Perché i direttori penitenziari amano la pioggia di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 9 maggio 2023 Oggi a Trieste è di un caldo che non disturba, sembra che per davvero stiano per iniziare le belle giornate che ci anticiperanno quelle della stagione estiva. Il cielo è terso ed il mare è quieto. Appena una piccola brezza. Lontano, dal molo Audace, scorgo le ciminiere dei cantieri di Monfalcone e più in là, le cime della Carnia. Da quando sono andato in quiescenza l’estate mi fa meno paura; quando ancora lavoravo, soprattutto ai tempi in cui ero direttore di carcere, era quella la stagione più difficile, quella in cui davvero poteva accadere di tutto. Spesso nel linguaggio comune si indica la galera con la metafora “al fresco”, ma quanti la impiegano sbagliano di grosso se, quando la utilizzano, non distinguono l’estate dall’inverno: dimostrerebbero, infatti, che del mondo penitenziario sanno ben poco. Questa riflessione mi consente di riesumare un mio vecchio articolo, che pubblicai tanti anni fa, ma che nella sostanza delle cose, purtroppo, rimane maledettamente attuale. Lo riporto, con qualche piccola modifica, per “L’Opinione delle Libertà”, nella speranza che da parte della premier Giorgia Meloni e del ministro Carlo Nordio, così come dal viceministro Francesco Paolo Sisto e dai due sottosegretari, Andrea Ostellari e Andrea Delmastro Delle Vedove, sia interpretato come un “alert” al quale dare attenzione; il titolo era “Perché i direttori amano la pioggia”: Questa notte a Trieste, in un agosto che sembra fatto di fuoco gassoso, si è abbattuto un violento fortunale. Ha piovuto a dirotto, i fulmini erano fortissimi come lo scroscio della pioggia grossa, insistente, persistente, resistente; per me, direttore di un carcere costantemente sovraffollato, era musica deliziosa, era qualcosa tra lo swing ed un coro di angeli, era la melodia più dolce che potessi ascoltare. Vi confido una cosa che vi sorprenderà: i direttori penitenziari amano la pioggia, grassa e copiosa, amano la grandine e le tempeste, i fulmini che squarciano il cielo ed i tuoni potenti che fanno tremare le pareti di ferro e cemento, amano il cattivo tempo, ed il freddo specialmente… In celle sovraffollate, soprattutto d’estate, dove si riescono a cogliere, senza neanche tendere le orecchie, i suoni del respiro e dei singhiozzi, e dei flati più indecenti degli occupanti la stanza, in quegli ambienti che sanno di tropici ma non di vacanze, dove il sudore si appiccica sulla pelle, così come intinge i succinti indumenti che i detenuti indossano per cercare di resistere alla calura, e dove l’unico rubinetto presente nella stanza deve placare sete e bisogno di acqua per rinfrescarsi e per le abluzioni di tutti gli occupanti, ancor di più in queste giornate di caldo umido ed insolente, l’abbattimento improvviso delle temperature, la pioggia che massaggia con forza i cortili dei passeggi, che scuote i tetti del carcere ed i mille percorsi interni ed esterni di un istituto, è un dono di Dio, come lo è per i beduini nel deserto in groppa ai loro provati cammelli… Il ritorno, anche per una sola mezz’ora, ad una temperatura sopportabile, calma la persona detenuta, le permette di parlare con gli altri, di essere attento e prudente nelle cose che dice, ma anche nella sua gestualità, nelle sue reazioni. Quel regalo inaspettato consente al prigioniero di guardare con rinnovato interesse le sbiadite immagini che provengono da vecchi e gracchianti televisori, oppure gli dà la forza per continuare ad impegnarsi nel piccolo lavoro artigianale che sta curando e che, una volta terminato, donerà non si sa ancora a chi, forse a suo figlio quando verrà ai colloqui, forse alla sua donna o a sua madre, per farsi perdonare, forse allo stesso direttore solo perché una volta ha mostrato di ricordarsi il suo nome… Anche per i poliziotti penitenziari la pioggia è benedetta: lavorano spesso in condizioni pietose, in ambienti privi di aria condizionata e dove la frescura viene ricercata “spalancando” tutte le finestre, che rimangono protette dalle pesanti sbarre, alla continua ricerca, al di là dei posti di servizio assegnati, di postazioni “altre”, dove si possa continuare a sorvegliare i detenuti, però usufruendo di un maggiore circolo d’aria. Quando entrano nel mio ampio ufficio, dove il potente ventilatore senza mai fermarsi mi dona sprazzi di respiro, leggo e comprendo dai loro occhi una linea di invidia e non li biasimo: forse dovrei spegnerlo per mostrare maggiore solidarietà, ma non lo faccio, so che se dovessi sprofondare nel caldo non riuscirei neanche più a leggere la più semplice delle carte, tra quelle montagne di documenti che invadono la mia scrivania e che raccontano di persone e di reati; spero che mi perdonino e comprendano. Intanto aspettiamo di vedere realizzato il “piano straordinario delle carceri” e noi tutti operatori penitenziari voliamo con la fantasia: immagino architetti di grido, Renzo Piano tra tutti, Richard Rogers, Dante Bini, Aldo Loris Rossi, Alessandro De Rossi, etc. che discettano sulle soluzioni innovative che propongono, vedo costruzioni bellissime e dai colori chiari, piene di aree verdi orizzontali e, come li chiamano adesso, di giardini verticali, e con fontane sgorganti, con postazioni dignitose per i “baschi blu” della polizia penitenziaria, con uffici gradevoli, chiari e luminosi, per il personale che al loro interno lavora finalmente sorridendo, dove i magistrati ben volentieri vengano in carcere per compiere gli atti giudiziari dai quali dipende la vita, la speranza e finanche la rivendicazione di altri. Carceri nuove per uomini nuovi, sia che si tratti di detenuti o detenenti, carceri che non spaventino ma che spieghino il bisogno di legalità, che proteggano le persone, che le cambino, migliorandole. Carceri dove i detenuti barattano soltanto la loro libertà per i torti che hanno causato e non anche la dignità, che non è soltanto loro ma di tutta l’umanità; carceri dove i familiari incolpevoli delle persone detenute siano accolti con l’attenzione che merita ogni cittadino-utente che ha un rapporto con la pubblica amministrazione, dove il garbo, la pulizia, l’ordine e il valore del rispetto verso ogni persona compaiano in ogni anfratto dell’unico vero posto dove “comanda” ed impera soltanto, ed esclusivamente, lo Stato. Nel frattempo, mentre evado dal carcere, galoppando questi pensieri, mi godo la frescura della pioggia. *Penitenziarista, presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste Detenuti e volontari insieme contro il degrado ambientale redattoresociale.it, 9 maggio 2023 A Bologna, Priverno e Palmi 46 detenuti provenienti da 5 carceri hanno ripulito alcune aree da plastica e rifiuti. Un’iniziativa dell’associazione Seconda Chance e Plastic Free. Piazza Lucio Dalla a Bologna, il lungofiume Amaseno a Priverno (Latina) e la spiaggia della Tonnara di Palmi (Reggio Calabria) sono stati lo scenario del nuovo sodalizio contro il degrado ambientale tra “Seconda Chance”, associazione del terzo settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento, e “Plastic Free”, onlus impegnata dal 2019 nel contrastare l’inquinamento da plastica. Lo rendono noto le due organizzazioni in una nota. Protagonisti di questa iniziativa 46 detenuti provenienti da 5 carceri (Bologna, Frosinone, Laureana di Borrello, Locri e Palmi), guidati nelle operazioni di bonifica delle aree degradate dai numerosi volontari emiliani, laziali e calabresi dell’associazione ambientalista. Tanta la plastica e i rifiuti raccolti ma ancor di più i sorrisi e l’entusiasmo sul volto dei carcerati. “Inclusione, rieducazione, rispetto dell’ambiente e della legalità: queste le parole chiave di questa nuova partnership che farà bene all’Italia - dichiara Flavia Filippi, fondatrice e presidente di “Seconda Chance”. Per tanti detenuti si è trattato della prima uscita dopo diversi anni, del primo contatto con il mare, con il fiume, con la città e con gruppi di ragazzi armati di guanti, ramazze e desiderio di condivisione. Una collaborazione che suscita tanto entusiasmo anche nei direttori degli istituti - prosegue - i quali si sono dichiarati pronti a replicare le giornate ecologiche in altre parti del Paese”. “La nostra associazione nasce con lo scopo principale di sensibilizzare sulla pericolosità della plastica rilasciata nell’ambiente. Per noi sensibilizzare vuol dire includere, tutti senza discriminazioni - dichiara Lorenzo Zitignani, direttore generale “Plastic Free Onlus” - Il progetto con “Seconda Chance” nasce in quest’ottica: rieducare includendo e sensibilizzando. La giornata ecologica di detenuti e volontari è la chiara dimostrazione che ognuno di noi può dare il proprio contributo, indipendentemente dalla sua posizione, per un solo scopo: il bene dell’ambiente. Purtroppo non abbiamo un Pianeta B ma tante persone possono avere una nuova occasione di vita. Ringrazio Flavia Filippi per aver creduto insieme a noi in questo progetto e con cui ci metteremo subito a lavoro per nuovi appuntamenti - conclude - ma soprattutto i tanti volontari Plastic Free che dedicano tempo e sforzi per un ambiente migliore”. Festa della mamma, un invito a recarsi negli istituti penitenziari garantedetenutilazio.it, 9 maggio 2023 La Società della ragione lancia una campagna a favore delle donne condannate e dei loro figli. Fine settimana ricco di iniziative. La Società della ragione, associazione di promozione sociale (Aps) che si occupa di questioni attinenti alla giustizia, al diritto penale, al carcere ha lanciato in questi giorni la campagna di sensibilizzazione, “Madri fuori”, per la dignità e i diritti delle donne condannate, dei loro figli e delle loro figlie, che dovrebbe culminare in una mobilitazione il giorno della Festa della mamma, vale a dire domenica 14 maggio. “È un rilancio provocatorio della Festa della mamma - si legge nel comunicato che accompagna il lancio dell’iniziativa - contro ogni retorica: la dedichiamo alle ‘madri fuori’: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine. Chiederemo perciò a parlamentari e consigliere/consiglieri regionali, così come ai garanti e alle garanti delle persone private della libertà, di recarsi in carcere nel giorno simbolico del 14 maggio per incontrare le donne detenute, offrire solidarietà, prendere impegni per sostenere il loro diritto a coltivare gli affetti, a mantenere i rapporti coi figli. Per la preparazione dell’iniziativa, pensiamo di chiedere un aiuto particolare a volontari e volontarie del carcere, perché aderiscano alla campagna ‘Madri fuori’, portando questo tema all’interno delle attività che già svolgono dentro gli istituti: discutendone con le donne detenute, raccogliendo la loro voce, portandola all’esterno, essendo presenti con le donne nella giornata simbolica. Chiediamo anche ai garanti e alle garanti di aiutare a coordinare la campagna, coinvolgendo operatori e operatrici del carcere. Vogliamo anche investire altri organismi, in particolare le commissioni per le pari opportunità a livello regionale e comunale, perché aderiscano alla campagna e contribuiscano alla sua diffusione”. Le promotrici dell’iniziativa chiedono di firmare e di diffondere un appello, evidentemente rivolto al Parlamento, dove si discutono nuove norme, per il superamento della presenza di bambini che crescono in carcere insieme alle madri, perlopiù condannate per reati minori. Per ulteriori informazioni e adesioni: societadellaragione.it. Diritto e politica: i rischi dei giudici sul confine tra interpretazione della legge e supplenza giudiziaria di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 9 maggio 2023 Si avverte un’esigenza di misura e di equilibrio per non cancellare ogni linea di confine tra diritto e politica. Un impegno ineludibile per garantire il corretto funzionamento del sistema democratico. È capitato più volte a me di auspicare, anche intervenendo su questo giornale, l’apertura di un dibattito e di un confronto pubblico sul ruolo della giurisdizione nella realtà contemporanea. Purtroppo, questo auspicio è rimasto nella stampa quotidiana per lo più privo di risonanza. Ma con qualche significativa eccezione, costituita ad esempio da un recente articolo di Claudio Cerasa, cui è seguita una lettera di commento di Edmondo Bruti Liberati. L’intervento di Cerasa è apparso sollecitato da una preoccupazione allarmistica, evidente già nel titolo: “Nuove resistenze. L’ideologo di Magistratura democratica indica ai colleghi un fronte per costruire un 25 aprile nelle aule giudiziarie. Brividi. Resistenza nelle aule giudiziarie. Aiuto!”. Perché tanto allarme? A suscitarlo è stato un breve saggio di Nello Rossi - alto magistrato in pensione e ora direttore della rivista Questione giustizia, organo ufficiale del gruppo associativo di Magistratura democratica - contenente, in una prima parte, una sorta di consuntivo critico del cosiddetto uso alternativo del diritto teorizzato nei primi anni 70 del Novecento e, in una seconda parte, indicazioni prescrittive sul ruolo attuale e futuro della magistratura (il saggio è stato pubblicato nella rivista suddetta l’11 aprile 2023). Ad attrarre l’attenzione di Cerasa è stata soprattutto la parte propositiva del saggio in questione, incentrata sull’idea che la magistratura, in particolare quella di orientamento democratico, dovrebbe continuare a svolgere un ruolo indispensabile nel garantire i diritti e la dignità delle persone e delle molte minoranze che popolano le moderne società. In moltissimi campi della vita sociale ed economica - scrive Rossi - “è il giudiziario a intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica” (esemplificativamente, si fa riferimento all’affermazione dei diritti di fine-vita, alle soluzioni prospettate sul versante dell’eguaglianza di genere, alla protezione dei diritti fondamentali dei migranti ecc.). A differenza però degli anni 70, il giudice democratico odierno - argomenta Rossi - non agisce più in sintonia con processi sociali di emancipazione e crescita democratica di cui si sentiva “parte”: trovandosi invece a operare in una società ormai frammentata, atomizzata, caratterizzata da una proliferazione di interessi particolari contrapposti e priva di valori comuni di riferimento, e in cui la Costituzione non indica più “una direttrice di marcia univoca”, lo stesso giudice, oltre a vivere in una condizione di maggiore solitudine, finisce col risentire - inevitabilmente - di quell’accentuato pluralismo culturale che connota più in generale l’intera vita politico-sociale. Ma di tale pluralismo il magistrato odierno è chiamato a farsi interprete - ammonisce Rossi - non nella veste di “magistrato burocrate”, bensì assumendo un ruolo attivo di promotore di diritti con scelte pur sempre ancorate “a valori indicati nella carta costituzionale e nelle carte dei diritti che si sono venute affermando”. È davvero da temere questo tipo di attivismo giudiziario raccomandato da Rossi? Lo esclude, con convinzione e non a caso, Bruti Liberati (anch’egli alto magistrato in pensione e di risalente militanza in Md) nella lettera al Foglio sopra richiamata. In adesione a Rossi, egli ritiene che, specie nei periodi di crisi economica e sociale, la funzione di garanzia del potere giudiziario risulti esaltata. A mio parere, le cose sono forse ancora più problematiche e complicate di quanto non traspaia dallo scritto di Rossi, dalla reazione allarmata di Cerasa e dal successivo intervento di Bruti Liberati a sostegno di Rossi. Il primo rilievo che si impone, è questo: il punto di vista di Rossi (e di Bruti Liberati), oltre ad apparire coerente con la risalente ideologia di Magistratura democratica, rispecchia una concezione di ruolo fondamentalmente comune in realtà ai giudici progressisti anche di altre democrazie occidentali contemporanee. Si assiste cioè, ormai da non pochi anni, a una diffusa tendenza del potere giudiziario ad assolvere - soprattutto