Camminando nei giardini del dubbio, in carcere di Mariasole Fasano* animazionesociale.it, 8 maggio 2023 Questa è una storia che nasce in un pezzo di mondo (nemmeno tanto piccolo) che abbiamo cancellato, gettato lontano e con cui non vogliamo più avere niente a che fare. È un posto che ci fa paura, ma per alcuni ha anche un grande fascino, il fascino del proibito, della ribellione. Ci stanno quelli che hanno fatto dei casini, a volte molto grossi, ma pure quelli che “nella capa loro” li vorrebbero aiutare o li vorrebbero punire, oppure stanno lì e non sanno neanche perché, ci sono capitati per sbaglio in quel posto e adesso comincia a stargli stretto pure a loro. È un posto di rumori forti, di porte pesanti che si chiudono sempre, di voci alte, di polvere e di odore di minestra ogni mattina. Ma pure di risate, di abbracci e di silenzi. Di occhi che si dicono tutto senza parlare e che ti possono portare molto lontano se solo hai la pazienza di incrociarli e non abbassare lo sguardo. Io faccio l’educatrice in carcere (o come si dice ora “funzionario giuridico-pedagogico”). Lo faccio proprio, nel senso che la costruisco, l’educatrice che sono, ogni mattina quando varco la soglia senza sapere quello che è successo o quello che succederà. Ansiosa di vedere chi è entrato e chi è uscito (dopo tutte le relazioni che scrivo), quando riesco a sfangare tutta la burocrazia e le riunioni, entro “dentro” e vado ad incontrare la gente, che è quello che più mi piace fare. Alcuni sono miei compagni di viaggio da quando sono arrivata, i miei colleghi psicologi, poliziotti, psichiatri. Perché mentre i detenuti vanno e vengono noi siamo sempre là a vedere “che si può fare”, a risolvere i problemi (pure a crearli qualche volta), a cercare quella “domandina” che deve essere autorizzata e puntualmente non si trova. Il carcere è quella cosa che quando ne parli fuori tutti vorrebbero sapere i particolari (“ma mangiano tutti insieme? Ma sono vestiti tutti uguali? Ma possono uscire dalle celle?”) e dopo che cerchi di spiegarlo nessuno sembra aver capito. Il carcere è e resta di chi lo abita nel bene e soprattutto nel male. Lo hanno relegato nelle periferie e là è rimasto, lontano dal traffico, dalla gente, nascosto dietro a muri alti e imponenti. E poi ci sono loro, il vero motivo per cui siamo tutti lì: i detenuti. Anime sole, ciascuna con una storia che chiede di essere ascoltata. E a volte non te la vogliono nemmeno raccontare, perché lo sanno che forse conosci il carcere, ma non sanno se la vita fuori la conosci in tutte le sue forme e la puoi comprendere. È per questo che, per quanto mi riguarda, io cerco solo di esserci, di farmi trovare quando mi cercano, perché in alcuni momenti abbiamo bisogno che ci sia qualcuno che non ci dica nulla e magari ci accarezzi anche solo con lo sguardo. E camminando nei giardini del dubbio ho iniziato ad incontrare certe piante che sembrano morte e un giorno ti svegli e sono ricoperte di fiori bellissimi, ed altre tanto striminzite che non sai più a che specie appartengano e che un giorno ti sorprendono con nuovi germogli. E ho visto persone fare tanto male e le stesse persone fare del bene perché sono persone, essenzialmente, soprattutto nella capacità di poter essere diverse. E così ho cominciato a percorrere strade tortuose e spesso sdrucciolevoli e ho abitato il regno delle sfumature e delle possibilità, accorgendomi nei momenti più difficili di essere più vicina all’essenza della vita, a tutto ciò che non ha sovrastruttura, spogliato dagli orpelli. E tutto questo grazie a chi mi ha voluto mostrare anche per un solo attimo la profondità di quello che provava in quei momenti in cui lontano da tutti si cerca se stessi. E ho capito l’importanza delle cose piccole ed il valore delle parole che ho imparato a scegliere con attenzione e delicatezza, ma sempre con onestà. (Dedicato a tutti coloro che fra il dentro e il fuori hanno imparato che per superarli, i confini, bisogna prima guardare negli occhi le persone, a chi cerca un senso nell’insensato, a chi ricostruendo vasi rotti si accorge che ha in mano pezzi di mare e di cielo e non cocci inutili. Alle anime belle che continuano a cercare e a cercarsi e quando si trovano arriva il Domani). *Educatrice professionale, funzionario giuridico-pedagogico in carcere L’unità del Paese contro le divisioni causate dall’estremismo politico di Vittorio Occorsio Corriere della Sera, 8 maggio 2023 Nella “Giornata nazionale della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”, che cade il 9 maggio, ricorrenza del ritrovamento del corpo di Aldo Moro a via Caetani, si terrà come ogni anno una cerimonia di Stato, che questa volta tornerà a svolgersi al Quirinale, e ciò per noi familiari ha un significato particolarmente importante, di cui siamo grati al Presidente della Repubblica. Il senso della memoria cui la Giornata ci richiama è evidente dalla sola lettura di fatti di cronaca degli ultimi mesi, che rinnovano il dolore dei familiari e impongono nuove riflessioni. Basta indicarne due. La Corte di Cassazione francese, a fine marzo, ha confermato il diniego dell’estradizione dei membri delle Brigate Rosse e di altri movimenti estremisti. Si tratta di persone da anni residenti in Francia, per i quali, in Italia, tra il 1983 e il 1995, è stata irrogata la pena dell’ergastolo per vari omicidi (tra cui quello del Commissario Luigi Calabresi). Al di là delle private posizioni dei familiari delle vittime, che hanno espresso nobilmente la ritrosia a qualsiasi senso di vendetta, rimane il fatto che esponenti del terrorismo (in quel caso, di estrema sinistra), autori condannati e mai pentiti di efferati delitti, continuino a vivere una vita “incolpevole”. Sempre a marzo scorso, è morto Pierluigi Concutelli, terrorista questa volta di estrema destra, mai pentito omicida di mio nonno, Vittorio Occorsio, magistrato che aveva portato allo scioglimento di Ordine Nuovo (movimento cui Concutelli apparteneva), in applicazione della Costituzione e della legge Scelba, che punisce la ricostruzione, in qualsiasi forma, del disciolto partito fascista; lo stesso soggetto è stato autore di altri due omicidi (oltre a vari altri delitti), compiuti in carcere a mani nude, di due ex commilitoni, per evitare che collaborassero nelle indagini sulle stragi - circostanza che testimonia un ben più ampio ruolo svolto da Concutelli e da esponenti di Ordine Nuovo nella strategia della tensione e nel periodo stragista, come infatti il giudice Occorsio aveva intuito. E tuttavia, in occasione della sua morte, una nidiata di suoi aficionados ha pensato bene di affiggere, in giro per Roma, dei manifesti recanti la sua foto giovanile e la scritta “Onore comandante”. Alcuni di essi sono tuttora visibili, perché nessuna autorità si è occupata della loro rimozione. In più, non è stato sufficiente lo spostamento all’alba - voluto dalla Questura per evitare problemi d’ordine pubblico - dell’orario del suo funerale per dissuadere un gruppo di “camerati” dal recarsi nel luogo dove esso si svolgeva, non già per partecipare alla funzione funebre di un “amico” scomparso, bensì per rievocare ed esaltare la sua vita e la sua azione “rivoluzionaria”, con saluti romani e con la bara avvolta nel Tricolore, in spregio ai valori della Repubblica. Su tali circostanze non c’è spazio per destra e sinistra: intanto si può parlare di unità nazionale, in quanto la ferma condanna di questi fatti risuoni da un coro unanime di tutti gli esponenti della vita politica, culturale, sociale, del Paese, e le azioni delle autorità responsabili siano conseguentemente concrete e immediate. Non sono ammesse ambiguità di sorta. La costruzione di un’identità repubblicana può dirsi fallita se, ancora nel 2023, continuano a essere tollerate manifestazioni di questo tipo. Solo così potrà darsi un messaggio forte e chiaro a tutti i cittadini, specialmente ai giovani che non hanno vissuto quella stagione. La Giornata della memoria sul terrorismo, dunque, rimane una delle più attuali delle varie “Giornate in memoria di” previste nel nostro calendario civile, perché c’è ancora bisogno non solo di ricordare silenziosamente le vittime incolpevoli di una violenza assurda, ma, ancor oggi, di chiamare ad unità il Paese contro le divisioni causate dall’estremismo politico. È di fondamentale importanza, quindi, in questa Giornata e per tutto l’anno, spiegare il significato storico dei fatti e di alcuni gesti (come i saluti romani), che continuano a ripetersi e che ci riportano sempre a quei “dannati” anni 70, non solo per ricordare ma per far comprendere il valore della Democrazia costituzionale, italiana ed europea. Un impegno di ciascuno di noi e allo stesso tempo dello Stato, nelle sue più alte espressioni. Terrorismo, la lezione di Manlio Milani di Donatella Stasio La Stampa, 8 maggio 2023 Milani, sopravvissuto alla strage di piazza della Loggia, da 49 anni vive “oltre l’odio”. La destra impari da lui e superi la vendetta: il governo è al test della giustizia riparativa. “Conosco bene la sofferenza delle vittime ma rifiuto l’idea di appartenere a una categoria piuttosto che a una comunità con valori comuni a tutti”. È la bella lezione di Manlio Milani, sopravvissuto alla strage di Brescia del 28 maggio 1974, quando il terrorismo neofascista gli portò via la moglie Livia e gli amici, con i quali era in piazza della Loggia a manifestare contro l’eversione nera. I morti furono otto, 102 i feriti. Parole non facili per chi piange le vittime degli “anni di piombo”; spiazzanti per chi scambia il rispetto per le vittime con l’uso, talvolta strumentale, del loro dolore e ne fa, appunto, una categoria da contrapporre al nemico di turno: che sia il colpevole, il diverso, lo straniero o anche solo un’idea politica, fa lo stesso. Manlio Milani ha speso 49 dei suoi 85 anni per dare a quel dolore anche una dimensione pubblica, che vada oltre il rancore, la vendetta, il nemico e che abbracci, invece, i valori della Costituzione, il confronto, il dialogo, la comprensione, l’accoglienza, l’appartenenza a una comunità. Questa cultura, schiettamente costituzionale, gli ha consentito di affrontare anche un percorso di giustizia riparativa in cui ha incontrato gli appartenenti alla lotta armata degli anni Settanta. Lì si è messo in gioco fino a pensarsi “vittima non innocente”, convinto che storicizzare il dolore, fare memoria, sia la strada per elaborarlo e per superare l’odio. Una lezione fondamentale, oggi più che mai, per commemorare tutte le vittime del terrorismo. Manlio Milani nasce a Brescia nel 1938 da una famiglia popolare. Lascia gli studi dopo la quinta elementare perché deve lavorare (prenderà la licenza media nel 1978); nel ‘59 si iscrive al Pci e poi alla Cgil; partecipa al Gruppo culturale Antonio Banfi dove conosce Livia, professoressa di lettere nelle scuole medie, che sposa nel 1965. Nove anni dopo, la bomba di piazza della Loggia la uccide insieme ai suoi amici più cari. Da allora non si è più fermato nella ricerca di giustizia e verità ma anche e soprattutto delle ragioni di quella strage. Costituisce e presiede l’Associazione familiari delle vittime ma nel 2000 fonda, con il comune e la provincia di Brescia, la Casa della memoria, centro di documentazione sulla strage e la violenza terroristica, in particolare fascista. “Come Associazione correvamo sempre il rischio che ogni nostra proposta venisse percepita come reazione all’ingiustizia subita. Perciò