Perché con il 41bis lo Stato è andato oltre l’intenzione di Franco Corleone L’Espresso, 7 maggio 2023 Il regime detentivo viene usato per colpire la mafia. E prende derive incompatibili con la Costituzione. Alfredo Cospito, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha aperto alla rivalutazione della sua pena (l’ergastolo), ha interrotto il digiuno. È stata una prova di saggezza rispetto alle provocazioni del ministro Carlo Nordio, che ha contraddetto la sua pretesa concezione liberale del diritto, paventando interventi sanitari forzati. Ma non va dimenticato che lo sciopero del cibo di Cospito rappresentava una denuncia contro le condizioni della detenzione prevista dal 41bis. Sarebbe davvero un segno di arroganza archiviare il caso, che per fortuna non si è concluso tragicamente, ignorando le ragioni della protesta. Altrettanto grave dal punto di vista politico e istituzionale, se anche il rapporto sul 41bis del Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma, fosse disatteso dall’Amministrazione penitenziaria, dal governo, dal Parlamento, dall’opinione pubblica. Il rapporto offre in primo luogo un quadro esauriente circa le presenze. Le persone sottoposte al 41bis sono 740 (12 donne): 204 scontano l’ergastolo, mentre sei sono internate in misura di sicurezza in una pseudo casa lavoro; 35 sono detenute nelle cosiddette “aree riservate”, una sorta di 41bis al quadrato. Più importante, il rapporto argomenta sulle condizioni di detenzione, rilevando la non compatibilità di diverse situazioni con i principi costituzionali, sulla scia di quanto già stabilito dalle sentenze della Corte costituzionale in base al principio per cui “le misure disposte non possono comunque violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità né vanificare la finalità rieducativa della pena”. Diverse sono le condizioni assurdamente afflittive cui il Garante raccomanda di porre prontamente rimedio: dall’abolizione delle “aree riservate” alla insufficienza di aria e luce nelle celle, fino alla mancanza di corsi di istruzione e perfino di alfabetizzazione, alla censura dei giornali, alla violazione della privacy nelle visite mediche e altro ancora. Vale la pena di chiarire le ragioni dello scivolamento di alcune condizioni del 41bis verso i trattamenti inumani e degradanti. Tale regime nasce con decreto legge nel 1992 come risposta temporanea ed emergenziale alle stragi mafiose, con lo scopo di impedire i collegamenti con i membri in libertà delle organizzazioni criminali, rompendo la catena di comando dal carcere. Nel 2002 è diventato permanente (legge 279). La verità è che il dato simbolico - quello della pena “esemplare” propria di uno Stato “in lotta” con la criminalità organizzata - ha soverchiato la concreta finalità originaria. A riprova ci sono i casi in cui è stato confermato il regime speciale anche nei confronti di chi non aveva più alcuna capacità cognitiva, provocando la censura della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Il magistrato Sebastiano Ardita, a suo tempo responsabile del Dap per il trattamento dei detenuti, così riportava la sua impressione dopo una visita nelle sezioni del 41bis: “Quella misura, applicata alle persone, in realtà era rivolta contro la mafia”. La Consulta ha messo in guardia da una deriva simile, precisando che il regime differenziato non può applicarsi a una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato (i mafiosi), ma a singoli individui sulla base di provvedimenti motivati. La storia di Alieu, scafista obbligato a 18 anni: “In carcere ho studiato, non mi cacciate dall’Italia” di Alessia Candito La Repubblica, 7 maggio 2023 Partito dal Gambia imprigionato in Libia e poi costretto a guidare un barcone. A Messina nel 2018 è stato condannato e da detenuto ha imparando l’italiano. Adesso, a 23 anni, scontata la pena rischia l’espulsione. “Spero solo di poter fare il falegname, o qualsiasi altro lavoro. E di tornare a Palermo, perché lì ci sono amici anche se non li ho mai visti. E la mia avvocata, che è una sorella”. Alieu ha 23 anni, da cinque è in Italia, ma come sia fatta non lo sa. Da quando è arrivato, l’ha vista solo da dietro le sbarre. Gli hanno messo il timone di un barchino in mano e una pistola alla tempia, gli hanno detto “guida o ti ammazziamo”. E lui, che diciott’anni all’epoca non li aveva, ha scelto di vivere. E guidare. Tanto è bastato per finire in una cella appena arrivato a Messina. “Avevo diciott’anni e tre giorni”, ricorda. Giudicato come un adulto, è stato condannato. E adesso che la sua pena l’ha scontata, che ha fatto un percorso, è andato a scuola - “e non avevo mai potuto farlo, perché non c’erano soldi per questo” - ha imparato l’italiano e lavorato dentro e fuori dal carcere, rischia l’espulsione, con tanto di procedura accelerata perché da un mese il Gambia è stato inserito nella lista dei cosiddetti “Paesi sicuri”. Ha scontato la sua pena, ha chiesto asilo, ma per lo Stato è “socialmente pericoloso”. Era uscito da un mese, quando improvvisamente lo hanno spedito al Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di Bari. “È assurdo che tutto quello che ha fatto e costruito venga vanificato da una burocrazia che considera le persone come se fossero numeri”, dicono dall’associazione palermitana “Porco rosso”, che da anni ha con lui una corrispondenza. “Dopo avergli fatto credere per anni che avrebbe potuto avere una vita fuori dal carcere, che senso ha rispedirlo in Gambia - aggiungono - da dove è fuggito e dove non ha più nulla?”. La parola adesso passa alla commissione territoriale. E l’esito non è scontato. “La norma è cieca, ne ho visti tanti, di ragazzi nella sua condizione”, commenta l’avvocata Rosa Guerra: “Capita che siano espulsi ancor prima che l’eventuale ricorso contro un parere negativo venga valutato”. Se sei straniero e chiedi di essere accolto, i tre gradi di giudizio non contano. Anche Alieu lo sa e lo teme: “Spero capiscano, io ho raccontato la mia storia”. Che è quella di un sopravvissuto. Orfano di madre a quattro mesi, a cinque ha perso il padre: “Era un soldato, è morto in Sudan”. Per chi resta, non è certo facile in Gambia, dove le mogli di un uomo sono tante e anche i figli che ambiscono a spartirsi i quattro spicci che lascia. “Sono scappato quando hanno cercato di avvelenarmi”. A casa dello zio ha trovato riparo, ma non conforto. A sei anni ha dovuto imparare un mestiere - il falegname - e portare soldi a casa per garantirsi un pasto, ma non bastavano mai. “Ho capito che lì non c’era nulla per me e sono partito”. Destinazione: Libia. Non ricorda se avesse compiuto i quattordici anni: “Lì sei una preda”. Rapito qualche mese dopo essere arrivato, è finito in un centro di detenzione, uno dei tanti in cui - ha confermato anche l’Onu nel suo ultimo rapporto - le torture videoregistrate e mostrate alla famiglia sono procedura standard per estorcere denaro. “Ma io una famiglia che pagasse non ce l’avevo, sono stato costretto a lavorare per loro per poter uscire”. Ci sono voluti quattro mesi da schiavo per riavere la libertà, altri due per ottenere dagli stessi carcerieri un posto su un gommone e la speranza di una vita diversa. “Era vecchio e malandato, dopo qualche ora si è fermato ed è affondato”. Erano in 120 a bordo, Alieu ne ha visti morire tanti. E quando la guardia costiera è arrivata, non ha significato salvezza, ma un nuovo giro all’inferno. Per l’ennesima volta, quello che all’epoca era un adolescente è finito in un lager ed è stato schiavo per essere libero. Un incubo che si è ripetuto uguale