nell’ambito della giurisdizione costituzionale e civile - una funzione di motore propulsivo di nuovi diritti, fungendo così da canale alternativo e supplementare rispetto ai circuiti politico-partitici, divenuti sempre meno capaci di soddisfare le aspettative di tutela e di giustizia dei cittadini, e specie di quelli appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati. Da qui, l’assunzione da parte dei giudici di una funzione lato sensu politica, definibile - dal punto di vista della dialettica tra i poteri istituzionali - contromaggioritaria: in quanto, appunto, volta a correggere o integrare gli esiti di decisioni di politica legislativa basate su chiuse logiche maggioritarie di governo. Sulla diffusa tendenza di cui sopra esiste già, a livello internazionale, una letteratura pressoché sterminata. Volendo circoscrivere il discorso al nostro paese, mi limito a segnalare qualche nodo problematico da non trascurare. A mio avviso, occorrerebbero in primo luogo un aggiornamento e un approfondimento della riflessione - non solo all’interno dell’ordine giudiziario - sul significato e le valenze della “politicità” intrinseca all’esercizio della giurisdizione: politicità che Magistratura democratica ha sin dalle sue origini teorizzato e rimarcato, e che i magistrati seguaci hanno assunto a presupposto giustificativo di prassi interpretative via via adottate nel concreto esercizio dell’attività giudiziaria. Siamo sicuri che sia ormai tutto chiaro e pacifico nel concepire portata e limiti della dimensione politica della giurisdizione, specie facendo riferimento alla realtà attuale? A ben vedere, l’interrogativo trae una ulteriore e non secondaria giustificazione proprio dal giusto rilievo di Nello Rossi, secondo cui le scelte politiche implicite nel fare giustizia sono oggi condizionate, più che in passato, dalla soggettività del singolo giudice-interprete quale effetto dell’accentuato pluralismo predominante nella società odierna: pluralismo che influenza lo stesso modo d’intendere i princìpi e valori costituzionali, per cui dalla Costituzione l’interprete di turno desume non una sola e univoca politica dei diritti in quanto costituzionalmente obbligata, ma quella politica dei diritti che egli ritiene preferibile in base alle proprie inclinazioni ideologiche, alle proprie preferenze politico-culturali e persino alla peculiare sensibilità personale. Insomma, le leggi vengono interpretate e i diritti vengono affermati - direi forse estremizzando - con un certo libertinaggio ermeneutico; il che aggrava il rischio di perpetuare quelle invasioni di campo o quegli sconfinamenti dell’intervento giudiziario che Claudio Cerasa - nella breve replica alla lettera di Bruti Liberati - seguita appunto a criticare. Le obiezioni, e le connesse preoccupazioni di stravolgimento dei rapporti tra giurisdizione e politica, sembrerebbero a prima vista sottintendere un modo di concepire il diritto ancora abbastanza diffuso in particolare tra i cittadini comuni: una concezione cioè che propende a identificare il diritto soprattutto con l’insieme delle leggi di fonte politico-parlamentare, e a considerare compito giuridicamente legittimo dei magistrati quello di applicare le leggi secondo i loro contenuti espliciti, senza aggiungervi nulla che non sia espressamente previsto. E senza, di conseguenza, riconoscere per via giudiziaria diritti che non siano preventivamente previsti da norme emanate in sede politica. È questa una visione che sembra vicina alla vecchia ideologia giuridica di ascendenza illuministica, che pretendeva di ridurre il giudice a mera “bocca della legge”, negandogli spazi di discrezionalità interpretativa e - a maggior ragione - ogni potere integrativo o, peggio, creativo. Ma si tratta di una visione da tempo abbandonata dalle più evolute teorie del diritto, e anche non più compatibile col vigente modello costituzionale di democrazia: nel cui orizzonte i giudici sono tenuti a interpretare le stesse leggi ordinarie alla stregua dei princìpi e valori costituzionali (di matrice sia nazionale che europea), con conseguente notevole dilatazione della discrezionalità giudiziale e del soggettivismo interpretativo specie allorché si tratti di principi o valori ad amplissimo spettro dalla fisionomia indeterminata e vaga, e perciò suscettibili di letture plurime, o allorché si rendano necessarie operazioni di opinabile bilanciamento tra valori concorrenti. In questo quadro complessivo di riferimento, non sempre è facile distinguere con nettezza la fisiologica interpretazione costituzionalmente orientata dall’interventismo e dalla supplenza giudiziaria indebiti o sconfinanti nell’arbitrio. Ma questa oggettiva difficoltà di distinzione non può indurre ad avallare la più sfrenata libertà interpretativa, ancorché politicamente sorretta da buone intenzioni. Si avverte in ogni caso un’esigenza di misura, di self-restraint per non cancellare - appunto - ogni linea di confine tra diritto e politica latamente intesa. Una necessità di contenimento che non può, a sua volta, essere imposta ai magistrati dall’esterno o per comando autoritativo. Se è vero che la questione del ruolo del giudice ha una complessa natura sistemica che trascende gli specialismi settoriali, l’esigenza di assumerla a oggetto di rinnovati dibattiti il più possibile allargati dovrebbe essere avvertita come un impegno oggi ineludibile, in vista di un più soddisfacente funzionamento non solo del sottosistema-giustizia ma dell’intero sistema democratico. Da mio padre a Manlio Milani, perché è indispensabile la giustizia riparativa di Agnese Moro La Stampa, 9 maggio 2023 Oggi la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Ascoltare è stato utile a capire il dramma di una generazione. La bella intervista di Donatella Stasio a Manlio Milani - presidente dell’Associazione dei familiari dei caduti di Piazza della Loggia, e instancabile animatore della Casa della Memoria di Brescia - pubblicata ieri su queste stesse pagine, ha introdotto di fatto tra i temi della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi che si celebra oggi al Quirinale quello della giustizia riparativa. Ovvero di una giustizia che non si fermi, come quella dei tribunali, all’accertamento delle responsabilità penali, individui e fermi i colpevoli, commini delle sanzioni, cose tutte fondamentali, ma che accompagni anche quel complesso cammino di ritorno alla pienezza della partecipazione alla vita, personale e collettiva, di tutti coloro che, nei modi più diversi, sono stati toccati e cambiati per sempre da comportamenti di offesa alla dignità e alla integrità delle persone. Si tratta delle vittime dirette, dei loro familiari, amici, colleghi, comunità (dalle più piccole all’intera nazione). Ma si tratta anche di coloro che quelle azioni le hanno compiute, e magari poi comprese profondamente, criticate, rifiutate, ma che ne portano comunque il peso personale e lo stigma che troppo spesso neanche l’aver scontato la pena elimina. Così come gli anni trascorsi dai fatti non fanno passare le sofferenze e i sentimenti terribili che provano coloro che - come me - hanno perso in quegli anni una persona cara. Sono, per gli uni e per gli altri, inferni che si ripropongono quotidianamente, legandoci a un passato che, come Sisifo, trasportiamo ogni giorno senza potercene mai liberare né trasformare in un ricordo disarmato né realmente in memoria. La giustizia riparativa l’ho vissuta e la vivo da molto tempo, in una esperienza intensa di dialogo che vede impegnate persone - e tra loro Manlio Milani - che come me hanno perso in quella stagione di sangue qualcuno che amavano, alcuni di coloro che 45 anni fa hanno concorso all’uccisione di mio padre Aldo, e altri che, a sinistra e a destra, scelsero la lotta armata. La giustizia riparativa è una cosa molto piccola, all’apparenza, ma molto grande perché funziona. È fatta di un luogo dove si va volontariamente, liberamente, perché ci si vuole andare e da cui si esce, se lo si vuole, in qualunque momento. È un luogo dove ci sono semplici regole tra cui rispetto reciproco e riservatezza. È un luogo in cui, con l’aiuto di mediatori preparati e “equiprossimi”, si incontrano persone che hanno fatto del male con persone che quel male lo hanno ricevuto. Magari accompagnati da una piccola o da una grande comunità. È un luogo in cui ci si guarda in faccia; in cui si può dire, spiegare, rimproverare, e in cui si può ascoltare ciò che gli altri hanno da dire. In questo dialogo serrato, che certamente non cambia ciò che è stato, si cambia noi. Gli uni e gli altri. Per me ha significato riuscire a dare parole al mio dolore e poter dire quelle parole proprio a coloro che dovevano ascoltarle; e a mia volta ascoltare loro parlare delle loro scelte di allora, dei percorsi dopo, e vedere le vite che ricrescono buone. Ha significato poter rimproverare loro per cose di cui la giustizia penale non si interessa, ma che possono distruggere come le pallottole. E poter spiegare, senza acrimonia, chi era la persona che mi era stata tolta. È stato incontrare il loro dolore, che è terribile, e quello delle loro famiglie incolpevoli. È stato poter vedere che l’umanità non va perduta, e può sempre essere risvegliata. E scoprire che il male non è onnipotente e nemmeno una forza estranea all’uomo, ma un semplice fatto umano, che è dentro ognuno di noi. Per loro l’incontro ha significato scoprirsi non solo colpevoli di… (un reato), ma anche responsabili verso di noi, noi figli, a cui è stato tolto tanto, e verso di loro, i nostri cari, individui concreti, reali non funzioni, divise, simboli. Fonte e ricettori di affetti. Amati. Per tutti noi, credo, sia stato importante riconoscerci reciprocamente. Come persone. Reali a nostra volta, degne di rispetto e non come personaggi positivi o negativi di una astratta storia di cui chiunque si sente libero di inventare momenti di vita, sentimenti, motivazioni. Certo di saperne più di noi della nostra vita, di quello che siamo e che siamo stati. Parlandone in un libro, in un film o chiacchierando in treno o al bar con gli amici. Ascoltarli e ascoltarci è stato difficile e importante; in quei racconti c’è il dramma di una generazione - la prima nata libera dopo il fascismo -, l’irresponsabilità dei predicatori, la forza della propaganda, la cecità dei partiti popolari, il rifiuto dell’ascolto, il desiderio - identico - di giustizia sociale, la differenza delle scelte, le solitudini diverse, ma simili del dopo. E da loro tante indicazioni preziose di politica carceraria. E la scoperta per tutti della trasmissione ad altre generazioni dei frutti avvelenati dei nostri silenzi incapaci di raccontare. Oggi la giustizia riparativa è parte integrante del nostro ordinamento con la riforma che porta il nome di Marta Cartabia che fortemente l’ha voluta. Ma mi sa che viene da lontano. Penso alla scelta fatta dalla nostra Costituzione di definire la giustizia come un percorso di ritorno - vedi la finalità rieducativa delle pene dell’articolo 27 - che trova nella giustizia riparativa una forma di attuazione per tutti, vittime, responsabili, comunità. Una strada a portata di mano. Per tornare a una vita piena e nostra. Se solo lo vogliamo. “Tutte le energie per dare giustizia a mio fratello” di Emanuele Fragasso Il Giornale, 9 maggio 2023 Intervista a Giovanni Impastato, il fratello di Peppino, giornalista ucciso dalla mafia a Cinisi, in provincia di Palermo, il 9 maggio del 1978. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della triste morte di Peppino Impastato, giovane militante della Democrazia proletaria, giornalista, fondatore di Radio aut, ucciso dalla mafia a Cinisi, in provincia di Palermo, il 9 maggio del 1978 quando aveva 30 anni. Impastato era diventato ormai noto nel suo paese per i suoi ricorrenti attacchi alla mafia e le sue denunce a Cosa nostra, nonostante provenisse da una famiglia d’onore. La sua sete di giustizia lo portò a chiudere completamente ogni rapporto con padre Luigi, anche lui noto esponente mafioso di Cinisi. La sua, come quella di molti giornalisti dell’epoca, era una voce scomoda che denunciava pubblicamente i malaffari di Gaetano Badalamenti, che aveva soprannominato ironicamente “Tano Seduto”. Alcuni brandelli del suo corpo furono trovati sopra a dei binari della ferrovia, c’era del tritolo. Cosa nostra aveva intenzione di far passare la sua morte per un attentato terroristico di stampo comunista fallito. In un primo momento ci riuscì, soltanto grazie all’impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta, la verità venne a galla. “La storia di Peppino Impastato è più attuale che mai - ha detto al Giornale Ismaele La Vardera, vicepresidente della commissione Antimafia dell’Ars - la sua lotta ancora oggi fa rumore. Il fatto che ancora oggi la storia di Peppino metta in crisi certe persone da dimostrazione che il suo ricordo deve continuare nelle nostre menti”. Che ricordo ha di suo fratello Peppino? “A 45 anni dal suo assassinio i ricordi sono ancora tanti, anzi direi tantissimi. Mi vengono in mente tanti momenti: quando organizzava le mostre fotografiche, quando si cimentava nelle battaglie politiche, mi ricordo anche i litigi in famiglia, che capitavano spesso. Peppino era impegnato nella lotta alla mafia e nostro padre lo sbatteva frequentemente fuori di casa. Ho anche però ricordi umani, ironici. Come dimenticare quando Peppino durante un carnevale si vestì da clown per intrattenere i bambini del nostro piccolo paese”. Cosa accadde il giorno dopo l’omicidio di suo fratello? “Subito dopo la morte di Peppino ci sentimmo (io e mia madre n.d.r) come se ci fosse cascata una montagna addosso, non ce l’aspettavamo, nonostante conoscessimo i rischi che mio fratello correva. In quel periodo c’era la campagna elettorale e lui era candidato al consiglio elettorale. Mia madre chiaramente è rimasta traumatizzata dall’accaduto, nonostante nei primi momenti trattenesse le lacrime. Dopo non molto ci siamo resi conto che non avevamo tempo per piangere, bisognava lavorare per dimostrare che Peppino non era un terrorista. Il nostro stato d’animo in quei giorni era pieno d’angoscia”. Avevate che i mafiosi uccidessero anche lei e sua madre? “Questa paura c’era, non siamo mai stati presuntuosi, anche dopo la morte di Peppino avevamo paura che la mafia ci uccidesse. C’è voluto tanto tempo prima che noi riuscissimo a uscire di casa senza paura che ci sparassero, ma abbiamo comunque continuato a lottare per mio fratello”. Suo fratello è stato dimenticato? “Mio fratello non è stato affatto dimenticato. Oggi se ne parla ancora tantissimo, se ne parla molto più di prima, piano piano, con i processi e le condanne siamo riusciti a far emergere la verità”. Lo Stato ha fatto sentire vicinanza alla sua famiglia dopo l’omicidio? “Dopo un bel po’ di tempo. Inizialmente lo Stato revama contro di noi, hanno tentato in tutti i modi di affossare la verità. Dopo la svolta nei processi è cambiato tutto. Per esempio, il procuratore Gaetano Martorana ai tempi aveva fatto passare l’omicidio di mio fratello per un attentato terroristico”. Crede che per la morte di suo fratello ci sia stata giustizia? “È chiaro. Abbiamo vinto i processi, Gaetano Badalamenti ha ricevuto l’ergastolo e i suoi sottoposti hanno dovuto scontare tren’tanni di carcere, mentre gli esecutori materiali non sono mai stati trovati. Abbiamo ottenuto risultati importantissimi anche se dopo tantissimi anni”. Che effetto le fa vedere così tanti giovani ancora oggi scendere in piazza per ricordare suo fratello? “È una cosa stupenda. Ancora oggi dopo 45 anni si parla di Peppino e ci sono tantissimi giovani coinvolti. Tanti ragzzi oggi si riconoscono nella sua figura”. Volente o nolente si è dovuto fare carico dell’eredità morale di suo fratello ed ha combattuto molte sue battaglie, a distanza di anni, lo rifarebbe? “Si lo rifarei senza pensarci. Sicuramente se lui non fosse stato ammazzato io non