della magistratura e della politica, si affronta sul piano culturale. In proposito qualcosa sembra muoversi anche nell’Anm... Serve una seria discussione sui limiti della funzione giudiziaria. Un tempo le correnti investivano grandi energie in questo. Tornino a farlo: sono già state capaci recentemente di aprire dibattiti importanti, per esempio sull’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme. L’onnipotenza del giudice è un rischio per qualsiasi democrazia e per la stessa magistratura. Ma va affrontato sul piano culturale. Non ci sono alternative credibili. Le spese pazze dei magistrati per le intercettazioni di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 marzo 2023 A Pesaro tutti assolti in un processo durato dieci anni e costato quattro milioni di euro in captazioni telefoniche e ambientali. Quattro milioni di euro. Tanto è costata l’attività di intercettazione portata avanti dalla magistratura di Pesaro per un processo che ora si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Quattro milioni di euro che vanno ad aggiungersi ai circa duecento milioni che ogni anno lo stato italiano (cioè i contribuenti) spende per effettuare le intercettazioni richieste dai pubblici ministeri. Nel caso in questione, si tratta della vicenda dei necrofori dell’ospedale San Salvatore di Pesaro, accusati nel 2013 di intascare i soldi che le famiglie dei defunti davano per la vestizione dei loro cari, anziché versarli all’azienda sanitaria. Gli addetti alla camera mortuaria erano stati accusati anche di ottenere mance da centinaia di euro dalle ditte di pompe funebri, per indirizzare a quest’ultime i famigliari dei defunti. Non è tutto: secondo i pm di Pesaro, alcuni necrofori si erano spinti a sezionare le salme senza autorizzazione, asportando pacemaker che poi in qualche modo venivano immessi in una sorta di mercato nero. Cinque necrofori del nosocomio di Pesaro vennero arrestati dalla Guardia di Finanza, e altre 29 persone, fra cui medici e impresari funebri, vennero indagate per peculato e truffa. La vicenda, dai tratti inquietanti, fece balzare Pesaro sulle cronache nazionali. “Pesaro, rubavano pacemaker dai cadaveri. Arrestati becchini in servizio all’obitorio”, fu il titolo di uno dei principali quotidiani nazionali. A dieci anni di distanza i giudici hanno affermato che nulla di tutto questo era vero. La vicenda dei pacemaker rubati dalle salme si è rivelata ben presto una fake news: non c’è mai stato nessun traffico di stimolatori cardiaci, che invece venivano rimossi per essere smaltiti come rifiuti speciali come avviene dappertutto. A rimanere in piedi era rimasta l’accusa di peculato, per le presunte somme ricevute per vestire circa 500 salme e non versate alle casse dell’ospedale. A dispetto delle cifre ipotizzate all’inizio, alla fine il danno patrimoniale causato all’ospedale era stato quantificato in 26 mila euro. In altre parole, la maxi inchiesta portata avanti per due anni dai pm con l’uso massiccio di intercettazioni telefoniche e ambientali, dal costo di quattro milioni di euro, era servita a scovare un danno patrimoniale da 26 mila euro, che poi si è rivelato pure insussistente. Lo scorso 7 febbraio, infatti, la Corte d’appello di Ancona ha confermato l’assoluzione piena per tutti gli imputati: Antonio Sorrentino, Vincenzo Vastarella, Donatella Giunti, Domenico Pascolo, Francesco Furone e Vladimiro Dedenghi. Per sostenere la loro innocenza, i legali hanno dovuto spulciare decine di faldoni, come spiega al Foglio l’avvocato Pia Perricci, che ha assistito Vastarella. Per Perricci, la vicenda rappresenta un caso emblematico di abuso dell’uso delle intercettazioni: “Spesso e volentieri si struttura un reato sulla base di un’intercettazione, senza che ci sia uno straccio di prova”, afferma Perricci. “Se noi tutti fossimo messi sotto intercettazione, per 24 ore al giorno, sicuramente tutti saremmo messi sotto processo, perché una scemenza per telefono la diciamo tutti”. “Le faccio un esempio - aggiunge - Se io mi sfogo con un amico dicendo che una persona mi sta antipatica e la vorrei vedere morta, chi mi intercetta mi mette sotto indagine perché pensa che io sto organizzando un omicidio”. “Le intercettazioni hanno una loro fondamentale importanza, però non possono essere l’unico strumento di indagine”, sostiene anche l’avvocato Giovanni Orciani, che nel processo ha difeso Sorrentino. “Da una telefonata si possono sentire tante cose, che possono essere interpretate in tanti modi diversi - aggiunge -. Ciò che contano sono i riscontri fattuali. Mi sembra che questo è ciò che il ministro Nordio intenda dire quando parla di riforma delle intercettazioni”. Oltre che sull’abuso delle intercettazioni, l’avvocato Perricci auspica anche “un intervento normativo per risanare i danni provocati dal processo mediatico”: “I giornali e i media in generale dovrebbero riportare la notizia dell’assoluzione con la stessa evidenza della prima notizia sull’indagine. Questo perché il giornalista per primo deve ripulire la vita di una persona che ha subìto un ingiusto processo, ha dovuto spendere soldi in avvocati e ha visto la sua vita familiare e sociale devastata”. “Detta con parole dure - conclude Perricci - tanto mi sputtani, tanto poi mi devi ripulire”. Sì, c’è un giudice a Berlino per Fazzalari ergastolano al 41bis di Luigi Longo Il Riformista, 10 marzo 2023 Di Ernesto Fazzalari avevamo già parlato un paio di settimane fa su questa pagina di Nessuno tocchi Caino. La buona novella è che la Corte di Cassazione gli ha dato ragione, annullando con rinvio la decisione dei giudici di sorveglianza in merito alle sue gravi condizioni di salute. Esiste dunque un giudice a Berlino. La famosa frase, mutuata da un’opera di Bertold Brecht nella quale si narra la storia di un mugnaio che lotta tenacemente contro l’imperatore per vedere tutelato un proprio diritto, può essere la metafora della sua vicenda umana e giudiziaria. Fazzalari si trova detenuto, in regime di 41 bis, presso il Centro Diagnostico e Terapeutico del Carcere di Parma in quanto sta espiando la pena dell’ergastolo, ridotta a trenta anni in seguito agli effetti della nota “sentenza Scoppola” della CEDU, comminata nell’ambito del processo Taurus che ha riguardato i tristi fatti della faida di Taurianova. Per lungo tempo, stante la sua latitanza durata oltre un ventennio, è stato considerato l’uomo più ricercato d’Europa dopo Matteo Messina Denaro. Durante la sua detenzione, è stato arrestato il 25 giugno 2016, si è ammalato di adenocarcinoma duttale di tipo a cellule chiare, una forma di tumore al pancreas aggressiva e dalla prognosi incerta. Il suo tumore, di ben 5 centimetri, è stato considerato inoperabile e attualmente è sottoposto a pesanti cicli di chemioterapia presso l’Ospedale di Parma. Il suo generale stato di salute appare già molto compromesso rilevandosi, dall’analisi della cartella clinica, la vascolarizzazione della neoplasia unitamente alla presenza di metastasi linfonodali. A causa dell’aggravarsi delle sue condizioni, e agli effetti della chemioterapia, la difesa aveva chiesto la revoca del 41 bis e al magistrato di sorveglianza, prima, e ai Tribunali di Sorveglianza di L’Aquila e Bologna, poi, la sospensione pena o, in alternativa, la detenzione ospedaliera o domiciliare al fine di potersi curare, anche con terapie sperimentali, presso Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs) ovvero presso centri che si occupano nello specifico della cura del tumore al pancreas. Secondo i magistrati del Tribunale di Sorveglianza, che hanno rigettato le richieste, Fazzalari fuori dal circuito carcerario non potrebbe ricevere cure diverse o migliori di quelle praticate in regime detentivo grazie al continuo monitoraggio effettuato dai sanitari e la ininterrotta vigilanza del personale di Polizia penitenziaria, in grado di allertare in qualunque momento l’ausilio medico occorrente ciò anche in ragione del fatto che, pur non potendosi ignorare il gravissimo stato di salute in cui versa Fazzalari, nel caso di specie sono “evidentissime” le esigenze di certezza della pena e contenimento della pericolosità in quanto trattasi di soggetto ristretto al regime speciale ex art. 41 bis OP. Orbene, al di là della pericolosità sociale, che in questo caso è naturalmente attenuata stante il grave stato della patologia che ne escluderebbe “in nuce” non solo qualsiasi pericolo di fuga ma anche la possibilità o la voglia della reiterazione delle condotte per cui è stato condannato, la mancata concessione del differimento di pena lede, soprattutto, il diritto alla salute del condannato, nella misura in cui gli nega la facoltà di scegliere di curarsi presso la struttura sanitaria da lui ritenuta più conforme alle sue esigenze e alla sua specifica condizione individuale. La difesa di Ernesto Fazzalari, rappresentata dall’avvocato Antonino Napoli, non condividendo la decisione dei giudici del merito, ha proposto ricorso in Cassazione denunciando la lesione del diritto alla salute del proprio assistito ed evidenziando che i giudici del merito avevano omesso un bilanciamento tra i valori costituzionali che nel caso di Fazzalari rendono incompatibile il regime del 41 bis con le cure palliative e del dolore praticate ai malati oncologici. All’esito della valutazione del ricorso dell’avvocato Napoli la I sezione della Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento dello stesso, ha disposto un nuovo esame presso il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila. La sentenza Fazzalari ha confermato la sensibilità e senso di umanità che caratterizza, per fortuna, la dimensione umana di alcune decisioni della Cassazione. È dovere del giudice, nelle proprie decisioni, di riuscire a trovare sempre un equilibrio tra empatia, compassione, comprensione, rigore e severità, in modo che la sua applicazione del diritto sia avvertita come legittima e giusta perché la decisione giudiziaria non è mai un atto di pura tecnica giuridica, ma un atto di coscienza: la coscienza del “giusto”. Riforma Cartabia, pene sostitutive applicabili solo ai processi pendenti nel merito al 30 dicembre 2022 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2023 Il ricorso per cassazione contro il riconoscimento della sentenza esecutiva straniera non riapre la fase di cognizione. La decisione con cui la Corte di appello riconosce una sentenza straniera e stabilisce che l’esecuzione della pena va scontata in Italia non fa regredire il processo alla fase di cognizione. Infatti, la richiesta di esecuzione della condanna elevata all’estero pone la Corte di appello nel ruolo di giudice dell’esecuzione e non del merito. In base a tale presupposto va affermato che solo ai procedimenti pendenti in primo o in secondo grado alla data del 30 dicembre 2022 sono applicabili le nuove regole della Riforma Cartabia sulla conversione delle pene detentive brevi in quelle sostitutive. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 10086/2023, ha perciò rigettato il ricorso del condannato con sentenza straniera, che deve scontare la pena in Italia. Di fatto, la Cassazione respinge l’argomento della retrocessione del processo nella fase di merito al momento in cui la Corte di appello giudica sul riconoscimento della sentenza straniera di condanna. Quindi, una volta stabilità l’esecutività della pena in Italia il processo entra nella fase dell’esecuzione e non è quindi pendente. L’impugnazione ante 30 dicembre 2022 di fronte ai giudici di legittimità della decisione della Corte di appello di riconoscimento della sentenza straniera non determina la pendenza del giudizio come individuata dalla Riforma e non è quindi applicabile l’articolo 95 del Dlgs 150 /2022. Va precisato che la norma della Riforma invocata dal ricorrente prevede oltre all’applicabilità della novella ai procedimenti pendenti davanti ai giudici di merito anche l’applicabilità a quelli pendenti in sede di legittimità, ma solo per pene irrogate in misura inferiore a quattro anni. In tale ultimo caso è previsto un procedimento ad hoc dinanzi al giudice dell’esecuzione. Intercettazioni, si applica la disciplina precedente se il procedimento è stato iscritto prima del 31 agosto 2020 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2023 La data di applicazione del nuovo regime non si riferisce dunque al momento di adozione del decreto autorizzatorio. L’utilizzo delle intercettazioni disposte in altro precedente procedimento è ammesso se ai fini dell’attività investigativa su determinati reati risulta assolutamente necessario. Quindi solo se il contenuto è indispensabile per l’accertamento dei reati elencati al comma 2 bis dell’articolo 266 del Codice di procedura penale. Ciò ha disposto un ampliamento della deroga al divieto di utilizzabilità prima ammesso solo per i reati che prevedono l’arresto in flagranza. Ma tale ampliamento è applicabile solo ai procedimenti iscritti dopo la data del 31 agosto 2020. Su tale punto va sottolineato che con la nuova disciplina non ha più rilevanza la data del decreto che dispone le intercettazioni. Quindi anche in caso il decreto sia successivo alla data di efficacia della nuova disciplina stabilita dalla legge 7/2020 ciò che rileva è la data di iscrizione del procedimento che se antecedente impedisce di utilizzare le intercettazioni disposte in altro procedimento anche a fini investigativi. La Cassazione, con la sentenza n. 9846/2023, ha di fatto compiuto un utile excursus sul regime applicabile ratione temporis e quali fossero i presupposti in cui non agisce il divieto di utilizzo di captazioni in procedimento diverso. Nel caso concreto l’utilizzo delle intercettazioni a qualsiasi data autorizzate non era ammesso in quanto il procedimento per cui erano disposte era stato iscritto prima del 31 agosto 2020. Dunque in base alla disciplina previgente sarebbe stato legittimo l’utilizzo in altro procedimento solo se connesso a quello per cui vi era stata autorizzazione. La connessione di cui trattasi non è quella rigidamente procedimentale bensì quella sostanziale cioè la regiudicanda doveva essere fondata sui medesimi fatti. Il procedimento connesso è comunque quello che riguarda una diversa condotta da quella oggetto del procedimento originario, ma rientrante nel medesimo disegno criminoso. Il reato di corruzione era emerso dalle intercettazioni relative ad altre persone cui venivano contestati comportamenti di frode nelle pubbliche forniture. In tal caso la Cassazione trova carente il ragionamento dei giudici che avevano ammesso le captazioni precedentemente realizzate nel processo per corruzione. In particolare manca l’argomentazione sulla connessione tra i due processi e quindi che entrambi i reati erano stati realizzati nell’ambito del medesimo disegno criminoso. Campania. La denuncia dal Centro Colli Aminei: “Minori detenuti senza formazione” di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 10 marzo 2023 Cirigliano: “È competenza della Regione”. L’assessore Filippelli: “Nessuno mi avverte”. “La formazione professionale manca negli istituti penitenziari minorili della Campania. Siamo senza da due anni”. È l’amara denuncia di Mariangela Cirigliano, la coordinatrice dell’area tecnica del Centro di Giustizia minorile dei Colli Aminei, a Napoli, pronunciata nella sala Caduti di Nassiriya del consiglio regionale durante la conferenza stampa di presentazione del protocollo d’intesa tra il Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, ed il dirigente del Centro di Giustizia minorile e di comunità della Campania, Giuseppe Centomani. “La formazione professionale - ha precisato Cirigliano - è di competenza della Regione. Il nostro dipartimento prepara i progetti, ma la certificazione delle competenze spendibili ed il rilascio delle qualifiche spettano alla Regione”. L’accusa - I detenuti in Campania sono 82, di cui 45 ad Airola e 37 a Nisida. La mancanza di corsi è particolarmente grave - ha aggiunto - “perché i ragazzi acquistano fiducia quando li facciamo lavorare, quando diamo loro opportunità lavorative dove sperimentarsi. Dove ci sono attività lavorative ed una formazione professionale seria, e la certificazione di competenze, i ragazzi rispondono. Ce la fanno”. Lo sfogo è stato ripreso da Ciambriello: “L’ultimo piano della formazione per adulti e minori detenuti è stato fatto tre anni fa ed è stato cofinanziato da Unione Europea e Regione. Il programma dovrebbe essere annuale, ma ogni cinque anni si fa per un anno. Andiamo al risparmio. Attualmente qualche singolo corso si sta tenendo a Nisida”. Interventi, quelli di Cirigliano e Ciambriello, che hanno chiamato indirettamente in causa Armida Filippelli, ex dirigente scolastico, la quale nella giunta regionale ha la delega alla Formazione professionale, compresa quella destinata ai detenuti. La replica - “Stanno partendo i nuovi bandi - ha replicato - ma non è corretto dire che attualmente nei penitenziari non si stia svolgendo neanche un corso di formazione regionale. Si stanno esaurendo quelli del vecchio ciclo. Io, peraltro, sono a disposizione di chiunque mi segnali particolari esigenze. Se da un istituto penitenziario mi dicono che c’è necessità di un determinato corso, perché i ragazzi detenuti lo hanno chiesto, si può rispondere a quella esigenza. È necessario, però, che ci comunichino necessità e periodi di permanenza dei potenziali fruitori. Noi ci siamo e non solo per i detenuti. Sono stati analizzati i profili di 110.000 potenziali corsisti percettori del Reddito di cittadinanza, in previsione della formazione ad essi destinata che sta per partire”. Non si è parlato solo della formazione professionale per i minori entrati nel circuito penale, peraltro, durante la conferenza stampa. “Ci sono dati - ha detto Ciambriello - certamente sconcertanti e preoccupanti. Uno di essi è che al 15 dicembre 2022 su 14.221 giovani in Italia in carico al servizio sociale minorile, i campani erano quasi la metà: 6.400”. Sono stati 3792 i reati contestati nel 2022 ai detenuti minorenni in Campania. “La stragrande maggioranza (57,8%) - ha precisato il garante - sono stati reati contro il patrimonio: rapine (530), furti (394), ricettazione (196), estorsioni (117)”. I numeri - A seguire, i reati contro la persona e la produzione e lo spaccio di stupefacenti. “L’aspetto, però, più sconcertante - ha sottolineato Ciambriello - è che 27 adolescenti sono stati accusati di omicidio volontario e che 80 ragazzi sono stati accusati di tentato omicidio”. Una questione particolare è quella dei minorenni stranieri detenuti. A Nisida, per esempio, sono la metà. “Manca - ha denunciato il garante - un adeguato numero di mediatori linguistici e culturali per avvicinare questi ragazzi”. Il protocollo d’intesa che è stato firmato ieri da Ciambriello e Centomani prevede, tra l’altro, iniziative comuni di sensibilizzazione rivolte agli organismi regionali e comunali in materia di diritto alla salute, diritto allo studio ed alla formazione, preparazione alla dimissione e sostegno della misura alternativa alla detenzione. “L’attività di collaborazione con il garante - ha commentato Centomani - servirà a monitorare la qualità dei servizi offerti e ad individuare le migliori pratiche per dare a questi ragazzi una seconda opportunità”. Roma. Detenuto di 31 anni si impicca nel carcere di Regina Coeli ansa.it, 10 marzo 2023 Tragedia nel carcere di Regina Coeli a Roma: un detenuto, A.D.G. di 31 anni, è morto dopo essersi impiccato stamattina. Il 31enne, in carcere per omicidio e incendio, avrebbe finito di scontare la pena nel maggio del 2045. Nel carcere romano si trovava in isolamento sanitario. Si sarebbe impiccato con un lenzuolo legandolo alla finestra. Nonostante l’intervento delle Forze di Polizia che lo hanno prontamente soccorso, il giovane è morto. Teramo. Muore detenuto, si sospetta una overdose Il Centro, 10 marzo 2023 Un tunisino di 30 anni soccorso in cella e trasportato in ospedale: la Procura dispone l’autopsia. È stato soccorso in cella dopo l’allarme di un altro detenuto, portato prima nell’infermeria del carcere e subito dopo in ospedale dove è morto: sarà l’autopsia a fare chiarezza sulle cause della morte di Afi Amhza, trentenne tunisino recluso a Castrogno per fatti legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Tra le prime ipotesi quelle di una overdose di farmaci o di sostanze stupefacenti. Secondo Ruggero Di Giovanni della Uil Pa polizia penitenziaria Abruzzo “non è la prima volta che a Castrogno si hanno notizie di problemi legati all’abuso di farmaci o peggio all’assunzione di sostanze stupefacenti. Purtroppo la polizia penitenziaria è in affanno grazie alle scelte dell’amministrazione. Ci sono circa 200 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare e 52 agenti in meno rispetto a una previsione organica del tutto errata, hanno creato tutte quelle difficoltà gestionali che rendono possibile l’introduzione in carcere di sostanze stupefacenti”. Ancora una volta il sindacato sollecita interventi per garantire un adeguato numero di agenti di polizia penitenziaria. Sul caso interviene anche il Sappe che tramite il sindacato provinciale Giuseppe Pallini dichiara: “Proprio perché si tratta di un problema, uno dei tanti del carcere teramano, nei giorni scorsi abbiamo chiesto un incontro alla Asl proprio per affrontare il tema della somministrazione di farmaci e psicofarmaci ai detenuti”. Ravenna. Giovane detenuto suicida in cella: a processo lo psichiatra del carcere di Lorenzo Priviato Il Resto del Carlino, 10 marzo 2023 A soli 23 anni fu trovato suicida in cella. Era il 16 settembre 2019, le guardie lo trovarono impiccato a un cappio rudimentale. Dell’iniziale procedimento per istigazione al suicidio, a carico di ignoti, fu chiesta l’archiviazione. Ma la madre, Elisabetta Corradino, non si è mai rassegnata a quel tragico epilogo, convinta del fatto che le richieste di aiuto del figlio fossero rimaste inascoltate. Lo scorso novembre il caso era stato riaperto e l’altro giorno il Gup Andrea Galanti, accogliendo la richiesta dalla Procura, ha rinviato a giudizio lo psichiatra del carcere con l’accusa di omicidio colposo. Il professionista 65enne - difeso dagli avvocati Guido Maffuccini e Delia Fornaro - consulente esterno della casa circondariale e accreditato come medico Ausl, secondo l’accusa nel corso dell’ultima visita medica del giovane detenuto ne avrebbe considerato lo stato clinico al di sotto delle tematiche autolesive depressive, abbassando il rischio suicidiario dal livello medio a lieve, con contestuale revoca della necessaria sorveglianza, favorendo in questo modo il tragico epilogo. La difesa chiedeva di circostanziare l’accusa con ulteriori dettagli. La famiglia del 23enne si era già costituita parte civile con la tutela dell’avvocato forlivese Marco Catalano, che ha ottenuto l’autorizzazione dal giudice a citare come responsabile civile l’Ausl - che si è costituita con la tutela dello studio Carli di Bologna - mentre non si è costituita l’assicurazione dello specialista, che potrà essere comunque chiamata a risarcire. Il processo, davanti al giudice monocratico, partirà solo a marzo 2024. La famiglia, di origini calabresi, ha abitato a Cervia per 23 anni. Dopo la morte di Giuseppe i genitori sono tornati a Catanzaro. In seguito all’iniziale richiesta di archiviazione, Elisabetta Corradino aveva chiesto ulteriori verifiche allegando documentazione medica secondo la quale i campanelli d’allarme per capire la gravità della situazione si erano ampiamente manifestati. Giuseppe in carcere era finito per un’accusa di furto, cui si era aggiunta quella di stalking da parte della ex fidanzata. Era in attesa della risposta di una comunità di recupero di Marradi, ma dopo meno di un mese dall’inizio della detenzione fu trovato impiccato. In uno scritto pensato come testo di una canzone Giuseppe aveva manifestato tutto il proprio disagio. Nel testo pone in evidenza tutta la propria sofferenza per la detenzione in cella, l’amore che provava per la ex compagna e il timore di non avere un futuro. San Gimignano (Si). Cinque agenti di Polizia penitenziaria condannati per tortura di Aldo Tani Corriere della Sera, 10 marzo 2023 Si chiude dopo quasi 5 anni il caso del detenuto tunisino coinvolto in un pestaggio nel carcere di Ranza con condanne che vanno da sei anni e 6 mesi a 5 anni e 10 mesi. Condanne che vanno da sei anni e 6 mesi a 5 anni e 10 mesi. Si chiude dopo quasi 5 anni il caso del detenuto tunisino coinvolto in un pestaggio nel carcere di Ranza, a San Gimignano. Il giudice Simone Spina ha riconosciuto tra i capi di imputazione il reato di tortura in concorso. La vicenda aveva avuto luogo l’11 ottobre 2018, quando durante un trasferimento di cella l’uomo, detenuto per spaccio, fu picchiato. Le indagini avviate dalla procura di Siena pochi giorni dopo avevano ravvisato il coinvolgimento di 15 agenti della polizia penitenziaria. A febbraio 2021 dieci di loro erano stati giudicati colpevoli con