decidemmo di andare oltre e costituimmo la Casa della memoria, per presentarci non più come vittime ma come persone che, insieme alle istituzioni, hanno come obiettivo la comprensione del fatto, la ricostruzione della memoria come fatto pubblico, che riguarda tutti e serve anche alla vittima per andare oltre e chiedersi come sia accaduto”. Il ricordo è la ricostruzione del fatto; la memoria ne è l’elaborazione e aiuta a cogliere l’invisibile. “Ricordati che quella bomba ha colpito tutti” gli dissero tra gli abbracci, quando nel pomeriggio tornò a piazza della Loggia. Lì capì di non essere solo una vittima, ma anche un testimone. Parole decisive come quelle del vescovo di Brescia, durante il funerale: “Non dimentichiamo Caino”. “Scatenò una marea di polemiche, anche nella Chiesa - ricorda Manlio - ma dentro di me, invece, cominciarono a vociare tante domande: come mai questi ragazzi, quasi tutti tra i 18 e i 20 anni, hanno potuto fare questo? Chi sono? In quale contesto si sono mossi? Domande alle quali il processo non può dare risposte alla vittima. E allora sei a un bivio: o ti chiudi nel dolore e sopravvivi misurando il tuo tempo sul tempo del carcere del condannato oppure fai di quel dolore un’esperienza positiva, una testimonianza, un racconto che gli dia una dimensione pubblica: devo capire le ragioni di quel fatto, devo chiedermi perché si è arrivati a quella violenza. C’è sempre una ragione e dobbiamo cercarla. Diventi testimone della storia, metti al centro la persona e il superamento dell’odio. Non sei più vittima ma cittadino, sei parte della comunità e dei suoi valori”. Con questa storia alle spalle, nel 2009 Manlio viene coinvolto nel percorso di giustizia riparativa insieme ad altre vittime e ad alcuni ex terroristi rossi degli anni ‘70. Il processo, scandito da una serie di depistaggi, era cominciato nel 1979; le condanne definitive dei colpevoli, due neofascisti, arriveranno solo nel 2017. “Volevo capire come si può arrivare a questo punto, chi erano questi “mostri”. Ma mi chiedevo: sarò in grado di stringere la loro mano? E invece è stato semplicissimo. Il contatto corporeo ha fatto cadere il primo muro. L’altro passaggio chiave è stato l’incontro annuale di una settimana durante la quale vivevamo insieme, parlavamo, ci confrontavamo. Quella prossimità - mangiare insieme, lavare i piatti, fare una vita comune - ti faceva capire che l’altro è davvero come te. Io mi sono iscritto al Pci nel 1959 e, quindi, loro facevano parte della mia stessa storia, ma perché loro avevano fatto quella scelta e io no? Una risposta l’ho trovata nella mia militanza sindacale che mi imponeva di confrontarmi con Cisl e Uil. Lì ho capito il valore del dialogo e in quegli anni la dimensione del dialogo è stata importantissima per non attraversare il confine, sottile, che portava alla lotta armata”. Dunque, la vittima può andare oltre il suo dolore. Ma ciò implica un passaggio ulteriore. “Spesso diciamo che le vittime sono innocenti. È chiaro che se mi limito al fatto in sé, sono innocente, ma se voglio capire e rispondere alla domanda “com’è possibile che sia accaduto”, devo mettermi storicamente al passo di quella persona. Anch’io, quando andavo nei cortei, incitavo alla violenza. Gridavo: “Basco nero, il tuo posto è il cimitero”. Perché non ho rifiutato quel linguaggio? Se lo avessi fatto, forse avrei limitato il rischio di quella violenza. Lo stesso discorso vale per l’indifferenza: chi è stato indifferente a quelle violenze non può dirsi innocente. Certo, se penso a bambini di due anni ai quali il terrorismo ha ucciso il padre, non posso incolparli di nulla e capisco il rifiuto di condividere questo ragionamento; ma resto convinto che questo sforzo di comprensione vada fatto. Non possiamo pensare di essere innocenti rispetto alla storia. Io sento di avere delle responsabilità perché quel linguaggio alimentava l’idea del nemico”. Una lezione, quella di Manlio, che ci richiama alle responsabilità dell’oggi. Viviamo in una società pervasa dall’odio; il discorso pubblico si nutre di radicalizzazioni e ha smarrito parole chiave come rispetto, pluralismo, confronto, bilanciamento, uguaglianza, né la classe dirigente sembra capace di recuperarne il senso; la destra di governo tradisce risentimento nel linguaggio e nei comportamenti e rivendica i “suoi” morti degli anni Settanta, dimenticando tutti gli altri, in una logica di contrapposizione funzionale all’ostinato rifiuto di dirsi antifascista; l’esecutivo cavalca la cultura della vendetta con nuovi reati, pene più severe, carcere duro: ne riconosce l’inutilità ma dice che sono un “segno di attenzione” dello Stato verso i cittadini. Dov’è, in tutto questo, la cultura costituzionale? Ecco perché Manlio Milani - al quale i presidenti della Repubblica Scalfaro e Napolitano hanno conferito onorificenze - dev’essere un esempio per tutti, fuori e dentro i palazzi delle istituzioni. Oggi la sua lezione ci dice quanto sia urgente attuare la riforma Cartabia sulla giustizia riparativa. Dal ministero assicurano che entro fine giugno taglierà il traguardo e che non è rinviabile perché fa parte del Pnrr. Ma senza una forte spinta culturale, e politica, la riforma fallirà. A Brescia c’è un percorso di 441 pietre di inciampo che attraversa la città, con i nomi di tutti i caduti del terrorismo, senza distinzioni. “Nella morte le vittime sono tutte uguali ma è nella storia che si dividono”, diceva Calvino. “E questo andiamo a dire nelle scuole, vittime e autori del reato, insieme - spiega Manlio - per cercare di capire la violenza e superare l’odio. Lo facciamo da anni e lo faremo anche il 28 maggio, anniversario della strage. Nel vederci insieme, i ragazzi si sentono un po’ spiazzati ma poi capiscono che la forza di trasformare il dolore in un atto politico è importantissima. Perciò è fondamentale la giustizia riparativa, perché è una cultura. E quindi, un atto politico”. I diritti hanno vinto sul piombo ma ricordare le vittime serve di Mirella Serri La Stampa, 8 maggio 2023 Dalle violenze sdoganate nel 1969 agli “attacchi al cuore dello Stato” delle Br. I 419 morti non devono diventare un’arma della politica né essere dimenticati. “Anni di piombo”, così vennero chiamati quelli del decennio Settanta (e dintorni) del secolo scorso. Furono anni in cui dall’estrema destra e dall’estrema sinistra vennero mietute vittime a migliaia, fra morti e feriti, in base a ideologie cieche e feroci elaborate da cattivi maestri i quali suggerivano palingenesi sociali basate sulla violenza politica. E furono anni che culminarono ma che non si conclusero con il rapimento e l’uccisione dello statista democristiano Aldo Moro, preceduta da quella della sua scorta. L’omicidio avvenne il 9 maggio 1978. Ed è proprio questa data a essere stata prescelta nel 2007 come Giorno della memoria delle vittime del terrorismo. Il ricordo però non può essere strumento di lotta politica: questo principio è stato rivendicato anche di recente, in occasione dei cinquanta anni dal rogo di Primavalle quando un incendio doloso, innescato da un gruppo di militanti di Potere Operaio, uccise Virgilio e Stefano Mattei, di 22 e 8 anni. Per questo la giornata del 9 maggio si pone anche l’obiettivo di non dare occasione al rancore e al risentimento. Un esempio di approccio produttivo al dolore lo ha offerto Carol Beebe Tarantelli, vedova di Ezio, l’economista freddato dalle Brigate Rosse: dopo la morte del marito cominciò a frequentare a Regina Coeli i terroristi che si erano dissociati. Cercò di capire cosa poteva aver portato quegli uomini a un gesto così feroce e immotivato. Le violenze del decennio insanguinato non furono episodi isolati. Fra il 1969 e il 1987 in Italia sono stati contati 14.591 atti di violenza politica, con 419 morti e 1.181 feriti. La fine degli anni Sessanta, infatti, segnò un discrimine: la violenza politica venne sdoganata e nel 1969 vi furono nella penisola 145 attentati dinamitardi di cui 96 sicuramente attribuiti all’estrema destra. Le conquiste sindacali di quel periodo scatenarono la reazione dei servizi paralleli e delle forze della conservazione più bieca, i quali temevano una ventata rivoluzionaria. Allo stesso tempo, quei successi sociali e politici delusero i militanti della sinistra più estrema che li considerarono pannicelli caldi, convinti com’erano che occorresse un sovvertimento radicale del sistema, anche attraverso un’eversione armata, la conquista del Palazzo d’Inverno. In Lombardia sempre nel ‘69 si contarono 400 episodi di violenza di matrice neofascista, più di uno al giorno. Il 12 dicembre a Milano, in Piazza Fontana, l’esplosione di una bomba provocò la morte di 16 persone e il ferimento di altre 84. Quella strage segnò profondamente l’Italia: “Per la prima volta gli italiani avevano l’impressione di essere stati ingannati, traditi dal loro Stato”, scrisse Giorgio Bocca. Uomini dei servizi segreti erano coinvolti in quel “terreno vischioso che corre parallelo a tutta la storia repubblicana rappresentato dal rapporto tra gli apparati di ordine pubblico e ambienti neofascisti”, come rilevò lo storico Piero Craveri. Il 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia a Brescia stava parlando il sindacalista della Cisl per denunciare il terrorismo nero quando scoppiò una bomba posta in un cestino per i rifiuti e fece 8 vittime e 103 i feriti. Il 4 agosto dello stesso anno, nel cuore della notte, il treno Italicus deragliava a causa di una bomba: i morti furono 12, i feriti 44. Con gli anni Settanta presero il via le azioni criminali delle Brigate Rosse attraverso la cosiddetta “propaganda armata”. Finita la prima fase delle azioni delle Br, iniziò l’”attacco al cuore dello Stato” che colpì forze dell’ordine, magistrati, operai riformisti come Guido Rossa, giornalisti e politici. Il giorno della memoria ci ricorda dunque che il terrorismo è stato sconfitto ma anche che i diritti, la legalità, i principi della nostra Costituzione sono usciti vincitori da quello scontro. Una lezione per il presente e per il futuro. Alessandro Manzoni: è lui il padre del moderno garantismo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 8 maggio 2023 Centocinquanta anni fa moriva l’autore dei “Promessi sposi” ma la sua conversione emerse nella “Storia della colonna infame”, un’opera in cui ricostruisce un terribile fatto di cronaca avvenuto a Milano nel diciassettesimo secolo: il processo contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati ingiustamente di aver diffuso la peste. Illuminista o romantico, democratico liberale o moralista cattolico, pensatore cosmopolita o patriota nazionalista? Imbrigliare Alessandro Manzoni in una definizione da manuale è un esercizio accademico che spoglia il grande scrittore milanese della sua ricchezza e della sua complessità. Checché ne dica nel Cinque maggio, in lui i “due secoli l’un contro l’altro armati” non si puntano il fucile ma si danno la mano e si intrecciano lungo la linea di un’evoluzione intellettuale che tiene assieme i principi razionali dei lumi settecenteschi e il fervore religioso inteso come etica civile e senso della giustizia. La sua formazione è chiaramente atea e materialista; lo zio Pietro Verri è il fondatore della rivista Il Caffé, nata nel 1764 nella Milano governata dal dispotismo illuminato e riformatore di Maria Teresa d’Austria che per due anni ha diffuso in Italia il pensiero dei philosophes francesi e degli utilitaristi inglesi, una rivista