mi sarei mai impegnato in questa battaglia come sto facendo adesso. Da quando ero solo un ragazzo, avevo 25 anni, ho deciso di dedicare tutte le mie energie per dare giustizia a mio fratello, adesso neho 70, dopo 45 anni di lotte continue”. Quanto è importante raccontare la storia di suo fratello nelle scuole? “È importante perchè si mantiene sempre viva la memoria ed è importantissimo raccontare la sua storia. Un paese senza memoria non ha futuro”. “Un Gip collegiale per avere magistrati più indipendenti” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 maggio 2023 “Trasferire a un collegio la valutazione delle richieste cautelari oggi attribuita al gip? Sarebbe la riforma più importante”. A dirlo è Mario Scialla, coordinatore Ocf. Avvocato Mario Scialla, coordinatore nazionale Organismo Congressuale Forense, Nicola Quatrano ci ha detto che attraverso un consequenziale copia e incolla l’informativa di pg diventa ordinanza di custodia cautelare... Mi ha stupito molto in questi lunghi anni di professione riscontrare che alcuni errori di battitura della richiesta di applicazione di misura cautelare della procura si siano ripetuti anche nell’ordinanza custodiale, nella medesima collocazione, il che autorizza qualche pensiero non proprio positivo. In altri casi anche a me è apparso evidente che rispetto alle richieste degli investigatori, ci sia stata una ricezione pressoché integrale prima della procura e poi del gip. Tutto questo come si spiega? Più che sostenere ipotesi malevole, direi che a fronte di una mole assai consistente di documenti, il gip non riesce a fornire un adeguato ed efficace controllo. Se analoga operazione di filtro non viene compiuta neppure dalla procura ecco che l’ipotesi investigativa prende sostanza senza essere verificata e ciò comporta un elevato rischio di errore. Che sia proprio così noi lo cogliamo quando questa operazione viene compiuta correttamente dal gip - nel senso che le richieste della procura vengono rigettate - e poi il dibattimento si conclude con l’assoluzione con formula piena. Nel prossimo pacchetto di riforme il Tribunale del Riesame potrebbe assumere le funzioni svolte dal gip, i ricorsi poi esaminati in Corte d’appello. La convince questa proposta? Non solo mi convince ma è quella che trovo più importante. Quando l’Ocf è stato ricevuto dal ministro Nordio ho detto subito che intervenire sulle misure cautelari rappresentava la priorità assoluta e che l’effetto positivo si sarebbe riverberato su tutto il sistema giustizia. Il Guardasigilli ci ha risposto con orgoglio che questa era una sua antica proposta. Sono fermamente convinto che l’anomalia italiana, rispetto agli altri Paesi europei - di quasi un terzo dei detenuti in attesa di giudizio - vada immediatamente risolta. Il modo migliore è proprio quello di affidare la decisione ad un collegio di giudici. Di fronte al bene più prezioso che è la libertà personale, uno Stato civile deve fornire tutte le garanzie necessarie. Si avrebbe altresì un calo dei detenuti in attesa di primo giudizio... Ne sono certo. Dovendo decidere in composizione collegiale, il giudice sarà più coraggioso e meno dipendente, non solo da quanto sostenuto dal pm ma anche dalla imponente produzione di atti che accompagna la richiesta di misura. Si recupereranno quella forza e autonomia che talvolta sono mancate. Inoltre certe volte accade che il gip sia molto giovane e subisca il peso della decisione, soprattutto se gli viene richiesta da un sostituto procuratore più esperto a cui vengono assegnate le indagini più importanti. Sono chiaramente fenomeni involontari ma che comunque incidono non poco, così come quando il processo è accompagnato da una forte campagna mediatica. In tutti questi casi avere un giudice collegiale, più forte e tetragono alle sollecitazioni esterne è di fondamentale importanza e consentirà di ridurre il numero dei detenuti in attesa di giudizio. Questa potrebbe essere la prima tappa per la separazione delle carriere? È talmente forte ed urgente la riforma del cautelare che mi piace pensare che si possa ottenere un consenso più ampio ed immediato, tra gli operatori del diritto e all’interno del Parlamento, ragionando esclusivamente sul tema della libertà personale. Poi è chiaro che se la riforma produrrà i suoi benefici effetti, ad essere rafforzata sarà la terzietà del giudice, esattamente quello che si propone di fare la separazione delle carriere. Sarebbe una buona idea prevedere un interrogatorio in contraddittorio prima dell’arresto? Tutto quello che può servire ad anticipare i tempi della difesa e fornire la propria versione dei fatti, prima che venga presa una decisione così importante, è certamente utile. A quel punto la scelta su come e quando difendersi passa alla difesa che può pure optare per un differimento, aspettando di leggere gli atti. Sviluppare subito tale facoltà difensiva è importante: il giudice deve capire che persona ha di fronte, se sia effettivamente pericoloso per la società, se può inquinare le prove o reiterare la condotta. Non dimentichiamo che il processo penale è un fatto umano e che sono complesse anche le decisioni legate esclusivamente al periculum libertate. Secondo alcuni pm siete voi avvocati, soprattutto di parte civile, a far circolare l’ordinanza custodiale. Come replica? E crede che andrebbe vietata la pubblicazione come sostiene Costa? Un po’ mi viene da sorridere pensando che l’ultimo caso che sto affrontando e che ha avuto risalto mediatico, ossia l’omicidio della giovane avvocatessa Martina Scialdone, mi ha visto apprendere le decisioni e le motivazioni del gip direttamente dai giornali. Il problema è complesso, vanno soppesate due diverse ed altrettanto valide esigenze: il diritto dell’indagato a non finire in pasto all’opinione pubblica e il diritto di cronaca. In realtà gli strumenti esisterebbero già, senza ricorrere al divieto della pubblicazione dell’ordinanza che certamente risolverebbe il problema a monte ma che forse è troppo punitiva nei confronti della stampa. L’idea merita sicuramente una adeguata e ponderata riflessione mentre non ho dubbi nel sostenere che bisogna ugualmente impedire la diffusione delle notizie riguardanti i terzi coinvolti nelle inchieste che non sono indagati. Carlo Nordio non è un nemico, però... di Paolo Pandolfini Il Riformista, 9 maggio 2023 Tutte le iniziative del Guardasigilli che non trovano il gradimento di Magistratura democratica. Le toghe di Magistratura democratica, negli ultimi tempi, sono diventate particolarmente “suscettibili” al punto da diramare la scorsa settimana un comunicato in cui smentiscono di avercela con il ministro della Giustizia. “Fa comodo al mainstream dipingere quadri in cui un manipolo di toghe rosse si oppone a qualsiasi riforma del sistema giudiziario, rifiutando di riconoscere il verdetto delle urne, nella speranza di far sorgere per via giudiziaria il sol dell’avvenire”, si legge nella nota firmata da Andrea Natale, giudice del tribunale di Torino e componente dell’esecutivo di Md. “Da qualche tempo, poi, circola voce che Magistratura democratica abbia individuato nel ministro della Giustizia un suo ‘nemico’. Niente di più lontano dal vero. Magistratura democratica non ha nemici e, tantomeno, avverte come nemico il ministro della Giustizia ora in carica. Ma questo non ci impedisce di segnare i profondi punti di dissenso rispetto a diverse cose che, sinora, il ministro della Giustizia ha detto, fatto o non fatto”, prosegue Natale prima di elencare tutte le iniziative di Nordio che non trovano il gradimento di Md. Solo per ricordarne qualcuna, dalla stretta sulle intercettazioni telefoniche, alla decisione di avviare l’azione disciplinare nei confronti dei giudici della Corte d’appello di Milano che avevano concesso i domiciliari ad Artem Uss, figlio di un oligarca russo, poi evaso, su cui pendeva una richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti. Per Md l’agire di Nordio sarebbe in contraddizione con quello che ha sempre affermato, di fatto una delusione per coloro che riponevano in lui grandi speranze per una riforma della giustizia in senso liberale. La circostanza che l’opposizione a Nordio arrivi dai suoi ex colleghi fa certamente sorridere. Mai in passato, infatti, un gruppo di magistrati si era spinto a criticare aspramente un collega che era passato dall’altra parte della barricata. I ‘contrasti’ fra Md e Nordio, comunque, hanno origini lontane. Nordio, quando era in servizio, non è stato mai legato ad un gruppo della magistratura associata. La prova di ciò è che non ha fatto carriera, arrivando a ricoprire prima della pensione l’incarico di procuratore aggiunto di Venezia, una Procura neppure lontanamente paragonabile a quelle di Milano, Roma o Napoli, e nemmeno di prima fascia. Appena arrivato a via Arenula, Nordio è stato allora visto come un corpo estraneo: lontano da dinamiche correntizie e fautore di riforme, come la separazione delle carriere fra pm e giudici, da sempre viste come il fumo negli occhi da parte delle toghe. Il primo di scontro fra Md e Nordio ci fu subito, qualche giorno dopo l’insediamento, con il decreto ‘anti rave’. Una “truffa delle etichette” fecero sapere da Md, bollando la norma come “pericolosa” in quanto poteva entrare in “drammatica collisione con i nostri diritti e valori fondamentali”. “Se questo è il biglietto da visita del nuovo esecutivo in materia penale, ci aspetta una lunga stagione di resistenza costituzionale”, annunciarono allora le toghe, richiamandosi al “resistere, resistere, resistere” pronunciato dall’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli durante i tempi eroici di Mani pulite. Dopo il decreto ‘anti rave’ si passò alla riforma della protezione speciale. Il governo non metta “ancora ostacoli” con i respingimenti dei migranti “a cui si nega il diritto a richiedere la protezione internazionale”, dissero le toghe. L’ultima polemica in ordine di tempo ha riguardato il silenzio dei vertici del palazzo di giustizia di Milano durante la recente visita di Nordio. Qualche giorno prima vi era stata al Palazzo di giustizia di Milano un’assemblea dove, sempre le toghe rosse, avevano criticato l’azione disciplinare avviata da Nordio. Secondo Md l’occasione sarebbe stata allora La circostanza che l’opposizione a Nordio arrivi dai suoi ex colleghi fa certamente sorridere. I `contrasti’ con Md comunque hanno origini lontane propria per far sentire la propria voce contro il ministro. Che Md abbia una concezione alquanto originale dell’esercizio dell’attività giurisdizionale emerge chiaramente dalle parole del giudice della Corte d’appello di Catanzaro Emilio Sirianni, da poco rimosso dall’incarico dal Consiglio superiore della magistratura. La vicenda di Sirianni era finita anche nel libro Lobby e Logge di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, e Il Mostro di Matteo Renzi. Sirianni, esponente di punta di Md in Calabria, parlando al telefono con Mimmo Lucano, allora sindaco di Riace, poi arrestato e condannato in primo grado a tredici anni di carcere per la vicenda relativa alla gestione dei migrati nel piccolo paese della costa ionica calabrese, oltre a fornire ‘consigli’, criticava i colleghi, affermando che “Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte”. E ancora: “Purtroppo questi giovani magistrati sono dei ragazzi che sono cresciuti con la televisione di Berlusconi, non hanno una conoscenza della realtà sociale, non hanno una empatia politica con quello che gli succede attorno. Specialmente quelli che vengono in Calabria non sanno un cazzo della Calabria. Su cento di loro, uno forse ha la sensibilità sociale e politica. Tutti gli altri sono ragazzi di famiglie benestanti che hanno studiato”. Il teorema della Trattativa e il nemico necessario. Parla il generale Mori di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 maggio 2023 Così “un gruppo di pm in cerca di fama, giornalisti velinari e politici rimestatori ha devastato la società italiana”. L’ex comandante del Ros Mario Mori, assolto in via definitiva, racconta i suoi venticinque anni passati al centro del circo mediatico-giudiziario. Per oltre quarant’anni è stato un ufficiale in servizio dell’Arma dei Carabinieri. Per altri venticinque è stato un imputato in servizio permanente. “E ora cosa farò?”, si chiede sorridendo il generale Mario Mori, subito dopo averci accolto nella sua abitazione a sud di Roma, quasi a stemperare la tensione. Il 27 aprile la Corte di Cassazione lo ha assolto in via definitiva, insieme agli ex ufficiali del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri, da lui fondato nel 1990, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e all’ex senatore Marcello Dell’Utri, nel processo sulla presunta “trattativa stato-mafia”. Il più grande circo mediatico-giudiziario dai tempi di Mani pulite. Si sono visti pubblici ministeri andare in televisione in prima serata, parlando dei contenuti dell’inchiesta e di “ricerca della verità”. Si sono visti presunti testimoni (poi rivelatisi meri calunniatori) parlare di “papelli”, in realtà mai rinvenuti. Si sono visti pm pubblicare libri, con gli stessi giornalisti che li avevano ospitati e intervistati, intervenire in convegni e fornire contributi per le sceneggiature di film. Si sono visti giornalisti trasformarsi in semplici passacarte degli inquirenti e addirittura magistrati scendere in politica, sfruttando la notorietà fornita dalla vicenda giudiziaria. “Io ero il nemico necessario a questo circo mediatico giudiziario e politico”, dice Mori, a lungo comandante del Ros e poi direttore del Sisde, oggi sulla soglia degli 84 anni. “Ognuno ha tirato l’acqua al suo mulino - spiega Mori - Qualche magistrato ci credeva, qualcun altro sapeva che questo era un modo per emergere nella sua categoria. Qualche giornalista riteneva che questa vicenda gli avrebbe permesso di ottenere considerazione presso il suo giornale. Qualcheduno ci ha messo anche qualche convinzione politica e tutto è andato avanti così, molto semplicemente. Poi, man mano, a questo gruppetto iniziale si sono aggiunti altri soggetti, convinti che associandosi al carro avrebbero ottenuto dei vantaggi. Io credo, però, che la battaglia vera contro ‘l’uomo nero Mori’ sia stata fatta da pochissime persone, gli altri servivano per convenienza”. Com’è stato vivere al centro di questo grande circo Barnum? Di fronte a questa domanda Mori non si scompone: “Tutto sommato devo dire che questa vicenda mi ha dato forza, lucidità, perché ero determinato a combattere questa battaglia. Sapevo che la sfida era difficile, perché l’avversario era pesante, ma ero convinto che alla fine avrei vinto”. A chi si riferisce, con precisione, quando parla di avversario? “Ad alcuni magistrati della procura di Palermo, a un gruppo di giornalisti che ha lucrato quattro paghe per il lesso, come diceva il Carducci, e a qualche politico che ci ha rimestato. Un gruppetto che ha devastato la società italiana”. Mori non ha problemi a fare alcuni nomi. Si parte da Roberto Scarpinato, ex pm della procura di Palermo, oggi senatore per il Movimento 5 stelle, noto per la sua indagine (che non portò mai a nulla di concreto) sui “sistemi criminali”, incentrata sui rapporti tra Cosa nostra, massoneria, pezzi deviati dello stato ed eversione nera. “Scarpinato è l”intellettuale’ di questo gruppo di pm - afferma Mori - Sogna sempre vicende transnazionali, dove c’è sempre qualcosa di misterioso: i cosiddetti sistemi criminali, che poi sono sempre abortiti, perché sono un parto della sua fantasia, non hanno una consistenza nel reale. Infatti i procedimenti sono sempre stati archiviati”. Ma fu Antonio Ingroia, con altri colleghi come Nino Di Matteo, ad aprire formalmente nel 2012 l’indagine sulla presunta “trattativa stato-mafia”. “Penso che alcuni magistrati si ubriacarono della loro notorietà”, dichiara Mori. “In particolare - aggiunge - Ingroia pensò che questa notorietà gli avrebbe