rito abbreviato di reati minori. Oggi la condanna per gli altri cinque. Un precedente che - come ha spiegato l’avvocato di quattro dei cinque imputati, Manfredi Biotti - poneva le basi per un giudizio simile. Invece, il Tribunale ha scritto una pagina storica per la giustizia italiana, applicando il reato di tortura. Fatto che ha pochissimi precedenti nel nostro Paese. “Ricorreremo in appello” - ha annunciato dopo la lettura del dispositivo da parte del presidente Simone Spina, l’avvocato Manfredi Biotti. Non comprendiamo quale è stato il ragionamento dei giudici ma ne prendiamo atto; vedremo le motivazioni e faremo appello, certo è un segnale molto brutto”, ha aggiunto Biotti. Invece l’avvocato Michele Passione, legale del Garante dei detenuti, ha affermato, sempre dopo la lettura della sentenza: “Abbiamo sostenuto che il reato di tortura sia più grave quando è commesso dal pubblico ufficiale perché disegna un rapporto di potere che viene estorto tradendo la fiducia che ognuno deve avere nelle forze di polizia che sono nella massima composizione sane”. Agrigento. Offrire una “seconda chance” a due carcerati: imprenditrice pronta ad assumerli agrigentonotizie.it, 10 marzo 2023 Gabriella Cucchiara ha già avuto i primi contatti con la casa circondariale “Di Lorenzo”. In carcere per cercare un banconista e un cameriere da far lavorare in sala. Sembra strano, raccontata così, ma è quello che sta facendo Gabriella Cucchiara, titolare del famoso bar “La Promenade”, che aderirà al progetto chiamato “Seconda chance”, promosso dall’omonima associazione no profit creata da Flavia Filippi, Alessandra Ventimiglia Pieri e Beatrice Busi Deriu. Il funzionamento dell’iniziativa è, sostanzialmente, lo stesso delle esecuzioni penali esterne: si consente a chi è in carcere (ovviamente non a tutte le tipologie di reclusi) di lavorare fuori dal carcere, per iniziare a ricostruirsi un futuro al di là delle sbarre. “Ho sposato subito questo progetto - spiega Cucchiara - perché ne condivido profondamente gli obiettivi. Svolta la prima fase di cosiddetta ‘ricognizione’ martedì prossimo sarò nuovamente alla Casa circondariale per un primo incontro che consentirà di individuare i detenuti da impegnare nel mio locale. Spero davvero che possa rappresentare per loro un momento di speranza e spero io di poter dare loro aiuto attraverso questa iniziativa che auspico venga replicata anche da altri imprenditori della città”. I due detenuti saranno scelti anche per eventuali precedenti esperienze di tipo lavorativo (ma determinante, ci spiega, è la voglia di lavorare) e, va precisato, saranno “in prova” per un periodo di tempo. Un modo per compensare la mancanza di manodopera? “Assolutamente no, lo scopo del progetto è sociale - spiega ancora - tuttavia non posso negare che continui ad essere difficile trovare personale: da due anni non riusciamo a reperirne e siamo costretti a svolgere le attività in famiglia”. Palermo. “Mi riscatto per Palermo”, i detenuti addetti alla cura del verde italpress.com, 10 marzo 2023 Il reinserimento del detenuto nel tessuto sociale passa attraverso lavori di pubblica utilità, specialmente quando riguardano un elemento centrale di Palermo come la cura del verde: in tal senso il Comune ha firmato, insieme al Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), ai vertici ReSet e alle direzioni dei carceri Ucciardone e Pagliarelli (guidati rispettivamente da Fabio Prestopino e Francesca Vazzana) il protocollo ‘Mi riscatto per Palermò, che coinvolge i detenuti delle due case circondariali in mansioni socialmente utili. Nei primi tempi saranno in venti a essere coinvolti negli impieghi previsti dal progetto, ma il numero è destinato a salire nei prossimi mesi: ulteriore obiettivo del Comune è cercare di coinvolgere altre aziende attraverso l’attuazione di tavoli tecnici, dopo aver assegnato a ReSet il ruolo di capofila. I lavori, non retribuiti, verranno assegnati a quanti avranno superato una preselezione basata sulle abilità lavorative pregresse, sul tempo già trascorso dietro le sbarre o sulla condotta tenuta: in un secondo momento è possibile che si proceda su base volontaria. “Si tratta di un progetto che coniuga due aspetti importanti: impegno sociale del detenuto e contributo verso la città - spiega il sindaco Roberto Lagalla, - È un modo per recuperare queste persone come cittadini e testimoniare il loro impegno per la cura del verde in tutte le sue forme: ville antiche, alberi storici, aiuole spartitraffico”. Secondo Antonella Tirrito, assessore alla Sicurezza e principale firmataria del protocollo, un’ulteriore priorità è “abbassare la soglia della recidiva per chi commette reati, che al momento staziona sul 70%. Vogliamo favorire il reinserimento sociale e lavorativo di questi soggetti, con la consapevolezza che attraverso l’impegno per Palermo sentiranno un primo distacco dalla dimensione detentiva e che questo inciderà sulle loro emozioni”. La prima parte dei lavori si svolgerà nei pressi delle carceri Ucciardone e Pagliarelli. Per il primo, spiega il direttore dei servizi ReSet Antonio Pensabene, “la zona coinvolta è quella che va dalla statua di Antonino Caponnetto al monumento ai caduti di mafia a piazza XIII Vittime, due luoghi simbolo della nostra città; per il Pagliarelli ci concentreremo sul perimetro della casa circondariale. Il compito di ReSet sarà guidare queste persone nei lavori da svolgere, così da dividere le mansioni quasi a metà”. L’urgenza di intervenire in questa direzione è data, secondo il rappresentante del Dap Vincenzo Lo Cascio, dal fatto che “spesso tra questi soggetti l’abitudine al lavoro manca e alle spalle hanno storie di sfortune. In tal senso cerchiamo di migliorare non solo la loro vita, ma anche la sicurezza pubblica: in più assumere un soggetto svantaggiato agevola anche dal punto di vista fiscale”. Forlì. La vita delle donne in carcere, tra presente e speranze future: i Giovani Avvocati incontrano le detenute forlitoday.it, 10 marzo 2023 La delegazione di Aiga è stata a colloquio con 4 detenute che hanno condiviso le proprie preoccupazioni, le proprie speranze ed anche le valutazioni sulla vita in carcere. Nell’occasione della “Giornata Internazionale della Donna”, le delegazioni dell’Osservatorio Nazionale Aiga sulle carceri e della sezione di Forlì-Cesena dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, grazie all’autorizzazione concessa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Ministero della Giustizia, hanno avuto l’opportunità di accedere l’8 marzo presso 18 istituti detentivi in tutto il territorio nazionale. Per l’Emilia Romagna la delegazione - composta dagli avvocati Filippo Antonelli, referente dell’Osservatorio Nazionale Aiga sulle carceri per la sezione Aiga di Forlì-Cesena, Francesco Barducci, coordinatore regionale Aiga e Diego Franchini, presidente della sezione Aiga di Forlì-Cesena - ha fatto visita alla sezione femminile della casa circondariale di Forlì. La delegazione dei giovani avvocati è stata accolta dalla direzione del carcere, a partire dalla direttrice Palma Mercurio e a seguire da tutto il personale e, detenute. Gli avvocati, accompagnati dal comandante e da un agente penitenziario, insieme alle educatrici della sezione, si sono informati sui numeri della struttura, con particolare riferimento alle detenute ospitate e all’organico della polizia penitenziaria, ma anche sugli spazi interni ed esterni del reparto, oltre che sulle attività rieducative attivate per le detenute. È presente un piccolo orto-giardino, che viene coltivato grazie alla passione di alcune detenute, oltre ad una piccola cappella interna. Di particolare rilievo lo spazio per attività di sartoria, ma anche la biblioteca del reparto femminile, che funge anche da sala cinema e ricreativa. La biblioteca viene curata dalle stesse detenute, le quali seguono la catalogazione ed i prestiti dei libri. La delegazione di Aiga è stata, infine, a colloquio con 4 detenute che hanno condiviso le proprie preoccupazioni, le proprie speranze ed anche le valutazioni sulla vita in carcere. Durante il confronto tra le detenute e la delegazione dei giovani avvocati sono emersi i vari progetti sviluppati con il prezioso aiuto del personale interno e dei volontari, oltre ai corsi frequentati dalle detenute (tra i quali teatro, alfabetizzazione, pittura e sartoria). Sono altresì emerse dalle detenute le richieste di un potenziamento delle attività sportive da implementare all’interno del reparto (ad esempio quella della pallavolo con l’acquisto di una rete) e di una maggiore sensibilizzazione verso le imprese del territorio rispetto alle assunzioni delle detenute lavoratrici. In conclusione, spiegano i Giovani Avvocati, “si è trattata di un’esperienza molto toccante a livello umano e molto appagante a livello professionale”, ma che per la delegazione di Aiga Forlì - Cesena rappresenta “il punto di partenza per tentare di migliorare le condizioni delle detenute e per cercare di risolvere le questioni oggetto di confronto con la direzione della struttura, tra le quali quella della necessità di un restauro del tetto della zona più antica del complesso (risalente addirittura al ‘400), danneggiata da un temporale estivo ormai da alcuni anni”. Modena. Corteo anarchico anticarcerario, domenica città blindata modenatoday.it, 10 marzo 2023 Si preannuncia una domenica di tensione in città, a causa del corteo organizzato da diversi gruppi anarchici sul tema delle carceri, a tre anni dalla strage del Sant’Anna. Una manifestazione che ha assunto una dimensione nazionale e alla quale sono attesi numerosi attivisti. Dimensioni, appunto, che creano apprensione sotto il profilo dell’ordine pubblico, anche alla luce delle analoghe mobilitazioni anticarcerarie - seguite alla vicenda legata al caso Cospito - che in altre città d’Italia hanno portato scontri e danneggiamenti. Gli eventi prenderanno il via già da sabato presso lo Sazio Sociale Libera, con mostre, interventi e concerti, mentre nel pomeriggio di domenica si svolgerà il corteo vero e proprio. La partenza è prevista da piazzale Primo Maggio (autostazione): da qui il corteo si dirigerà verso piazza Cittadella, per poi imboccare viale Cialdini e viale Lamarmora per raggiungere il retro del carcere. Il percorso di ritorno sarà invece differente e transiterà attraverso la Sacca, percorrendo via delle Suore e via Canaletto, per poi affrontare il cavalcavia Mazzoni e terminare davanti alla stazione ferroviaria. Per garantire la sicurezza della circolazione stradale in occasione del corteo di protesta, autorizzato dalla Questura, previsto a Modena domenica 12 marzo, lungo il percorso programmato sono stati adottati i provvedimenti di viabilità ritenuti necessari, dai divieti di sosta con rimozione alla sospensione della circolazione e opportune deviazioni. Variazioni di percorso su itinerari alternativi sono previsti anche per il trasporto pubblico locale. Già dalle 19 di sabato 11 marzo, fino alle 21 di domenica, in piazza Dante (Stazione dei treni) e in viale Crispi viene vietata la sosta, con rimozione, e sospesa la circolazione eccetto bus e taxi. In piazza Dante, in particolare, l’Amministrazione comunale ha esposto volantini per invitare gli utenti a rimuovere le proprie biciclette entro le 6 di domenica (sono stati diffusi volantini nella zona): i velocipedi che non verranno spostati saranno portati presso l’ufficio comunale di strada San Cataldo 116 (tel. 059 2033200) dove potranno essere ritirati dalla giornata di lunedì 13 marzo. Sempre da sabato sera, il divieto di sosta riguarda anche via Galvani nel tratto da viale Monte Kosica a piazza Dante e di viale Monte Kosica da via Crispi a viale Montecuccoli in tutte le aree adibite a parcheggio, compresa quella antistante l’ex Scalo Merci. La circolazione stradale viene sospesa a partire dalle 11 di domenica 12 marzo alle 7.30 di lunedì 13 marzo anche in via Canaletto sud, nel tratto compreso tra viale Gramsci e via Finzi, dove il transito viene consentito esclusivamente per il passaggio del corteo della manifestazione autorizzata ed eventualmente per mezzi di soccorso. Dalla mezzanotte di sabato alle 21 di domenica, è vietata la sosta, con rimozione, anche in piazzale 1 Maggio, in viale Cittadella, in piazza Cittadella, in via 4 Novembre, in via delle Suore, via Canaletto sud da via Suore a viale Gramsci, in piazzale Natale Bruni, in corso Vittorio Emanuele dal civico 52 a piazzale Bruni e in via La Marmora. Nello