aperta alle nuove scienze, al progresso tecnologico, alle moderne idee di giustizia e democrazia, alla nascente economia politica, alla legislatura penale. Come scrisse Alberto Arbasino Il Caffé sviluppò “una cultura extra letteraria e un pensiero intellettuale “assolutamente moderno” a dispetto della grammatica arcaica dei Pedanti trasgredendo al purismo imbecille”. Pietro Verri e il fratello Alessandro avevano fondato in tal senso la provocatoria Società dei pugni per promuovere la figura dell’intellettuale che esce dai ristretti e polverosi orizzonti dei circoli universitari o dei club esclusivi per diventare un protagonista vero e proprio del dibattito pubblico e, perché no, del cambiamento politico. Tra gli animatori de Il Caffé figura anche Cesare Beccaria, autore del celebre Dei delitti e delle pene nonché nonno materno di Manzoni: la filiazione delle idee di Beccarria rimarrà una bussola costante nella vita di Manzoni, orientando la sua morale anche quando il fervore romantico e il patriottismo diventano il principale motivo di ispirazione artistica e civile. Il rifiuto della pena di morte, l’avversione alla tortura, la limitazione della carcerazione preventiva, le proporzionalità delle sanzioni sono tutti concetti di cui Manzoni è impregnato fin dalla prima gioventù e che lo accompagnano alla piena maturità, filtrati e attualizzati attraverso una sensibilità umana, letteraria e religiosa tutta sua. Si è molto parlato della conversione al cattolicesimo di Manzoni, un passaggio circondato da un ‘aura misteriosa e dalla leggenda che lo vuole folgorato dalla rivelazione il 2 aprile 1810 nella chiesa parigina di San rocco dove assisteva ai festeggiamenti del matrimonio tra Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Austria, il cosiddetto “miracolo di San Rocco”. La conversione manzoniana fu in realtà, e non potrebbe essere altrimenti, un percorso graduale e sofferto, mentre il suo cattolicesimo non fu per nulla ortodosso ma influenzato da culture diverse. Della moglie Enrichetta Blondel trattiene il rigore protestante, i due si erano sposati con rito calvinista: a officiare la cerimonia Eustachio Degola, sacerdote giansenista che ha avuto una fortissima influenza filosofica sullo scrittore. Dal giansenismo Manzoni mutua infatti la concezione pessimistica della Storia, l’idea che gli esseri umani siano naturalmente portati a compiere il male senza l’intervento della grazia divina o della divina Provvidenza. ma anche nelle opere più religiose la matrice illuminista rimane intatta e visibile: la credenza non s i oppone alla ragione, semmai ne disegna i limiti e i confini ma non ne esclude lo sguardo. Come scrive ne Le osservazioni sulla morale cattolica, il mistero della fede è qualcosa “che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell’ammirarlo”. La religione è perciò uno strumento di conoscenza attorno alla quale si può costituire un’autentica antropologia politica e rifondare tutta l’etica collettiva: “Essa ha rivelato l’uomo all’uomo”. L’originalità con cui Manzoni interpreta e fa convivere in se stesso la fiducia nel progresso e nella razionalità con i precetti della fede cattolica segna le sue riflessioni filosofiche sulla giustizia che, a due secoli di distanza, ci appaiono ancora oggi di una modernità straordinaria. Le solide basi gettate dal nonno Cesare Beccaria sostengono e forniscono misura alla morale manzoniana così attenta ai diritti degli individui sottoposti all’arbitrio della sopraffazione. Questo emerge chiaramente ne I Promessi sposi e nella durissima critica della macchina giudiziaria amministrata dai dominatori spagnoli (il romanzo è ambientato nella Lombardia del Seicento) che con feroce classismo colpisce e vessa sempre i più umili e più deboli, permettendo ai prepotenti signorotti come Don Rodrigo qualsiasi tipo di angheria e impunità. A differenza di quanto avviene in altri autori romantici, i protagonisti del suo romanzo non sono dei nobili eroi senza macchia e senza paura, ma Renzo e Lucia, due popolani le cui esistenze vengono schiacciate da un sistema che non concede ai sudditi la parità dei diritti e dei dover i che non impone ai membri di una comunità il medesimo rispetto delle leggi: in questo solco le concezioni egualitarie della Rivoluzione francese e quelle del messaggio evangelico cristiano trovano una sintesi perfetta. Ma l’opera che più di tutte esalta le idee di Manzoni sulla giustizia umana e che fa di lui probabilmente il vero padre del pensiero garantista italiano è senza dubbio Storia della Colonna infame, un saggio storico pubblicato nel 1840 in appendice ai Promessi sposi in cui ricostruisce un terribile fatto di cronaca avvento a Milano nel diciassettesimo secolo: il processo contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora accusati di aver diffuso il morbo della peste e condannati a morte tramite supplizio dalle autorità spagnole. Ecco in breve i fatti. Guglielmo Piazza era un importante dirigente sanitario del Ducato di Milano durante la “grande peste” che colpì la città lombarda nel 1630, flagellando tutto il nord Italia e provocando oltre un milione di vittime. Nel pieno dell’epidemia di peste Piazza fu avvistato da una cittadina, Caterina Trocazzani Rosa, mentre camminava lungo un edificio facendo strisciare la mano sul muro. Stava compiendo una normale ispezione per prendere appunti sulle condizioni igieniche degli edifici, e marciava raso muro per proteggersi dalla pioggia, ma la donna era convinta che l’uomo stesse spargendo oscure sostanze, le stesse responsabili dell’epidemia di peste: “Vide un uomo con la cappa nera e qualcosa in mano”, insomma un “untore”. Piazza viene catturato dagli agenti del capitano di giustizia spagnolo e immediatamente incriminato sulla base delle strane accuse della signora Trocazzani Rosa. Con lui viene coinvolto anche Gian Giacomo Mora, il barbiere che gli avrebbe consegnato la sostanza venefica. Automatica la condanna a morte tramite supplizio emessa dopo una “confessione” di Piazza estorta con la tortura e con la promessa ingannatoria di garantirgli l’immunità. Anche non c’era alcuna prova contro di lui; nel suo appartamento le guardie non avevano trovato nessun indizio che ne facesse un untore e nulla nella sua condotta passata ha mai giustificato simili calunnie. La descrizione che fa Manzoni dell’agonia di Piazza e Mora è di rara crudezza: “Tanagliati con ferro rovente, tagliata loro la mano destra, spezzate le ossa con la rota e in quella intrecciati vivi e sollevati in alto; dopo sei ore scannati, bruciati i cadaveri, le ceneri gettate nel fiume, demolita la casa di Mora, reso quello spazio inedificabile per sempre e su di esso costruire una colonna d’infamia”. Piazza e Mora sono i capri espiatori ideali, le vittime di un autentico processo mediatico che fa a pezzi la presunzione di innocenza, la rilevanza delle prove, la consistenza dei testimoni d’accusa, il diritto di difesa, un processo che unisce in un patto diabolico il giustizialismo “dall’alto” delle autorità con la sete di vendetta “dal basso” del popolo stremato dall’epidemia di peste e desideroso di trovare un colpevole, a tutti i costi. E in cui i magistrati vengono irrimediabilmente condizionati dalle pressioni della “gente” che chiede vendetta. Qui Manzoni va oltre Beccaria, si fa sociologo e osservatore della psicologia delle masse, illuminando le insidie delle suggestioni collettive, delle superstizioni e dei pregiudizi che obnubilano la mente e il giudizio. E reciprocamente del modo in cui i governi soffiano su quel fuoco, alimentando e titillando il desiderio di forca da parte del popolo. Storia della colonna infame è anche di una formidabile critica della discrezionalità e dei meccanismi del potere politico connesso senza soluzione di continuità a un sistema giudiziario che non tiene conto de i diritti degli individui soli e indifesi contro il grande Leviatano. In questo tritacarne la prima vittima è la verità, intesa come ricostruzione razionale e attendibile dii fatti realmente accertati. Ecco cosa scrive Manzoni in proposito: “Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, dei quali non potevano ignorare l’ingiustizia”. “Anche oggi il “tribunale del popolo” non assolve e condanna l’indagato alla pena della vergogna” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 maggio 2023 Parla Vittorio Manes: “Il saggio di Manzoni è un’opera straordinaria per molte ragione, ed è un “classico” perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati”. A distanza di circa duecento anni, la “Storia della Colonna infame” di Alessandro Manzoni continua a essere attuale. Errori da parte di chi giudica, abusi e pregiudizi si sono verificati anche dopo il capolavoro manzoniano, fino ai nostri giorni. Cambiano le epoche, ma alcuni strumenti per stritolare la dignità umana esistono ancora. Ne abbiamo parlato con Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, autore del libro “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino). Professor Manes, due secoli fa Alessandro Manzoni, nella “Storia della Colonna infame”, affrontò il tema dell’errore giudiziario e dell’abuso di potere. La storia insegna tanto o niente? Il saggio di Manzoni è un’opera straordinaria per molte ragioni, ed è un “classico” perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati: anzitutto, il rischio sempre vivo che un innocente sia condannato, come appunto capitò in sorte ai due protagonisti, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati di essere “untori” all’epoca della peste del 1630 e per questo ingiustamente sottoposti a tortura e quindi condannati a morte. La storia insegna tanto, ma purtroppo non ha memoria. A cosa si riferisce? La storia insegna tanto perché tutta l’evoluzione del diritto penale, sostanziale e processuale, non è altro se non la sedimentazione secolare di errori giudiziari, null’altro che una “trama secolare di disavventure”, parafrasando Borges. Da questi “errori” e “disavventure”, e dall’urgenza di evitare il loro ripetersi, sono stati progressivamente generati i principi e le garanzie in materia penale, prima fra tutte la garanzia primordiale della presunzione di innocenza. Diritti e garanzie sono “antidoti” generati da errori (giudiziari), come recita il titolo di un fortunato saggio di Alan Dershowitz, “Rights from wrongs”. Però, purtroppo, la storia non ha memoria, o meglio, nessuna esperienza della memoria è davvero in grado di sterilizzare il ripetersi di errori giudiziari, che restano tristemente attuali, per le più disparate ragioni, come mette bene in luce una preziosa recente ricerca guidata dal professor Luca Luparia, (“L’errore giudiziario”, Milano, 2021, ndr), “un viaggio al termine della giustizia” alla ricerca di “anticorpi per la condanna dell’innocente”. Questa ricerca deve ancora compiere molti passi avanti, anche nei sistemi di democrazia matura, come testimonia dolorosamente l’attività dell’Innocence project negli Usa sulle più disparate “wrongful convictions”. Del resto, lo stesso Manzoni ammoniva che “la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura…non furor purtroppo particolari a un’epoca”, ma sono esperienze tristemente vive in ogni tempo e in ogni luogo. Manzoni mise in guardia i suoi lettori sui danni che può provocare la giustizia ingiusta con il “sacrificio” di persone innocenti anche per compiacere la folla. Una situazione che si è verificata anche nei giorni