a sé stesso per altre due volte. “La quarta volta un peschereccio ci ha trainato al largo, poi uno dei libici mi ha puntato la pistola alla tempia e ha detto: “Mettiti al timone o ti ammazzo”. Io non avevo mai guidato una barca, ma ho avuto paura per me e per gli altri. In Libia non c’è legge. Lo avrebbero fatto”. Alieu voleva vivere. Soccorso dalla nave di una ong, non ha avuto neanche il tempo di realizzare che era in salvo. Bollato come scafista, è finito in carcere senza neanche capire cosa stesse succedendo. Al processo, molti testimoni sono spariti, chi c’era non ha raccontato di quelle minacce. “Il primo anno a Messina è stato un incubo. Nessuno mi spiegava nulla, non capivo l’italiano e nessuno parlava la mia lingua, non avevo soldi né vestiti. Ho portato per settimane quello che avevo addosso durante la traversata”. Solo dopo il trasferimento a Barcellona Pozzo di Gotto è riuscito a riprendere in mano la sua vita: “Non ringrazierò mai abbastanza la mia avvocata e le educatrici”. Ha iniziato a studiare e imparato l’italiano, ha preso la licenza elementare e poi quella media, ha sognato di avere una vita normale. Un percorso sul quale le strutture dello Stato hanno investito e che lo Stato stesso rischia di vanificare. Femminicidi, prevenzione al palo: servono punti d’ascolto qualificati di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 7 maggio 2023 La legge individua le fattispecie di reato, ma spesso mancano misure tempestive. La Cassazione invita a promuovere la specializzazione di magistrati e polizia. Proseguendo nella via aperta dal precedente procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, l’attuale titolare dell’ufficio, Luigi Salvato nei giorni scorsi ha emanato Orientamenti in materia di violenza di genere. Diretto agli uffici del Pubblico ministero, è importante sotto più di un profilo. L’oggetto innanzitutto è drammaticamente rilevante: benché si richiami il più generico e ampio concetto di violenza di genere, in esso è compreso il c.d. femminicidio così frequente, così odioso, in cui è il genere della vittima ad essere determinante nel motivare la violenza. Ma il fenomeno criminale va oltre l’omicidio della donna: così innovazioni legislative hanno introdotto specifiche previsioni penali, come il delitto di atti persecutori (che si usa chiamare stalking) o quello di sfregio del viso della vittima. Si sa quali polemiche e preoccupazioni nascono ogni volta che gravi violenze contro le donne erano state precedute da episodi minori, che la donna aveva denunciato. Nonostante le previsioni inserite in varie leggi, a livello di polizia e di magistratura spesso mancano tempestive ed efficaci misure capaci di prevenire più gravi sviluppi. Le ragioni sono numerose e varie. La inadeguatezza numerica delle risorse umane a disposizione è certo questione rilevante. Ma più profonda è la questione della natura propria del reato, del giudizio ed anche della indagine penale. Essa è retta da principi insuperabili che riguardano le prove e la loro valutazione, sempre in favore dell’imputato. Nelle recenti riforme, accanto alla regola della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, si è disposto anche l’obbligo per il pubblico ministero e per il giudice di non procedere al giudizio se non vi è “ragionevole previsione di condanna”. Regole legislative queste che sono a loro volta ragionevoli, perché corrispondono allo scopo che è proprio del processo penale, che richiede garanzie, limitazioni probatorie, stretti criteri interpretativi. Ma non si presta alle esigenze di prevenzione, le quali sono per natura urgenti e prescindono da quella certezza nella ricostruzione dei fatti e delle responsabilità che sono invece ineliminabili nel procedimento penale e nel lavoro del magistrato. Ciò indica l’importanza di tutte occasioni di ascolto e di intervento preventivo, rappresentate dai Centri antiviolenza, dai garanti o dai consiglieri di fiducia che operano nelle varie realtà e che possono agire senza i vincoli e le restrizioni che qualificano il procedimento penale. Le Procure della Repubblica, come segnalato nel documento del procuratore generale, dovrebbero promuovere la specializzazione dei magistrati e della polizia giudiziaria, con la costituzione di punti qualificati di ascolto della donna in raccordo con i servizi sanitari e socio-sanitari (che spesso per primi accolgono la vittima). Si tratta di esigenze che fanno capo anche alle Procure, modificandone o integrandone il ruolo tradizionale. Gli Orientamenti esposti dal procuratore generale sono motivati dalla ricerca della maggior possibile uniformità dell’agire delle diverse Procure della Repubblica. Si tratta di un atto complesso. Non mancano indicazioni di merito, indistinguibili dalla sola esigenza di uniformità. Infatti vi sono richiami alle migliori pratiche emerse dalle consultazioni che hanno preceduto la preparazione del documento. Ma è significativo il linguaggio usato dal procuratore generale. L’uniformità - che certo è un valore in sé, in funzione della eguaglianza - è menzionata nella legge del 2006, su cui si fonda la prassi di Orientamenti instaurata dal procuratore generale. Ma anche quella legge prudentemente evita di stabilire la possibilità per il procuratore generale della Cassazione di dare direttive agli altri uffici di Procura (presso le Corti di appello e presso i tribunali). Infatti il procuratore generale afferma che si tratta di sollecitazioni o consigli, non cogenti, rispettosi del carattere non gerarchico della magistratura, “potere diffuso”. Affermazione prudente e opportuna, ma quanto, nel profondo, anche interamente veritiera? Cosa accade se gli Orientamenti vengono ignorati o disattesi? Ogni manifestazione di gerarchia tra gli uffici di Procura e nel loro interno suscita diffuse reazioni e resistenze da parte dei magistrati. Esse riflettono la tendenza ad assimilare la posizione di ciascun magistrato del Pubblico ministero a quella che è propria dei giudici, che per Costituzione sono soggetti solo alla legge. Così si parla di uniformità, ma non di direttive per assicurarla. L’effetto pratico è auspicabilmente lo stesso. Si tiene però celato il tema scottante della struttura più o meno verticistica dell’insieme degli uffici di Procura ed anche di quella interna ai diversi uffici. Per la verità, quanto a quest’ultima una serie di leggi - da quella di adeguamento dell’Ordinamento giudiziario al codice di procedura penale del 1989, fino alla legge del 2006 - hanno dato indicazioni chiare sulla posizione del dirigente dell’ufficio, il procuratore, rispetto agli aggiunti e ai sostituti. “Il procuratore della Repubblica, quale preposto all’ufficio del pubblico ministero, è titolare esclusivo dell’azione penale… assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale…”. Gli atti del Consiglio superiore della magistratura tendono però a inquadrare e limitare la responsabilità che è propria del capo dell’ufficio, rispetto all’autonomia degli altri magistrati ad esso addetti. Su un piano diverso, ma connesso, si pone la questione dei criteri di nomina dei capi degli uffici di Procura da parte del Csm. Nel dibattito politico ed anche nelle recenti leggi, si vuole sostituire alla discrezionalità del Consiglio superiore la stretta considerazione e comparazione del “merito” dei vari candidati. Ma è esperienza comune che a parità di “merito”, una serie di indicazioni rende prevedibile che i diversi candidati eserciterebbero diversamente i poteri che sono propri del procuratore. Poiché gli elementi discrezionali