stesso giorno, dalle 7 alle 21, viene vietata la sosta con rimozione anche in via Diena lato nord, da via Buozzi a viale Gramsci. “Libertà di manifestare, rispetto per la città, senso civico”. Sono i valori che richiama il sindaco nell’appello che ha rivolto in vista delle iniziative di sabato 11 e domenica 12 marzo. “A Modena c’è libertà di manifestare, è un diritto che custodiamo gelosamente, ma ci auguriamo che venga fatto con civiltà e rispetto per la città”, afferma il sindaco sottolineando come sia doveroso ricordare ciò che avvenne nel carcere di Sant’Anna l’8 marzo di tre anni fa: “Fin da subito - ricorda Muzzarelli - chiedemmo venisse fatta chiarezza su eventuali responsabilità in quella rivolta, che coinvolse diverse carceri in Italia, e per le vittime che provocò”. Ma il sindaco ricorda anche i vandalismi inaccettabili che “caratterizzarono le manifestazioni violente del 25 aprile del 2019 (in foto) sfregiando la città e alcuni dei suoi monumenti”. Proprio per questo motivo, Muzzarelli ribadisce la fiducia per l’attività di controllo che svolgeranno le forze dell’ordine e chiede “la massima attenzione del Governo e delle istituzioni, così come degli organizzatori, affinché le manifestazioni si svolgano in modo corretto, con senso civico e rispetto dei diritti di tutti i cittadini: si può manifestare, esprimendo il proprio pensiero, senza violenza e senza provocare danni. Guardiamo con rispetto a qualunque manifestazione democratica - conclude il sindaco - ma chiediamo analogo rispetto per la città e i cittadini”. Napoli. Nell’ex fortino della camorra, nuova vita al campo da calcio di Maddalena Oliva Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2023 Progetto Secondigliano. Parco Laudati: lì Vincenzo giocava a pallone con tre amici, finiti in cella o morti. Ora è lui a salvare i ragazzi. “Noi ci fermavamo. Così. All’improvviso. Nel mezzo della partita, quando vedevamo il ‘palo’ arrivare e buttare a centrocampo il fumo, quello era il segnale. Bisognava stare immobili. Il pallone rotolava magari un po’, ma poi si fermava anche lui. Se loro sapevano che gli avevi spostato la roba o avevi parlato, passavi un guaio. Se la polizia ti beccava che ce l’avevi in mano, pure, quindi…”. Vincenzo, quando mi porta sul campetto dove è cresciuto, nel parco Emilia Laudati di Secondigliano - 28mila metri quadrati di verde recintati e inutilizzati nella periferia della periferia di Napoli - torna bambino. Lo abbiamo conosciuto due anni fa, per un reportage di FqMillenniuM sulla sua associazione Larsec, l’unica su tutto il territorio. Oggi ha 36 anni e sta per diventare padre, di un maschietto. Ha smesso di giocare da un pezzo. Ma, come fosse ieri, lo vedi scorrazzare assieme a Salvatore, Angelo detto Angiolillo e Mimmo, su quello spiazzo di cementine color mattone. “Papà un giorno mi disse: ‘Ora vai al liceo, hai fatto la tua scelta, basta stare in mezzo alla strada’”. Di quei compagnelli che si salutavano la sera al grido “Oh, domani partitella!”, c’è chi è stato ucciso, chi sta al 41-bis, chi - “il più scemo”, secondo le gerarchie dei clan - si è fatto 7-8 anni in carcere e ogni tanto si rivede in giro. Il parco Emilia Laudati da un lato è cinto dallo stadio Barassi, “un presidio di sport e socialità”, si disse inaugurandolo: oggi è un impianto non sfruttato perché, finiti i soldi pubblici, è rimasto senza fari né illuminazione. Dall’altro, guarda il rione dei Fiori che tutti qui, però, chiamano “Terzo mondo”. Come molte periferie di Napoli, nato col fiume di denaro che arrivò dopo il terremoto del 1980 e che permise alla camorra di fare il “salto di qualità”, di farsi per la prima volta impresa, con la nascita della Nco di Raffaele Cutolo. A Secondigliano si è dovuto aspettare il finire degli anni ‘80 e la prima metà dei ‘90 per vedere aprire e far andare a regime “la fabbrica”, come la chiamano ancora da queste parti. “La nostra Fiat”. Ovvero, la piazza di spaccio a cielo aperto più grande d’Europa, la trasformazione del mercato della droga in industria (con 3 milioni di euro di incassi al mese) messa a punto dal boss Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo ‘o milionario per le banconote che perdeva dalle tasche, e che ispirò Roberto Saviano per il suo Don Pietro Savastano. Su uno dei muretti che circondano il campetto c’è ancora scritto “Terzo mondo”. Pochi metri più in là, le due torri di sei piani, l’ingresso di quella vecchia fortezza di cemento grigio e giallo. Negli anni ‘90 e fino al 2005, fino all’arresto del primogenito di Paolo, Cosimo Di Lauro - uscì dal suo bunker con un giubbino di pelle nero e una pettinatura stile Il Corvo, è poi morto l’anno scorso nel carcere di Opera a 48 anni - “tutti quelli che abitavano qui lavoravano, in un modo o in un altro, alla ‘fabbrica’”, racconta Gennaro, 65 anni, presidente del Comitato rione dei Fiori. Tutto era funzionale al business, c’era chi era addetto allo stoccaggio, chi allo spaccio, chi a fare la vedetta. “E se non volevi passare guai rientravi a casa occhi a terra, raso raso o’ mur’”. Ancora ricorda tutte le auto incolonnate in fila che, come in un drive-in, entravano dalle due torrette, ordinavano senza nemmeno scendere e uscivano con la “spesa” fatta: in via Miracolo a Milano se volevi cocaina e crack, in via Praga magica per marijuana e hashish. Mentre Vincenzo e i suoi compagni continuavano a giocare, come niente fosse. Quando stiamo per salire da Gennaro, vediamo parcheggiare il più piccolo dei dieci figli di Paolo Di Lauro, Giuseppe, l’unico incensurato, identificato nei libri mastro sequestrati al clan con la sigla “F10” (F, per ogni numero di figlio). Non è rimasto più niente, apparentemente, della stagione che ricorda Gennaro. E nemmeno di quella, più recente, che ricorda Vincenzo. La faida di Scampia, le paranze, Gelsomina Verde. Solo nel 2004, 134 omicidi di camorra. Sembra essersi fermato tutto. E si vive sospesi, in un non-luogo, senza tempo. Tutto bloccato all’arresto dell’ultimo Di Lauro, il 39enne Marco (F4), al tempo terzo super ricercato d’Italia: venne preso nel 2019, dopo 14 anni di latitanza. Il rione scoppiò in un applauso, ma questa volta per le forze dell’ordine. Non come per l’arresto del padre, Ciruzzo ‘o milionario, o, peggio, per quello di Cosimo, quando i citofoni suonavano per chiamare alla rivolta contro la polizia. “Il problema è che siamo stati abbandonati. Abbandonati eravamo prima, abbandonati lo siamo ora”, spiega Gennaro che per quante telefonate riceve al minuto sembra il sindaco del rione: “Mi chiamano per i documenti per il reddito di cittadinanza, per le infiltrazioni d’acqua, per parlare con la Municipalità… io ho la terza elementare, ma ne abbiamo fatte di battaglie per questo quartiere io e Nanà (Anna Brandi, storica leader comunista nata a Secondigliano che dedicò la sua vita alle lotte per la casa, ndr)!”. Gennaro è riuscito a far stare fuori dal malaffare i suoi 5 figli: “Alla fine ho vinto io”, dice ricordando i successi di uno dei suoi figli, ex atleta olimpico. “E adesso che ho ripreso a riaffacciarmi alla finestra perché non ho più paura di un colpo vagante, voglio aiutare questi ragazzi. Dobbiamo iniziare a seminare in questo deserto. Si parla tanto di formare i giovani per non farli stare sul divano, ma lo sanno che a malapena abbiamo le scuole qui?”. A Nord di Napoli, nell’intera VII Municipalità che raccoglie le periferie di Secondigliano, Miano e San Pietro a Patierno - un territorio dove abitano 92mila persone, quanto in città come Piacenza o Lecce - per proseguire gli studi ci sono solo due istituti, entrambi tecnici. Un ragazzo su due, qui, abbandona la scuola. “Togliere i bambini dalla strada è il nostro obiettivo”, spiega Vincenzo. “Abbiamo deciso di aprire una scuola calcio per tutti, 10 euro di retta l’anno, per ridare una squadra a Secondigliano e, soprattutto, per sottoscrivere un ‘patto di cittadinanza’ con le famiglie. Vuoi che tuoi figlio giochi? Mandalo a scuola. Se studia, partecipa. Se fa filone o va male, niente allenamento. E noi lo aiutiamo nei compiti o con le ripetizioni”. È così che, da settembre, si sono iscritti 60 ragazzi, dai 7 ai 18 anni. “Viene chi non ha la possibilità di spendere 700 euro all’anno per una scuola calcio. E vengono pure le mogli dei boss, si avvicinano e ci dicono: ‘Meglio che mio figlio sta qua che per strada’”. La domanda che continua a fare da molla a Vincenzo è: “Perché noi dobbiamo pagare per loro? Sono passati vent’anni dall’ultima faida. Per strada vedevo cinquanta motorini venirmi incontro coi mitra spianati… C’erano gli amici con cui sono cresciuto, in mezzo a loro. C’erano i morti per terra. Non voglio che questi bambini - e indica i ragazzetti indemoniati pronti per l’allenamento attorno a lui, a Luca, il vicepresidente dell’associazione, e a Dario, il capitano - abbiano la stessa paura che ho avuto io”. “Ti senti come un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro”, dice Vincenzo. Per rendersene conto basta guardare gli ultimi dati del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli: ogni 36 ore un minore denunciato o arrestato; tre armi al giorno sequestrate, tra coltelli, bombe, kalashnikov, pistole. Spesso, nuove giovani leve di camorra, per ragioni di appartenenza familiare o per la provenienza da quartieri ad alta densità mafiosa: più in generale, perché abitano in zone periferiche e degradate. In Campania il 34% dei minori vive in condizioni di povertà relativa; 7 bambini su 10 non sono mai andati a teatro o a una mostra; 7 su 10 non hanno mai fatto sport. “È una foresta che ci cresce intorno, ma le istituzioni sono sorde e cieche”, ammette Don Luigi Arena, parroco della chiesa Sacri Cuori. È lui che ha dato uno spazio a Vincenzo per iniziare: “Nemmeno noi abbiamo un vero campo, abbiamo un parcheggio, ma meglio di niente è”. Don Luigi è un personaggio. Casertano di origine, è tornato a Secondigliano nel 2018, ottavo di 15 figli di un proletario comunista amico di Mario Capanna che non voleva che lui seguisse la vocazione. “Papà, finito il Pci, smise di fare politica, io continuo invece tutti i giorni… Faccio spazio ai poveri e non mi faccio spazio coi poveri. Ha presente Cuore? Dovremmo rileggerlo tutti, politici compresi”. C’è un’enorme statua di Gesù all’ingresso del Parco Laudati, piuttosto malconcia. Il custode, un cultore raccontano, ha disseminato le cancellate di immaginette della Via Crucis. Alla statua manca una mano, rotta, così come è rotto il cuore. Dicono per colpa di un vecchio pallone. Reggio Calabria. Associarsi e denunciare la mafia premia: a 9 aziende su 10 sono in utile di Dario Musolino e Grazia Servidio huffingtonpost.it, 10 marzo 2023 Un’indagine, condotta nella prima metà del 2020, ha coinvolto circa 30 imprese: i risultati offrono un quadro inaspettato. Sul numero 3/2022 della “Rivista economica del Mezzogiorno”, il trimestrale della Svimez diretto da Riccardo Padovani ed edito da “Il Mulino”, è stata di recente pubblicata la prima indagine condotta sulle imprese iscritte a “ReggioLiberaReggio-La libertà non ha pizzo”, una rete di imprese nata nel 2010 su iniziativa dell’associazione Libera dopo l’attentato all’imprenditore Tiberio Bentivoglio, e formata da un gruppo di imprese che sottoscrivono una campagna di legalità e di contrasto alla mafia. L’indagine, condotta nella prima metà del 2020, ha coinvolto circa 30 imprese, con sede nel comune di Reggio Calabria o in comuni limitrofi. I risultati meritano grande attenzione sotto molteplici punti di vista, restituendoci un quadro inaspettato per quanto riguarda tre aspetti in particolare. Il primo e forse il più importante: la maggior parte delle imprese partecipanti all’indagine gode di un “buono stato di salute”. Solo il 10% dichiara di essere in perdita, mentre 9 su 10 sono in utile. Inoltre, buona parte delle imprese presenta un andamento delle principali variabili di performance (margini, fatturato, addetti) stabile o in crescita. Segno che si tratta di una platea di aziende sane che non sono state penalizzate dall’adesione alla rete, ossia dalla scelta di legalità e trasparenza; anzi, forse sono state premiate. Un dato tutt’altro che prevedibile in un contesto come quello reggino, in cui la criminalità mafiosa è notoriamente capace di condizionare l’attività d’impresa e i meccanismi di mercato. Le imprese che aderiscono alla rete fondano la loro buona performance su vari punti di forza: la qualità, ovvero un buon rapporto qualità-prezzo; le risorse umane, vale