nostri? Credo sia difficile negare l’influenza che l’opinione pubblica esercita sul giudizio, anche se non ci sono rilevazione empiriche che possano dimostrarlo. Oggi come ieri, i giudici che non seguano, con la loro decisione, un diffuso pregiudizio colpevolista, possono avvertire “il timor di mancare a un’aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle”, proprio come scriveva Manzoni. Del resto, quando si crea un determinato “orizzonte di attesa” nel pubblico, il rischio è che chi giudica si senta chiamato non a giudicare bensì a “dire da che parte sta”, se sta dalla parte dell’opinione pubblica, o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E questo rischia di contaminare, di fatto, l’imparzialità del giudicante. Quanto più forte e massiva è questa influenza, tanto più coraggio serve per assolvere, perché la decisione di assoluzione inevitabilmente delude le aspettative delle presunte vittime, con le quali l’opinione pubblica tende ad identificarsi: le parti civili, infatti, non chiedono giustizia, ma chiedono condanna. Dalla colonna infame alla gogna e alla giustizia mediatica. È cambiato lo strumento per spettacolarizzare certi metodi e per presentare all’opinione pubblica il “mostro”? È cambiato, e molto, assumendo dimensioni ben più pervasive e contundenti, vista la enorme capacità diffusiva che l’informazione on line e i mass media oggi hanno, anche nel martellante rimpallo con i social network e con i mezzi più informali di veicolazione delle notizie nell’universo apocrifo dell’infosfera. Di fatto, se una vicenda penale entra nel circuito mediatico, un semplice “indagato” viene colpito da una “lettera scarlatta” che lo perseguiterà per sempre, una sorta di “pena della vergogna” (shame sanction) che implica la degradazione pubblica dell’individuo, e che non sarà mai cancellata anche dopo una eventuale sentenza di assoluzione, visto che la perpetuazione della “esposizione pubblica”, la public exposure che ha sostituito la gogna medievale, sarà di regola assicurata dalla conservazione della notizia nello sconfinato campo dell’infosfera, con buona pace del diritto all’oblio. Il tribunale mediatico non assolve mai? Il tribunale mediatico non assolve mai, o mai davvero del tutto. Nella pubblica opinione resta insinuato il “sospetto”, perché, come si dice, “if there’s smoke there’s fire”, e nel migliore dei casi residua un giudizio morale negativo o un “etichettamento” negativo anche solo per essere stato coinvolto e travolto dallo scandalo, a prescindere dall’esito del processo. Aveva ragione Sciascia: tutto è non cadere nell’ingranaggio, ma “per come va l’innocenza, tutti potremmo cadere nell’ingranaggio”. Quali sono gli strumenti e i soggetti in grado di attenuare - per non dire neutralizzare - la forza dirompente della giustizia mediatica? Non ci sono strumenti risolutivi, purtroppo. Ma la deontologia di ogni operatore può fare molto, sia sul versante giudiziario, e in specie degli organi inquirenti e degli operatori di polizia giudiziaria, sia sul versante dell’informazione. La neutralità nel presentare la notizia, l’attenzione alla presunzione di innocenza nel dar spazio anche alla versione della difesa, il rispetto per la dignità della persona, nel non divulgare dati sensibili dell’indagato-imputato come dei terzi “coinvolti”, sono tutti accorgimenti che possono ridurre l’impatto del problema. Ma è un problema culturale, e andrebbe affrontato anzitutto su quel piano: con una massiva campagna di “educazione civica”, sin dalle scuole superiori, che sappia spiegare e trasmettere i valori della civiltà del diritto, le ragioni alla base dei principi e delle garanzie costituzionali in materia di giustizia, spiegate anche attraverso quelle terribili esperienze di ingiustizia che Manzoni, nel suo fulminante saggio, ha consegnato a noi tutti ed alla storia. Roma. La formazione entra nelle celle: “Prima occasione per non sbagliare più” di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2023 La formazione entra in carcere. Per offrire, più che una seconda chance una vera prima opportunità. Perché con una giusta formazione e l’aiuto delle imprese si può ripartire anche dopo un errore che ha aperto le porte di una struttura penitenziaria. Quasi una sfida per Roberto Santori, presidente della sezione Consulenza e attività professionale e formazione di Unindustria, oltre che fondatore e amministratore delegato di Challenge Network Spa, azienda che sviluppa un sistema di servizi integrati per la consulenza e formazione e che vanta collaborazioni con Fiat, Maserati, Poste Italiane, Acea, Telecom, Juventus Fc, Sda e sedi e hub regionali a Dubai, Rio, Belgrado, Madrid, Londra, Istanbul e Atene. Dal 2018 Santori porta avanti la formazione in carcere, a Rebibbia e, seppure tra qualche difficoltà, comincia a vedere qualche risultato. “L’idea di entrare a fare formazione in carcere è nata quasi per caso, come spesso accadono le cose belle - racconta -. Nel gennaio di 5 anni fa, nell’ambito di una serie di iniziative promosse dalla società del Comune di Roma Zetema che organizzava corsi su temi ampi, arte e cultura per detenuti, sono stato invitato a portare la mia testimonianza e dare qualche consiglio a chi scontava una pena per reinserirsi nel mondo del lavoro”. Un passo abbastanza inconsueto per il manager piombato in un’aula con settanta persone “che non erano interlocutori abituali”. “Poi superata la fase iniziale, tolta giacca e cravatta, ho iniziato a far parlare loro, e si è creata una sintonia con le persone che si raccontavano e volevano dire le esperienze e pulire le coscienze”. La molla scatta dopo, una volta lasciato alle spalle il portone. “Considerato che la nostra azienda si occupa di formazione ho pensato che questa potesse essere l’occasione per dare loro almeno una possibilità, partendo dal rapporto di fiducia”. La pandemia e le restrizioni dettate dall’emergenza sanitaria non hanno fermato la macchina messa in piedi dal presidente della sezione di Unindustria (l’Unione degli Industriali e delle imprese di Roma, Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo, che associa 160 aziende per oltre 4400 dipendenti) che proprio nel periodo di massima necessità ha fornito supporto sia per quanto ha riguardato la fornitura di mascherine e disinfettante sia per la fornitura dei tablet utilizzati per aiutare le famiglie a comunicare con i detenuti. “Si è creato un rapporto importante tra Unindustria e i vari direttori - aggiunge - e nel corso degli anni siamo riusciti a confermare le nostre attività”. Risultato? “Abbiamo portato tante aziende all’interno e si è innescato un meccanismo che stiamo cercando trasferire sul livello nazionale - aggiunge ancora. Stiamo lavorando alla predisposizione di un accordo quadro con il ministero della Giustizia, Confindustria, Assoconsult e Assolavoro che faccia da cornice per creare uno strumento che diventi poi sistema generale”. Quella che potrebbe essere definita una sorta di “procedura generale” da utilizzare per mettere a sistema. “Attualmente ci sono diverse iniziative che vengono realizzate e portate avanti in virtù di accordi locali - aggiunge ancora - noi pensiamo invece a una struttura generale che diventa punto di riferimento per tutte le altre”. Perché il lavoro non è solo un’occasione per i detenuti ma anche per le aziende. “È bene ricordare che per chi assume ci sono agevolazioni fiscali e misure di supporto - aggiunge -. Si tratta di strumenti che però, molto spesso non si conoscono e che si accompagnano a procedure molto spesso lunghe e articolate che scoraggiano chi non è particolarmente strutturato”. L’azienda di Santori garantisce occupazione a un detenuto che lavora, in modalità offline, all’interno di Rebibbia. “Più che quelli della seconda chance siamo quelli che vogliono dare la prima occasione a chi è cresciuto in un contesto sfavorevole - aggiunge -. Come associazione industriali portiamo avanti questa filosofia che ha un aspetto solidale ma anche uno civico: siamo convinti, infatti che se una persona che ha sbagliato, una volta fuori intraprende un nuovo corso non torna a delinquere”. Avellino. Ciambriello: “Si ascoltino i detenuti, serve più umanità” di Angelo Giuliani ottopagine.it, 8 maggio 2023 Il Garante regionale interviene all’indomani della protesta all’istituto di Bellizzi Irpino. Resta alta la tensione nel carcere di Avellino dove ieri è andata in scena la singolare protesta di un detenuto che è salito sul tetto dell’istituto penitenziario. “L’episodio - fa sapere il Sappe - si è verificato intorno alle 13 e solo alle 15:30 grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria si è riusciti a mettere in sicurezza il detenuto ed a ripristinare l’ordine e la sicurezza interna al reparto”. I motivi della protesta non sono ancora chiari, pare che il detenuto volesse essere trasferito presso altro istituto penitenziario della Regione. Per il garante regionale Samuele Ciambriello è l’ennesima spia di un malessere che si vive all’interno delle carceri campane. “Bisogna ascoltare di più i detenuti, mi rivolgo anche ai consiglieri regionali, ai deputati ai senatori. Bisogna lavorare di più per favorire attività culturali e di inclusione sociale. Le carceri sono ormai ridotte a ospizi dei poveri, a discariche sociali. Solo così, se investiamo risorse materiali e immateriali, riusciremo a evitare fenomeni di autolesionismo. Solo a Bellizzi negli ultimi mesi ci sono stati 8 tentativi di suicidio. Proviamo a dare un’altra lettura sul tema delle carceri”. Frosinone. Ambiente, 17 detenuti puliscono le sponde del fiume Amaseno frosinonetoday.it, 8 maggio 2023 Piazza Lucio Dalla a Bologna, il lungofiume Amaseno a Priverno (Latina) e la spiaggia della Tonnara di Palmi (Reggio Calabria) sono stati lo scenario del nuovo sodalizio contro il degrado ambientale tra “Seconda Chance”, associazione del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento, e “Plastic Free”, Onlus impegnata dal 2019 nel contrastare l’inquinamento da plastica. Protagonisti 46 detenuti provenienti da 5 carceri nazionali (Bologna, Frosinone, Laureana di Borrello, Locri e Palmi), guidati nelle operazioni di bonifica delle aree degradate dai numerosi volontari emiliani, laziali e calabresi dell’associazione ambientalista. Tanta la plastica e i rifiuti raccolti ma ancor di più i sorrisi e l’entusiasmo sul volto dei carcerati. “Inclusione, rieducazione, rispetto dell’ambiente e della legalità: queste le parole chiave di questa nuova partnership che farà bene all’Italia - dichiara Flavia Filippi, fondatrice e presidente di “Seconda Chance” - Per tanti detenuti si è trattato della prima uscita dopo diversi anni, del primo contatto con il mare, con il fiume, con la città e con gruppi di ragazzi armati di guanti, ramazze e desiderio di condivisione. Una collaborazione che suscita tanto entusiasmo anche nei direttori degli istituti - prosegue - i quali si sono dichiarati pronti a replicare le giornate ecologiche in altre parti del Paese”. “La nostra associazione nasce con lo scopo principale di sensibilizzare sulla pericolosità della plastica rilasciata nell’ambiente. Per noi sensibilizzare vuol dire includere, tutti senza discriminazioni - dichiara Lorenzo Zitignani, direttore generale “Plastic Free Onlus” - Il progetto con “Seconda Chance” nasce in quest’ottica: rieducare includendo e sensibilizzando. La giornata ecologica di detenuti e volontari è la chiara dimostrazione che ognuno