sono notevoli, pur nell’ambito di quanto previsto dalla legge. Su questi temi vi sono molti e resistenti tabù e false convinzioni (o finzioni). Il contesto ora accennato riflette impostazioni profonde quanto alla natura della magistratura, nelle diverse funzioni che svolge. Esse hanno radici risalenti fino ai primi anni di applicazione della Costituzione, che in proposito stabilisce che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni, ma differenzia il pubblico ministero dai giudici, rinviando alla legge la definizione delle garanzie stabilite nei suoi riguardi. Gli Orientamenti espressi dal procuratore generale della Cassazione vanno considerati anche nel quadro ora descritto. Non ostante la prudenza del loro contenuto e del linguaggio usato per esprimerli, essi indicano la tendenza verso una qualche forma di unità del sistema delle Procure, con una posizione della Procura generale della Cassazione che non è propria del sistema italiano, ma, tramite atti di soft law, pare ora in via di evoluzione. “Recidere il legame tra gip e pm è un passo decisivo” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 maggio 2023 Parla Massimo Brandimarte, già presidente del tribunale di Sorveglianza di Taranto: “L’idea di un organo collegiale per decidere sulle richieste cautelari rispetta i principi costituzionali” Massimo Brandimarte, lei è stato gip per diversi anni. Ha mai subìto pressioni da parte dei pm? Quando venne istituita la procura presso la pretura circondariale dove lavoravo, proposi al capo dell’ufficio di non dislocare i gip nella nuova sede dei pm: pensavo che anche una separazione logistica avrebbe rafforzato l’autonomia dei ruoli. Così fu. Pressioni dai colleghi pm mai. Svolgevo il mio ruolo in piena libertà. La “pressioni”, sempre nei limiti della legittimità, se ci sono, magari partono dall’organo investigativo, nel caso in cui costui ritenga, in buona fede, di dover caldeggiare presso il pm una possibile richiesta di arresti. Tutto fisiologico, sin qui. Sta al pm, però, filtrare, senza lasciarsi condizionare da eccessi di zelo da parte dei suoi collaboratori. Ed al gip discernere, senza cedere all’emotività o a soluzioni reverenziali. Filtro e discernimento che, però, non sempre hanno funzionato, come la storia insegna. In che senso? La leggenda narra di un investigatore che aveva il pallino di contare gli arresti, grazie a lui disposti o in flagranza di reato o dall’autorità giudiziaria, e di comunicarli orgogliosamente ai suoi colleghi in tempo reale, tramite sms. Diceva Pirandello che la realtà supera di gran lungo la fantasia perché la realtà non si preoccupa di essere verosimile perché è vera. Comunque sia, il numero di arresti non deve mai funzionare come il numeratore di un conta passi, in ossequio ad una malintesa gratificazione statistico- professionale di qualcuno. Molti anni fa, un ottimo commissario di Polizia mi manifestò la sua meraviglia per il fatto che non avessi ancora deciso su una richiesta di intercettazione telefonica trasmessami dal pm, ma senza il dossier allegato. Restò quasi incredulo quando gli spiegai che non potevo decidere senza aver prima ricevuto e letto quel dossier. Dote indefettibile di un magistrato deve essere il coraggio di decidere e di farlo in perfetta autonomia, secondo scienza e coscienza. Se non ce l’ha, rischia di far danni. Un altro episodio? Uno stimatissimo pm mi chiese la custodia in carcere di un pubblico funzionario, incensurato, perché ritenuto responsabile di un presunto reato di peculato. Gli episodi risalivano a due anni addietro. Inoltre, più che di peculato, sembrava trattarsi di truffa, che, all’epoca, era coperta da un’amnistia appena varata. Rigettai la richiesta. Imprevedibilmente, mi fu reiterata nella forma degli arresti domiciliari. La richiesta aveva più o meno il senso di chi, non avendo potuto ottenere il massimo, sperasse almeno di ottenere il minimo (si fa per dire). Compresi la nobile finalità moralizzatrice sottesa alla richiesta. Ma dovetti spiegare che l’assenza di esigenze cautelari per una misura impediva ogni altra. E rigettai, per la seconda volta. Seppi, più in là, che l’interessato fu assolto. Che pensa della proposta del Governo di un organo collegiale per decidere sulle richieste cautelari? È intelligente e, sinora, la più aderente ai principi costituzionali di indipendenza del giudice e di presunzione di innocenza. Significa recidere, anche dal punto di vista dell’immagine, qualsiasi eventuale collegamento, reale o presunto, di tipo culturale, psicologico o personale tra pm e gip. La previsione di un organo decisionale estemporaneo e sganciato da entrambi gli uffici menzionati diventa garanzia di terzietà sostanziale. La collegialità, poi, assicura ponderazione e confronto dialettico maggiori. La consapevolezza di poter vedere respinta la propria tesi accusatoria, questa volta non in modo più o meno discreto e indolore dal collega gip della porta accanto, con il quale magari hai una frequentazione amicale, ma in maniera più pubblica, da un collegio composto da magistrati di un altro ufficio e che non conosci, certamente è un buon antidoto contro richieste di misure restrittive eventualmente esuberanti. Ai fini della progressione in carriera, si potrebbe prevedere la comparazione statistica tra richieste di misure restrittive accolte e non accolte. Di due cose sono sempre stato convinto. Quali? Più discrezionalità il legislatore concede al magistrato e più questo se la prende. Ma, si badi bene, in perfetta buona fede, per paura di sbagliare in eccessi di garantismo. Con lo squilibrio che ne consegue. Poi? Sembra che la quarta dimensione, cioè il tempo ed il suo inesorabile trascorrere, sia inesistente nel processo, visto che si arriva non poche volte a richiedere e disporre l’arresto per fatti lontani, come se la misura fosse una forma di gratificazione per la conclusione delle indagini fine a se stessa, piuttosto che un’esigenza cautelare imprescindibile ed attuale. Che dire, poi, della proroga delle indagini preliminari richiesta ed accolta con formule letterarie di stile, prive di reale giustificazione? Secondo lei potrebbe essere un primo passo per separare i requirenti dai giudicanti? Ritengo che la soluzione proposta costituisca un passo decisivo in direzione, se non della separazione, quanto meno della sempre più netta distinzione di funzioni. Tra i problemi della giustizia italiana, un peso preponderante l’hanno sempre avuto l’abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni telefoniche. Sembra che, con la riforma del processo penale del 1998, la perdita, da parte dei pm, del potere diretto di arresto sia stata quasi compensata, di fatto, con il massiccio uso del potere di richiesta delle misure restrittive, dinanzi a cui i gip si sono ritrovati impreparati psicologicamente. E invece dell’interrogatorio in contraddittorio prima dell’arresto cosa pensa? L’interrogatorio prima di poter procedere all’arresto rappresenta una scelta di civiltà. Tuttavia, mi rendo conto che, nella pratica, potrebbe rimanere una chimera. Forse, la proposta potrebbe essere mitigata limitando il divieto di misure cautelari, senza preventivo interrogatorio, alla sola custodia in carcere. Salvo casi eccezionali. Sarebbe già un bel passo in avanti. L’onorevole Costa di Azione propone il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare fino a che non siano concluse le indagini ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Condivide? D’accordissimo sul divieto di pubblicazione, sino al termine dell’udienza