consentito un’entrata a gonfie vele nell’agone politico che poi invece l’ha portato alla sua rovina. Credo che adesso si guarderebbe bene dall’uscire dalla magistratura”. Dopo aver istruito il processo, Ingroia cedette il testimone al procuratore aggiunto Vittorio Teresi, a Di Matteo e ai giovani Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. “Le faccio una domanda”, dice Mori. Prego. “Lei che ha seguito questi fatti, mi sa raccontare le operazioni portate a termine negli ultimi 25 anni da Ingroia, Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia? Mi sa dire quali vicende hanno concluso con delle condanne? Le do anche quattro-cinque giorni per rispondere”. “Sono riusciti a far condannare in primo grado Mori, Subranni e De Donno. E poi basta”, dichiara l’ex comandante del Ros. “Di Matteo ha creduto a Vincenzo Scarantino”, aggiunge Mori dopo una piccola pausa, riferendosi al falso pentito al centro del più grande depistaggio della storia italiana, quella sulla strage di via D’Amelio. Le dichiarazioni di Scarantino portarono alla condanna all’ergastolo (poi annullata) di sette persone innocenti che non avevano avuto alcun ruolo nella strage del 19 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. “Il magistrato dovrebbe rifuggire dalla cultura del sospetto - afferma Mori - Un conto è la ricostruzione preliminare di un disegno e un conto è la dimostrazione di questo disegno. Il magistrato dovrebbe partire da un dato concreto e arrivare al disegno, non viceversa”. Intanto, però, i magistrati che hanno imbastito il processo sulla “trattativa” hanno tutti fatto carriera. Vittorio Teresi, oggi in pensione, ha fatto a lungo il procuratore aggiunto. Nino Di Matteo è stato componente dell’ultimo Consiglio superiore della magistratura, e ha da poco fatto ritorno alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Anche Francesco Del Bene è finito alla Dna, mentre Roberto Tartaglia è stato nominato vicecapo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) della presidenza del Consiglio dei ministri. Piergiorgio Morosini, il giudice che diede il via alla macchina giudiziaria con il rinvio a giudizio degli imputati per la Trattativa, è stato consigliere del Csm e ad aprile è stato nominato nuovo presidente del tribunale di Palermo. Alfredo Montalto, il presidente della Corte di assise che condannò in primo grado gli ufficiali dei carabinieri, guida la sezione gip-gup del tribunale di Palermo. Per descrivere bene il circo mediatico-giudiziario che ha travolto Mori negli ultimi venticinque anni bisogna riannodare un po’ le fila della storia. L’inchiesta sulla Trattativa ha infatti riguardato anche vicende che erano già state oggetto di attenzione da parte della magistratura, con indagini e processi, alla faccia del principio del “ne bis in idem”, secondo cui nessuno può essere processato due volte per la stessa cosa. La prima tappa dell’offensiva della magistratura contro Mori fu costituita dal processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina, subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993 proprio da parte del Ros. “Il primo atto risale a marzo 1994, quando compare un articolo su Repubblica in cui si comincia a ipotizzare che c’era qualche cosa di strano nella cattura di Riina”, racconta Mori. “C’è subito un’interlocuzione tra la procura di Palermo, alla cui guida era appena arrivato Caselli, e noi del Ros. La procura ci chiede contezza di questo fatto e noi rispondiamo. Caselli prende atto e spende anche parole di stima per me. Il caso mi sembrava chiuso, invece non lo era. Alla fine anni degli anni Novanta comincio a capire che la procura di Palermo stava assumendo un atteggiamento di contrasto contro di noi. I primi riscontri giuridicamente validi arrivano nei primi anni Duemila, quando emerge che la procura aveva indagato su di noi per ben due volte, chiedendo però sempre l’archiviazione. La seconda volta, però, il gip respinse la richiesta dei pm chiedendo l’imputazione coatta per me e Sergio De Caprio”. L’accusa era quella di favoreggiamento alla mafia per la mancata perquisizione del covo di Riina, che in realtà tale non era. “Il covo non esiste, non è mai stato trovato”, afferma Mori, alzando la voce di un tono. “E’ stata trovata l’abitazione dove Riina andava saltuariamente, perché dentro non c’era nulla. Sicuramente lui aveva qualche altro posto di riferimento, che ovviamente dopo la cattura altri hanno pensato bene di eliminare”. A chi ancora le ricorda la mancata sorveglianza del covo, che covo non era, cosa risponde? “Rispondo con le parole della sentenza con cui il tribunale di Palermo mi assolse: accettando la prospettiva di non effettuare immediatamente la perquisizione (fu De Caprio a proporla e io la avallai, assumendomene la responsabilità), la procura corse il rischio di perdere qualche documentazione. Ma lo decise la procura, noi non costringemmo nessuno. Nella stessa sentenza del 2006 si afferma anche che non ci fu nessuna trattativa, e si spiega perché”. Insomma, aggiunge Mori, “tutti potevano interloquire quando fu fatta quella proposta, e avere dei dubbi, tranne una persona, cioè il dottor Caselli, che sapeva come lavorava il Ros, perché era la derivazione del nucleo speciale di polizia giudiziaria creato da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quando individuavamo qualcuno per noi era la gallina dalle uova d’oro, e quindi lo seguivamo”. Appunto, facciamo un passo indietro, al metodo Dalla Chiesa. “Tutti dicono che questo metodo si basa sullo sfruttamento di una fonte interna, ma non è vero”, precisa subito Mori. “Il metodo consiste innanzitutto nel fare uno studio accuratissimo dell’organizzazione che si vuole attaccare, conoscerne metodi, personaggi, vocabolario, orientamenti. Quando si ha uno studio completo, si cerca di individuare chi ne fa parte. Quando si trova un componente si entra in azione con il cosiddetto sistema OCP: osservazione, controllo, pedinamento. Se ritengo che una persona possa essere un brigatista, mi metto a pedinarlo, costantemente, ogni giorno, fino a che ho la certezza che lui c’entra o non c’entra nulla. Una volta accertata l’appartenenza si passa a un altro che magari nel frattempo è uscito fuori, fino a ricostruire tutti i collegamenti tra i vari soggetti identificati”. “Durante gli anni della lotta al terrorismo ci fu piena intesa con la magistratura per portare avanti questo metodo”, ricorda Mori. “Ricordo l’operazione che facemmo a Roma contro la colonna romana delle Brigate Rosse nel maggio del 1980. Avevamo identificato circa venti persone, ma ne arrestammo quindici, perché altrimenti avremmo tagliato il collegamento che avevamo stabilito tra i carabinieri e le Br. Ci servivano per continuare l’operazione. Infatti dopo due anni, nel 1982, ne prendemmo un’altra quindicina con un’altra tornata. Contro organizzazioni criminali così grosse un arresto o due arresti non fanno la differenza. Il problema è arrivare a svolgere un’operazione che dà all’organizzazione una stangata vera e propria”. In seguito, questo metodo venne adattato alla lotta contro Cosa nostra. “Nel 1986 assunsi il comando del gruppo dei Carabinieri di Palermo - ricorda ancora Mori - Trovai una situazione devastante: si trovava il piccolo mafioso, lo si arrestava e finiva tutto. Le chiamavo indagini episodiche, perché finivano subito. Soprattutto c’era un ambiente investigativo vecchio, con tecniche ripetitive, superate, senza prospettive. Presi allora due-tre ufficiali giovani, De Donno, De Caprio, Sinico, e cercai di realizzare quello che era la mia impostazione investigativa”. “Nel dicembre 1990 fu costituito il Ros, con a capo Subranni e poi me. Io mi portai dietro i ‘ragazzini’. C’erano De Donno, De Caprio, il colonnello Obinu, il gruppo che poi in un modo o nell’altro è comparso agli onori della cronaca”. Nel 2006, infatti, Mori venne di nuovo accusato di favoreggiamento a Cosa nostra, stavolta con il colonnello Mauro Obinu. L’accusa avanzata stavolta dalla procura di Palermo fu quella di aver impedito l’arresto di Bernardo Provenzano nel 1995 (il boss sarà arrestato l’11 aprile 2006). Al termine del processo, il pm Nino Di Matteo giunse a chiedere nove anni di reclusione per Mori e sei anni per Obinu. Nel 2013, però, entrambi vennero assolti con formula piena, assoluzione poi confermata in appello e infine in Cassazione. “Anche in quell’occasione - spiega Mori - venne di nuovo presa in esame la presunta mancata perquisizione del covo di Riina. Per circa 400 pagine delle motivazioni si parla della scelta operativa e del fatto che non ci fu nessuna trattativa con la mafia”. L’ipotesi della “trattativa”, tuttavia, rispunta improvvisamente nel 2012 con l’apertura dell’inchiesta da parte dei pm palermitani. “Lo ripeto una volta per tutte”, dice Mori. “La parola ‘trattativa l’ho usata io per la prima volta in corte d’Assise a Firenze nel processo per le stragi del 1993, ma avrei potuto usare altri termini: contatto, confronto, incontro con Ciancimino. Ho usato trattativa e lo userei ancora perché conosco l’italiano meglio di molti di quei magistrati con cui ho avuto che fare. Tra me e Ciancimino c’era una trattativa, solo che le posizioni erano molte diverse. Lui era un soggetto vicino agli ambienti mafiosi e in condizioni di minorata difesa perché aspettava l’esito di processo che lo avrebbero portato in galera. Io ero un ufficiale di polizia giudiziaria che sfruttava la sua situazione particolare per cercare di ottenere qualcosa. Questa è una trattativa, ma io la potevo fare in base a quello che erano le mie funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria. Lo dice l’articolo 203 del codice di procedura penale che l’ufficiale di polizia giudiziaria può a fini investigativi trattare con questa gente. Non gli ho promesso nulla, non gli ho consentito di fare nulla. Sono a posto. Poi è il caso che a volte ci mette lo zampino”. In che senso? “Eravamo nel 1992, quando io mi ero scontrato pesantemente con Pietro Giammanco e con la procura di Palermo perché dicevo che volevano sotterrare l’indagine mafia e appalti voluta fortemente da Giovanni Falcone. Quindi quando io cominciai, attraverso De Donno, a parlare con Ciancimino, sapendo che Giammanco stava per andare via e sarebbe arrivato Caselli, non dissi nulla fino a gennaio 1993. Il 15 gennaio avviene la cattura di Riina, Caselli prende servizio a Palermo e viene informato di questo contatto con Ciancimino. Sette giorni dopo, il 22 di gennaio, con autorizzazione del ministero, vado a parlare in carcere con Ciancimino (che nel frattempo era stato arrestato nel mese di dicembre). Lui chiede di collaborare e il 27 gennaio, quindi cinque giorni dopo, iniziano gli interrogatori di Ciancimino fatti da Caselli e da Ingroia”. Nonostante ciò, vent’anni dopo Mori si ritrova accusato di aver trattato con Ciancimino per veicolare la minaccia mafiosa a “un corpo politico”, come recita l’articolo 338 del codice penale, vale a dire i governi Amato e Ciampi. “I pm hanno confuso la minaccia con la trattativa, ma non esiste il reato di trattativa. Esiste il reato di minaccia. Ma la minaccia, come ha stabilito prima la Corte d’appello e ora la Corte di Cassazione, non c’è stata. Al massimo avrei riferito qualcosa, ma io non ho neanche riferito alcunché al governo. Il ministro Conso arrivò per conto suo alla decisione di non rinnovare il 41-bis, cioè il carcere duro, a circa 300 detenuti. E ci arrivò perché era obbligato: nel luglio del 1993 la Corte costituzionale aveva stabilito che il 41 bis non poteva essere applicato in blocco a decine di persone, ma doveva essere applicato e motivato caso per caso. C’è anche un epistolario tra Conso e Violante, all’epoca presidente della commissione Antimafia, in cui il ministro chiarisce di aver preso quella decisione in base a proprie valutazioni e alla sentenza della Corte costituzionale”. A rigor di logica, i pm avrebbero dovuto inserire anche la Corte costituzionale nel grande disegno della minaccia al governo… “Esatto, era la minaccia numero uno”, annuisce Mori. Non è un caso che questa grande opera di fantasia sia crollata di fronte ai giudici di appello e di Cassazione. In una lettera inviata al Foglio all’indomani della sentenza del 27 aprile, il giudice milanese Guido Salvini ha scritto che “chiunque sapesse un po’ di diritto sapeva che il processo galleggiava sul nulla, sostenuto soprattutto dai mass media, e che prima o poi sarebbe affondato”. “Riprendendo una definizione fantozziana, ma usata anche da Fiandaca, il processo sulla trattativa era una boiata pazzesca”, afferma Mori accennando un sorriso. “Con l’inchiesta i pm puntavano a stabilire una ‘verità’ basata su delle loro concezioni ideologiche, ma che non sono riusciti a dimostrare. Nel frattempo, però, hanno coinvolto in questa vicenda persone che non c’entravano nulla”. Una “verità” basata su una visione antistorica. Lo storico Salvatore Lupo ha sottolineato più volte, anche sulle nostre pagine, che nel 1993 Cosa nostra è stata sconfitta. La mafia di oggi, o per meglio dire le mafie di oggi non sono assolutamente minacciose come lo è stata Cosa nostra fino al 1993. “La fine della mafia è cominciata con la cattura di Riina”, conferma Mori, cambiando però subito espressione facciale: “All’epoca questa affermazione, che oggi è quasi banale, non l’ha fatta nessuno. C’erano solo Mori, Subranni e qualcun altro a lottare contro quella gente lì. Gli altri stavano tutti nelle retrovie. Avrei gradito che nel ‘92 o nel ‘93 queste persone alzassero alla mano, dicendo: ‘Guardate che state commettendo un grave errore’. L’unico è stato Fiandaca, che però l’ha affrontata dal punto di vista tecnico-giuridico. Molte persone invece si sono ben guardate dal farlo. Ai miei processi ho assistito alle deposizioni di tutti i grandi personaggi politici e para-politici, magistrati ed ex magistrati. Facevano slalom, sembravano Alberto Tomba in Val Senales. Adesso invece sono diventati tutti, o quasi, loquaci”. Si è sentito solo in questi anni? “Sì, ma la cosa non mi ha preoccupato”, risponde Mori con la solita fermezza. “Sapevo benissimo di essere solo con i miei ufficiali. Tenga presente che io ho affrontato tre processi. Il primo con De Caprio, il secondo con Obinu, il terzo con De Donno. Ho sempre difesi i miei. Avrei potuto tirarmi fuori quando volevo, ma non ci ho nemmeno lontanamente pensato perché era mio dovere stare al loro fianco”. A volte capita di chiedersi a cosa avrebbero pensato Falcone e Borsellino di fronte a questa inchiesta. Mori accetta la provocazione: “Con Falcone e Borsellino viventi, non ci sarebbe stato nessuno di questi tre processi e probabilmente non ci sarebbero state le fortune di molti di quei magistrati. Falcone e Borsellino hanno lavorato con me e con De Donno all’indagine mafia e appalti, che era il loro sogno, quindi non penso che ci ritenessero dei mafiosi”. Un destino infausto, sicuramente ingrato, sembra attendere in questo paese i super poliziotti che nel corso della storia hanno contribuito alla cattura dei più pericolosi boss mafiosi. Mori, con i suoi colleghi del Ros, è stato processato tre volte. Renato Cortese, ex questore di Palermo ed ex capo della Squadra mobile di Roma, il super poliziotto che nel corso della carriera ha catturato Bernardo Provenzano, è stato processato e poi assolto per la vicenda del rimpatrio di Alma Shalabayeva. Vittorio Pisani, ex capo della Squadra mobile di Napoli, tra i registi della cattura del boss del clan dei casalesi Michele Zagaria, latitante per 15 anni, è stato accusato di rivelazione di notizie riservate, abuso d’ufficio e favoreggiamento, per poi essere assolto con formula piena. Questo stato è poco riconoscente nei confronti dei suoi servitori, dei suoi eroi? “Io direi che questo fa un po’ parte del destino degli investigatori”, risponde Mori. “Quello che forse tutti questi investigatori pagano è la determinazione con cui, sulla base dei