a dire la competenza e la professionalità del personale che il territorio, pur con tutti i suoi limiti, risulta capace di offrire al sistema imprenditoriale locale; la specializzazione e l’innovatività dei beni e dei servizi offerti (in vari casi, esclusivi e di nicchia). Le imprese iscritte a “ReggioLiberaReggio” incontrano invece più difficoltà su capacità commerciale; innovazione di processo, in particolare riguardo alla digitalizzazione; internazionalizzazione. Il secondo: risalta in modo alquanto netto la forte soddisfazione delle imprese intervistate per l’adesione alla rete: circa l’80% valuta, infatti, questa esperienza positivamente o molto positivamente. La rete assolve bene la sua missione, in primis colmando quella “sensazione” di isolamento che molte di queste imprese lamentano, e costituendo quindi uno dei pochi “appigli” certi nel tessuto socio-economico e istituzionale locale. Essa, a detta delle imprese intervistate, andrebbe quindi ulteriormente ampliata, coinvolgendo una più amplia platea di aziende, e rafforzata nella sua azione di servizio, networking, e interfaccia con le istituzioni. Il fatto che queste imprese si siano associate e valutino positivamente questa esperienza sta ad indicare che cominciano a farsi strada logiche diverse dal passato, più collaborative e inclini alla denuncia. Il terzo: aprendo lo sguardo ai condizionamenti mafiosi sull’intera economia reggina, le imprese intervistate raccontano di un quadro ancora difficile in fatto di possibilità di avviare e condurre liberamente una iniziativa imprenditoriale, ma sottolineano pure come la situazione pare essere migliorata negli anni. L’influenza mafiosa sembra non essere più così pervasiva e opprimente come in passato, ma al più “concentrarsi” su determinate aree/settori del sistema produttivo locale, quali appalti pubblici, edilizia, grande distribuzione (e meno sul commercio al dettaglio) e su alcune funzioni aziendali, come l’assunzione del personale e gli acquisti. Per la maggioranza degli intervistati lo Stato è stato capace di contrastare, con relativo successo, le organizzazioni mafiose. Questi risultati non erano affatto scontati e varrebbe la pena valutare la percorribilità delle proposte che le stesse imprese intervistate hanno avanzato con riferimento, per esempio, alle misure di contrasto alla criminalità mafiosa, volte a rafforzare la vigilanza e il controllo del territorio, ma soprattutto all’introduzione di agevolazioni fiscali a favore delle imprese che denunciano scegliendo la legalità, a compensazione degli effetti negativi della concorrenza sleale (e delle azioni intimidatorie) che subiscono. Torino. Occuparono una casa, 18 anarchici assolti. Il giudice: “Fornirono sostegno ai migranti” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 10 marzo 2023 Erano finiti sotto accusa per aver occupato i locali di una Chiesa a Claviere e poi la Casa Cantoniera di Oulx. “Un’innegabile funzione di supporto alle iniziative lecite organizzate da istituzioni e privati nel campo dell’assistenza”. L’occupazione si è tradotta in “un’innegabile funzione di supporto alle iniziative lecite organizzate da istituzioni e privati nel campo dell’assistenza e dell’accoglienza dei migranti”. In pratica, gli anarchici hanno agito “in modo complementare” al mondo dell’associazionismo. Ad assegnare questo ruolo ai giovani antagonisti che nel 2018 entrarono abusivamente nella Casa Cantoniera dell’Anas, trasformandola in un centro di accoglienza per i migranti intenzionati a raggiungere la Francia passando clandestinamente il confine, è il giudice Alessandra Danieli. Il magistrato, infatti, ha assolto 19 attivisti che - a vario titolo - erano finiti sotto accusa per aver occupato prima i locali della Chiesa della Visitazione di Maria Santissima di Claviere e, successivamente allo sgombero, la Casa Cantoniera di Oulx, un immobile che Anas aveva lasciato in stato di abbandono. Nelle motivazioni vengono ripercorse le storie delle due occupazioni, ma soprattutto le attività degli antagonisti. L’indagine dei carabinieri raccontava le iniziative intraprese, tra il 2018 e il 2021, da alcuni giovani legati al gruppo francese “Briser les Frontières” e all’area antagonista della Valle di Susa e di Torino. Cioè, attività di “sostegno e assistenza ai migranti” intenzionati a oltrepassare il confine francese. Due le rotte seguite e citate nel documento: la prima (poi abbandonata) attraverso il Colle della Scala a Bardonecchia, la seconda attraverso il valico tra Claviere e Monginevro. Ed è proprio in relazione a quest’ultima direttrice che vanno lette le azioni illecite rimproverate agli imputati. Il giudice ricorda che nel 2018 a Oulx venne aperto il Rifugio Massi, una struttura gestita da religiosi dell’ordine salesiano e finanziata da una fondazione. “In tale contesto - scrive il Tribunale - si collocano le iniziative intraprese da alcuni aderenti a movimenti di matrice anarchica in ordine alla causa di sostegno ai migranti e di contestazioni alle politiche governative in materia di flussi migratori”. Da qui l’occupazione prima della Chiesa e poi della Casa Cantoniera “per permettere ai migranti, che quotidianamente tentavano di raggiungere il territorio francese attraverso il valico del Monginevro, di trovare riparo dal freddo durante la notte”. Per il giudice non vi è alcun dubbio sulla sussistenza del reato, in particolare per quanto riguarda l’occupazione della Casa Cantoniera: gli imputati sono stati più volte notati dalle forze dell’ordine mentre entravano e uscivano dall’edificio, così come è accertata la loro partecipazione nell’allestimento della struttura “al fine di consentire di ospitare stabilmente al suo interno decine di persone”. In sentenza si fa anche notare che “all’epoca dei fatti la struttura salesiana era aperta solo di notte e poteva ospitare solo 20-30 persone. Accadeva di frequente che alcuni migranti, dopo aver trascorso una notte al Rifugio, si trasferissero alla Casa Cantoniera, dove potevano trattenersi per diversi giorni e dove, in diverse occasioni, trovavano ospitalità famiglie con bambini”. Tuttavia, il Tribunale respinge la tesi assolutoria proposta dalla difesa, che si era appellata allo “stato di necessità” interpretato come assistenza di migranti spesso impreparati ad affrontare la montagna per oltrepassare il confine. Piuttosto, secondo la giudice Danieli, l’assoluzione deve essere incardinata nel principio della “lieve entità” del reato. Gli anarchici avrebbero sì occupato l’immobile dell’Anas - “in disuso da anni” -, ma anche svolto “un’innegabile funzione di supporto” a chi era impegnato lecitamente nell’assistenza ai migranti. Macerata. La sussidiarietà diviene scuola di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 10 marzo 2023 La sussidiarietà non implica un arretramento del potere pubblico, ma un suo salto di qualità perché venga garantita la migliore risposta possibile ai bisogni delle persone. La parola sussidiarietà sembra essere diventata il passpartout per aprire molte porte, da quella identitaria di una certa parte politica, a quella autonomista, a quella populista. Come si è visto anche di recente, viene utilizzata per lo più secondo l’ideologia neoliberista, come mero principio di libertà di iniziativa e di scelta. Ma la cultura della sussidiarietà è ben più di questo. È come la benzina che muove il motore di tutto il sistema democratico, non di una parte sola, avendo come stella polare il bene dei cittadini. E stabilendo, a questo scopo, una relazione stabile e virtuosa tra diversi livelli di governo e tra questi e la società civile, variamente organizzata. Quello che si trascura, in particolare, è che tale principio non implica un arretramento del potere pubblico, ma un suo salto di qualità perché venga garantita la migliore risposta possibile ai bisogni delle persone, da qualunque ente derivi. Un importante strumento per realizzare questo salto è rappresentato dalle recenti normative sull’amministrazione condivisa che apre a una politica sui servizi di pubblica utilità alla persona (socio-assistenza, marginalità, povertà, formazione e altro) in cui la Pa e gli enti del Terzo settore co-programmano e co-progettano insieme le risposte ai bisogni. L’introduzione dell’amministrazione condivisa, impone, da una parte, un principio di non contrapposizione tra pubblico e privato non profit; dall’altra, una chiarezza dei ruoli: all’ente pubblico spetta la responsabilità di farsi garante di un insieme di servizi che rispondano ai bisogni fondamentali delle persone presenti sul territorio; la società civile, invece, è chiamata a maturare la sua capacità di identificare i bisogni in tutta la loro ampiezza, in quella prossimità che rileva le necessità non solo materiali, e a rendersi protagonista delle risposte. Il rapporto tra Pa ed enti del Terzo settore che viene a delinearsi non è la competizione, ma il dialogo e la “convergenza” verso gli obiettivi d’interesse generale per la costruzione di una rete di co-progettazione che rinforzi la struttura del welfare. È una novità importante che richiede un cambio di mentalità e, soprattutto, momenti di formazione e di incontro tra amministratori e responsabili della progettazione e dell’attuazione delle politiche pubbliche, territoriali e settoriali, operatori della vasta galassia del Terzo settore, professionisti, ma anche tutti i cittadini interessati, come partecipanti e volontari. È quello che sta accadendo a Macerata, prima tappa della nuova edizione della Scuola di Sussidiarietà, che sta offrendo importanti spunti di approfondimento per interpretare norme, prassi e implicazioni cultuali. E da cui emerge che senza uno sguardo d’insieme sul Paese, senza una visione di lungo termine, senza risorse pubbliche, senza una Pubblica amministrazione efficiente, l’azione sussidiaria non può dare un frutto duraturo a tutto il sistema, restando in questo modo un principio di breve respiro. In un momento in cui il rischio di disgregazione è forte, la cultura della sussidiarietà può aiutare la relazione e la fiducia. Senza fiducia infatti non si riparte, non ci si muove, si resta solamente fermi e passivi. Oltre agli aspetti organizzativi, gestionali e giuridici, sarà quindi importante reinterpretare la parte più propositiva della sussidiarietà, quella che risponde al bisogno delle persone di essere protagoniste, di poter costruire, di plasmare le forme della convivenza civile secondo l’ideale di giustizia e solidarietà che le anima. Ascoli. La mostra sul carcere fa il tutto esaurito di Lorenza Cappelli Il Resto del Carlino, 10 marzo 2023 La mostra “Tra luci e ombre. Tracce di vita dal carcere” inaugurata sabato scorso al Forte Malatesta, dove rimarrà fino al 4 giugno, sta già registrando un ottimo numero di visitatori. ‘Sold out’ il giorno del taglio del nastro, l’esposizione sta continuando ad essere molto visitata e propone collateralmente un ricco programma di eventi. Il percorso espositivo fa rivivere le atmosfere e le condizioni dei carcerati attraverso le suggestive testimonianze fotografiche di Paolo Raimondi, le installazioni immersive di Benedetta Fioravanti e Matteo Corradi, i documentari del fotoreporter Valerio Bispuri e del giornalista Remo Croci. Il prossimo appuntamento, dopo l’open day dedicato agli insegnanti che si è svolto ieri, ci sarà domani, alle 17, quando si svolgerà l’incontro dal titolo ‘Dal menù del carcerato alla dieta mediterranea. Il regime alimentare dei detenuti nel Forte ottocentesco, la dieta mediterranea e i grani antichi’. Grazie alla scoperta di inediti documenti d’archivio, lo scrittore Marco Corradi, autore del libro ‘Il carcere del Papa’, condurrà il pubblico in un affascinante viaggio dedicato ai menù che venivamo proposti ai detenuti nel carcere malatestiano dal 1830 al 1840. Il regime alimentare del carcerato ottocentesco è quello che oggi viene definito ‘dieta mediterranea’ e a raccontarlo saranno Lando Siliquini, medico e scrittore che ha contribuito alla stesura della legge regionale sulla dieta mediterranea, Daniele Ciabattoni, agricoltore e fornaio titolare di ‘Grano’, e Amedeo Castelli, mugnaio e titolare dell’Antico Molino Santa Chiara. A seguire, ci sarà una degustazione di prodotti naturali a km zero di aziende agroalimentari del territorio. Il costo è di 12 euro e prevede l’ingresso alla mostra, l’incontro e le degustazioni. La prenotazione è obbligatoria ai numeri 0736298213 o 3333276129. Ijeoma Oluo: il razzismo che è in noi di Anna Lombardi La Repubblica, 10 marzo 2023 Arriva anche in Italia il bestseller di Ijeoma Oluo, 43 anni. Attivista, scrittrice e giornalista, è diventata un simbolo dopo l’uccisione brutale di George Floyd da parte della polizia. “Non conosco afroamericani che non abbiano sofferto episodi razzisti. Ma quando lo dico la reazione è sempre di incredulità. È difficile far capire cosa significa nascere con la pelle nera. Sei trattato diversamente fin dalla scuola a dispetto dei tuoi modi educati, del tuo sorriso aperto, della tua fragilità”. Al telefono da Seattle dove è nata e vive, Ijeoma Oluo, 43 anni, papà nigeriano e mamma bianca del Kansas, racconta con mesta durezza la genesi del suo E così vuoi parlare di razza?: il bestseller pubblicato in America nel 2018 e schizzato in cima alle classifiche nel 2020, dopo l’atroce morte di George Floyd, che ora viene pubblicato anche da noi, edito da Tlon. Attivista, scrittrice, giornalista (ha una rubrica pure sul Guardian) è stata inserita da Time nella lista dei 100 afroamericani più influenti. “Quante volte avete sentito la frase “Non sono razzista, ma...”