preliminare. Serve a tutelare i diritti e la riservatezza del presunto innocente, della persona offesa e dei terzi estranei menzionati. Sin qui, basta la conoscenza del fatto. Uccise il padre violento, il destino di Alex nelle mani della Consulta: rischia dai 6 ai 9 anni di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 7 maggio 2023 Per la Corte d’assise d’appello la pena deve essere “proporzionata e rieducativa”. Anche in caso di condanna minima il giovane dovrà affrontare un periodo in carcere. “Determinare la pena in misura non inferiore a 14 anni di reclusione presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione ai principi di uguaglianza e alla funzione di proporzionalità e di rieducazione della pena”. Con queste parole i giudici della Corte d’assise d’appello di Torino motivano la decisione di chiedere l’intervento della Consulta per poter decidere la giusta condanna da infliggere ad Alex Cotoia (ha chiesto e ottenuto di abbandonare il cognome del padre), il 21enne che la sera del 30 aprile 2020 uccise il padre Giuseppe Pompa in uno “scatto d’ira” per difendere la madre dall’ennesima aggressione. Per la Corte non c’è dubbio che si tratti di un omicidio volontario e che non sia un caso di legittima difesa: Alex (difeso dagli avvocati Claudio Strata e Giancarla Bissattini) ha agito d’anticipo senza che vi fosse un pericolo “attuale”, colpendo il genitore con 34 fendenti, sferrati con sei coltelli diversi, e “trasfigurandosi in uno strumento di aggressione”. Ma ritiene anche che la condanna a 14 anni (il minimo, tenuto conto che è stato giudicato seminfermo di mente) sia “sproporzionata” per un ragazzo che per tutta la vita è stato vittima di un padre violento e prevaricatore. I giudici, infatti, vorrebbero avere l’ok dalla Corte costituzionale a derogare quelle norme - introdotte dal Codice Rosso - che vietano il bilanciamento tra aggravanti e attenuanti. In particolare, nel caso di Alex le due attenuanti che vorrebbero applicare i togati sono le “generiche” (per la giovanissima età e il comportamento processuale) e la “provocazione” (per i continui maltrattamenti posti in essere dal padre). Da qui la decisione di sospendere il giudizio. Il destino dell’imputato dipende quindi dalla Consulta. Se i giudici respingeranno l’eccezione, il ragazzo sarà condannato a 14 anni di carcere. Il calcolo della pena però cambierà in caso di accoglimento. Qualora venisse concessa la deroga a una sola delle attenuanti, i giudici potranno applicare una riduzione di un terzo e Alex sconterebbe 9 anni e 6 mesi. Se invece l’eccezione venisse accolta nella sua completezza, la pena si ridurrebbe a 6 anni e 2 mesi. In ogni caso (se il verdetto verrà poi confermato in Cassazione), l’imputato dovrà affrontare un periodo di detenzione più o meno breve. Il giovane era stato arrestato la sera stessa dell’omicidio e ha già trascorso circa un anno e mezzo ai domiciliari: un periodo che va scalato dal verdetto. Nella migliore delle ipotesi - in caso, cioè, di condanna al minino -, prima di poter usufruire di una misura alternativa, il 21enne dovrà trascorrere in carcere un tempo compreso tra otto mesi e un anno. Nelle motivazioni i giudici argomentano le particolari circostanze che disegnano la storia di Alex, che appaiono in antitesi con lo spirito del Codice Rosso di “offrire una risposta severa a quei fenomeni criminali” come il femminicidio. Situazioni, in sostanza, in cui le vittime sono “vulnerabili” per questione di genere. In questo caso, il delitto è avvenuto in un contesto diametralmente opposto. Il giovane ha ucciso dopo aver “assistito alle abituali condotte maltrattanti del padre nei confronti della madre”. Non solo, “ha sacrificato la sua giovane età alla protezione della donna” e l’omicidio “è il drammatico epilogo di dinamiche familiari malate, sofferte per anni”. La maledizione di Napoli: una città che vince e muore di camorra di Francesca Fagnani La Stampa, 7 maggio 2023 Per i figli dei quartieri difficili il destino è continuare a morire anche durante una notte magica. Neanche una notte per godersi il miracolo più atteso di San Gennaro che la cronaca torna a manifestarsi in tutta la sua asprezza; nemmeno il tempo di assaporare quella sensazione nuova di essere primi, di vincere finalmente qualcosa, di guardare meritatamente le altre squadre e il resto del Paese dall’alto in basso che arriva la notizia di un ragazzo di 26 anni morto sparato, come si usa dire. Si chiamava Vincenzo Costanzo e non è morto per un petardo o per un proiettile vagante, è stato ucciso in un agguato di camorra, come si è affrettato a precisare il prefetto di Napoli Claudio Palomba, specificando come il triste evento fosse assolutamente slegato dai festeggiamenti: “Non ha nulla a che vedere con le celebrazioni per la vittoria calcistica. Il piano sicurezza messo a punto per evitare che i festeggiamenti degenerassero ha retto”. Possiamo tirare un sospiro di sollievo, il sistema disposto per celebrare il trionfo del Napoli ha funzionato e stavolta non ci sono responsabilità da distribuire e colpevoli da trovare per l’omicidio di un giovane di 26 anni e il ferimento degli altri tre ventenni che lo accompagnavano. Attenti a “non dare un messaggio sbagliato”, dichiara poco dopo il sindaco Gaetano Manfredi: “Questo morto che c’è stato è legato ad una dinamica che non c’entra niente con la festa. Si tratta di una persona che ha precedenti importanti”. Un pluripregiudicato, un malacarne in fondo, niente di più di una delle tante ammazzatine che i malavitosi si fanno tra di loro e che se non sconvolgono più nemmeno le istituzioni locali, figurarsi il resto della nazione, tanto che la notizia è stata derubricata immediatamente a fatto minore e locale. Viceversa, fosse morto per qualcosa andato storto durante i caroselli, il giorno dopo la notizia avrebbe meritato il titolo di apertura e si sarebbe alzato un polverone politico destinato a durare per giorni. E invece niente. Meglio così, no? Vincenzo Costanzo, 26 anni compiuti una settimana fa, è stato trovato agonizzante dai Carabinieri in piazza Carlo III con il corpo crivellato di colpi di pistola, sparati probabilmente da un commando di quattro killer nella vicina Piazza Volturno dove sono stati ritrovati a terra 7 bossoli calibro 9x21. È arrivato in codice rosso all’ospedale Cardarelli di Napoli, ma le ferite erano così numerose e profonde che i medici non hanno potuto far niente per salvarlo e in due ore se n’è andato. Parenti e amici sopraggiunti in massa al pronto soccorso, hanno tentato di entrare ma senza riuscirci e alla notizia della morte del ragazzo hanno danneggiato porte e finestre. Scene viste e riviste negli ospedali napoletani, e non solo, nonostante siano stati istituiti all’interno presidi della polizia di Stato, che servono da deterrente certo, ma non da argine alla rabbia quando esplode come violenza di gruppo. Anni fa ebbi modo di raccogliere lo sfogo di un primario del vecchio Pellegrini che confessò che tanta era la paura della reazione degli altri da essere arrivato a sperare di veder arrivare in pronto soccorso i feriti da accoltellamento o da arma da fuoco, con poche chance di sopravvivenza, già morti. Una riflessione drammatica, un tradimento della propria missione, sia per chi dovrebbe salvare vite sia per chi dovrebbe mettere i medici nella condizione di farlo: un fallimento per tutti. Vincenzo Costanzo era uno dei tanti giovani predestinati dei quartieri, noto da tempo alle forze dell’ordine, aveva già alle spalle diversi precedenti per droga. Figlio di una zona