compiti che sono loro assegnati, decidono come agire in autonomia. Questo a molti magistrati non va giù”. Lei che l’ha vissuto per venticinque anni sulla sua pelle, crede che sia possibile contrastare il circo mediatico-giudiziario? “L’unico modo è ovviare all’aborto che è stato fatto nel 1989 con la riforma del codice di procedura penale. Il passaggio da un sistema inquisitorio a uno accusatorio deve essere pieno, non può esserci un misto tra i due riti come oggi. Ne è venuto fuori un pasticcio dal quale hanno tratto vantaggio solo alcuni procuratori. Ma penso che sia impossibile realizzare una riforma nella direzione che ho indicato”. Un briciolo di ottimismo, però, il generale Mori lo mostra: “Penso che le motivazioni della sentenza della Cassazione sul nostro processo potrebbero dare una spinta a riconsiderare la gestione del pentitismo e a riportarla nei suoi giusti termini. Per me è uno strumento di lavoro, che serve solo dopo che siano stati riscontrati i fatti. Per alcuni magistrati è stato uno strumento con cui acquisire la verità assoluta e definire in maniera completa vicende che invece meritavano maggiore finezza investigativa”. “Forse ci sarà un ridimensionamento del pentitismo, ma spero anche che ci sia un ripensamento di un certo tipo di fare giornalismo”, prosegue Mori. “Ricordo che all’inizio della mia carriera c’erano fior fiori di giornalisti che facevano realmente giornalismo investigativo. Erano preparati, non si facevano dare la velina dal magistrato o dal funzionario di polizia giudiziaria, e poi sapevano sviluppare delle indagini proprie. Negli ultimi anni è stato molto facile il lavoro di certi giornalisti, inutile fare nomi, li conosciamo tutti. Basta una telefonata a un magistrato, si ottengono i documenti e li si pubblicano sul giornale senza alcuna analisi critica. I giornalisti sono diventati dei velinari”. Generale Mori, è consapevole che, nonostante l’assoluzione definitiva, lei sarà sempre “l’uomo nero” in questo paese, e che venticinque anni di gogna mediatica non potranno essere cancellati dalla pubblicazione nelle pagine interne di un giornale della notizia della sua assoluzione? “Lo so benissimo”, risponde il generale, “ma dalla mia ho il sostegno dei Carabinieri, che non è mai mancato in questi anni. Proprio questa mattina sono andato al bar e c’erano tre-quattro agenti del Nucleo radiomobile che si erano fermati a prendere un caffè. Mi hanno guardato, mi hanno salutato, hanno espresso vicinanza nei miei confronti. Questo avviene ancora oggi, in ogni posto d’Italia in cui vado”. E ora, dunque, una volta assolto dall’ennesima accusa strampalata, cosa farà il generale Mori? “Combatterò per cercare di ripristinare la verità, senza sconti per coloro che continuano a dire scempiaggini. Le contesterò in tutte le sedi, anche con querele. Non ne faremo passare una”. “Cercherò anche di mettere ordine alle mie carte per scrivere quella che è stata la mia vicenda giudiziaria”, prosegue Mori. “Ho segnato tutte le date nella mia agenda, da quando sono entrato in accademia fino alla fine dei vari processi. Vorrei ristabilire la mia verità giudiziaria, fino ad arrivare alla sentenza del 27 aprile scorso. Ho detto ai miei figli: così se mi attaccano dopo che sono morto voi avete tutti i dati per potervi difendere”. La guerra di Nordio all’antimafia che ha scoperto le collusioni con la destra in Emilia di Giovanni Tizian Il Domani, 9 maggio 2023 “Su Aemilia è stata avviata da questo ministero un’attività ispettiva e conoscitiva, che al momento risulta coperta da segreto”. La guerra all’antimafia del ministro Nordio non conosce pause. Aveva esordito in parlamento, parlando di intercettazioni, contro taluni magistrati accusati platealmente di vedere la mafia ovunque, di sopravvalutare il fenomeno. Ora, l’ultimo atto: gli ispettori nella procura antimafia che ha condotto una delle più imponenti operazioni contro le cosche degli ultimi dieci anni, il processo Aemilia contro la ‘ndrangheta, il più grande mai celebrato al nord. Sentenze definitive, ormai, con un totale di 110 condannati. La certificazione che la ‘ndrangheta in Emilia esiste dagli anni Settanta, ha interloquito con la politica, con l’imprenditoria nata e cresciuta sulla via Emilia, ha offerto ogni genere di servizi alle imprese del territorio e si è servita dei migliori professionisti su piazza. Tutti soddisfatti, dunque? Macché. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sostengono che la procura antimafia di Bologna all’epoca guidata dall’esperto Roberto Alfonso (certamente non sospettabile di vicinanza al Pd) abbia coperto il partito democratico. L’alleanza di governo per sorreggere questa tesi sta sfruttando l’atto di accusa di Roberto Pennisi, magistrato in pensione che in servizio dalla procura nazionale antimafia era stato applicato all’inchiesta emiliana. Pennisi a distanza di sette anni si scaglia contro uno dei pm, Marco Mescolini, che ha coordinato l’indagine contro le cosche. Pennisi sostiene di aver avuto un conflitto profondo con Mescolini su alcune posizioni che avrebbero condotto l’indagine sul rapporto tra mafia e pubblica amministrazione, quindi il Pd; Pennisi, per esempio, avrebbe voluto fare di più su Graziano Delrio, ex primo cittadino, che in campagna elettorale nel 2009 andò in viaggio in Calabria, a Cutro, in piena campagna elettorale per la processione del paese, lì dove si trova la casa madre della super cosca che ha conquistato l’Emilia Romagna. Pennisi avrebbe voluto, ma, dice, è stato fermato. Di certo i magistrati che hanno condotto Aemilia di politica ambigua ne hanno trovata e l’hanno anche processata: tutti di centro destra, berlusconiani per l’esattezza. Uno, Giovanni Paolo Bernini (in passato presidente del consiglio di Parma, collaboratore dell’ex ministro del governo Berlusconi, Pietro Lunardi), è stato prescritto, l’altro, Giuseppe Pagliani, un tempo capo dell’opposizione in consiglio comunale a Reggio Emilia, è stato assolto in primo grado, condannato in appello e prosciolto poi definitivamente. Dall’indagine Aemilia è scaturito anche lo scioglimento del municipio (a guida Pd) di Brescello, primo comune emiliano a fare una fine del genere. L’ex procuratore di area conservatrice Alfonso, molto legato peraltro a Pennisi, in una recente intervista ha ribadito che il coordinamento dell’indagine era suo e che nessuno a coperto niente. Per lui le prove sono fondamentali. Su Pagliani e Bernini c’erano indizi e frequentazioni, intercettazioni. Nel caso del primo anche una cena coi vertici della cosca, mentre per Bernini la corte d’Appello che lo ha prosciolto per prescrizione dal reato di corruzione elettorale ha scritto: “Accertata l’esistenza del patto corruttivo elettorale tra Bernini e Villirillo (uno dei capi della ‘ndrangheta, ndr), ritiene la Corte di confermare tanto l’inquadramento giuridico della condotta, quanto la pronuncia di prescrizione effettuate dal giudice di prime cure in sentenza”. La destra imputa però la colpa della mancata indagine sul Pd e la mafia a Mescolini. Per puntellare il sospetto i politici coinvolti in Aemilia ricordano l’esperienza del pm fatta al ministero durante il governo Prodi. Un fatto però è certo, il primo politico emiliano condannato per mafia c’è e si chiama Giuseppe Caruso, arrestato quando era presidente del consiglio comunale di Piacenza iscritto ed eletto con Fratelli d’Italia. Il verdetto di appello è di 12 anni, il reato è associazione mafiosa. Un uomo delle istituzioni locali non complice, ma ritenuto un vero affiliato. Su questo però la destra preferisce non commentare. Mescolini, dopo il primo grado del processo Aemilia, era andato a dirigere la procura di Reggio Emilia. Dopo poco sono state rese note le chat di Luca Palamara, l’ex toga che muoveva i fili delle nomine nel Consiglio superiore della magistratura finché non è stato travolto dall’indagine di Perugia. Chat in cui anche Mescolini chiedeva lumi a Palamara sul giorno in cui il consiglio avrebbe votato per lui. Il Csm ha deciso perciò di trasferire il pm del più grande processo contro la mafia al nord. Il disciplinare in altri casi è stato più tollerante. Per esempio con Rosa Patrizia Sinisi, vicina a Unicost e presidente della Corte d’Appello di Potenza: chattava molto con Palamara, ma è rimasta al suo posto. Da qualche giorno è stata chiamata dal ministro Nordio a ricoprire l’incarico di vice capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Proprio da Nordio, che definiva il sistema Palamara un verminaio. Alle chat su Mescolini (sulla sua posizione deciderà il Consiglio di stato nei prossimi giorni) si sono aggiunte gli esposti inviati al Csm da un gruppo di magistrate di Reggio in cui accusano l’ex procuratore, oggi in servizio a Firenze e in attesa della sentenza del consiglio di stato sul suo trasferimento, di aver rallentato inchieste sul partito democratico. Il processo Aemilia ha scritto la storia della lotta alle cosche a tal punto da essere citato, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2023, nella relazione del primo presidente della corte di Cassazione Pietro Curzio alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “C’è il tentativo di normalizzare dopo la stagione di Aemilia e dei tanti filoni nati successivamente”, dice uno dei detective che ha seguito in prima linea l’indagine. Normalità, dopo la bufera che ha portato la destra in Emilia a confrontarsi con i processi in cui sono emersi contatti tra politica e mafia. In uno di questi, a Modena, è imputato l’ex senatore e ministro berlusconiano, Carlo Giovanardi, accusato di avere fatto pressioni sui carabinieri per salvare un’azienda (il titolare è stato condannato per concorso esterno alla mafia) dall’esclusione dagli appalti pubblici. Processo, tuttavia, bloccato grazie a un voto del Senato che ha ritenuto le sue azioni compiute nell’esercizio delle funzioni di parlamentare. La palla è passata alla Corte costituzionale, che dovrà decidere se cancellare il processo o lasciare che sia il tribunale a giudicare il Giovanardi. Per Nordio e la destra, tuttavia, il problema è l’antimafia. Permesso di soggiorno, possibile il rinnovo anche dopo la condanna per fatti di lieve entità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2023 Per la Corte costituzionale, sentenza n. 88 depositata oggi, spetta al questore valutare la pericolosità sociale dello straniero in concreto. Non può essere automaticamente respinta la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro in caso di condanna dello straniero per alcuni fatti di lieve entità. La decisione sul rinnovo spetta al questore, che dovrà valutare la pericolosità sociale del richiedente prima di negare il permesso. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 88 (relatrice Maria Rosaria San Giorgio), depositata oggi. La Consulta ha infatti dichiarato la illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, e 5, comma 5, del Dlgs numero 286 del 1998 (Testo Unico Stranieri) nella parte in cui ricomprendono, tra le ipotesi di condanna che impediscono automaticamente il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle per il reato di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr numero 309 del 1990 (Testo Unico Stupefacenti) (cd “piccolo spaccio”) e per il reato di cui all’articolo 474, secondo comma, del codice penale (vendita di merci contraffatte), senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente. Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dal Consiglio di Stato nell’ambito di due giudizi originati da ricorsi presentati da stranieri, la cui richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro era stata respinta per effetto delle condanne per i predetti reati. In linea con svariate pronunce - in cui erano state dichiarate illegittime disposizioni legislative che, nella materia dell’immigrazione, introducevano automatismi tali da incidere in modo sproporzionato e irragionevole sui diritti fondamentali degli stranieri - e in sintonia con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la Corte costituzionale ha chiarito, in motivazione, che il legislatore è bensì titolare di un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, tuttavia entro il limite di un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diritti e degli interessi coinvolti. A fronte della minore entità dei fatti di reato considerati (in un caso, illecita detenzione di grammi 19 e cessione di grammi 1,50 di hascisc, nell’altro vendita di prodotti con segni falsi), l’automatismo del diniego è stato ritenuto manifestamente irragionevole, sotto diverse prospettive: sia perché, per le stesse condanne, nell’ambito della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare, volta al medesimo scopo del rilascio del permesso di soggiorno, quest’ultimo non è automaticamente escluso, ma implica una valutazione in concreto della pericolosità dello straniero; sia perché l’automatismo del diniego, riferito a stranieri già presenti regolarmente sul territorio nazionale (e che hanno iniziato un processo di integrazione sociale), è in contrasto con il principio di proporzionalità, come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 8 CEDU. Dunque, ha osservato la Corte, ben può verificarsi che la condanna, nei casi considerati, non sia tale da comportare un giudizio di pericolosità attuale riferito alla persona del reo, e ciò per varie ragioni: la lieve entità e le circostanze del fatto, il tempo ormai trascorso dalla sua commissione, il livello di integrazione sociale nel frattempo raggiunto. Risulta, pertanto, necessario che, nell’ esaminare la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, l’autorità amministrativa apprezzi tali elementi, al fine di evitare che la sua valutazione si traduca in un giudizio astratto e, per ciò solo, lesivo dei diritti garantiti dall’articolo 8 CEDU. La Corte ha inoltre sottolineato che “l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio dalla sola circostanza che l’autorità amministrativa competente operi, in presenza di una condanna per i reati di cui si tratta, un apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato, a sua volta soggetto ad eventuale sindacato di legittimità del giudice”. Ancona. Detenuto di 48 anni si uccide in cella, aspettava una perizia psichiatrica di Marina Verdenelli anconatoday.it, 9 maggio 2023 Era in attesa di essere sottoposto ad una perizia psichiatrica ma si è ucciso prima. Finisce con il reato estinto per la morte del reo un processo a carico di un camorrista di 48 anni accusato di minacce. L’uomo, campano, era detenuto nel carcere di Montacuto quando alla vigilia di Natale del 2019 aveva impugnato una lametta da barba minacciando le guardie e gli altri detenuti così: “Se vi avvicinate vi taglio tutti”. Per qui fatti era finito a processo al tribunale di Ancona per minacce a pubblico ufficiale. Il caos in carcere era scattato attorno alle 17, stando alle testimonianze di due agenti che sono stati sentiti in una precedente udienza, perché l’uomo non voleva far rientrare in cella il compagno con cui condivideva gli spazi in carcere. Il camorrista si trovava all’epoca a Montacuto, nella sezione di alta sicurezza, per scontare una pena per associazione a delinquere di stampo mafioso. Quando era arrivato il momento di rientrare in cella lui avrebbe impugnato la lametta, barricandosi e non facendo avvicinare nessuno “altrimenti vi taglio la faccia” avrebbe detto. I poliziotti erano intervenuti quando lo avevano visto tagliarsi un braccio. L’imputato era stato poi trasferito di carcere, a Santa Maria Capua Vetere. È lì che il 17 aprile scorso si è tolto la vita. Oggi era prevista un’udienza per il processo a suo carico ma la giudice Tiziana Falcello ha dichiarato il non luogo a procedere per sopraggiunta morte. La difesa, rappresentata dall’avvocato Michele Zuccaro, aveva chiesto una perizia perché l’uomo aveva problemi di bipolarità. Proprio oggi si