?. Ebbene, è proprio allora che bisogna preoccuparsi”. Il suo libro ha scalato le classifiche dopo la morte di George Floyd. L’orrore di quell’assassinio ha costretto l’America a guardarsi allo specchio? “Il libro era nato molto prima. Mi occupavo di marketing e non avevo mai pensato di fare la giornalista fino al 2012: quando la morte di Trayvon Martin, il 17enne ucciso da una guardia privata solo perché camminava con la testa coperta da un cappuccio, mi spinsero a convertire il mio blog di cucina in qualcosa di più politico. Quell’assassinio crudele - e le tante, troppe morti di afroamericani venute dopo - mi hanno convinta della necessità di un confronto franco, magari doloroso, dove raccontare in cosa consiste davvero la realtà degli afroamericani: aspirando a una vera comprensione reciproca”. Fin dalle prime pagine lei parla della difficoltà di far capire la particolare condizione emotiva di chi subisce razzismo... “Molti pensano al razzismo come a qualcosa di plateale: attacchi fisici, insulti. E ci sono anche quelli, chiaro. Ma è importante capire che a fare perfino più male sono una serie di micro aggressioni quotidiane. La donna che stringe più forte la borsa quando passi. La commessa che ti segue in un negozio perché ti considera un potenziale ladro. Gli insegnanti meno pazienti con i nostri bambini. E la polizia pronta a sparare anche solo per come appari fisicamente: ricordate il poliziotto che nel 2014 uccise il 18enne Micheal Brown, solo perché aveva la stazza de “incredibile Hulk?”. Eccolo il traumatico, costante quotidiano di molti di noi. Chi non lo ha provato, fatica a capire. Chi non lo ha subito, non riesce a mettersi nei tuoi panni. Io lo so bene: mia madre è bianca e questo tipo di conversazione l’ho avuta più volte anche con lei. Viviamo nel paradosso che molti non credono che la nostra società sia razzista solo perché se non lo vedono loro, pensano non sia vero”. Tutti colpevoli? “Il razzismo non è necessariamente un’intenzione: ma un sistema. Io parlo di razzismo sistemico, un sistema socio economico che si basa su una precisa gerarchia razziale. Un sistema politico che sfrutta lo spauracchio dell’altro, del diverso, del nero. Un sistema dove le ingiustizie verso persone di colore e minoranze - latini, asiatici, trans, gay - vengono normalizzate. E quando le cose non vanno, è colpa della troppa attenzione data a quegli altri. Facile no? Funziona da secoli. Di sicuro voi bianchi, che avete un senso di superiorità così interiorizzato da negarne l’esistenza o non esserne nemmeno più consapevoli, siete molto vulnerabili quando si parla di ‘razza’. Siete nati ‘privilegiati’ dal colore della vostra pelle. Ma quando ve lo facciamo notare, scattate sulla difensiva”. La prosperità degli Stati Uniti si è certo a lungo basata su discriminazione e sfruttamento razziale e le conseguenze di quella Storia arrivano fino a noi. Ma le sue considerazioni valgono anche altrove? “Se c’è razzismo nel vostro Paese, lo possono dire solo le persone di colore che ci vivono. Spesso scrittori e politici europei mi dicono: ‘Da noi non esiste’. Mentre i neri che ci vivono mi ringraziano: ‘Racconti la nostra esperienza quotidiana’. Poi, certo: le relazioni, il linguaggio, la storia e il contesto sono diversi. Ma quando io e il mio partner siamo venuti in Europa - sì, anche in Italia - non ci siamo sentiti i benvenuti. Pensate al razzismo che voi in Italia esprimete sul campo di calcio e fatevi una domanda. Pensate agli africani lasciati a morire in mare. Bisogna guardare negli occhi ciò che mette a disagio, perché è ciò che racconta meglio di tutti la realtà in cui si vive e che bisogna contribuire a cambiare”. Il dibattito sul politicamente corretto e sulla “cultura della cancellazione” - per cui è meglio evitare di toccare argomenti che urtano la sensibilità di qualcuno è da tempo è accesissimo... “La lingua ha potere. Chiamare la gente con epiteti e appellativi sgradevoli disumanizza e non possiamo far finta di non saperlo. Chi usa un certo linguaggio è razzista. Se continua, ne abbia almeno la consapevolezza”. Esiste un razzismo al contrario? Dei neri verso i bianchi? “No. O meglio: esiste il pregiudizio. Ma io parlo di razzismo sistematico. Di una società che ha il potere di imporre le sue regole agli individui, discriminandoli per il colore della pelle”. Le più recenti battaglie hanno portato a qualcosa? “La gente parla di razzismo in modo più esplicito. Ma i discorsi non si sono ancora stati tradotti in cambiamento reale. Da noi la polizia resta brutale e le disparità economiche sono perfino più evidenti. Il Covid ha riportato indietro le comunità afroamericane. Il virus ci ha devastati numericamente ed economicamente, perché eravamo già più vulnerabili. Però oggi sappiamo meglio chi siamo, quali sono i nostri diritti e come reagire”. Come se ne esce? “Ascoltando chi non si sente rispettato abbastanza. Solo comprendendone le ragioni possiamo aspirare a cambiare i nostri comportamenti”. Il libro e l’incontro - E così vuoi parlare di razza? è il bestseller di Ijeoma Oluo (Tlon, pagg. 266, euro 18). L’autrice sarà il 12 marzo a Roma a “Più libri tutto l’anno” alle 11.30 presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea. Il decreto migranti varato a Cutro: caccia “globale” agli scafisti e stretta ai permessi di Giuliano Foschini La Repubblica, 10 marzo 2023 Il provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri accosta il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina alla morte come conseguenza di altro reato. Da 20 a 30 anni di carcere se si causa la morte di più persone. Da 15 a 24 se muore un solo migrante, e da 10 a 20 se in un naufragio ci sono feriti. Il Governo adotta la linea Piantedosi per legge: lo fa introducendo un nuovo reato che, nei fatti, accosta il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina alla morte come conseguenza di altro reato. “Perché - spiegano dal ministero della Giustizia, dove la norma è stata pensata d’intesa con il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano - chi mette quei disperati su un barcone sa già che potrebbe farli morire”. La nuova norma inasprisce pesantemente le pene, pur sapendo che a oggi i trafficanti che vengono arrestati sono quasi sempre disperati che si mischiano ai migranti e quasi mai i veri capi delle organizzazioni che trafficano in esseri umani. E nello stesso tempo allarga i confini di intervento. “La novità c’è in quella che possiamo chiamare ‘terra di nessuno’ - ha spiegato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio - E cioè: se in acque che non sono sotto la competenza di nessuno avviene un naufragio colposo con la conseguenza non voluta di morte o lesioni, si afferma la giurisdizione penale italiana nei casi in cui l’imbarcazione sia diretta verso il nostro territorio”. Vuol dire che la norma vale anche in acque internazionali basandosi sul principio della giurisdizione universale e questo, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe servire a risolvere a monte eventuali problemi di assistenza giudiziaria. Non sembra cambiare molto, invece, sulla cooperazione. Che ad ora resta il problema principale. Si parla di “accordi bilaterali” con i paesi di partenza ma oggi alcune inchieste delicatissime condotte dalla procura distrettuale di Catanzaro proprio su alcuni trafficanti turchi che lavorano sulla rotta su cui è avvenuta la strage di Cutro, sono bloccate perché la Turchia non ha offerto collaborazione: le rogatorie inviate dal procuratore Nicola Gratteri sono rimaste lettera morta. Nel decreto compaiono anche norme sulla semplificazione delle procedure di espulsione, per il potenziamento dei centri di permanenza finalizzati al rimpatrio, per intervenire nei casi di gestione opaca dei centri per migranti (“La legge anti Soumahoro”, è stata definita). Arriva una stretta sulla “protezione speciale”, con il ritorno dei criteri stringenti fissati dai decreti Salvini nel 2018 e poi ammorbiditi da Lamorgese nel 2020: “Era stata allargata a dismisura - spiega Giorgia Meloni - vogliamo abolirla e sostituirla con una misura di buonsenso che corrisponda alla normativa Ue di riferimento”. Meloni commissaria Salvini e Piantedosi. Ora sui migranti deciderà palazzo Chigi di Paolo Delgado Il Dubbio, 10 marzo 2023 La premier passa dalla politica dei respingimenti a quella molto più discreta del “fermare le partenze”. E a gestire la partita saranno Mantovano e Crosetto. La partita in realtà durissima che, dietro i sorrisoni d’ordinanza, la premier e il ministro delle Infrastrutture hanno ingaggiato sul tema immigrazione non finirà a Cutro. Il fronte immigrazione è troppo importante perché Salvini possa mollarlo senza provare a combattere e in qualche modo alla fine probabilmente combatterà. Ma per il momento il Capitano è costretto ad arretrare e anche di parecchio. Il decreto di Cutro non solo segna il passaggio dalla strategia rumorosa e truculenta dei respingimenti a quella discreta e sotterranea del “fermare le partenze” ma sottrae anche a Salvini e ai salviniani ogni voce in capitolo. Sui flussi decide palazzo Chigi e solo palazzo Chigi: significa Giorgia Meloni ma significa soprattutto Alfredo Mantovano il sottosegretario che non spreca parole, preferisce lavorare nel silenzio assoluto ma gestisce già rapporti delicatissimi come quelli con il Vaticano e con il Colle. E’ facile prevedere che il proconsole sarà lui e si affiderà al suo stile, diametralmente opposto alla teatralità dell’istrione leghista. La sorveglianza marittima passa sotto il controllo della Difesa, cioè di Crosetto che, nonostante qualche dichiarazione imprudente abbia provocato un calo delle sue quotazioni a corte, resta un pilastro della gestione meloniana. A perderci sono Salvini, con la sua Guardia costiera, e il suo alter ego del Viminale. La premier, oltre al suo ormai preponderante peso specifico, ha in questo momento all’attivo due assi. Il primo è la disastrosa gestione della tragedia di Cutro da parte di Piantedosi. Il ministro non ne ha letteralmente azzeccata una: dalle folli dichiarazioni del primo giorno sino alla scelta, forse però indotta dalla stessa Meloni, di presenziare al cdm facendosi rappresentare dal sottosegretario leghista Molteni al vertice sull’immigrazione dei ministri degli Interni Ue a Bruxelles. Un errore grossolano, chiunque abbia preso la decisione, dopo che proprio l’Italia aveva chiesto, con la lettera della presidente del consiglio, di mettere l’immigrazione al centro del Consiglio europeo del 23 marzo. Dopo quella richiesta l’assenza del ministro italiano al vertice è stata presa dai partner europei con malcelato sbigottimento, tanto più che i Paesi del nord insistono, come ha fatto anche mercoledì l’olandese Rutte nel colloquio di Roma con la premier, perché l’Italia si faccia carico della sorveglianza sui “movimenti secondari”. In soldoni che blocchi alle frontiere i migranti che proseguono dall’Italia verso il nord Europa se vuole un aiuto nella gestione delle molto meno facilmente controllabili frontiere marittime. La seconda carta nelle mani della premier è proprio l’intesa perfetta tra lei e la presidente von der Leyen. Per la prima volta la destra italiana, grazie alla svolta voluta da palazzo Chigi nelle politiche dell’immigrazione, e la Commissione sembrano parlare la stessa lingua. E’ nell’ordine delle cose che Meloni esalti la sterzata come un evento epocale. Si tratta certo di un’esagerazione ma il cambio di quadro è reale. Solo che quella dei rapporti con l’Europa è una carta infida, sempre scivolosa, anche quando le nuvole sembrano essersi un po’ diradate e proprio l’insistenza dei Paesi del Nord sul controllo delle frontiere italiane a nord lo dimostra. Del resto il Consiglio del 23 discuterà davvero di immigrazione, sulla base di un report che sta preparando la presidente della Commissione ma non prenderà alcuna decisione. I tempi della Ue sono quelli che sono ma sul capitolo immigrazione blocchi e sorde resistenze sono anche più paralizzanti del solito. Senza una svolta effettiva e non solo a parole dell’Europa Salvini avrà gioco facile per tornare alla carica, probabilmente sfruttando la proposta di legge leghista sui permessi di soggiorno firmata da Iezzi e Molinari, in commissione Affari costituzionali alla Camera. La proposta, se accolta resusciterebbe di fatto i decreti Salvini e per la premier fermarla sarà difficile, senza una risoluzione diplomatica della vicenda. Gli umori della truppa parlamentare dell’intera destra, non solo della Lega, sono quelli a cui danno voce l’azzurro Gasparri, che vorrebbe rivedere la Bossi-Fini perché troppo morbida, o il tricolore De Corato, vicepresidente della commissione che discuterà la legge, che non esita a dichiararsi del tutto d’accordo con il testo leghista. Insomma, senza un intervento per una volta tempestivo e concreto dell’Europa, non è affatto escluso che Salvini e Piantedosi possano presto provare a prendersi la rivincita. Migranti. C’è una sola possibilità: tornare a Mare Nostrum di Enrico Pugliese Il Manifesto, 10 marzo 2023 Strage di Cutro. Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i “mercanti di carne”. Ormai ogni decina di anni ha luogo nel Mediterraneo in prossimità delle coste italiane una strage di migranti. La prima fu quella di Portopalo del Natale 1996, con 280 vittime. La seconda fu quella della Kater i Rades nel 1997, quando una imbarcazione albanese fu speronata da una nave militare italiana che causò la morte di oltre cento migranti. I protagonisti erano profughi che fuggivano dall’Albania in guerra civile. Il cui governo aveva deciso di chiudere le frontiere in uscita, su richiesta esplicita del governo “democratico” italiano che aveva deciso sciaguratamente il blocco navale. Quindici anni dopo nel 2013 c’è stata la tragedia di Lampedusa con il naufragio di una nave libica carica di migranti avvenuto a poche miglia dalla costa: la strage più grave di tutte con 368 morti. E ora abbiamo la strage di Cutro della quale sappiamo tutto tranne ciò che aiuta a capire. Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i “mercanti di carne “. L’altro assunto è che non si può far entrare tutti e che bisogna difendere le frontiere nazionali dall’invasione di una immigrazione incontrollata. Il tutto accompagnato dalla ipocrita proposta di soluzione secondo la quale “bisogna aiutarli a casa loro” All’inizio di questo secolo il compito di controllo venne assegnato a una agenzia della Ue, Frontex, con sede a Varsavia e in attività a partire dal 2004, destinataria di enormi finanziamenti dal bilancio dei paesi dell’Unione. I mezzi a disposizione di Frontex servirebbero a “garantire la protezione delle frontiere esterne dello spazio di libera circolazione della Ue”: cioè a bloccare i migranti. Nel progressivo incremento delle politiche di chiusura qualcosa cambiò dopo la strage di Lampedusa con l’istituzione in Italia del programma di intervento Mare Nostrum stimolato dal clima di commozione - “mai più” - e da una riflessione meno convenzionale sui motivi che spingono la gente a partire: si trattò di una scelta politica in controtendenza ma in linea con la non scritta “legge del mare”. Contrariamente alle funzioni di Frontex i compiti dell’operazione Mare Nostrum erano quelle di ricerca e salvataggio. E il pattugliamento del canale di Sicilia era esclusivamente quello di ricercare e prestare soccorso ai migranti in difficoltà: una operazione di elevato contenuto umanitario. Istituito dal governo Letta a fine 2013, Mare Nostrum esattamente un anno dopo fu chiuso dal governo Renzi e - questo va riconosciuto - non solo per pressioni interne ma anche per pressioni europee. L’accusa era che l’operazione, garantendo maggiori condizioni di sicurezza per i potenziali immigranti, potesse avere una funzione di richiamo per nuove partenze e - si diceva ipocritamente- per nuove tragedie. Bastava dare uno sguardo alle rotte seguite e alla provenienza nazionale dei migranti per capire che questa tesi non stava né in cielo né in terra. In effetti ciò che determinava di volta in volta rotte e provenienza dei migranti era solo e semplicemente il fatto che fuggivano da zone di pericolo e di guerra. Chiuso Mare Nostrum, il compito di ricerca e messa in salvo dei migranti passò dalle mani pubbliche a quelle delle Ong fino a quando non cominciò l’operazione di diffamazione e di controllo sulle navi dei volontari prima sottoponendole a una burocratica inutile disciplina poi a una vera e propria operazione persecutoria tuttora in corso per iniziativa in primo luogo da parte della Lega e di Salvini. E questo ha reso più pericolosi i viaggi. Quanto poi all’antica solfa del “dobbiamo aiutarli a casa loro” rilanciata in questi giorni dal presidente del consiglio Meloni va fatto notare che molti non hanno una casa dove tornare. E per quanto riguarda i viaggi è risultato chiaro che non c’è bisogno della spinta da parte di nessuno per prendere la decisione di fuggire da persecuzioni e guerre ma anche dalla disperazione per fame. In un clima diverso come quello creato da Mare Nostrum forse la tragedia di Cutro - dove domani si svolgerà una manifestazione nazionale di protesta che speriamo grande ed ascoltata - non sarebbe avvenuta. Svizzera. “Nelle carceri la prevenzione del suicidio è un punto critico” di Giacomo Agosta laregione.ch, 10 marzo 2023 La prevenzione del suicidio all’interno delle strutture carcerarie cantonali (Ssc) presenta delle criticità. È quanto hanno segnalato gli operatori alla commissione del Gran Consiglio che vigila sulle condizioni di detenzione. La preoccupazione emerge dal rapporto dell’attività della commissione presieduta da Lara Filippini (Udc) nel periodo compreso tra il giugno 2022 e il marzo 2023, che verrà discusso la settimana prossima dal parlamento. “Seppur siano stati messi in atto molti accorgimenti - si legge nel documento redatto dalla deputata democentrista - si ritiene che la prevenzione del suicidio non debba essere soltanto di competenza delle Ssc e del servizio medico, ma di tutte le istanze coinvolte”. Tra queste vengono citati giudici e tribunali, il ministero pubblico e i procuratori pubblici. “Si reputa infatti che vi sia un problema nel dare determinate comunicazioni, ad esempio sulla carcerazione preventiva”. Un rischio di suicidio, si legge nel rapporto, che va a toccare soprattutto le persone maggiormente fragili, “le quali potrebbero essere indotte ad avere uno scompenso psichico tale da portarle a compiere il gesto estremo”. Un tema che ha tenuto impegnata la commissione ‘carceri’ è anche quello della presa a carico e della gestione di detenuti che necessitano di misure terapeutiche. “Il servizio medico - afferma il rapporto - non si riduce a trattare problemi fisici, ma tratta anche l’ambito psicologico e psichiatrico”. Inoltre: “È innegabile che la società, anche carceraria, diventa sempre più complicata. Ciò rende difficile gestire i casi psicologici e psichiatrici. Il problema è la mancanza e l’inadeguatezza delle strutture ticinesi”. E la situazione attuale è ritenuta “insoddisfacente, malgrado gli sforzi profusi. Un colloquio settimanale (se va bene) non è sufficiente”. Viene inoltre segnalato che “il programma delle persone in esecuzione di misure terapeutiche non può essere il medesimo di chi sta scontando la pena in carcere”. I deputati ricordano che alcune misure sono infatti state revocate dal giudice dei provvedimenti coercitivi per assenza di un’istituzione adeguata. “Un campanello d’allarme che, auspichiamo, venga colto e che possa trovare una soluzione in tempi brevi”. La commissione che vigila sulle condizioni di detenzione ha infatti sottoscritto - insieme ai colleghi della ‘giustizia e diritti’ - la mozione ‘Per un’adeguata presa in carico delle persone sottoposte a misure terapeutiche stazionarie’. Gli addetti ai lavori hanno inoltre segnalato alla commissione la necessità di una terza camera securizzata all’Ospedale sociopsichiatrico cantonale (Osc) di Mendrisio. “Per rispondere alla necessità è attualmente in corso un intenso dialogo tra Polizia cantonale, direttore dell’Osc e servizio medico delle strutture carcerarie. Si vuole trovare una soluzione sia dal punto di vista logistico che gestionale, che preveda anche un adeguato spazio per fruire dell’ora d’aria”. Sempre per quanto riguarda la sfera intima dei detenuti, un altro punto arrivato all’attenzione della commissione è quello relativo alla fede religiosa e alla possibilità di avere contatti con un confessore. Una lettera di un detenuto ha infatti segnalato che la presenza del pastore evangelico fosse molto inferiore rispetto alla figura di altre confessioni. “Appurato che la scarsa presenza fosse da ricondurre a problemi personali e di salute del Pastore” affermano Filippini e cofirmatari del rapporto, “abbiamo scritto al Dipartimento delle istituzioni affinché si possa instaurare un dialogo con i referenti delle differenti religioni e che, in caso di assenza, possano essere sostituiti da qualcuno. Auspichiamo quindi che vi sia un cambiamento in tal senso”. La commissione ricorda anche che, durante l’ultimo periodo di attività, una detenuta ha partorito. Un caso che ha avuto risonanza a livello nazionale. “Che nascano bambini da carcerate non è una novità, ma che partoriscano in cella, come in questo caso, ha suscitato diversi interrogativi”. In ogni caso, si legge nel rapporto, “è stato appurato che tutto è andato per il verso giusto”. La commissione si è però chinata nuovamente sul tema, visto che il servizio infermieristico (attivo in quel momento) non è disponibile 24 ore su 24. L’episodio ha fatto tornare d’attualità l’urgenza di portare a termine il progetto per una sezione femminile del carcere, che si basa sulle “regole di Bangkok, le quali pongono l’accento proprio sulla problematica delle detenute in gravidanza, e quindi della loro gestione in maniera ottimale presso le strutture carcerarie”. Un progetto che, annota il documento redatto da Filippini, “seppure sia previsto, ancora non ha dato i suoi frutti. Il messaggio governativo per il credito di 800-900mila franchi (i quali sarebbero assorbiti in gran parte dal fatto che non bisognerebbe più pagare celle oltre Gottardo) non è ancora stato presentato”. Tunisia. In fuga dal raiss di Francesca Mannocchi La Stampa, 10 marzo 2023 La svolta autoritaria e razzista del presidente Saied ha reso la permanenza impossibile agli africani. La crisi economica fa fuggire i giovani locali: si spegne l’unica democrazia uscita dalla Primavera araba. Il 21 febbraio, in un discorso ai consiglieri per la sicurezza nazionale, il Presidente tunisino Kais Saied ha accusato “orde di migranti irregolari” provenienti dall’Africa sub-sahariana di violenza e criminalità, “orde - ha detto - parte di una impresa criminale volta a cambiare la composizione demografica del Paese”. Un discorso che unisce razzismo a teorie cospiratorie diffuse ormai in gran parte della Tunisia attraverso il Parti Nationaliste Tunisien (Pnt) alla testa di una campagna che sta inondando i social media con attacchi ai migranti. Dopo le parole di Saied, i cittadini dell’Africa sub-sahariana hanno denunciato un’ondata di violenza contro di loro e si sono precipitati a centinaia di fronte alle ambasciate e alle sedi dell’Oim (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) chiedendo di essere rimpatriati. Si sono moltiplicate le denunce di persone assaltate fisicamente, cui sono stati rubati o vandalizzati beni e proprietà o che si ritrovano improvvisamente senza casa e senza lavoro, cacciati perché il mese scorso la Guardia nazionale ha minacciato di arrestare tutti coloro che danno occupazione o forniscono alloggio a immigrati non autorizzati, irregolari. I numeri raccontano una realtà scollata dalla violenza delle parole di Saied. Secondo i dati ufficiali, la