complicata come Ponticelli e di un padre, Maurizio, considerato un esponente di spicco del clan D’Amico che con i ben più potenti Mazzarella si contende da anni a colpi di attentati dinamitardi il controllo dell’area orientale della città contro i clan De Micco e De Luca-Bossa, appartenenti invece all’Alleanza di Secondigliano. L’altra notte insieme a Vincenzo hanno sparato, per fortuna senza gravi conseguenze, anche ai suoi amici: alla sua fidanzata Valeria, 26 anni incensurata, a Ciro Paolillo, 24 anni con precedenti per tentato omicidio, a Ciro Donzelli, 20 anni con precedenti per rapina. Tutti figli di un dio minore. Perché se nasci in un rione, in una via, in un palazzo o da quella famiglia è difficile se non impossibile avere un destino diverso da quello dei tuoi genitori e dei tuoi vicini, a meno di non essere dotati di una smisurata forza di volontà. A Napoli, alcuni rioni sono luoghi di esclusione sociale dove a 12 anni impari a tenere in mano una pistola, a 13 fai i primi scippi e a 15 fai le rapine a mano armata, a 17 sei in carcere o peggio; il tasso di abbandono e di dispersione scolastica in alcune zone supera il 50 per cento, percentuali che tolgono il futuro non solo ai ragazzi, ma a tutta la città. Quando è capitato di intervistare persone detenute per reati gravissimi ho chiesto loro cosa avrebbero cambiato della loro vita, avendone la possibilità. Quasi tutti mi hanno risposto: “Tornerei scuola”, l’unico luogo per chi non ha la fortuna di nascere nel posto giusto di intravedere un futuro alternativo a quello scritto per te da altri. In uno straordinario racconto contenuto nel libro Il mare non bagna Napoli, scritto nel ‘53 da Anna Maria Ortese, Eugenia che vive in un basso napoletano è una ragazzina spensierata, ma vede pochissimo fino a quando un dottore le promette un paio di occhiali che le consentiranno finalmente di vedere tutto quello che la circonda. Da quel giorno comincia l’attesa eccitata per l’arrivo di questi benedetti occhiali, ma appena li inforca il sorriso le si muta in una smorfia, perché le arriva addosso all’improvviso quella miseria e quella rassegnazione che prima non vedeva e a quel punto per la sofferenza comincia a vomitare. Eppure la zia l’aveva avvisata: “Figlia mia il mondo è meglio non vederlo, che vederlo”. Dall’inclemenza della realtà però non si può fuggire per sempre e la storia di Vincenzo Costanzo, nato con una fedina penale già sporca, morto sparato a 26 anni, riflette la condizione di troppi giovani il cui destino da rovesciare dovrebbe essere al centro dell’interesse di tutti, anche quando per sorte si viene uccisi in una notte magica, in cui ha funzionato tutto o quasi. Bologna. Bonifica di via Fioravanti, cinquanta detenuti al lavoro di Francesco Moroni Il Resto del Carlino, 7 maggio 2023 Una cinquantina di detenuti di Seconda Chance provenienti dalle carceri di Bologna, Frosinone, Laureana di Borrello, Locri e Palmi, questa mattina bonificheranno aree degradate assieme ai volontari di Plastic Free. Nella zona di via Fioravanti a Bologna e in altre città d’Italia, va in scena il primo atto della partnership tra l’associazione ambientalista e l’associazione del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento per i detenuti. Seconda Chance (www.secondachance.net) cerca imprenditori disponibili ad andare a valutare manodopera in carcere sfruttando gli sgravi fiscali della legge Smuraglia. In un anno e mezzo ha procurato già 180 posti di lavoro. Proprio martedì scorso è arrivato il primo dei quattro detenuti richiesti dalla Fattoria della Piana. La fondatrice e presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi, anticipa che questo è solo l’inizio della collaborazione con Plastic Free: “I direttori di diversi altri istituti hanno espresso il desiderio di inviare anch’essi i detenuti migliori alle prossime domeniche di pulizia ambientale. E da diverse carceri sono gli stessi detenuti a scriverci per chiederci, oltre a un’opportunità di lavoro, la possibilità di partecipare alle giornate ecologiche”. Per il direttore generale dell’associazione ambientalista, Lorenzo Zitignani, l’obiettivo è quello di sensibilizzare quante più persone possibili sul tema “inquinamento da plastica”. Oltre tre milioni di chili di plastica raccolti, l’iniziativa conta 250mila volontari attivi in più di 4mila raccolte. Le parole chiave sono: includere, sensibilizzare ed educare. “Tutti - continua Zitignani - possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo, non abbiamo un pianeta b”. Bologna. Quattro detenuti assunti dal Caf Acli per lavorare al call center di Fulvio Fulvi Avvenire, 7 maggio 2023 Allestito un ufficio all’interno dell’istituto della Dozza. Quattro detenuti della Casa circondariale di Dozza, a Bologna, sono stati assunti come operatori del call center delle Acli. Dal 28 aprile scorso lavorano in un ufficio allestito in una stanza del carcere rispondendo alle circa 700 telefonate quotidiane di utenti che chiedono un appuntamento con i centri di assistenza fiscale del patronato delle province di Bologna, Ferrara, Reggio Emilia e Mantova. Si tratta di un’iniziativa unica nel suo genere in Italia, gestita direttamente dall’associazione (e non attraverso cooperative esterne) e finalizzata al reinserimento sociale dei reclusi. Con l’ausilio di quattro computer collegati esclusivamente alla piattaforma delle Acli e di altrettanti telefoni (solo riceventi) gli operatori, detenuti italiani che devono scontare pene di otto-nove anni per gravi reati (il più giovane di loro ha 23 anni, due sono 55enni con esperienza professionale e l’altro ha 43 anni) hanno il compito di fissare la data dell’appuntamento in una delle sedi del Caf e fornire tutte le informazioni sui documenti necessari alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi. I contratti di lavoro sono a termine, uno a tempo pieno e gli altri part-time e scadranno a fine settembre salvo proroghe, lo stipendio medio netto è di 1.200 euro al mese. “I rapporti di lavoro, applicati nel rispetto del regolamento carcerario, dureranno per tutta la campagna fiscale delle Acli - precisa Simone Zucca, direttore del Caf Acli - ma la nostra speranza è di trasformarli a tempo indeterminato e allargare il numero degli assunti fino a otto”. Il penitenziario bolognese ospita attualmente circa 750 detenuti e diverse attività finalizzate al reinserimento sociale come laboratori di teatro, musica e scrittura. La selezione dei candidati per il progetto delle Acli e la loro formazione professionale sono avvenuti in stretta collaborazione con la direttrice dell’istituto, Rosa Alba Casella, mentre l’investimento destinato alla tecnologia e alla predisposizione dell’ufficio (collegamenti Internet, cablaggi, mobilia e attrezzature) è stato di circa 20mila euro. “L’idea di creare un ufficio all’interno della Casa circondariale è nata quando, pensando di far fare uno stage nella nostra sede a un detenuto in semilibertà - spiega Zucca - abbiamo appreso invece della disponibilità della direzione ad ospitare un centralino telefonico per svolgere lo stesso servizio in un locale dedicato, così abbiamo cambiato il progetto, tenendo anche conto delle agevolazioni contributive in favore dei datori di lavoro previste dalla “legge Smuraglia” (la n. 193 del 2000) che promuove le opportunità di impiego qualificato dei detenuti all’interno degli istituti di pena”. “È un’iniziativa molto importante - ha affermato il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, che ha inaugurato l’ufficio delle Acli alla Dozza - perché