doveva discutere della sua capacità o meno di rimanere a processo. Sassari. Detenuto al 41 bis in sciopero della fame: rifiuta il cibo da oltre due mesi di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 9 maggio 2023 In sciopero della fame da oltre due mesi nel carcere di Bancali. Domenico Porcelli, detenuto al 41 bis nella struttura sassarese da 4 anni, rifiuta il cibo dal 28 febbraio 2023 e sceglie la strada già percorsa da un altro celebre ospite della casa circondariale, Alfredo Cospito, l’anarchico che smise di nutrirsi proprio al Bacchiddu lo scorso anno. Il 49enne pugliese, condannato dal tribunale di Matera a 26 anni e mezzo per associazione a delinquere di stampo mafioso, si è visto prorogare la misura del carcere duro il 30 gennaio di quest’anno da un decreto del ministero della Giustizia. E ora vuole protestare per una decisione che ritiene ingiusta nei suoi confronti e chiede di poter parlare con il guardasigilli Carlo Nordio, firmatario della misura. Intanto l’improvvisa interruzione dell’assunzione del cibo ha già creato in questi due mesi e 10 giorni fenomeni di disestesie, che comportano il blocco totale o parziale dei nervi sensoriali, e Porcelli ha dovuto fare ricorso all’uso delle flebo. Le sue avvocate, Maria Teresa Pintus e Livia Lauria, hanno già presentato reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma chiedendo l’annullamento del decreto di 41 bis perché mancherebbero, secondo quanto riportato nel documento, i presupposti che legittimino la scelta del dicastero di via Arenula. Parma. Il direttore e il comandante di via Burla: “Mancano medici e agenti, la situazione è esplosiva” di Christian Donelli parmatoday.it, 9 maggio 2023 Intervista a Valerio Pappalardo e al comandante della penitenziaria Nicolino Di Michele: “Le aggressioni? Si, ci sono 15 detenuti problematici su 655 che girano tutti gli istituti e poi arrivano anche in via Burla”. “La situazione nel carcere di Parma è esplosiva”. Lo dicono con forza i sindacati di polizia penitenziaria, lo ammettono il direttore del carcere Valerio Pappalardo e il comandante della penitenziaria Nicolino Di Michele. Lo si evince dai dati relativi ai detenuti. Più di 250 persone recluse hanno gravi patologie, una ventina di detenuti hanno addirittura più di 80 anni, molti si muovono solo grazie alla sedia a rotelle. Mentre il numero di agenti è ampiamente al di sotto di quelli richiesti anche i medici (in tutto una ventina per 655 detenuti), gli infermieri e il personale sanitario scarseggiano. In questo contesto nel penitenziario più grande di tutta la Regione proseguono le attività “Se ci sono 200 malati hanno bisogno di essere curati ma se non abbiamo medici, infermieri e specialisti come li curiamo?”. Il direttore del carcere Valerio Pappalardo e il comandante della penitenziaria Nicolino Di Michele parlano delle criticità - ma anche dei punti di forza - del più grande penitenziario della Regione Emilia-Romagna, l’unico con una sezione di detenuti al 41 bis. “Oggi la gestione del personale è diventata incredibile, è più problematico gestire il personale piuttosto che i detenuti”. I sindacati di polizia penitenziaria, che hanno protestato a fine marzo davanti al carcere, sottolineano la mancanza di circa 100 agenti e lamentano di dover effettuare i doppi turni (anche di 10 ore). Cosa pensa di questa situazione e quale crede sia lo strumento migliore per risolverla? “Anche noi abbiamo subito le conseguenze del famigerato decreto Madia, che ha tagliato in modo considerevole il numero di organici di polizia, compresa quella penitenziaria. Parma vive una realtà più complessa rispetto a quella degli altri istituti anche per l’entrata a pieno regime di un nuovo padiglione, non presente nella pianta originale. Il numero di agenti, infatti, era calibrato sulla struttura senza il padiglione. All’inizio ha aperto una sola sezione su quattro con 50 detenuti. Con l’avvento del Covid sono state aperte anche le altre tre sezioni, per un totale di 200 detenuti. In questo nuovo padiglione ci sono 10 agenti mentre ne servirebbero 60. Già questo è un gap a monte. Al di fuori del numero di agenti e assistenti (che sono nella norma) c’è una carenza di funzionari: innanzitutto c’è un solo dirigente mentre dovrebbero essercene quattro. Dovrebbero esserci 51 ispettori e invece sono solo 31, ne mancano 20. Per sopperire a questa mancanza vengono inserite figure di grado inferiore. Per quanto riguarda i sovrintendenti ne abbiamo 17 ma ce ne dovrebbero essere 75. Attendiamo nuovi rinforzi ma anche con i nuovi arrivi queste lacune non verranno colmate. La situazione è ben nota agli organi ministeriali. Esistono degli applicativi telematici che consentono di conoscere, in tempo reale, le forze presenti in tutti gli istituti penitenziari” “Ultimamente siamo stati interessati - aggiunge il Comandante da una migrazione di agenti in altre strutture penitenziarie, ieri due sono andati al Gruppo Operativo Mobile (Gom) a Roma, tre hanno assunto servizio a Civitavecchia. Dei 15 nuovi ispettori arrivati dal corso 8 sono stati subito distaccati. Il lavoro aumenta (perchè aumentano i detenuti) mentre il personale diminuisce. Se vado via io al mio posto non c’è nessuno. Se il Direttore va via al suo posto non c’è nessuno. Quando si può andare avanti in questa situazione?” Ogni tre mesi redigo una relazione al Direttore facendo luce sulle situazioni più gravi. La relazione viene sempre girata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che è quindi a conoscenza della situazione. A giugno ci sarà l’assegnazione del personale che esce dai nuovi corsi. In quel frangente c’è pero anche chi ha fatto richiesta di mobilità. Se arrivano 30 agenti e ne vanno via 35 siamo sempre sotto di 5. Non succede mai che se ne vanno via 35 ne arrivano 35. Ogni anno, in modo puntuale, perdiamo mediamente 4-5 agenti in ogni trasferimento. I sindacati hanno ragione. Tra questi agenti una parte è destinata alla movimentazione dei detenuti, per i trasferimenti in Tribunale e per le visite. L’anno scorso ci sono state 2.700 traduzioni, ovvero circa al giorno. Il responsabile, che in questo caso sono io, stabilisce il numero di agenti per la scorta: come minimo devo metterne 3. Se porto via un 41 bis devo impiegare 7 agenti per un solo detenuto. Il Dap ci obbliga a fare i permessi di necessità per le abitazioni dei detenuti in modalità andata e ritorno. Ciò significa che se dobbiamo portare, per esempio, un detenuto a Catania in aereo per fargli fare 3 ore di permesso, poi lo dobbiamo portate indietro la sera. Ciò significa partire alle 4 del mattino e tornare alle 4 del mattino successivo in aereo: 5 uomini da Parma e 5 da Catania, oltre a 5 mila euro per ogni trasferimento. Non ci divertiamo a far fare 10 ore di lavoro ai colleghi, anche noi le facciamo. La situazione è esplosiva. Sa quanti permessi studio abbiamo noi? 94 colleghi che si prendono le 150 ore per laurearsi: 25 giorni in più delle ferie. È un diritto che nessuno mette in dubbio. E le ferie? Tutti hanno come minimo 35 giorni di ferie” L’associazione Antigone, nel suo ultimo rapporto, parla di alcune celle senza riscaldamento, con muffa e infiltrazioni. Come sta intervenendo la Direzione Istituti Penitenziari di Parma per far fronte a queste criticità? “Per il riscaldamento siamo riusciti a chiedere alla ditta cosa occorresse per ingegnerizzare tutto il sistema. Il motivo del malfunzionamento? L’impianto è vecchio, ha più 50 anni. Abbiamo però avuto un finanziamento coperto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’impresa sta ultimando i lavori necessari per ammodernare la struttura. Per quanto riguarda l’umidità, secondo i rilievi del servizio di manutenzione ordinaria del fabbricato nei reparti As la situazione ambientale è decorosa. Anche il tasso di umidità è accettabile. Sugli altri reparti in cui sono state riscontrate situazioni di infiltrazioni i lavori per risolvere la situazione sono in itinere. Sono stati chiusi due reparti per realizzare i lavori. Il Dap ha tutto l’interesse di far si che i lavori procedano speditamente perchè tenere chiusi due reparti è un danno” Dopo quasi due anni e mezzo alla direzione del carcere di via Burla quali sono secondo lei le criticità più forti e quali invece i progetti sociali più significativi? “Abbiamo una forte interazione con l’assessore al Welfare Ettore Brianti e con il sindaco di Parma Michele Guerra per cercare di costruire delle opportunità all’esterno e per poter scommettere su qualche detenuto per lavori di pubblica utilità. Non è un percorso semplice: ci sono protocolli d’intesa da rispettare e va fatta una selezione dei detenuti più idonei. Una delle criticità per esempio è l’eccessiva vocazione sanitaria di questo carcere. Abbiamo almeno 250 detenuti con patologie importanti e 20 persone che hanno più di 80 anni. Chi sta male inizia a manifestare segni di malumore e impazienza e potrebbe anche portare avanti atti di autolesionismo. Sono situazioni molto delicate da gestire. Se la vocazione sanitaria verrà incentivata dovremmo fare i conti con un’ulteriore carenza di figure sanitarie. Lo abbiamo scritto e lo abbiamo detto” Ci sono molti detenuti sulla sedia a rotelle - aggiunge il Comandante - molti malati di tumore. Altri istituti li mandano a noi perché pensano che siamo in grado di curarli. Se ci sono 200 malati hanno bisogno di essere curati ma se non abbiamo medici, infermieri e specialisti come li curiamo? Il 70% dei medici (in totale sono una ventina) provengono dall’Africa e dall’Est Europa. Fare il medico in una struttura penitenziaria non è facile” Poi c’è il problema delle aggressioni... Parlando delle aggressioni diciamo che su un totale di 650 detenuti ci sono quei 15 che provocano problemi. Questi detenuti girano in tutti gli istituti e quando arrivano quì vanno gestiti. Pochi giorni fa un detenuto ha ingoiato un pezzo di plastica. Oggi la gestione del personale è diventata incredibile, è più problematico gestire il personale piuttosto che i detenuti. Gestire un personale carente e che ha tanti diritti diventa difficile. I detenuti sono meno complicati da gestire. L’anno scorso abbiamo salvato 12 detenuti che hanno tentato il suicidio. In quattro mesi ci sono stati tre detenuti deceduti per morte naturale. L’ultimo aveva 88 anni. Abbiamo 130 ergastolani e il più giovane ha 60 anni. Dei 655 detenuti nel carcere di Parma quanti partecipano a progetti educativi e lavorativi e quali sono attualmente le attività che vengono svolte dai reclusi all’interno del penitenziario? “All’interno del carcere vengono realizzati diversi progetti: la scuola di alfabetizzazione (elementare), scuola media, scuola alberghiera, catechesi, produzione miele, laboratorio riuso, Ristretti Orizzonti, tutoraggio Università, laboratorio didattico Sociologia, mensa Padre Lino (i detenuti fanno il pane e le ostie per tutte le chiese di Parma), rassegna cinematografica, cinema africano. Partecipano circa 230 detenuti ma sono attività che vengono svolte a rotazione. Mi sembra che con i problemi che si sono all’interno di questo carcere le attività che vengono fatte siano tante. Nonostante le difficoltà l’Amministrazione Penitenziaria ci chiede di fare tutto questo e riusciamo a farlo. A breve ci sarà una partita di calcio tra i detenuti e i dipendenti della Chiesi e dell’azienda Pizzarotti. I detenuti preparano pane, focacce e le ostie, ogni giorno. Non abbiamo nulla da nascondere. Il carcere è come un palazzo di vetro” A che punto è l’iter per l’apertura delle due nuove sezioni destinate ad ospitare detenuti con problemi sanitari all’interno del carcere? “Abbiamo chiuso due sezioni di media sicurezza perché l’Amministrazione Penitenziaria ci ha detto di aprire due sezioni di Alta Sicurezza per detenuti malati, che già si trovano all’interno del carcere. Sono in corso i lavori per il rimodernamento dei reparti. Lì andranno 40 detenuti di Alta Sicurezza con particolari patologie: 30 nelle celle normali e 10 in celle doppie per chi è in sedia a rotelle. È qui che i detenuti dovranno essere gestiti in maniera particolare dal punto di vista sanitario. I medici hanno protestano per questa situazione ma noi non possiamo fare niente, se non ci danno l’ok da Roma” Reggio Calabria. Salute carceraria, fatto un passo avanti nella casa circondariale reggiotoday.it, 9 maggio 2023 Ad Arghillà è stato attivato il gabinetto radiologico. La soddisfazione della garante dei detenuti Russo: “Frutto del duro, costante e leale lavoro di tutti coloro che siedono al tavolo tecnico della sanità penitenziaria”. “Compiuto un altro passo avanti per la cura delle persone private della libertà personale nel comune di Reggio Calabria. Presso la casa circondariale di Arghillà è stato finalmente messo in funzione il gabinetto radiologico. Non può esimersi dal ringraziare Lucia Di Furia, commissario dell’Asp, per il suo encomiabile e straordinario lavoro e così, anche la squadra da lei guidata: i dottori Caridi, Giordano, Pangallo, il personale amministrativo, medici e infermieri tutti”. È quanto dichiara Giovanna Russo (nella foto), garante comunale per i diritti delle persone detenute di Reggio Calabria. “È stata scritta un’altra bellissima pagina di buona sanità a garanzia e tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. Questo non è altro che frutto del duro, costante e leale lavoro di tutti i partners che siedono al tavolo tecnico della sanità penitenziaria reggina che ho voluto istituire per dare risposte a diritti essenziali. È un risultato straordinario, che si somma ad un elenco di altri obiettivi già raggiunti sotto la guida della dottoressa Di Furia”, dichiara ancora la garante comunale Giovanna Russo che, presente in istituto per una visita istituzionale, ha anche potuto assistere alla messa in funzione dell’apparato radiologico da parte dei tecnici. Per la garante: “L’avvio del gabinetto radiologico non è solo un beneficio di cui godranno le persone detenute che ne avranno necessità diagnostiche ma contribuirà anche ad alleggerire, almeno in parte, il già faticoso compito del servizio traduzioni e piantonamenti del corpo di Polizia penitenziaria”. “Tutti gli obiettivi prefissati dal tavolo tecnico - conclude - non lasciano nulla al caso, sono studiati al fine di vagliare le soluzioni adeguate in ragione dei diritti da tutelare. In questo articolato e complesso quadro di riferimento un sentito ringraziamento viene rivolto all’amministrazione penitenziaria, in particolare alla direzione, che sta lavorando in piena sinergia d’intenti al fine di realizzare una sanità penitenziaria a misura d’uomo”. Pisa. Dopo il caso Seung: “Sistema da cambiare. Il carcere e le Rems non sono la soluzione” di David Allegranti La Nazione, 9 maggio 2023 Il procuratore capo Domenico Manzione lancia un appello al governo: “Impensabile usare la detenzione per isolare il disagio sociale. Servono le cure anche quando non c’è la volonta dei pazienti”. “Questi episodi non devono accadere, è ovvio. Ma se accadono, significa qualcosa. Ci dicono, ad esempio, che è tempo di mettere mano al sistema. Bisogna cambiare registro. Sempre tenendo presente che la risposta non è la detenzione”. Con queste parole il procuratore capo di Lucca, Domenico Manzione, interviene sul dibattito aperto subito dopo l’omicidio Capovani. Al centro dell’attenzione, la cura e la gestione dei pazienti psichiatrici, ma anche l’iter sanitario e giudiziario a loro applicato, quindi l’intero sistema. Di cui gli ultimi fatti di cronaca hanno evidenziato le lacune. Il riferimento è alle storie di violenza con protagonisti soggetti con disturbi psichiatrici, raccontate nelle ultime due settimane su questo giornale. A cominciare dall’omicidio della dottoressa Barbara Capovani, aggredita a morte il 21 aprile fuori dal reparto del Santa Chiara di Pisa e per il quale è accusato Gianluca Paul Seung, 35 anni, di Torre del Lago, i cui disturbi sono stati più volte messi