di noi può dare il proprio contributo, indipendentemente dalla sua posizione, per un solo scopo: il bene dell’ambiente. Purtroppo non abbiamo un Pianeta B ma tante persone possono avere una nuova occasione di vita. Ringrazio Flavia Filippi per aver creduto insieme a noi in questo progetto e con cui ci metteremo subito a lavoro per nuovi appuntamenti - conclude - ma soprattutto i tanti volontari Plastic Free che dedicano tempo e sforzi per un ambiente migliore”. Padova. Inaugurazione dell’anno accademico alla casa di reclusione Due Palazzi ilbolive.unipd.it, 8 maggio 2023 Venerdì 12 maggio l’Università di Padova inaugura l’anno accademico per gli studenti in regime di detenzione presso la casa di reclusione Due Palazzi. La cerimonia si svolge alla presenza della rettrice, Daniela Mapelli, della provveditrice per il Triveneto, Maria Milano Franco D’Aragona, e del direttore della casa di reclusione, Claudio Mazzeo. Alla cerimonia intervengono la delegata e coordinatrice del progetto “Università in carcere”, Francesca Vianello, i tutor e gli studenti iscritti. La prolusione “Benessere e sport: il segreto della longevità” è a cura del prorettore Antonio Paoli. A seguire, un concerto con il gruppo musicale “La cattiva strada”. Grazie inoltre al gruppo di lavoro “Accessibilità e inclusione” che fa parte del progetto “Musei al futuro - Padova Città della Scienza”, è possibile visitare un’esposizione di materiali provenienti dai musei di Ateneo sul tema del diritto allo studio, allestita all’interno del carcere con modalità di presentazione “Museo in valigia”. L’evento si conclude con un brindisi inaugurale all’aperto e la consegna dei badge universitari ai neoiscritti. Busto Arsizio. Madri e figli in carcere per una Festa della mamma con i papà detenuti malpensa24.it, 8 maggio 2023 Una festa della mamma speciali per mogli e figli con il papà detenuto. E questa l’iniziativa organizzata per sabato 13 maggio dall’associazione L’oblò in collaborazione con l’amministrazione del carcere di via per Cassano. L’iniziativa - La mattina di sabato 13 maggio, bambini e mamme potranno entrare in carcere dove, insieme ai papà detenuti, li attenderà una sorpresa: una mattinata di teatro e giochi, organizzata dagli attori detenuti della compagnia L’Oblò. La storia de “La Gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” verrà rappresentata da tre attori detenuti di Oblò come spettacolo di narrazione, a cui farà seguito un momento di giochi teatrali, proposti e condotti dagli altri attori del gruppo di teatro. Perché festeggiare in carcere? L’idea è venuta alle Educatrici dell’Area Trattamentale della Casa Circondariale, che curano i progetti sulla genitorialità. Il mantenimento e il recupero degli affetti è certamente la risorsa più efficace per le persone detenute: per i papà detenuti, che di necessità delegano tanto dell’educazione e della cura dei propri figli alle mamme che restano fuori a fare i conti con la quotidianità e tutti i suoi problemi, può essere un modo per riconoscere la fatica delle compagne, celebrarle insieme ai figli. E per le mamme che entrano in carcere con i loro figli, può essere un momento di gioia, in cui l’Istituto sembra un po’ meno carcere e un po’ più “casa”, per ospitare gli affetti. Per entrambi può essere un momento di “genitorialità condivisa”, un momento di unione che dà un significativo contributo alla linfa vitale del legame tra mamme, papà e figli. Gli affetti non hanno pene da scontare - Per gli attori ristretti che propongono lo spettacolo sarà un momento di forte impatto emotivo. Per la prima volta reciteranno davanti ad un pubblico di mamme e bambini, e sicuramente questo porterà alla loro memoria i loro figli, i loro fratellini lontani, le loro mamme o le mamme dei loro figli: legami che la detenzione allenta e a volte spezza del tutto. Anche i detenuti che frequentano il Centro Diurno, organizzato all’interno dell’Istituto di Busto Arsizio da Cooperativa Intrecci, Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione, Cooperativa Impronta, Enaip Lombardia parteciperanno indirettamente alla festa, realizzando dei piccoli manufatti che i bambini potranno regalare alle loro mamme. Tanti piccoli contributi, in un evento simbolico, che permetterà a tutti delle riflessioni, e un momento dal forte carattere riparativo: il “donare qualcosa gli altri”, per rinsaldare lo strappo con la società che il reato ha provocato, è infatti l’assunto alla base della Giustizia Riparativa. La storia scelta, quella della Gabbianella e del Gatto, è una storia che parla di famiglia. E di coraggio, il coraggio di volare, perché “vola solo chi osa farlo”. L’Amore tribolato per la Vera Giustizia di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 8 maggio 2023 Il mondo dei faccendieri e quello dei geniali investigatori, raccontati nel prezioso libro “Detective” scritto dal bravissimo Massimo Picozzi, pubblicato da “Solferino”. Il precipizio della drammatica situazione attuale. Ho un amore profondo per la libertà, la dignità e la giustizia. Ma spesso mi sono domandato se guardavo soltanto dalla parte sbagliata. Ho visto furfanti capaci di tutto, politici pronti a vendere persino l’Anima per il potere. Alla fine ho deciso di combattere e di salvare la mia integrità. Non sono un sognatore e neppure un illuso. Grazie ai miei 60 anni di lavoro al Corriere della Sera, il mio amato giornale che mia moglie accetta come la mia vera prima moglie, ho girato l’intero mondo (eccetto Australia e Cina, ma per la Cina provvederò presto), quindi ho visto quasi tutto e il contrario di tutto. Un incontro mi commuove, un’intervista mi esalta, un libro mi arricchisce come mi ripeteva il caro amico Umberto Eco. Sapeste quante volte ho riletto “Il nome della Rosa”, capolavoro che ancora mi fa vibrare. Come mi fa vibrare ogni libro che mi insegna qualcosa di importante. Grazie alla generosità della mia vicedirettrice vicaria del Corriere, la libera indipendente e intrepida Barbara Stefanelli, ho tra le mani un volume davvero importante, scritto da un caro e valoroso collega, Massimo Picozzi, dal titolo affascinante, “Detective”, e dal sommario intrigante, “Storie di grandi sbirri e geniali investigatori”, pubblicato da Solferino, la casa editrice del mio Corriere. Una storia, anzi un giallo favoloso, di cui non rivelo la trama e il finale, ma che risponde a tutte le curiosità: storiche, politiche, sociali di questa nostra vita affascinante ma sempre più complicata. Picozzi, che stimo da sempre, è uno studioso assai attento. Lo seguo sin dai tempi in cui mi occupavo di terrorismo italiano e internazionale. Mi colpisce e mi affascina come Massimo descrive il ruolo e la psicologia dei Detective vecchio stile, che contano sulla deduzione, sull’analisi attenta di ogni dettaglio, sul fiuto che sa interpretare e valutare la conoscenza dell’animo umano. Molti diranno che oggi possiamo contare sui social e su altri strumenti avveniristici. Vero, ma se non si sta attenti anche le sterminate geografie del web, che nessuno riesce veramente a controllare, possono diventare trappole irte di insidie. Lo dico per esperienza personale, Vera e vissuta. Ogni fatto, ogni episodio ha mille volti e migliaia di sfumature. Ho discusso di questo con mezzo mondo: con sette presidenti americani, incontrati a Davos e a Gerusalemme, con quattro presidenti francesi, con quattro Papi che la mia vita fortunata al Corriere della Sera mi ha spinto ad incontrare. Ricevo spesso affettuose telefonate da chi mi protegge da una vita: i carabinieri prima di tutto, che sanno ogni dettaglio della mia amicizia con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; ma anche alla Polizia e alla Guardia di finanza sono assai grato. La vita mi ha insegnato che esistono i ladri patentati, ma anche i ladri diventati poliziotti come Francois Vidocq. Per chi ha letto e ammirato Victor Hugo e i suoi mitici personaggi dei “Miserabili” (il ladro gentiluomo Jean Valjean e l’inflessibile poliziotto Javert) mi può capire. Non dico che tutti debbano diventare sceriffi di giustizia, con la stella sul petto. Magari fosse così, ma sappiamo che saremo sempre costretti a misurarci con la realtà, che ogni giorno diventa più indigesta e complicata. Pensate solo oggi al riaccendersi del conflitto tra israeliani e palestinesi, e a due Paesi nordafricani (Libia e Tunisia) che si scambiano gli abitanti per ragioni assai poco nobili. Orrore assoluto. Nelle Onlus pro detenuti mafiosi ed estremisti neri di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2023 L’inchiesta di Report “Ombre grigie” di Giorgio Mottola, in onda stasera su Rai3, spiega in che modo le strade delle Onlus carcerarie e quelli di ex detenuti per mafia ed estremisti di destra si siano incrociati. Sono condannati per reati di mafia, ex terroristi neri o dirigenti di movimenti di estrema destra. Molti di loro entrano nelle carceri italiane, incontrano detenuti “importanti”, anche mafiosi o presunti tali. In alcuni casi si prodigano per far avere loro misure meno restrittive o sostengono campagne di sensibilizzazione contro l’ergastolo ostativo e per l’abolizione del 41-bis. Alcune delle principali associazioni per i diritti dei detenuti, come “Nessuno Tocchi Caino”, li hanno accolti tra i loro quadri. Altre, come Antigone, ne incrociano destini e battaglie. L’inchiesta di Report “Ombre grigie” di Giorgio Mottola, in onda stasera su Rai3, spiega in che modo le strade delle Onlus carcerarie e quelli di ex detenuti per mafia ed estremisti di destra si siano incrociati. Nel servizio, si racconta, ad esempio, come “Antigone” nel 2017 si spese per chiedere la scarcerazione, per gravi motivi di salute, di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia in quel momento in carcere a Rebibbia a scontare la condanna a 7 anni per concorso esterno. I presidenti onorari di Antigone sono l’attuale garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e quello del Lazio, Stefano Anastasia. Quest’ultimo aveva assunto nel suo ufficio in Regione l’avvocata Simona Filippi, che nell’associazione svolge il ruolo di “responsabile del contenzioso” e in quel momento era la legale di fiducia di Dell’Utri. Filippi aveva ottenuto un contratto di consulenza in Regione Lazio da 14mila euro. “Non credo sia stata una mia dichiarazione a cambiare la storia del percorso detentivo di Dell’Utri”, ha risposto Anastasia a Report. Vice di Anastasia nel Lazio è Manuel Cartella, vicino a Luigi Ciavardini, l’ex terrorista dei Nar fondatore dell’associazione “Gruppo Idee” condannato in via definitiva per la strage di Bologna. La Onlus fino ad aprile accedeva regolarmente a Rebibbia, prima che il carcere romano avviasse una verifica interna dopo le indiscrezioni emerse in un’altra puntata di Report, sul caso dei presunti “pizzini” portati da Federico Vespa - figlio di Bruno - direttore del giornale carcerario Dietro il cancello, ad alcuni detenuti. Poi c’è “Nessuno Tocchi Caino”. Report calcola che nel consiglio direttivo della Ong presieduta dalla radicale Rita Bernardini siedano 11 tra detenuti o ex detenuti per reati di mafia, come l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, condannato per aver favorito Cosa nostra (pena scontata). L’associazione è frequentata anche da estremisti di destra. Come Rainaldo Graziani, che di recente ha ricostituito il Centro Studi Ordine Nuovo, fondato da suo padre Clemente Graziani con Pino Rauti. La sua coop, Arnia, che