Tunisia conta circa 21mila cittadini di paesi dell’Africa sub-sahariana, cioè meno dello 0,2% di una popolazione totale di circa 12 milioni di abitanti. L’ostilità verso i migranti è solo l’ultima tappa della regressione autocratica in corso dal colpo di stato di fatto del luglio 2021, da quando cioè Kais Saied sta imponendo una svolta repressiva, conservatrice e xenofoba che ha reso il Paese - fino a pochi anni fa esempio virtuoso di transizione democratica dopo le primavere del 2011 - ormai irriconoscibile. Kais Saied ha in mano tutti i poteri dal 25 luglio 2021, da quando cioè ha destituito l’allora Primo Ministro e congelato il Parlamento, prima di scioglierlo. Ha abrogato la Costituzione del 2014, indetto un referendum costituzionale ed elezioni legislative. La nuova Costituzione, approvata il 26 luglio, concede poteri quasi illimitati al presidente senza tutele per i diritti umani. Alle ultime elezioni, i tunisini hanno disertato le urne, ha votato solo un tunisino su dieci, mentre i partiti di opposizione e le organizzazioni che invitavano a boicottare il voto definivano le elezioni “illegittime”. Dall’11 febbraio, è partita un’ondata arresti che ha preso di mira esponenti dell’opposizione, due magistrati e il fondatore di una radio privata che avevano criticato la svolta autoritaria del Paese. Ieri l’ultima decisione: lo scioglimento dei consigli comunali, anch’essi eredità della rivoluzione dei gelsomini. I consigli saranno sostituiti da “delegazioni speciali”, naturalmente senza necessità del voto. Cioè senza espressione di diritti democratici. Economia in ginocchio - Dopo l’ondata di violenza contro le persone migranti, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno sospeso i prestiti, in assenza dei quali la fragile economia tunisina rischia di non riprendersi. Lo scorso ottobre l’Fmi aveva raggiunto un accordo con la Tunisia per un prestito di quasi due miliardi di dollari, ma la deriva sempre più autoritaria della presidenza Saied ne aveva progressivamente rallentato l’approvazione finale. Oggi gli accordi sono sospesi “fino a nuovo avviso”, decisione che implica un congelamento di tutti i nuovi finanziamenti alla Tunisia, impantanata in una grave crisi finanziaria. Dopo il discorso del 21 febbraio, infatti, il presidente della Banca mondiale - entità distinta ma che lavora in stretta collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale - David Malpass ha rinviato a data da destinarsi l’incontro programmato con le istituzioni tunisine previsto per fine marzo e comunicato l’interruzione dei lavori congiunti a causa delle “molestie di matrice razzista e le violenze” innescate dalle parole di Saied. Il prestito del Fondo Monetario era fondamentale per non precipitare, soprattutto dopo l’effetto domino generato dell’invasione russa in Ucraina. Dallo scorso autunno, per settimane, nei supermercati tunisini c’erano le liste di razionamento dei beni di prima necessità, mancano pasta e riso, manca il semolino, scarseggiano latte, olio e zucchero. Il rialzo dei prezzi globali delle materie prime ha aumentato i costi di distribuzione e importazione e le istituzioni non hanno saputo far fronte alla crisi al punto che in alcune aree del paese gli scaffali dei supermercati sono rimasti vuoti per giorni. La Tunisia è indebitata per l’80% del suo Pil, sconta il peso della spesa pubblica e si indebita per colmare il deficit di bilancio, le agenzie di rating stimano che il paese abbia più di 2 miliardi di dollari di debiti esteri in scadenza nel quarto trimestre di quest’anno e nel primo trimestre del 2024. Con il mancato accordo per i due miliardi di dollari, rischiano di slittare anche i nuovi prestiti dall’Unione Europea, oltre ai finanziamenti per le infrastrutture, come lo lo stanziamento di venti milioni di euro per un progetto di cavi per fornire energia solare all’Europa, rinviato fino a nuovo ordine. Con poca crescita, l’inflazione al 10% e il tasso di disoccupazione al 15% che tocca punte del 40% nelle zone più povere, il Paese rischia di non farcela. La tenuta delle casse statali era talmente allarmante che a gennaio Marouane Abassi, il governatore della Banca centrale tunisina, aveva avvertito che senza prestiti il 2023 sarebbe stato “un anno davvero complicato” e sempre a gennaio Moody’s aveva declassato il rating del paese ipotizzando un possibile default, evitato lo scorso anno solo grazie a un prestito di 700 milioni di dollari dalla African Export-Import Bank. Dopo l’ondata di violenze, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price che, preoccupato per la situazione, ha esortato le autorità tunisine a rispettare gli obblighi del diritto internazionale nel “proteggere i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti”. Ancora più critica l’Unione Africana che, in un duro comunicato ha condannato “la scioccante dichiarazione che va contro lo spirito e i principi fondanti dell’organizzazione”. Il presidente dell’Unione, Moussa Faki, ha condannato Saied per “incitamento all’odio razziale” e rinviato una conferenza continentale prevista a Tunisi a marzo. Gli amici italiani - Se l’Unione Africana dissente, critica e prende le distanze dal Presidente Saied, i partner europei ribadiscono il sostegno alle istituzioni tunisine. Il 27 febbraio, a meno di una settimana dalle parole di Saied contro i migranti, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani in un colloquio con l’omologo tunisino Nabil Ammar conferma la cooperazione bilaterale. I due Paesi, dice, devono “affrontare al meglio le sfide nel Mediterraneo”. L’Italia non si tira indietro, anzi. “Il governo italiano è in prima linea nel sostenere la Tunisia nelle attività di controllo delle frontiere, nella lotta al traffico di esseri umani, nonché nella creazione di percorsi legali verso l’Italia per i lavoratori tunisini”. Che il governo sia in prima linea per il controllo delle frontiere non c’è dubbio. Per le intenzioni italiane continuano a parlare i numeri, come riporta un’inchiesta condotta da Altraeconomia la nuova commessa deliberata dal governo in favore di Tunisi coincide con le parole violente di Saied. Negli stessi giorni venivano concessi al paese nordafricano cento pick-up per un valore di oltre 3 milioni e mezzo di euro per rinforzare il ministero dell’Interno tunisino nel contrasto all’immigrazione “irregolare”. È solo l’ultimo tassello di un aiuto complessivo che negli ultimi anni - tra il 2020 e il 2021 - è stimato secondo i calcoli di IrpiMedia e AcrionAid in 19 milioni di euro tutti concentrati sul controllo delle frontiere, che si aggiungono ai 25 milioni di euro europei del Patto sulla migrazione e l’asilo. Europa che a novembre scorso ha ribadito l’impegno economico per l’esternalizzazione dei confini. Il 28 febbraio a chiamare Tunisi è la premier Giorgia Meloni che, in un colloquio con la premier Najla Romdhane rinnova “la vicinanza al popolo e alle autorità tunisine in questo momento particolarmente delicato per il Paese” e conferma “l’appoggio italiano presso le istituzioni finanziarie internazionali”. Tradotto significa che l’Italia proverà a farsi carico di perorare la causa tunisina, di appoggiare la richiesta di prestiti, oltre - naturalmente - a confermare il sostegno economico per il pattugliamento delle coste. Il paradosso migratorio - È di fronte alla portata della crisi economica e finanziaria, all’inadeguatezza delle risposte, e all’ondata di proteste che infiamma le piazze del Paese, che Kais Saied ha preso di mira le persone migranti, tentando di scaricare la responsabilità della crisi economica sui i cittadini ritenuti irregolari. È il modo più semplice per distogliere l’attenzione della gente dai problemi interni, dalle tensioni sociali, dall’incapacità di dare risposte e alternative, di generare lavoro. Di distogliere l’attenzione dal numero mai raggiunto prima di giovani che decidono di lasciare il Paese. Secondo il Forum Tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) lo scorso anno sono arrivati in Italia circa 20mila tunisini, tra loro 4mila minori, il numero pùù alto degli ultimi anni. È il paradosso di uno Stato sempre più autoritario e insieme stato di frontiera a cui l’Europa sta delegando - a pagamento - il controllo dei confini. Il paradosso del Mediterraneo centrale è tutto qui. Nelle azioni e nelle politiche di Paesi come l’Italia che esternalizzano il monitoraggio delle rotte migratorie e militarizzano i confini esterni, garantendo ai paesi di partenza un flusso ininterrotto e crescente di mezzi e di fondi. Ma il costo delle politiche securitarie europee è sempre più alto e fa sì che oggi, si chiudano gli occhi di fronte agli arresti sommari, al deterioramento delle istituzioni democratiche, a un parlamento svuotato, al mancato rispetto dei diritti umani e oggi da ultimo all’ondata di violenza contro la comunità migrante, nell’illusione che un regime autoritario continui a garantire l’ordine e i respingimenti. Sono 30 mila le persone migranti respinte nel 2022 nel tentativo di raggiungere l’Italia dalle coste tunisine. Quasi ventimila i giovani tunisini che invece ce l’hanno fatta. Sempre di più, sempre più giovani, sempre più in fuga da quel regime che subiscono e contro cui si ribellano, e verso cui l’Europa continua a chiudere gli occhi e aprire il portafoglio. Stati Uniti. Guantánamo, saudita liberato dopo 21 anni di carcere senza mai essere incriminato tgcom24.mediaset.it, 10 marzo 2023 Ghassan Al Sharbi, 48 anni, fermato a Faisalabad, in Pakistan, nel marzo 2002 per i suoi legami con Al Qaida, era tra i sospettati per gli attacchi dell’11 Settembre. Gli Stati Uniti hanno annunciato il rilascio dal carcere di Guantanamo di un ingegnere saudita arrestato più di vent’anni fa come sospetto negli attacchi dell’11 Settembre 2001, ma che non è stato mai incriminato. Ghassan Al Sharbi, 48 anni, era stato fermato a Faisalabad, in Pakistan, nel marzo 2002 per i suoi legami con Al Qaida. Con il suo rilascio, a Guantanamo, restano 31 detenuti. L’ingegnere saudita Ghassan Al Sharbi era finito sotto inchiesta dopo gli attentati del 2001, perché “aveva studiato in un’università aeronautica in Arizona e aveva frequentato una scuola di volo con due dei dirottatori dell’11 Settembre”. Tuttavia, le accuse contro di lui erano state ritirate nel 2008. Nel febbraio 2022 il Pentagono aveva stabilito che il 48enne, nato a Jeddah, poteva essere rilasciato perché non aveva “un ruolo di leadership” in Al Qaida. Il dipartimento della Difesa aveva raccomandato che Al Sharbi fosse posto in custodia dalle autorità dell’Arabia Saudita e sottoposto “a una serie di misure di sicurezza, tra cui restrizioni sui viaggi e un monitoraggio continuo”. Un anno dopo, mercoledì 8 marzo, funzionari militari statunitensi hanno dichiarato di averlo riportato nel suo Paese d’origine, l’Arabia Saudita. Il trasferimento di Ghassan al Sharbi è stato l’ultimo volto a svuotare la prigione militare di Guantanamo di quei detenuti che non sono mai stati incriminati o hanno terminato la loro pena in seguito al rastrellamento globale di sospetti estremisti dopo gli attacchi dell’11 Settembre. I funzionari statunitensi nel corso degli anni hanno descritto al Sharbi come un fedele sostenitore e collaboratore di Al Qaida. Al Sharbi comparve in un ormai famoso promemoria di un agente dell’FBI di Phoenix - poco ascoltato all’epoca - che mesi prima avvertiva di possibili attacchi da parte di studenti mediorientali che prendevano lezioni di volo allo scopo di attacchi contro l’aviazione civile. Così poi avvenne l’11 Settembre 2001. Per gli Stati Uniti al Sharbi fuggì in Pakistan dopo l’11 Settembre per addestrarsi alla fabbricazione di bombe. E lì fu arrestato l’anno successivo e inviato a Guantanamo. Un comitato di revisione nel 2022 ha scoperto che al Sharbi non era più una minaccia sufficiente per gli Stati Uniti da essere tenuto in detenzione nel campo militare. L’Arabia Saudita - il Paese da cui provenivano la maggior parte dei dirottatori dell’11 Settembre - dispone, d’altronde, da tempo di strutture per la detenzione e la riabilitazione degli estremisti. Al Sharbi è almeno il quarto detenuto di Guantanamo rilasciato e inviato in un altro Paese fino a oggi. Guantanamo ha ospitato circa 600 prigionieri nel suo apice nel 2003. Con il trasferimento di al Sharbi, ora restano all’interno del carcere 31 detenuti, di cui 17 considerati idonei al trasferimento nel caso in cui il loro Paese fosse politicamente stabile e li accettasse.