sotto i riflettori, anche tramite gli esperti che lo hanno seguito o visitato in passato. È di soli tre giorni fa, invece, l’episodio di Pietrasanta, dove un 32enne, in cura da tempo per problemi psichiatrici, ha picchiato selvaggiamente l’anziana madre disabile colpendola più volte alla testa con calci e pugni. La donna è ancora in gravi condizioni all’ospedale Versilia. “Sono preoccupanti perché attestano l’esistenza di un sistema inefficace”, dice Manzione. “È necessario che la politica - e qui lancio un appello al ministro - metta mano al sistema”. Una necessità ribadita da più fronti, all’interno di un dibattito volte declinato anche alla ricerca di eventuali responsabilità. “Intanto si dovrebbe partire da una consapevolezza - continua il procuratore di Luca - perché dovrebbe essere chiaro a tutti che il carcere non è la risposta ai problemi di disagio sociale o di malattia. È impensabile che la detenzione diventi lo strumento con cui si isola il disagio sociale o sanitario”. “Servono le cure”, prosegue Manzione. “E per questo deve avere efficacia il percorso extra giudiziario. Anche le Rems, che sono la misura di sicurezza per antonomasia quando si parla di pazienti psichiatrici, sono deboli. Piene per colpa della tendenza a spostare sul versante psichiatrico le situazioni di semplice disagio minore. Nelle Rems c’è gente che a mio avviso non dovrebbe trovarsi lì. E poi le Rems non prevedono alcuna possibilità di contenimento per i soggetti che manifestano forme di pericolosità. E siccome la malattia può avere risvolti sotto il profilo della personalità e alcuni soggetti possono essere un rischio per se stessi e per gli altri, non ci si può basare sulla volontarietà del percorso terapeutico. Bisognerebbe invece fare in modo che, laddove emerga una situazione di pericolo, ci sia un’azione di contenimento in ragione della quale la possibilità di cura non sia affidata alla mera volontà del paziente”. Avellino. Il Garante regionale dei detenuti fa visita all’ICAM di Lauro orticalab.it, 9 maggio 2023 È iniziato oggi “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati” promosso dalle Camere penali della Campania, dall’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, dal Movimento forense e dal Garante campano dei detenuti. In mattinata le prime visite nel carcere di Arienzo (CE) e nell’ICAM di Lauro (AV) che ospita detenute madri con figli. Accompagnati dalla direttrice dell’Istituto Concetta Felaco, dall’Ispettrice Simonetti Teresa e dal cappellano Don Vincenzo Miranda, Samuele Ciambriello e il Consigliere Regionale Livio Petitto hanno fatto colloqui con le detenute, hanno incontrato il personale dell’area educativa, il personale della direzione sanitaria, nonché il personale della polizia penitenziaria. All’uscita del carcere il Garante Ciambriello ha dichiarato: “È necessaria una legge che tuteli questi bambini innocenti che oggi sono rinchiusi in un carcere con le loro mamme. Vanno tutelati questi bambini che sono costretti a vivere i primi anni della loro vita, quelli decisivi per il loro sviluppo psicofisico, in un carcere. Mi auguro che la sensibilità della Magistratura di Sorveglianza, la disponibilità delle case di accoglienza per mamme e figli, diano una speranza a questi bambini e una seconda chance alle loro madri”. All’interno dell’Istituto sono presenti: un educatore, un assistente sociale su richiesta, un ex art. 80, uno psicologo dell’ASL e 31 Agenti di polizia penitenziaria (19 uomini e 12 donne). La struttura ospita oggi 10 detenute madri (5 di nazionalità italiana e 5 di nazionalità straniera) e 11 bambini. In Italia, invece, complessivamente sono 23 le mamme detenute e 26 i loro bambini. Il Consigliere Regionale Livio Petitto dichiara: “La presenza dei bambini in tenera età che condividono la situazione penitenziaria della propria madre è senza dubbio uno degli aspetti più complessi e difficili di questa peculiare forma di gestione che deve focalizzarsi sulla prioritaria necessità di salvaguardare il loro benessere psicologico. Condivido l’appello del Garante Ciambriello a investire principalmente sulle esigenze di crescita e formazione dei minori, in un contesto che si cerca di rendere il più confortevole possibile. È necessario attivare delle ‘Comunità educative e dimensione familiare’ per le donne e i minori privi di un ambiente familiare idoneo al proprio sviluppo e alla propria crescita. La sfida è predisporre luoghi che integrino persone che vivono una realtà diversa dalla nostra, favorendo la crescita individuale e promuovendo una migliore qualità della vita una volta scontata la pena”. La Regione ha chiesto la disponibilità ad alcune comunità che già ospitano donne ad accogliere anche le detenute madri con i loro figli. Ciambriello, nel ringraziare il consigliere Petitto per la sua disponibilità ad effettuare la visita in carcere e la sensibilità dimostrata sulla tematica di madri detenute con figli, conclude dicendo: “Nell’ ICAM di Lauro, ad oggi manca un pediatra, una figura professionale necessaria stante la presenza dei bambini”. Ferrara. “La scuola come scelta”, domani la proiezione del docufilm girato nel carcere ferraratoday.it, 9 maggio 2023 L’iniziativa è aperta a tutte le persone interessate a conoscere più da vicino il mondo della detenzione. Nel pomeriggio di mercoledì, dalle 17.30 alle 19, sarà proiettato nella Sala consiliare del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università, in corso Ercole I d’este 44, il docufilm “La scuola come scelta”, girato all’interno della casa circondariale di Ferrara. L’incontro chiude il ciclo di eventi, dal titolo “Il percorso rieducativo in carcere nello sguardo degli operatori”. Una preziosa occasione per conoscere dalla viva voce degli studenti detenuti e dei loro insegnanti l’importanza delle attività di istruzione per il recupero sociale delle persone condannate. I percorsi scolastici sono fondamentali anche per il successivo ruolo dell’Università, che pure mostra un impegno crescente per garantire alle persone detenute il diritto agli studi superiori. I video girati all’interno dell’istituto penitenziario consentono una rara visione di scorci di vita detentiva normalmente invisibili alla società esterna. Introdurranno la visione del film Stefania Carnevale, docente di Diritto dell’esecuzione penale dell’Università di Ferrara, Marzia Marchi, insegnante di alfabetizzazione primaria in carcere e al Centro per l’istruzione degli adulti di Ferrara, e Alejandro Ventura, autore del documentario. Il docufilm ha una durata di 40 minuti. L’iniziativa è aperta a tutte le persone interessate a conoscere più da vicino il mondo della detenzione. Genova. Al carcere di Marassi torna la corsa “Vivicittà” Il Secolo XIX, 9 maggio 2023 Una ventina di detenuti con regimi misti (alcuni lavorano nelle aziende di Marassi, altri godono di permessi premio) correranno nella gara organizzata da Uisp. Dopo tre anni di pandemia che ha bloccato molte iniziative e anche questa, le porte del carcere di Marassi sono pronte a riaprirsi, oggi, martedì 9 maggio, per “Vivicittà porte aperte”, la storica manifestazione nazionale della Uisp che fa correre insieme podisti e detenuti. L’iniziativa coinvolge diverse città e a Genova si svolgerà, appunto, a Marassi: il fischio di partenza è alle 15, solo in caso di pioggia la gara slitterà a mercoledì. Alla gara, parteciperà una ventina di detenuti che beneficiano o dei permessi di lavoro o di regimi detentivi premiali. L’iniziativa fa parte del progetto “La Rete che unisce”, patto di sussidiarietà avviato grazie al contributo di Regione Liguria e di cui è capofila Agorà. Uisp ha attivato all’interno del carcere corsi di pallavolo, basket, pallamano, ginnastica, tornei di calcio e corsi per arbitri di calcio. La corsa con detenuti e podisti, tre giri dentro e fuori dal carcere, è un’occasione unica sia per chi attende di reinserirsi nella società sia per chi può avvicinarsi alla realtà del carcere. Fondamentale la collaborazione e disponibilità della direzione e del personale di Marassi. Lecce. “Liberi di Giocare”: detenuti e studenti uniti intorno al pallone leccesette.it, 9 maggio 2023 In partenza il torneo di calcio a 5 all’interno della casa circondariale di Borgo San Nicola che permetterà agli alunni delle scuole carcerarie di incontrare rappresentanti dell’Ites Olivetti e dello Spartak Lecce. Ritorna il torneo di calcio a 5 che già in passato ha visto i detenuti del carcere di Borgo San Nicola incontrarsi e sfidare una rappresentativa dell’Istituto Tecnico Economico “A. Olivetti” di Lecce in una manifestazione all’insegna dell’inclusione e dei valori dello sport. Questa volta a partecipare ci sarà anche lo Spartak Lecce, squadra di calcio popolare attiva sul territorio da oltre dieci anni, fondata sul principio della salvaguardia dello sport e della sua funzione formativa e sociale, basata sui valori dell’uguaglianza, dell’antirazzismo e contraria a ogni forma di discriminazione. “Liberi di Giocare” è stato fortemente voluto dalla Dirigente dell’Istituto penitenziario Mariateresa Susca e dalla Dirigente Scolastica Patrizia Colella che sottolinea: “Lo sport è da sempre considerato uno strumento per il raggiungimento del benessere fisico e mentale ed è dimostrato come possa avere un impatto positivo sulle persone ed in particolare sui detenuti, contribuendo a migliorare la loro salute, l’autostima e l’autocontrollo. Lo sport, infatti, è un insieme di regole, di forza, disciplina e quindi portare i suoi principi all’interno delle carceri significa dare strumenti di crescita civile”. Contrariamente da quanto avviene di norma per tutte le competizioni, questo torneo è stato organizzato sin dal principio attraverso un approccio metodologico di coprogettazione dal basso, ossia coinvolgendo i detenuti nelle varie fasi della strutturazione del progetto con la facilitazione dei docenti dell’Ites Olivetti che operano presso la Casa Circondariale, a partire dall’ideazione del nome per arrivare alla definizione del regolamento e degli obiettivi della manifestazione. Durante le parte, inoltre, i partecipanti non impegnati direttamente saranno coinvolti in attività a bordo campo in modo da raccogliere impressioni e fornire riscontri sul torneo in corso generando una narrazione che verrà poi messa a disposizione di tutti con un report finale. A supportare quest’attività ci sarà ‘Pari - associazione culturale’ che attraverso linguaggi innovativi e azioni capaci di coinvolgere e mettere in dialogo le diversità umane, si impegna a contrastare il razzismo ed ogni tipo di discriminazione negativa. “Liberi di Giocare”, che si avvale del patrocinio del Comune di Lecce, sarà svolto in mini-tornei giornalieri indipendenti fra loro a cadenza settimanale a partire dal 9 maggio e coinvolgerà di volta in volta un blocco carcerario differente. “L’auspicio di tutti - conclude la Dirigente Scolastica - è di poter replicare tale progetto in modo continuativo e strutturato nei prossimi anni, coinvolgendo sempre più organizzazioni del territorio, anche di sport femminile, e continuando a promuovere i valori della collaborazione e dell’inclusione”. Scotellaro, quei 44 giorni nel carcere di Matera e le carte ritrovate anni dopo di Pasquale Vitagliano Il Manifesto, 9 maggio 2023 Il circolo culturale “La Scaletta” pubblica gli atti del procedimento fino a ora introvabili. L’unica testimonianza documentale per ricostruire una vicenda importante non solo per la Basilicata e il Sud. Rocco Scotellaro è stato un sindaco ragazzino. Ha solo 23 anni quando lo diventa a Tricarico, eletto nella lista del fronte popolare L’Aratro. Eppure, l’otto febbraio 1950 è arrestato e condotto presso il carcere di Matera, dove resta per 44 giorni nella cella n. 7. Del processo non era rimasta traccia. Il fascicolo custodito presso l’archivio del palazzo di giustizia di Potenza è stato smarrito. È molto probabile che sia andato distrutto per il parziale crollo dell’edificio durante il terremoto del 1980. Nel 2013 per puro caso avviene un fatto sorprendente. Raffaello de Ruggieri è figlio di Niccolò, avvocati entrambi. Suo padre è deceduto da vent’anni, antifascista, amico di Carlo Levi. A Matera sta mettendo ordine nello studio quando scopre una cartellina preziosa come una reliquia. “Corte d’Assise, Procedimento Penale a carico di Scotellaro Rocco, imputato di concussione”. Rimane senza fiato. Gli atti del processo, finalmente, sono stati pubblicati da La Scaletta, storico circolo culturale di Matera, in un libro (gratuito, copie numerate, con una introduzione di Raffaello de Ruggieri e un’altra di Ivan Franco Focaccia) che si intitola “Rocco Scotellaro. Il Processo” e, a oggi, resta l’unica testimonianza documentale per ricostruire una vicenda importante non solo per la Basilicata e il Sud. Il giudice istruttore aveva emesso l’ordine di arresto, obbligatorio allora per questo reato. L’avvocato de Ruggieri prende la difesa. Aveva conosciuto il sindaco di Tricarico durante la campagna elettorale per il referendum istituzionale. Scotellaro, nell’agosto del 1947, abusando della sua carica, avrebbe indotto il maresciallo dei carabinieri D’Antonio Pancrazio a dargli indebitamente lire 10 mila, per istruire la pratica di concessione del servizio automobilistico Tricarico-Scalo Grassano. Insieme a Scaiella Ugo, di Vincenzo, di anni 26, quale segretario del Comitato Comunale Amministrazione Aiuti Internazionali, avrebbe anche indotto Minutiello Dante, Di Cuia Mauro e Biscaglia Donato, a dare indebitamente a ciascuno dei due imputati 10 mila e tessuti per l’importo di alcune migliaia di lire, per ottenere la concessione della vendita di tessuti Unrra. L’istruttoria si fonda su due sospette e tardive denunce, che “mal riuscivano a nascondere il loro proposito di vendetta politica”. Il 24 marzo 1950 la Corte Appello di Potenza assolve definitivamente Scotellaro Rocco fu Vincenzo da tutte le imputazioni. Non bastò a sanare la ferita del carcere. Come racconta lo stesso avvocato de Ruggieri in una lettera del 1967, fu un’esperienza terribile. “Rocco trovava sollievo solo nella lettura dei libri che gli portavo, dopo aver superato la dura censura del cappellano don Peppino”. Non riuscì a consolarlo neppure il conferimento del premio di poesia Roma con l’invito al Campidoglio. “Mi ha chiamato personalmente Carlo Levi. Il premio è di 100 mila lire”. Rocco pensava ai suoi compagni di carcere: Chiellino, Pasciucco, zio Donato. All’avvocato dà un mandato preciso. I soldi del premio andranno distribuiti tra loro. Un solo affanno quotidiano superava ogni altro: il dolore di sua madre. “Ho perso la mia speranza”, scrive Francesca Armento in una lettera. Il 15 dicembre 1953 Rocco è a Portici, sembra che il dolore sia passato. Ed invece aveva scavato profondo. A 30 anni muore di crepacuore. Un muro contro muro che elude le priorità (e insegue i miraggi) di Massimo Franco Corriere della Sera, 9 maggio 2023 Il percorso abbozzato dal governo sulle riforme istituzionali e sulle nomine di organismi che appartengono allo “Stato profondo”, come Polizia e Guardia di Finanza, non si può definire incoraggiante. Come minimo, appare pasticciato e poco trasparente. Sulle riforme, si ha l’impressione che la maggioranza guidata da Giorgia Meloni stia facendo di tutto per alimentare le diffidenze e gli istinti peggiori delle opposizioni: cosa che sta puntualmente avvenendo. L’impostazione della destra è quella di evocare il dialogo, salvo aggiungere che se non sarà accettata la sua impostazione cambierà comunque la Costituzione: magari con un referendum. Quella delle sinistre è di fare muro, favorendo un’eventuale forzatura. Sembra quasi che tra le minoranze ci sia una gran voglia di opporsi pregiudizialmente, per poi poter gridare al colpo di mano. E nella coalizione governativa, in modo simmetrico, il calcolo è di ricevere quei rifiuti a priori, per avviare una sorta di fai-da-te costituzionale: con