orbita nella galassia di “Nessuno Tocchi Caino” ha dato lavoro a detenuti per mafia e all’ex Nar Egidio Giuliani, arrestato per l’omicidio di Silvio Fanella. Non solo. Alle ispezioni a Rebibbia della presidente Bernardini - che ha partecipato alla presentazione del libro della ex terrorista Francesca Mambro, condannata in via definitiva per la strage di Bologna - hanno assistito gli storici dirigenti di CasaPound Carlotta Chiaraluce e Luca Marsella, già campioni di voti a Ostia. Marsella, mai indagato, fu fotografato col presunto boss del litorale, Roberto Spada, prima che questo venisse arrestato. “Non mi pare che CasaPound abbia ricostituito il partito fascista”, ha ribadito Bernardini a Report. Il servizio ricorda pure come in “Nct” avesse avuto un ruolo il radicale Antonello Nicosia, arrestato nel 2019 per associazione mafiosa, accusato di essere il “messaggero” dei boss nelle carceri in Sicilia. “C’è il rischio di essere strumentalizzati? Assolutamente sì”, ammette intervistato da Report, l’avvocato Michele Capano, tesoriere dei Radicali e legale di vari detenuti per mafia. Il messaggio di Civil Week: “prendersi cura” genera bene per tutta l’umanità di Elisabetta Soglio Corriere della Sera - Buone Notizie, 8 maggio 2023 Tre giorni di dialoghi ed eventi con ospiti d’eccezione: teologi, docenti, scrittori, studiosi, imprenditori e uomini dello spettacolo si sono confrontati sul tema “Io mi prendo cura: persone, territorio, ambiente”. Per un futuro migliore. Dodici eventi, dibattiti e approfondimenti, due concerti, una sfilata di moda per la quinta edizione della Civil Week 2023, e altri 460 eventi diffusi a Milano e nei comuni dell’area metropolitana (quasi un “fuori salone”), tutti tenuti insieme dal tema chiave: “Io mi prendo cura”, declinato a 360 gradi. Ospiti del Corriere-Buone Notizie sono stati personaggi pubblici, dal cardinale Matteo Maria Zuppi al rapper Mr. Rain, dalla schermitrice Elisa Di Francisca e dal conduttore televisivo Flavio Montrucchio agli scrittori Chiara Amirante e Davide Mencarelli, dalla scienziata Francesca Pasinelli , dg di Fondazione Telethon, allo stilista Antonio Marrasche con la moglie Patrizia ha vestito le “modelle” della sfilata della “bellezza ritrovata”, con il coinvolgimento delle associazione di pazienti oncologiche. L’iniziativa sulla cittadinanza attiva, promossa da Corriere e reti del Terzo settore, ha voluto rilanciare un messaggio forte: il “prendersi cura” è una via obbligata per l’umanità tutta. Sul palco si sono avvicendati genitori coraggiosi delle community SuperPapà e Mamme a Milano, e ragazzi inquieti e pieni di interrogativi sul futuro. Non sono mancati gli approfondimenti sui temi della sanità, della disabilità, della salute del Pianeta e della giustizia “riparativa” con l’intervento in particolare dell’ex ministro Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, e del teologo Francesco Occhetta. Con il presidente della Cei Matteo Maria Zuppi, intervistato dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, a ricordarci che “i custodi del mondo siamo noi”. Ed è solo quando ci prendiamo cura che ci accorgiamo degli altri. E lo storico Franco Cardini a sottolineare invece la cura è anche l’anticorpo per ritrovare “il senso del limite”, perché “il prendersi cura è nella nostra natura e quando questo atteggiamento viene meno, come la storia insegna, è lì che nascono i disastri”. La cura è il collante della società. D’obbligo quindi anche una riflessione con alcuni dei protagonisti del mondo dell’impresa - Hines, Fondazione Msd e la Società benefit (Ri)Generiamo - e l’esempio di chi, come Pier Giovanni Capellino, con un gesto di rottura ha donato la propria azienda a una fondazione perché si occupi di progetti per la biodiversità. E su questo leit motive la città dell’”Io mi prendo cura” si è ritrovata a Milano per una tre giorni al Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci. E poi ha applaudito le donne che combattono il cancro, protagoniste della sfilata “La bellezza ritrovata” nella loggia di Palazzo Giureconsulti e sabato sera in piazza Città di Lombardia a cantare e danzare sui ritmi e le note dei giovani musicisti delle Bande Rulli Frulli e Rulli FrulliNi, diretti da Federico Alberghini e da Sara Setti, arrivati da Finale Emilia, loro casa, per cominciare da Milano la tournée che li porterà in giro per l’Italia a dimostrare che la musica “si prende cura”. Con loro si è esibito il coro Amici della Nave con i detenuti e i volontari del carcere di San Vittore e a completare la festa sono arrivati ospiti d’eccezione: Mr. Rain, appunto, e Germano Lanzoni, Mario Lavezzi e Nico Acampora. Per costruire la pace serve una nuova Onu di Piergiorgio Odifreddi La Stampa, 8 maggio 2023 Nel suo intervento al Concertone del 1 maggio, Carlo Rovelli ha esposto in maniera efficace e concisa le ragioni della pace. Ha solo sbagliato la cifra relativa alla spesa mondiale annuale per gli armamenti, parlando di due trilioni di dollari. In realtà, e per fortuna del mondo intero, non si spendono due miliardi di miliardi l’anno per le armi, ma “solo” duemila miliardi. L’equivoco è nato dal fatto che Rovelli pensa in inglese, dove bilione significa “migliaia di milioni”, e trilione “migliaia di bilioni”: che sono, appunto, milioni di milioni, o migliaia di miliardi. In italiano si dice invece miliardo per le “migliaia di milioni”, bilione per le “migliaia di miliardi”, biliardo per le “migliaia di bilioni”, e trilione per le “migliaia di biliardi”: che sono, appunto, miliardi di miliardi. Ma questo è secondario, e comunque si tratta di cifre difficili da visualizzare per chiunque, fisici e matematici compresi. Per farsene un’idea, 2800 miliardi di euro è l’ammontare del debito pubblico italiano, e tutti sanno che si tratta di una cifra enorme (lo sa anche l’Unione Europea, che infatti ci chiede inutilmente da anni di tenerla sotto controllo). Questi 2.000 miliardi di spese militari sono da imputare per il 60 per 100 (1.200 miliardi) alla Nato: 800 miliardi agli Stati Uniti, e 400 ai paesi europei. Dunque, c’è poco da stupirsi se i ministri della Difesa dei paesi occidentali sono tutti come Crosetto: mercanti e trafficanti di armi, in nome e per conto dei propri stati. Che gli armamenti siano anch’essi fuori controllo, come il nostro debito, lo sapeva persino il generale Eisenhower, che nel suo discorso d’addio alla nazione, dopo otto anni di presidenza degli Stati Uniti, mise in guardia gli americani contro “l’acquisizione dell’ingiustificata influenza (economica, politica, persino spirituale) del complesso militare-industriale, e la possibilità di una disastrosa crescita di un potere fuori luogo”. Detto da un militare di carriera, è tutto dire. Da parte sua, già Tolstoj aveva messo in guardia i lettori di Guerra e pace dal considerare la guerra come un duello fra condottieri, come la raccontano giornalmente i nostri media: nel suo romanzo, i condottieri erano Napoleone e lo zar Alessandro, e ai nostri giorni, fatte le dovute proporzioni, Zelensky (o Biden) e Putin. La guerra, diceva invece Tolstoj, ha le sue leggi matematiche e scientifiche. E sono quelle che bisogna capire, se uno vuole effettivamente fare la pace. Il ministro Crosetto forse non sapeva che esistono queste leggi scientifiche della storia, e per questo ha invitato Rovelli a fare il fisico. In realtà, e questo è purtroppo un grosso problema, le armi esistono proprio perché ci sono i matematici, i fisici, i chimici e i biologi a progettarle, e gli ingegneri a costruirle. Scienziati come Leonardo, che non a caso ha dato il nome alla fabbrica d’armi citata da Rovelli, per i suoi legami con il ministro Crosetto. Ma, fortunatamente, non tutti gli scienziati sono inventori e progettatori di armi. Molti, al contrario, sono addirittura dei modelli di pacifismo. Pensiamo, per esempio, ai membri del movimento Pugwash degli scienziati contro le bombe atomiche, che nel 1995 hanno appunto preso il premio Nobel per la pace. Sono stati loro, nel periodo della Guerra Fredda, a continuare a parlarsi dai due lati della Cortina di Ferro, e a stilare per le proprie nazioni i trattati di non proliferazione nucleare. Soprattutto, è stato un modello di pacifismo Albert Einstein, che con un famoso manifesto firmato nel 1955 con Bertrand Russell ha ispirato nel 1955 il movimento Pugwash. Mi si scuserà se io mi fido più di Einstein che del ministro Crosetto, il quale dice che un ministro della Difesa “lavora ogni giorno per cercare la pace e fermare la guerra”. Einstein diceva invece che c’è un unico modo per raggiungere veramente la pace: smetterla di pensare in termini locali e nazionali, e incominciare a pensare in termini globali e mondiali. Quando Israele gli offrì la presidenza del nuovo stato di Israele, lui la rifiutò: sapeva che chi cerca veramente la pace non può fare il ministro o il presidente, perché finirebbe di perseguire gli interessi del proprio paese, e non quelli del mondo intero. Ed è appunto per questo motivo che si fanno le guerre. Einstein aveva in mente un governo mondiale, che però non può essere quello delle odierne Nazioni Unite. Per accorgersene, basta guardare la composizione del Consiglio di Sicurezza, dove tre dei cinque membri permanenti, che hanno diritto di veto, appartengono alla Nato. E dove siedono anacronistiche potenze ex-imperiali come la Gran Bretagna e la Francia, ma non grandi stati moderni come l’India e il Brasile, che sono giustamente seccati al riguardo, e lo dimostrano con il loro atteggiamento verso la guerra in Ucraina. Chi vuole veramente la pace, dovrebbe anzitutto perseguire l’obiettivo di rifondare le Nazioni Unite sulla base di princìpi ugualitari, e non dell’eredità del colonialismo. E dovrebbe evitare di difendere l’integrità territoriale delle nazioni, che è quasi sempre il risultato di guerre uguali a quella che oggi tanto ci scandalizza, e che hanno sempre e soltanto imposto la legge del più forte. Chi vuole veramente la pace dovrebbe perseguire invece l’obiettivo dell’autonomia dei popoli, che confligge apertamente con i confini nazionali, ed è appunto la causa delle tante guerre di frontiera che scuotono periodicamente il mondo: dall’Ucraina a Israele, dalla Siria alla Turchia, dal Kashmir al Tibet, dalla Corea a Taiwan. Chi vuole veramente la pace non dovrebbe lavorare al congelamento dello status quo, come fanno le diplomazie occidentali, per poter tornare al più presto a fare business as usual. Dovrebbe invece ripensare un ordine mondiale in grado di riflettere non le pretese suprematiste dei più forti, ma le aspettative autonomiste dei più deboli. Ma chi vuole veramente la pace è inviso a chi è invece disposto a fare la guerra, quando le cose non vanno come piacciono a lui. In una parola, la pace la vogliono coloro che sono disposti a mediare le proprie richieste, mentre la guerra la fanno coloro che non sono disposti a cedere sulle proprie pretese, whatever it takes. I piani Ue sul riconoscimento facciale mettono a rischio i nostri diritti di Ella Jakubowska, Matt Mahmoudi e Hajira Maryam* Il Domani, 8 maggio 2023 Nell’ambito dei negoziati per una nuova legge sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, l’Ai Act, i governi dell’Ue stanno proponendo di consentire l’uso routinario del riconoscimento facciale retrospettivo nei confronti del pubblico generale, da parte della polizia, delle amministrazioni locali e persino delle aziende private. La proposta Ue