riconsegna al carcere la sua funzione rieducativa, inoltre il lavoro è lavoro vero se restituisce dignità alla persona. Meno del 5% di chi vive in questo istituto - ha detto il cardinale - ha un’occupazione ed è davvero un numero troppo basso. Bisogna fare di più”. Un impegno che le Acli cercheranno di mantenere nei prossimi mesi. “Questo progetto lavorativo si inserisce in un rapporto di collaborazione ormai consolidato tra il carcere di Bologna e l’Unione Sportiva Acli locale” ha affermato il dirigente dell’Unione Sportiva dell’Associazione cristiana lavoratori, Filippo Diaco. “Infatti, da qualche anno promuoviamo attività sportive e di mediazione interculturale all’interno della casa circondariale. Siamo partiti con il rugby - spiega Diaco - e ora, in collaborazione con il Centro Sportivo Italiano di Bologna, cominceremo gli allenamenti di calcio per far nascere una squadra e il corso arbitri. Crediamo molto, infatti, nel valore educativo dello sport, inteso come strumento di inclusione sociale e promozione del benessere psicofisico, aspetti fondamentali in carcere. E per i nostri lavoratori sarà una sorta di welfare aziendale”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Delegazione della Camera Penale in visita al carcere casertanews.it, 7 maggio 2023 Nell’ambito dell’iniziativa “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”: appuntamento il 9 maggio. La Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere partecipa a “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”: iniziativa dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, di Nessuno tocchi Caino, del Movimento Forense e del Garante campano dei detenuti. “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”, prenderà il via l’8 maggio e proseguirà fino al 13 maggio in Campania, così come già fatto e programmato in altre regioni d’Italia. Il cartellone, che prevede la visita di una delegazione di avvocatura e associazionismo negli istituti di pena di Arienzo, di Santa Maria Capua Vetere, di Benevento, di Sant’Angelo dei Lombardi, di Avellino e di Salerno, è stato promosso dal Garante delle persone private della libertà personale della Campania, dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, dall’associazione Nessuno tocchi Caino e dal Movimento Forense-Dipartimento Carceri. Dopo la visita nelle carceri sono previste conferenze aperte al pubblico di resoconto della visita e di dibattito sulle questioni più generali attinenti l’amministrazione della giustizia e del sistema penale nel nostro paese. La visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere si svolgerà martedì 9 maggio, a partire dalle ore 10. A seguire (alle ore 13), presso i locali della Camera Penale, Piano Terra del Tribunale Penale di Santa Maria Capua Vetere, si terrà la relativa conferenza stampa per illustrare nello specifico lo stato di salute dell’istituto penitenziario sammaritano. Pisa. Il governo premia Tommaso Giani per le lezioni in carcere di Ivana Zuliani Corriere Fiorentino, 7 maggio 2023 La “Classe pirata” di Tommaso Giani ha vinto il premio Atlante - Italian Teacher Award, dedicato ai migliori progetti educativi e extracurricolari realizzati da docenti nelle scuole. Il riconoscimento è stato consegnato dal sottosegretario all’Istruzione Paola Frassinetti, venerdì mattina a Roma al Teatro Brancaccio. Giani, diacono docente di religione all’istituto superiore Arturo Checchi di Fucecchio, ha creato una classe mista con 12 docenti e 12 detenuti. La classe di “pirati”, dove non contano voti o registri, ma solo persone e parole, si riunisce nel carcere di Pisa. “Ogni incontro è incentrato su una parola: infanzia, amicizia, maestro... Ogni ragazzo e detenuto porta un racconto personale legato alla parola”, racconta il prof. “Di incontri spot tra studenti e carcerati ne vengono fatti spesso ma qui si è creato un gruppo stabile, che è andato avanti da ottobre a maggio, si è creato un clima di fiducia”. Sono emersi così racconti molto personali, ragazzi e adulti si sono a volte commossi”. L’idea è nata dopo un incontro a scuola con Walter Rista, ex rugbista co fondatore de La Drola, squadra di rugby del carcere di Torino. “Mi è venuto in mente il progetto e ho scritto al direttore del carcere di Pisa Francesco Ruello che ha subito accolto la proposta”. L’ultima “lezione” dell’anno sarà il 25 maggio. La parola del giorno sarà “partecipazione”. “È la qualità che spinge ad andare oltre il proprio tornaconto e interesse personale, porta a prendersi cura della realtà che c’è intorno”. L’idea è continuare il progetto anche l’anno prossimo con altri studenti e detenuti. Parma. Una città nella città fra dolore e riscatto: il carcere raccontato agli studenti di Arianna Belloli La Repubblica, 7 maggio 2023 Al cinema Astra l’iniziativa del liceo Bertolucci con il racconto e la testimonianza di chi opera con la finalità del reinserimento nella società dei detenuti. Una città all’interno della città, rete complessa di destini che, pur avendo incrociato la caduta e l’errore, non possono essere ridotti a quella caduta: il carcere di Parma, la sua realtà quotidiana fatta di dolore ma anche di speranza, trasformazione e riscatto, ha preso consistenza, scollandosi di dosso cliché e luoghi comuni dello sguardo, davanti alla platea del cinema Astra riempita dagli studenti delle classi quarte e quinte del Liceo Bertolucci attraverso il racconto e la testimonianza di chi opera con la finalità, convergente seppure declinata secondo prospettive diverse, di dare concreta traduzione al principio costituzionale per cui ogni persona, anche se in condizione di restrizione, resta portatrice di diritti inviolabili. “Fa onore a voi studenti del liceo Bertolucci avere organizzato questo incontro allargato su un tema avvertito come urgente: la vostra volontà di dialogo vi ha portato oggi ad avere un prestigioso tavolo di confronto con le massime autorità che si occupano della realtà carceraria cittadina e che schiuderanno i cancelli del discorso verso riflessioni ampie”, ha osservato il sindaco Michele Guerra rivolgendosi ai rappresentanti di Istituto, Riccardo Riccò, Tommaso Basso, Giovanni De Simoni e Lorenzo Tebaldi. L’incontro formativo “Le carceri”, coordinato dalla professoressa Gabriella Corsaro, consigliera comunale che in passato ha portato la musica in carcere facendo delle note uno strumento educativo e che si è spesa in questa occasione per rendere possibile il momento di confronto organizzato in collaborazione con il Comune e l’assessorato al Welfare, “appare importante dal momento che la qualità della nostra società si giudica dalla qualità delle sue carceri: lì si vede infatti quanto una comunità sappia costruire discorsi inclusivi. Le due città devono porsi in un’ottica di complementarietà, riconoscendosi come un’unica città”, ha sottolineato Guerra. Parlare di carcere a studenti che sono maggiorenni o lo stanno per diventare e si preparano quindi a essere cittadini attivi, “significa dare conto di una realtà complessa fornendo alcune chiavi di lettura rispetto a questioni che vanno comprese e interpretate con serietà, evitando il rischio, sempre dietro l’angolo, della banalizzazione o, peggio, quello di qualsiasi strumentalizzazione dal momento che leggere la realtà del carcere significa anche parlare di convivenza civile, di libertà, di dignità della persona alla luce dell’articolo 27 della Costituzione per cui la pena deve tendere sempre alla rieducazione del condannato: parlare di carcere oggi significa quindi parlare del complesso universo