presidenzialismo, premierato e autonomia differenziata come stelle polari. Stelle polari al plurale, perché quando si tratta di passare ai fatti, i tre partiti della maggioranza inseguono obiettivi differenti, quando non contrastanti. E l’idea di una repubblica presidenziale, lungi dall’unire Fdi, Lega e FI, ne accentua le divergenze. E la sensazione che a questo si possa arrivare non in base a una convinta adesione a un modello di Stato, ma come prodotto di un baratto tra l’autonomia regionale cara alla Lega e l’elezione diretta del presidente della Repubblica accarezzata da Fratelli d’Italia, aggiunge dubbi e perplessità. Ma soprattutto, non è chiaro in base a quale urgenza il tema sia stato fatto rotolare sulla scena dell’attualità, quando incalzano problemi economici, sociali e di rapporti con l’Europa e i mercati finanziari ben più incombenti; senza contare le implicazioni di oltre quattordici mesi di invasione russa dell’Ucraina. Il miraggio del “potere verticale”, capace di scansare tutti gli inciampi della complessità democratica, è ormai pluridecennale, in Italia. E si tratta di un miraggio suggestivo, che incrocia la voglia di semplificazione e di rapidità decisionale di molti governi e, probabilmente, di settori consistenti di opinione pubblica. Ma che permetta di far funzionare meglio le cose è, come minimo, opinabile. Siamo reduci da una riduzione del numero dei parlamentari voluta dai grillini, e assecondata per pavidità da un sistema partitico che temeva di essere travolto dall’ondata iconoclasta del populismo, se avesse resistito. Non pare, tuttavia, che la riforma abbia prodotto grandi risultati. Tra l’altro, è in corso un piccolo grande risarcimento per alcuni di quanti non sono stati eletti, trovando per loro posti in altri gangli dell’amministrazione pubblica. La prospettiva che sulle riforme costituzionali venga scritto un nuovo capitolo all’insegna della demagogia antiparlamentare non può essere scartata a priori. E non può non far riflettere, perché come conseguenza implicherebbe, come minimo, un’oggettiva delegittimazione della Costituzione proprio mentre viene celebrata a parole. Né può essere elemento di sollievo l’eredità di altri referendum bocciati dall’opinione pubblica. In ogni caso si tratterebbe di occasioni di radicalizzazione delle posizioni, e dunque di divisione del Paese. Tra l’altro, viene da chiedersi su quale base si cementerebbe un accordo nella stessa maggioranza, quando per giorni non è riuscita a trovare un’intesa nemmeno su alcune nomine. Le opposizioni che si stracciano le vesti per la lottizzazione della tv pubblica testimoniano una “doppia morale” tipica di chiunque perda le elezioni e fette di potere televisivo. E la fretta con la quale i vincitori vogliono attuarla conferma solo quanto la Rai sia considerata un “bottino elettorale” da farsi consegnare rapidamente. Sorprende di più il modo abborracciato e rissoso con il quale la maggioranza ha gestito le nomine ai vertici della Guardia di Finanza e della Polizia . Ci si sarebbe aspettati una trattativa riservata e una decisione concordata prima di comunicare le sostituzioni. Il limbo degli ultimi giorni ha dimostrato un affanno e un conflitto vistosi e poco spiegabili, se non con l’improvvisazione e l’inesperienza. E di questo non si può dare certo la colpa alla Costituzione. Scaricare sulle istituzioni i propri problemi e la difficoltà a governare è un vecchio vizio. La vera riforma, forse, sarebbe quella di riformare un’antica e deteriore abitudine, e concentrarsi sulle cose che contano e dovrebbero unire. Sia chiaro: è un discorso che vale per il governo e per le opposizioni, innamorate del loro isolamento sterile e portatore solo di scontri più aspri. Iran. Impiccati due ragazzi per “offese alla religione” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 9 maggio 2023 La macchina del boia in Iran funziona a pieno regime, le esecuzioni capitali si susseguono senza sosta e non passa giorno che non venga riportata notizia di persone giustiziate. Ieri mattina due uomini sono stati messi a morte tramite impiccagione nella prigione di Arak, nell’Iran centrale. Si tratta di Yousef Mehrad e Sadrollah Fazeli- Zare che secondo la corte che ha emesso la sentenza sono stati condannati per aver bruciato il Corano e insultato il profeta dell’Islam. Secondo l’agenzia di stampa della magistratura, Mizan, Mehrad e Fazeli- Zare gestivano decine di account sui social media “dedicati all’ateismo e alla profanazione dei luoghi santi”. I due uomini erano stati arrestati nel 2020 e accusati di aver aperto un canale Telegram chiamato Critiche alla superstizione e alla religione. Fonti dell’organizzazione per i diritti umani Hrana hanno riferito che i due sono stati tenuti in isolamento per i primi due mesi e gli è stato negato il supporto di un avvocato. L’anno successivo il tribunale penale di Arak ha condannato a morte Mehrad e Fazeli- Zare con accuse di blasfemia oltre a sei anni di carcere per “aver agito contro la sicurezza nazionale”. Nonostante i loro appelli contro i verdetti, la Corte Suprema ha confermato la pena argomentando che entrambi avevano “chiaramente confessato i loro crimini”. Confessioni che pero vengono spesso estorte con la tortura rendendole false e i processi completamente illegali. Risultano quantomeno singolari le dichiarazioni ufficiali di esponenti della magistratura che non hanno reso noti i cosiddetti contenuti insultanti dei due condannati in quanto talmente gravi da non poter essere ripetuti. Le uniche prove delle quali si era a conoscenza consisterebbero in un video sul telefono di Mehrad nel quale il Corano veniva bruciato, immagini che poi sono state condivise pubblicamente. Secondo Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della Ong, basata in Norvegia, Iran Human Rights: “l’esecuzione di Yousef e Sadrollah per ‘ insulto al Profeta’ non è solo un atto crudele da parte di un regime medievale, è anche un grave insulto alla libertà di espressione. Queste esecuzioni devono essere un punto di svolta nelle relazioni tra la Repubblica islamica e i paesi democratici. La mancanza di una forte reazione da parte della comunità internazionale dà il via libera alla Repubblica islamica e ai suoi alleati ideologici in tutto il mondo”. Le pene capitali di ieri fanno seguito ad un’altra condanna a morte eseguita appena sabato scorso quando è stato giustiziato un cittadino svedese-iraniano. Habib Chaab, accusato di essere l’organizzatore di un attacco mortale a una parata militare nel 2018. L’Unione europea ha condannato nei termini più forti l’esecuzione dell’uomo. Il ministero degli Esteri iraniano ha reagito criticando i governi europei accusandoli di sostenere i terroristi invece di combatterli. L’evidenza comunque è quella di un’ondata di condanne a morte che non pare avere precedenti, lo dimostra ad esempio l’esecuzione effettuata a gennaio di un funzionario di alto profilo del ministero della difesa, Alireza Akbari, impiccato dopo essere stato condannato come supposta spia al servizio dell’intelligence britannica per quasi due decenni. Un terzo cittadino con doppia cittadinanza che potrebbe essere messo a morte è Jamshid Sharmahd, un uomo iraniano- tedesco condannato per aver guidato un gruppo filo- monarchico accusato di organizzare operazioni terroristiche sul suolo iraniano. L’Iran è così diventato il secondo paese, dietro solo alla Cina, per il numero di esecuzioni effettuate. Sono state messe a morte più di 200 persone dall’inizio di quest’anno con un aumento del 75%. Una strategia per diffondere la paura soprattutto tra coloro che prendono parte alle proteste a livello nazionale scatenate dopo la morte Mahsa Amini finita nelle mani della polizia morale nel settembre dello scorso anno. Stati Uniti. Condannato da innocente, è libero dopo 28 anni. E incontra l’”amica di penna” Corriere della Sera - Buone Notizie, 9 maggio 2023 Lamar Johnson era stato condannato per omicidio e solo dopo anni i veri colpevoli hanno confessato. Durante la prigionia aveva tenuto una corrispondenza con Ginny Schrappen che ha sempre creduto in lui. Lui si chiama Lamar Johnson, lei Ginny Schrappen. Lui ha scontato 28 anni di carcere da innocente per un omicidio mani commesso, lei è una parrocchiana della comunità di Maria Madre della Chiesa della contea di St. Louis, Missouri, e non aveva mai smesso di credere alla sua innocenza. Per tutti quegli anni si sono scritti senza sosta, proprio come quelli che una volta, prima di Internet e di whatsapp, si chiamavano “amici di penna”. Adesso, dopo una battaglia infinita portata avanti anche da lei, Lamar è stato finalmente messo fuori. E i due si sono incontrati, per la prima volta “alla pari”, entrambi da liberi. La loro storia inizia quando, tanti anni fa, nella buca delle lettere della parrocchia frequentata da Ginny ne arriva una dal Jefferson City Correctional Center, indirizzata “a chiunque voglia aprirla”. La apre lei. Che resta “sbalordita” - così ha detto pochi giorni fa al Washington Post - dalla elegante scrittura di questo tale Lamar Johnson. E decide di rispondergli. Da lì in poi la loro corrispondenza non si interrompe più. Johnson viene condannato nel 1994 per l’omicidio di primo grado del 25enne Marcus Boyd, uno dei suoi migliori amici. In realtà ha un alibi: quella notte era a casa della sua ragazza, e lei lo conferma, ma un testimone lo identifica come colpevole. Finché molti anni dopo, invece, i veri colpevoli confessano. Ma questo non basta a scagionare lui e a far annullare la sentenza che lo riguarda. Così entra in gioco Innocence Project, organizzazione senza scopo di lucro che indaga su casi chiusi per cercare di far uscire di prigione persone innocenti. Accanto all’organizzazione si schiera Ginny. Madre di tre figli, nonna di due nipoti, da lì in poi non si perde un sola udienza tra le tante che fanno seguito alle altrettanto numerose istanze di revisione. Intanto va a trovare regolarmente Lamar Johnson in prigione, senza mai smettere di incoraggiarlo: “Non mollare, perché noi non molleremo mai”. Alla fine, dopo 28 anni, Lamar Johnson è stato liberato. La piattaforma GoFundMe ha consentito di raccogliere finora 600mila dollari a suo favore, per consentirgli di ricostruirsi una vita. Dice di non essere arrabbiato. “Se ti aggrappi alla rabbia - ha detto a sua volta al Post - cambierai semplicemente una prigione con un’altra. Questi anni sono stati duri, ma ho anche molti motivi di gratitudine e felicità. A cominciare dall’avere conosciuto Ginny. Ecco, questo mi sento di dire: fate sempre sentire ai vostri amici che non sono soli, raggiungete sempre chi pensate abbia bisogno di un amico. Potrebbe essere più importante di quello che pensate”. Sudan. Via dalla guerra di Khartoum, con la propria vita in uno zaino di Federica Iezzi Il Manifesto, 9 maggio 2023 Nel Sudan martoriato dai combattimenti. Mentre a Gedda si tratta per un cessate il fuoco umanitario, dalla capitale si cerca di fuggire con ogni mezzo e a qualunque costo. Sull’unica strada che oggi porta alla stazione di Sherwani prima c’erano i venditori di tè con le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso c’è solo un odore di morte. E anche partire significa dover pregare per la propria vita. Gli occhi delle persone che fuggono dalla guerra raccontano tutti la stessa cosa: “Non c’è tempo per piangere né per pensare a un piano”. E mentre a Gedda proseguono i colloqui tra membri delle Forze armate sudanesi (Saf) e membri delle Forze di supporto rapido (Rsf), a Khartoum i civili sono ancora incapaci di uscire di casa perché hanno paura di essere uccisi sotto gli occhi dei propri bambini. I rumori dei colpi di arma da fuoco e degli aerei da guerra che volano sopra le case, tormentano i giorni e le notti. Senza elettricità, acqua potabile, cibo e cure mediche le giornate si sovrappongono tutte uguali, tutte diverse. Quartieri completamente devastati disegnano la città dove si incontrano il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco. Da qui i civili possono entrare o uscire solo attraverso strade secondarie e vicoli. Le aree intorno al palazzo presidenziale sono circondate da veicoli blindati da un lato e depositi di armi dall’altro, e a pochi chilometri di distanza ci sono la sede centrale e i depositi di materiale bellico pesante dell’esercito. “Sono uscita di casa senza più cibo né acqua”, ci racconta Manar. Ha preso un autobus alla stazione di Sherwani. “C’è sempre stata carenza di veicoli qui. Adesso ancora di più”. Prima dell’inizio del conflitto, fin dalle prime ore del mattino, su El Qasr Avenue South, oggi l’unica strada percorribile che porta alla stazione di Sherwani, non mancavano i venditori di tè, i settat-chai con le loro stufe in alluminio, le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso nelle strade c’è solo un odore di morte. A Sherwani, prima della guerra, partiva ogni giorno un autobus per Wad Madani e Manar dopo giorni di attesa ai margini della stazione, tra caldo, fame, paura, notti insonni e punture di zanzara, è riuscita ad avere un biglietto. Nessun autobus parte se non è completamente pieno. 202 chilometri al prezzo di 240 dollari, prima del conflitto il biglietto costava solo poche sterline sudanesi. “Tutto il denaro è congelato nelle banche e non c’è alcuna possibilità di ritirarlo”, ci dice. Un gallone di benzina è arrivato a 25mila sterline sudanesi (circa 40 dollari) sul mercato nero, ci racconta un autista di autobus a Sherwani. Il prezzo è più alto di otto volte rispetto all’inizio della guerra. L’aumento impazzito dei prezzi del carburante e l’esodo di residenti disperati hanno costretto le compagnie a un aumento dei prezzi dei biglietti degli autobus, in un Paese che già partiva con un’inflazione a tre cifre e un tasso di povertà del 65%. Uscire da Khartoum significa attraversare almeno 20 posti di blocco di entrambe le fazioni. I confini non sono netti, così come il controllo delle aree della città. E fermarsi in una stazione di servizio per fare rifornimento significa dover pregare per la propria vita. Ma tutti a Khartoum sapevano che, nel momento in cui i cittadini stranieri sarebbero stati evacuati, i combattimenti sarebbero aumentati. Quindi la fuga degli uni era per gli altri la piccola porta per poter uscire dalla capitale. Le Nazioni unite hanno stimato il movimento di almeno 334.000 sfollati interni. E quattordici dei 18 stati del Sudan sono già stati interessati dallo sfollamento. La maggior parte dei civili in fuga si è riversata nelle città di Wad Madani e El Manaqil, nello stato di Al Jazirah, a est di Khartoum, ospitati in edifici pubblici, scuole, moschee e mercati coperti. Gli scontri qui sono meno duri che nella capitale, ma il suono della guerra accompagna l’intero viaggio. Le strade polverose portano le cicatrici dei bombardamenti, sotto il sole cocente e i 42°C di temperatura. Resti di ordigni, mezzi bruciati e posti di blocco abbandonati fanno da contorno. Il viaggio di molti civili da Wad Madani continua verso l’Egitto. La prima tappa è Port Sudan, tramite autobus o camion. La parte orientale del Sudan è montuosa, spesso impervia. Da Port Sudan, la via è quella verso Argeen, cittadina di confine, appena visibile su Google Maps. Lì, dopo più di 2mila chilometri e due giorni di viaggio, si pagano 200 sterline sudanesi (30 centesimi di dollaro) a persona per avere il timbro di uscita sul passaporto. Il visto di ingresso in Egitto invece costa 140 sterline sudanesi (circa 4 dollari). Secondo le ultime stime ONU il numero di rifugiati sudanesi potrebbe sfiorare gli 860.000 nei prossimi mesi. Ciad, Sud Sudan, Egitto, Etiopia e Repubblica Centrafricana, sono i Paesi maggiormente coinvolti. Ogni storia dipinge un quadro cupo di come il conflitto possa distruggere istantaneamente la vita. “Ho perso la mia casa, la mia famiglia e il mio Paese. Ho messo tutta la mia vita in uno zaino”. È così che gli occhi di Manar ci lasciano.