parte dal presupposto che la tecnologia di riconoscimento facciale retrospettiva sia meno dannosa rispetto alla sua versione “dal vivo”. Peccato che questo presupposto sia sbagliato, come spiegano in questa analisi le associazioni per i diritti European Digital Rights e Amnesty International. A seguito di un furto avvenuto nel 2019 in un’azienda di logistica francese, per tentare di identificare i responsabili si è fatto ricorso alla tecnologia di riconoscimento facciale tramite le riprese delle telecamere di sicurezza. Il funzionamento di questa tecnologia si basa sulla comparazione, ad esempio, tra immagini provenienti dalle telecamere a circuito chiuso con database di milioni di immagini di volti, spesso acquisite senza consenso o all’insaputa degli interessati. Nel caso in questione, la polizia ha scelto il signor “H” dalla lista dei sospettati e lo ha accusato del furto, nonostante l’assenza di prove materiali che lo collegassero al reato.Durante il processo, il tribunale ha negato la richiesta dell’avvocato del signor “H” di condividere informazioni su come il sistema avesse stilato la lista dei sospettati, sulla base della quale era stato incriminato il suo cliente. Il giudice ha deciso di fare affidamento su questa tecnologia, notoriamente discriminatoria, condannando il signor “H” a 18 mesi di prigione. Indagati - La tecnologia di riconoscimento facciale “dal vivo” è spesso oggetto di critiche (ampiamente fondate), perché è usata per monitorare e rintracciare individui in tempo reale. Tuttavia, l’utilizzo retrospettivo della tecnologia di riconoscimento facciale, ovvero dopo che un evento si è già verificato, è meno esposta a critiche, nonostante il suo impiego in casi come quello del signor “H”. La tecnologia di riconoscimento facciale retrospettiva risulta più agevole e diffusa grazie alla disponibilità di un gran numero di riprese delle telecamere di sicurezza e alle infrastrutture già esistenti. Ora, nell’ambito dei negoziati per una nuova legge sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, l’Ai Act, i governi dell’Unione europea stanno proponendo di consentire l’uso routinario del riconoscimento facciale retrospettivo nei confronti del pubblico generale, da parte della polizia, delle amministrazioni locali e persino delle aziende private. La proposta dell’Unione europea parte dal presupposto che la tecnologia di riconoscimento facciale retrospettiva sia meno dannosa rispetto alla sua versione “dal vivo”. Secondo i governi dell’Unione europea, la possibilità di elaborare retrospettivamente i dati consente di mitigare i rischi, grazie al tempo aggiuntivo a disposizione per effettuare le dovute valutazioni e analisi. Questo argomento è sbagliato. Non solo il tempo extra non riesce a risolvere le questioni chiave - il venir meno dell’anonimato e la soppressione dei diritti e delle libertà - ma introduce anche ulteriori problemi. “Post Rbi” - L’identificazione biometrica a distanza, o Rbi, è un termine generico utilizzato per sistemi, come la tecnologia di riconoscimento facciale, che analizzano e identificano le persone utilizzando il loro volto - o altre parti del corpo - a distanza. Nell’Ai Act, l’Unione europea propone di definire tali sistemi “post Rbi”, quando questi vengono utilizzati in maniera retrospettiva. Il “post Rbi” significa che un software potrebbe essere utilizzato per riconoscere persone in un flusso di immagini provenienti da spazi pubblici, anche ore, settimane o mesi dopo che le immagini stesse sono state acquisite: ad esempio, utilizzando la tecnologia di riconoscimento facciale su manifestanti ripresi da telecamere a circuito chiuso; o, come nel caso del signor “H”, confrontando le riprese delle telecamere di sorveglianza con un database governativo di ben otto milioni di volti. L’utilizzo di questi sistemi produce un effetto inibitorio sulla società, su quanto ci sentiamo a nostro agio partecipando a una protesta, cercando assistenza sanitaria - come un aborto in luoghi in cui viene criminalizzato - o parlando con un giornalista. Il solo sapere che la tecnologia di riconoscimento facciale retrospettiva è in uso ci fa temere che le informazioni sulla nostra vita personale potrebbero essere utilizzate, in futuro, contro di noi. Le ricerche a disposizione suggeriscono che l’applicazione dell’Rbi colpisce in modo sproporzionato le comunità razzializzate. Amnesty International ha dimostrato che le persone che vivono in aree a maggior rischio di controlli di polizia razzisti - che dunque colpiscono in modo particolare le persone di colore - sono probabilmente più esposte alla raccolta di dati e alla tecnologia di riconoscimento facciale invasiva. Dwreck Ingram, un organizzatore delle proteste del movimento Black Lives Matter di New York, è stato torturato dalle forze di polizia nel suo appartamento per quattro ore, senza mandato o accusa legittima, semplicemente perché era stato identificato dal “post Rbi” dopo la sua partecipazione a una manifestazione. Ingram ha dovuto intraprendere una lunga battaglia legale per far cadere le false accuse contro di lui, dopo che è emerso che la polizia aveva usato questa tecnologia sperimentale nei suoi confronti. La lista continua. Robert Williams, un residente di Detroit, nel Michigan, è stato arrestato ingiustamente per un furto commesso da qualcun altro. È finito in prigione in Louisiana, uno stato in cui non aveva mai messo piede, perché la polizia lo aveva erroneamente identificato, tramite riconoscimento facciale retrospettivo, come sospetto in una rapina. Soprattutto per le comunità razzializzate, l’uso massiccio della tecnologia di riconoscimento facciale equivale a perpetuare la loro condizione di costante sorveglianza e controllo. La regolamentazione - Questa tecnologia distopica è stata utilizzata anche dai club di calcio olandesi per individuare tifosi violenti e ha portato a multare un tifoso che non era presente alla partita in questione. Si ritiene che la tecnologia di riconoscimento facciale sia stata utilizzata anche dalla polizia austriaca contro i manifestanti così come in Francia, con il pretesto di rendere le città “più sicure” ed efficienti, in realtà aumentando così la sorveglianza di massa. Queste tecnologie sono spesso offerte a costi bassi o nulli. Una delle aziende che offre tali servizi è la Clearview Ai, che offre ricerche di riconoscimento facciale altamente invasive a migliaia di agenti e forze di polizia in tutta Europa, Stati Uniti e altrove. Le autorità nazionali per la protezione dei dati personali hanno assunto una posizione ferma contro queste pratiche: i regolatori italiani e greci hanno inflitto a Clearview Ai milioni di euro di multa per la raccolta illecita e senza base legale dei volti di cittadini dell’Unione europea. Allo stesso modo, i regolatori svedesi hanno multato la polizia nazionale per avere violato la privacy dei cittadini mediante l’uso di Clearview Ai. Nonostante queste azioni incoraggianti per proteggere i nostri diritti umani dal riconoscimento facciale retrospettivo, i governi dell’Unione europea stanno ora cercando di attuare queste pratiche pericolose. Gli esperimenti di identificazione biometrica in vari stati del mondo hanno dimostrato più volte che queste tecnologie e la raccolta di dati di massa ottenuta per loro tramite erodono i diritti delle persone più emarginate, tra cui le comunità razzializzate e le persone rifugiate, migranti e richiedenti asilo. Stati europei hanno iniziato a legalizzare una serie di pratiche di sorveglianza di massa biometrica, minacciando di normalizzare l’uso di questi sistemi invasivi in tutta l’Unione europea. Ecco perché, più che mai, abbiamo bisogno di una forte regolamentazione su tutte le forme di sorveglianza di massa biometrica dal vivo e retrospettiva nelle nostre comunità e ai confini dell’Unione europea, compreso uno stop al “post Rbi” sin dall’inizio. Con l’Ai Act, l’Unione europea ha un’occasione d’oro per porre fine alle crescenti violazioni dei diritti umani facilitare dalle tecnologie di sorveglianza di massa. È necessario istituire, in relazione a queste tecnologie emergenti, elevati standard di garanzie sui diritti umani soprattutto quando esse acuiscono le disuguaglianze già esistenti nelle nostre società. *Gli autori provengono dalle associazioni per i diritti European Digital Rights e Amnesty International Egitto. Caso Regeni, ora Schlein attacca Descalzi: “Non si può barattare l’impunità con il gas” di Serena Riformato La Stampa, 8 maggio 2023 Le critiche della segretaria Pd dopo le parole dell’amministratore delegato Eni sulla collaborazione con l’Egitto. Nuova udienza il 31 maggio. “Penso che l’Italia non possa considerare la mancata collaborazione dell’Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni come un prezzo da pagare sull’altare degli interessi economici”. La segretaria del Partito democratico Elly Schlein, da un evento elettorale a Treviso, commenta le parole pronunciate venerdì dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi sul palco della convention di Forza Italia a Milano: “L’Egitto ci ha aiutato rinunciando ai suoi carichi quest’estate per mandarli in Italia per riempire gli stoccaggi”, aveva detto l’ad, in riferimento alla strategia italiana per emanciparsi dai rifornimenti di gas russo. “Questi sono Paesi a cui se dai, ricevi”. A quest’ultima frase di Descalzi, appena riconfermato alla guida della partecipata, ha risposto la leader dem: “Ho sentito dire che da paesi come l’Egitto “se dai ricevi”. Voglio chiedere al governo se tra le cose da “dare per ricevere” è considerata anche l’impunità dei torturatori e degli assassini di Giulio Regeni”. Il processo sulla morte del ricercatore italiano di 28 anni, il cui cadavere è stato ritrovato al Cairo il 3 febbraio 2016 non lontano da una prigione dei servizi segreti egiziani, è in una fase di stallo. Gli alti funzionari della National Security egiziani, Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abedal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona, lesioni e concorso nell’omicidio del giovane studioso, non si sono mai presentati alle udienze. La prossima udienza si terrà il 31 maggio. In quell’occasione il gup potrebbe decidere di rivolgersi alla Corte Costituzionale per sciogliere l’impasse causata dall’assenza degli imputati. Il 28 aprile, la famiglia di Giulio Regeni ha chiesto, con una lettera, che il governo “pretenda senza se e senza ma che i quattro imputati per il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio compaiano alla prossima udienza il 31 maggio”. L’Egitto non ha mai collaborato alle indagini e non ha mai permesso che le notifiche arrivassero ai quattro dipendenti degli apparati di sicurezza del Cairo: “Laddove non possono arrivare gli ufficiali giudiziari notificando ai quattro imputati l’invito a comparire - hanno scritto i genitori di Regeni - arriverà l’eco della nostra scorta mediatica, che siete tutti voi. Questo processo si deve fare e si deve fare in Italia, perché non è accettabile che chi tortura e uccide pagato da un regime che il nostro Paese ritiene “amico”, possa abusare del nostro sistema di diritto e godere dell’impunità”. Anche Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde critica le parole dell’ad di Eni Descalzi: “A noi il governo egiziano ha dato Giulio Regeni cadavere perché assassinato. L’Italia cosa ha dato all’Egitto in cambio del gas? Rinunciare a perseguire gli assassini di Regeni?”