che è ogni uomo”, ha osservato Lorenzo Cardarelli, dirigente del liceo cittadino, prima di lasciare la parola ai diversi relatori. Catanese, da tre anni direttore dell’istituto penitenziario di via Burla, alle spalle una carriera lunga quasi tre decenni che lo ha portato a conoscere realtà molto diverse da Catania a Trento, Valerio Pappalardo ha osservato come, “pure in presenza di detenuti condannati col 41bis e di persone con un ‘pedigree’ criminale importante, garantire la speranza resta sempre nostro dovere. La grande scommessa su ciascuno è quella di riuscire a intercettarne talenti, potenzialità nascoste, in modo che la persona, una volta scontata la pena, possa reintegrarsi nella società, dando un senso nuovo alla sua vita. Una sfida difficile, ma necessaria è quella di riuscire a tenere sempre presente che davanti a noi c’è prima di tutto un uomo con le sue complessità. L’obiettivo di questa ottica è quello di aiutare ciascuno a cambiare, arrivando a costruirsi anche una professionalità all’interno della struttura penitenziaria, in vista della vita fuori dal carcere. Il termometro per sapere se si è lavorato nel modo giusto? La recidiva: se qualcuno, una volta uscito, torna a delinquere, allora significa che il percorso di rieducazione è fallito”. Testimonianza vivida, capace di rompere il guscio di una narrazione da fiction che rischia di ammantare di scura seduzione il mondo del carcere, è venuta da Nicolino Di Michele, comandante della Polizia Penitenziaria: “Ricordo che quando chiesi a un giovane camorrista ventiseienne che cosa avesse goduto della sua vita, trascorsa fuori e dentro dal carcere dai 18 anni, lui mi rispose chiedendomi quanto guadagnassi io in un mese. Glielo dissi, non avendo nulla da nascondere. La sua risposta fu, in dialetto, che quanto guadagnavo in un mese lui lo otteneva in una sera. Ma quello che voglio dirvi è che non si misura il successo dal denaro né dal potere: la scuola vi insegna che la strada da percorrere comporta fatica e sacrificio perché il vero successo è la serenità di una coscienza pulita e non braccata dalla paura. Dimenticatevi le raffigurazioni televisive del crimine e non lasciatevi affascinare: in carcere si è privati della libertà che è il bene più prezioso che ci connota come umani”. Tra i diritti fondamentali che devono essere tutelati anche in carcere c’è quello alla salute: “Obiettivo della Regione, difficile da raggiungere, è quello di creare un sistema sanitario all’interno del carcere che possa essere identico a quello che c’è nella società esterna - osserva Ettore Brianti, medico e assessore al Welfare - mentre, di fatto, gli spazi all’interno del carcere non sono allestiti come stanze di un vero ospedale nonostante l’azienda Usl spenda quasi 3 milioni di euro per una popolazione di circa 670 detenuti, equivalente a un piccolo paese. Gli istituti penitenziari nazionali non sono più adeguati: se il luogo dove il detenuto deve riabilitarsi non è dignitoso, occorre fare una politica diversa che punti all’adeguamento degli edifici. Già nella carenza di agenti e educatori si legge la sproporzione delle politiche sociali, sanitarie e rieducative delle politiche nazionali, come ci è stato contestato dalla Comunità Europea. In questo senso, le carenze e le disuguaglianze che vediamo nel carcere riflettono quelle che esistono anche nella città”. Per i medici e gli infermieri che, invisibili, operano all’interno del carcere “dovremmo avere la massima considerazione dato che il loro lavoro li espone in maniera pesante, ogni giorno, rispetto al piano personale familiare, comportando rischio oltre che sacrificio”. Ma il ristretto orizzonte del carcere, come osserva Maria Clotilde Faro, capo area Giuridico - Pedagogica degli istituti penitenziari, “è anche spazio in cui si costruisce la speranza: compito del team dell’area pedagogica è quello di accompagnare la persona ristretta dal suo ingresso fino alla fuoriuscita iniziando a comprendere in quale punto della sua storia è inciampata per aiutarla a costruire prospettive nuove. Importante sarebbe raccontare non solo gli episodi di violenza (tra i più recenti, quello di un detenuto che ha gettato olio bollente sul volto di un poliziotto o quello cruento in cui un uomo ha staccato con un morso un orecchio a un altro detenuto) ma anche quelli positivi come il fatto che due mesi fa un detenuto si è laureato in carcere. Ma il bene molto spesso non fa notizia”. Molto opportuna, quindi, la scelta di portare fuori dal carcere il racconto della vita che si svolge all’interno delle sue mura: “Sarebbe auspicabile poter ripetere questo incontro dando voce anche alla testimonianza diretta di qualche detenuto che possa raccontare il percorso che lo ha portato in carcere e poi la sua esperienza durante il percorso detentivo che, ci tengo a ricordarlo, deve avere sempre un intento rieducativo. Per questo oltre alla polizia penitenziaria, negli istituti carcerari ci sono anche diverse figure come psicologi e educatori che si occupano di accompagnare la persona ristretta, coinvolgendola, in un percorso di cambiamento”. Un mandato complesso e delicato, nato dal basso per far sì che le carceri possano diventare davvero edifici trasparenti dalle pareti di vetro, è quello assegnato a Veronica Valenti, Garante dei detenuti, che ogni settimana entra in carcere per tessere un rapporto di prossimità con i ristretti: “Il carcere non sopporta discorsi di circostanza richiedendo una partecipazione integrale della persona con la sua umanità e professionalità”, ha osservato la garante, richiamando parole espresse da Marta Cartabia. Occorrono poi risorse per poter dare corpo ai principi: “Per essere all’altezza delle parole della nostra Costituzione, occorrono strutture adeguate oltre a risorse umane e finanziarie.” Qual è il compito del garante dei detenuti? “Il garante può avere colloqui con i detenuti e questi possono attraverso di lui inoltrare reclami o segnalare abusi. Può inoltre visitare gli spazi del carcere senza previa autorizzazione. E riportare nella società civile ciò che vede, per sensibilizzare rispetto alla dimensione carceraria, rendendo più trasparente la vita che si svolge entro gli istituti penitenziari” in un’ottica che guarda lontano dai confini del luogo comune dal momento che “il carcere cambia se cambia la prospettiva culturale con cui la società guarda il carcere: se invece vincono i pregiudizi, chi se la sente di dare lavoro a un ex-carcerato?”