. La Gran Bretagna salvata dai galeotti di Antonello Guerrera La Repubblica, 8 maggio 2023 Mancano i lavoratori per effetto di Brexit e Covid: il governo vuole usare detenuti in permesso diurno. Nei settori di ristorazione, ospitalità, edilizia e trasporto, afflitti dal calo di manodopera per colpa del nuovo e durissimo sistema di immigrazione a punti sul modello australiano, che complica il facile afflusso di braccia dall’estero. Detenuti, salvate voi l’economia britannica. Nel Regno Unito, da ormai oltre un anno, ci sono 1,2 milioni posti di lavoro vacanti che non si riesce a colmare per varie ragioni: le conseguenze del Covid, come d’altronde capita pure in altri Paesi europei, un’economia mondiale resa instabile dalla guerra in Ucraina e la conseguente inflazione. Ma questa piaga pare esacerbata oltremanica dalla Brexit e dal conseguente nuovo e durissimo sistema di immigrazione a punti sul modello australiano, che complica in maniera significativa il facile afflusso di lavoratori europei, come lo era prima dell’addio di Londra alla Ue. Per mansioni che gli inglesi non vogliono più fare e che hanno affossato l’utopia della piena occupazione interna. E così, come ha rivelato qualche giorno fa il “Times”, il governo britannico di Rishi Sunak, più che rilassare i visti, ha deciso di liberare migliaia di carcerati nel Regno Unito, offrendo loro libertà giornaliera in cambio di lavoro soprattutto nei settori più afflitti, come ristorazione, ospitalità, edilizia e trasporti. Ossia proprio le branche dell’economia maggiormente colpite dalla Brexit: che tra le altre cose ha limitato l’arrivo di cittadini Ue meno qualificati. A essere lasciati in libertà non saranno i detenuti considerati più pericolosi, come quelli di categoria A chiusi nei penitenziari di massima sicurezza del Paese, ma soprattutto colori classificati come categoria D, condannati per reati minori. Sui reali effetti della Brexit sull’economia britannica si continua a dibattere, in maniera molto ideologica, ogni giorno nel Regno Unito. Ma ci sono alcune certezze. Secondo l’Office of Budget Responsibility, una sorte di corte dei conti legata al governo, l’uscita dalla Ue è costata almeno 4 punti di Pil al Paese. E se si considera l’impatto sul mercato del lavoro, basta prendere documenti ufficiali come il report “Skills and labour shortages” del Parlamento di Westminster pubblicato il 10 gennaio 2023 dove si legge che la Banca d’Inghilterra ha evidenziato come la ridotta immigrazione dalla Ue “è parzialmente responsabile per la carenza di lavoratori nel Regno Unito”. Inoltre, a settembre 2021, uno studio dell’Ons (l’Istat britannico) ha sottolineato come almeno il 46 per cento delle aziende del settore trasporti addita le proprie difficoltà economiche alla mancanza di lavoratori Ue, oltre al 40 per cento di quelle del settore amministrativo e il 39 dell’istruzione. I cittadini sembrano soddisfatti della decisione. Secondo un sondaggio di un think tank riportato dal Times, l’85 per cento ritiene che ai detenuti debbano essere concesse più opportunità di lavoro e il 76 per cento si dice contento di lavorare al fianco di un ex condannato in prigione, sempre che abbia passato tutti i test di sicurezza delle autorità. E, soprattutto, perché no, se fa bene all’economia britannica, afflitta da tanti vecchi mali oltre a Brexit (vedi l’atavica improduttività) e che secondo l’Fmi nel 2023 crescerà addirittura meno della sanzionatissima Russia e meno di tutte le economie del G7? La settimana scorsa hanno fatto scalpore le parole del capoeconomista della Banca di Inghilterra, Huw Pill, che ha esortato i britannici a “essere più poveri”. Bielorussia. Condannato per aver pubblicato una caricatura di Lukashenko: muore in carcere ansa.it, 8 maggio 2023 Nikolai Klimovich, 61 anni, stava scontando una pena detentiva in carcere per aver pubblicato una caricatura del presidente bielorusso. Un uomo che stava scontando una pena detentiva in carcere per aver pubblicato una caricatura del presidente bielorusso Alexander Lukashenko è morto oggi durante la sua detenzione. Lo ha annunciato l’Ong per i diritti umani Viasna su Telegram. Nikolai Klimovich, 61 anni, è morto nella colonia penale numero 3 nella regione di Vitebsk (nord-est), ha aggiunto l’organizzazione, ricordando che l’uomo era in stato di disabilità a causa di gravi problemi cardiaci. A dicembre, sempre secondo Viasna, era stato arrestato nella regione di Pinsk, a sud della Bielorussia, e accusato di “aver insultato il capo dello Stato” per aver pubblicato sui social un disegno satirico che ritraeva Alexander Lukashenko. Durante la custodia cautelare Nikolai Klimovitch si era sentito male ed era stato rilasciato in attesa del processo, che si è svolto a fine febbraio con la condanna ad un anno di carcere. Polveriera Congo: nel paese più popoloso dell’Africa centrale con Medici Senza Frontiere di Giacomo Galeazzi La Stampa, 8 maggio 2023 Sei milioni di morti in trent’anni: la guerra civile contrappone gruppi etnici e fazioni. Dal Nord Kivu all’Ituri il racconto della capomissione Alessandra Giudiceandrea: “Aiutiamo tutti”. Nel Nord Kivu, a est della Repubblica Democratica del Congo, è in corso una catastrofe umanitaria: oltre un milione di persone sono fuggite dalle loro case a causa dei combattimenti. Colpo di coda di una guerra civile che in trent’anni ha provocato sei milioni di morti. Alessandra Giudiceandrea è la capomissione di Medici Senza Frontiere in Congo dopo esserlo stata in Afghanistan, Haiti, Sud Sudan. “Non ho mai sopportato le ingiustizie”, racconta alla Stampa l’operatrice Msf di Barletta. E per lei la prima ingiustizia è un malato che non ha accesso alle cure mediche. “Vedere un medico, essere curati gratuitamente è un diritto fondamentale, indipendentemente da dove si nasce. Io sono nata nella parte fortunata del mondo. Lavoro in Medici Senza Frontiere perché è indipendente, in Italia non accettiamo fondi governativi. Solo privati. Indipendenza economica è indipendenza di azione. Apriamo o supportiamo un ospedale basandoci solo sull’analisi dei bisogni medici”, sottolinea. La Repubblica Democratica del Congo è lo stato più grande e popoloso dell’Africa centrale. Le urgenze includono epidemie di morbillo e colera in un sistema sanitario molto fragile: parte da qui il lungo elenco delle emergenze in Congo. “A rimetterci, come sempre, sono soprattutto i più vulnerabili, come i bambini: uno su 10 in Congo muore prima dei cinque anni. Non scordiamo poi Ebola, endemico nel paese, due anni fa abbiamo contribuito a sconfiggere la tredicesima epidemia di questo virus mortale”, evidenzia Alessandra Giudiceandrea. Oltre alle epidemie c’è anche la violenza, soprattutto in Nord Kivu. “Nel paese è in corso una catastrofe umanitaria: sono 5 milioni le persone in fuga, solo un milione dal Nord Kivu, costrette ad abbandonare le proprie case negli ultimi 12 mesi per sfuggire ai combattimenti- afferma Alessandra Giudiceandrea-. Solo in quest’area si contano un centinaio di gruppi armati, la popolazione vive in uno stato d’assedio da ormai due anni”. Intorno a Goma, rifugi di fortuna fatti di teli di plastica o zanzariere si estendono a perdita d’occhio. I più fortunati hanno trovato riparo in chiese e scuole. Le famiglie sono da mesi in balia di piogge, epidemie e violenze, come dimostra “il preoccupante numero di vittime di violenza sessuale che curiamo ogni giorno nelle nostre strutture mediche”. A causa dell’incontrollabile situazione ad est e della forte presenza di corruzione a livello amministrativo, la Repubblica Democratica del Congo è relegata al 187° posto nell’indice di sviluppo umano, ultimo paese della lista. Innumerevoli le difficoltà e gli ostacoli per la sanità. “Mancano personale sanitario e medicinali. Nel Nord Kivu, così come in altre zone dove ci sono epidemie in corso, molte strutture mediche hanno esaurito i farmaci a causa di problemi di approvvigionamento- precisa Alessandra Giudiceandrea. Ci sono addirittura alcuni centri sanitari che non ricevono medicinali da mesi. In questi territori, l’accesso all’assistenza sanitaria era già difficile, ma ora lo è ancora di più a causa della mancanza di strutture sanitarie funzionanti e del costo delle cure mediche, inaccessibile per molti nell’attuale crisi economica. Spesso le persone devono scegliere tra mangiare o ricevere cure mediche. Anche chi può permettersi di pagare le cure deve comunque trovare una struttura sanitaria funzionante. E ciò può richiedere diverse ore di cammino”. Occuparsi di salute pubblica in un paese con fragilissime infrastrutture è un calvario. “La nostra indipendenza gioca un ruolo chiave - specifica Alessandra Giudiceandrea. Interveniamo lì dove c’è un bisogno medico e non in risposta alle agende politiche o di altri attori. In concreto Medici Senza Frontiere offre cure mediche in 21 delle 26 province, in media effettuiamo quasi 5.000 visite mediche al giorno”. Un dato che “continua a farmi impressione: siamo spesso uno dei pochi attori umanitari in azione nelle zone di conflitto”, osserva la capomissione. E aggiunge: “Nei centri sanitari che supportiamo nel territorio di Rutshuru, nel 2022 abbiamo curato più di 8. 500 bambini malnutriti, quasi il 70% in più rispetto all’anno precedente. Siamo di fatto presenti praticamente in tutto il paese con diversi tipi di attività sanitarie, che molte volte si sostituiscono al sistema statale. Noi facciamo del nostro meglio per rispondere ai bisogni che ci sono nel paese, ma questi restano comunque immensi”. Alla comunità internazionale Msf chiede soprattutto di “non perdere tempo. È necessario che vengano raddoppiati gli aiuti e gli sforzi per garantire che gli aiuti umanitari raggiungano le persone che ne hanno bisogno, ovunque si trovino, mentre tutte le parti in conflitto devono impegnarsi a facilitare l’accesso delle organizzazioni umanitarie”. Questo vale per il Nord Kivu, ma anche nelle zone dell’Ituri e del Sud Kivu, che versano in condizioni molto gravi. “È come se la gente qui fosse stata abbandonata. Per mesi, in alcune aree, Msf è stata l’unica organizzazione umanitaria a lavorare, ma i bisogni degli abitanti superano di gran lunga la nostra capacità di risposta- chiarisce Alessandra Giudiceandrea-. Il nostro obiettivo è diventare inutili, ma a giudicare dalla situazione nella repubblica Democratica del Congo siamo ben lontani dal traguardo. Ma non ci arrendiamo. Vedere un medico, essere curati gratuitamente, è un diritto fondamentale, indipendentemente da dove si nasce. Sono, siamo, in Congo per questo”. Tre mesi fa anche papa Francesco si è recato nel martoriato Paese africano e non ha potuto visitare l’est del Paese a causa dell’insicurezza. Nella capitale Kinshasa il Pontefice ha pregato per le popolazioni dell’est, da tre decenni vittime della barbarie e della malvagità degli uomini. La sfida principale del momento, secondo i vescovi locali, è l’unità di tutti i congolesi che devono “mettere da parte ogni dissenso e ogni altra divisione per vincere, insieme, la lotta contro la balcanizzazione del Paese e per salvare l’integrità territoriale e la sovranità nazionale”. Perché “una casa divisa in se stessa non può rimanere in piedi”, dice la Rete Pace del Congo. Medici Senza Frontiere è nel cuore ferito del continente proprio per sostenere i più fragili. Nessuna arma è più forte della solidarietà. E condividere significa cominciare a fermare una violenza in perenne escalation.