. Milano. Moda e psicologia: “Così le detenute riscoprono sé stesse” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 7 maggio 2023 Coaching motivazionale, le fondatrici dell’associazione Dress for success Milano e il progetto sperimentale: l’iniziativa nell’ambito della Civil week. Alla Casa circondariale di Bollate è mattina presto: dieci donne che vivono in libertà ristretta si trovano davanti allo specchio. Per avere voglia di alzarsi dal letto di una cella e rendersi “belle” (e ben disposte verso il mondo) ci vuole moltissima forza di volontà, raccontano. Con un po’ di leggerezza, tanta pazienza e la maggior empatia possibile, in punta di piedi sono entrate lì a Bollate le fondatrici dell’associazione Dress for success Milano con un progetto sperimentale che invita le dieci donne detenute di Bollate a prendersi cura di sé. “Tutto è nato dalla Civil week e dal tema che la kermesse ha messo al centro, il “prendersi cura” di persone, ambiente e territorio - racconta l’avvocato Donatella Cungi, volontaria dell’associazione no profit internazionale che esiste in 30 Paesi da 25 anni -. L’ispirazione ci è arrivata da lì, visto che da sempre sosteniamo a 360 gradi le donne in difficoltà nella ricerca di lavoro. Il progetto - prosegue Cungi - ha coinvolto insieme le detenute e alcune educatrici, oltre al direttore del carcere Giorgio Leggieri. Altre dieci donne sono già pronte a partecipare a una eventuale seconda edizione”. Coaching motivazionale, lezioni di stile, colloqui di orientamento per trovare prospettive e spinte a migliorarsi. Dieci incontri in totale e “i sette che mancano si svolgeranno entro l’estate”, spiega Giovanna Vitacca, esperta in consulenza d’immagine e coach. Punto di partenza, il colore: “Una detenuta, all’inizio del primo incontro, ci ha allontanato dicendo “Io sono nera”. Voleva dirci che era arrabbiata, triste. Ma ha trovato anche tinte diverse in cui rispecchiarsi - spiega Vitacca -. Attraverso l’approfondimento di moduli tematici, ciascuno dedicato a uno specifico argomento, stiamo accompagnando le partecipanti verso una maggiore consapevolezza di sé. Il punto è cercare un equilibrio tra forma e sostanza senza pensare che la seconda sia monolitica e la prima inutile: se la forma è l’aspetto esteriore, in un contesto come quello detentivo diventa arma cruciale per non lasciarsi andare”. La sostanza invece, ovviamente, è la natura profonda, l’indole, il vissuto: “È ciò che siamo e come con lo stile esprimiamo noi stesse - dice la style coach. L’obiettivo è generare in queste donne l’idea che ognuna di loro è unica e speciale e per questo hanno l’obbligo e il dovere di volersi bene e valorizzarsi, non soltanto quando ricevono le visite dei parenti che hanno a che fare con il passato”. Ogni giorno può esserci una donna nuova, continua: “Si lavora sulla dignità e il decoro come basi per creare l’identità, lo stile. E non perché si debba essere accettati, riconosciuti dagli altri o perché si deve gratificare qualcuno, ma solo per sé stesse”. Ognuna deve capire che cosa sa fare e che cosa le interessa fare. Deve mettere a frutto capacità e talenti, sviluppare competenze, studiare ed esercitandosi non solo in funzione di quando rimetterà piede fuori ma anche in funzione del presente, dentro le mura. L’ultimo incontro è sul futuro e culmina con la creazione di un curriculum e con una iniezione di autostima che “resterà bagaglio di vita”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). I detenuti donano il loro cibo alla Caritas casertaweb.com, 7 maggio 2023 “I detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere donano il cibo che hanno raccolto, rinunciando a mangiarlo, alla Caritas. È già la terza volta che succede in meno di un anno. Siamo molto orgogliosi di questo progetto che, come associazioni di vittime della strada, portiamo avanti insieme al Comitato per il Cimitero di Aversa e al suo responsabile, Nicola Nardi”. Così Elena Ronzullo, presidente dell’Associazione Mamme Coraggio e Vittime della Strada Odv, Alberto Pallotti e Biagio Ciaramella, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione Unitaria Familiari e Vittime della Strada Odv e dell’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada Odv. Il progetto, che vede la collaborazione tra le Associazioni, il Comitato per il Cimitero di Aversa e la Caritas, si prefigge lo scopo di aiutare i poveri del territorio attraverso la generosità dei detenuti della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. “Ringraziamo la direttrice del carcere, Donatella Rotundo, e i vari organi che ci hanno permesso di fare questo piccolo gesto”, dicono Pallotti, Ciaramella e Ronzullo. Aggiungono: “Cogliamo l’occasione per ringraziare il cappellano dell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, padre Clemente, che ancora una volta ci ha dato la possibilità di donare alla Caritas di Aversa generi alimentari donati dai detenuti dei vari reparti. Siamo grati anche al vescovo, Monsignor Angelo Spinillo, che è sempre presente per chi ne ha bisogno. Ringraziamo il direttore della Caritas di Aversa, don Carmine Schiavone. Ma, soprattutto, ringraziamo i detenuti del carcere, che si sono privati del loro cibo per donarlo a chi ne ha bisogno”. Le associazioni ringraziamo il responsabile del Comitato per il Cimitero di Aversa, Nicola Nardi, per l’impegno profuso nel progetto. “Senza di lui, tutto questo non sarebbe stato possibile”, dicono Pallotti, Ciaramella e Ronzullo, “Nicola lavora nel carcere ed è un anello importante per far sì che queste offerte dei carcerati arrivino a destinazione. I detenuti si limitano a non mangiare determinati cibi, per poi donarli alla Caritas che, a sua volta, li darà alle persone bisognose. Sappiamo che nel nostro territorio ce ne sono tante: ogni giorno la Caritas dà da mangiare a oltre cento persone a pranzo e spesso anche la sera. Siamo orgogliosi di questa offerta dei detenuti. Come associazioni, e insieme al Comitato per il cimitero, teniamo alta la battaglia per il sociale”. Anche la Caritas diocesana ringrazia tutti coloro che si sono adoperati per questa nuova raccolta fatta nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Monza. “Il mio scudetto? Coi detenuti”. Moreno Ferrario dagli Azzurri alla squadra del carcere di Dario Crippa Il Giorno, 7 maggio 2023 L’ex difensore del primo titolo dei Partenopei ricorda l’esperienza in via Sanquirico: “La vittoria più bella, quando erano tesi raccontavo di come avevo marcato Van Basten”. Dieci maggio 1987. Ultima partita in casa contro la Fiorentina. Basta poco per il primo Scudetto. “Per fare quei cinque chilometri da Soccavo, dove ci allenavamo, allo stadio San Paolo, ci mettemmo due ore. Non c’erano ancora i pullman scoperti, ma noi avanzavamo con le portiere aperte a passo d’uomo. Ecco, se non sei vissuto a Napoli, non puoi capirlo”. Moreno Ferrario da Lainate è un uomo schivo. Lombardo fino al midollo, a Napoli ha trascorso gli 11 anni più intensi della sua carriera. Napoli dopo 33 anni è tornata a vincere il titolo... “Una squadra che ogni volta che scendeva in campo era come se si prendesse una rivincita su qualcuno, sulle ingiustizie, sul Nord… allora fu una sorta di riscatto”. Al Napoli arrivò da Varese... “Ero abituato a un pubblico che al massimo poteva arrivare a 25-30mila persone in una partita, a Napoli ce n’erano sempre 5-10mila persone solo per gli allenamenti”. E incontrò Maradona... “Il più grande di sempre. Io andavo a letto alle 10 e lui all’alba, a volte dovevi scongiurarlo di venire all’allenamento, ma era un fenomeno. Con lui ho imparato cosa fosse un leader”. Un esempio? “Il primo anno andavamo male, eravamo in ritiro prima di una gara con l’Udinese. Ferlaino, il presidente, ci venne a minacciare: se non avessimo vinto, avrebbe cacciato l’allenatore, Rino Marchesi. Maradona si alzò, prese la parola e gli disse: ‘va bene, ma prima caccerai me, e poi lui’, indicando col dito un compagno. ‘E poi lui’, indicandone un altro. E alla fine tutti, ‘perché in campo ci andiamo noi e se perdiamo la colpa è solo nostra’. Ferlaino ammutolì. E noi vincemmo quella partita 4 a 3”. Ebbe qualche problema... “Era fuori categoria, giocava sempre da 10, non solo come numero di maglietta. Io tecnicamente non ero un granché, ma a quelli come me diceva: ‘se non ti impegni, non vinciamo. Perché io da solo non basto, se vinci tu… vinciamo tutti”. È passato alla storia anche per un gol di mano ai Mondiali... “E non fu l’unico. Ne fece uno così anche con la Samp e un altro con l’Udinese, senza che nessuno, neppure noi compagni, se ne accorgesse: ce li fece vedere anni dopo in Vhs”. L’esperienza più bella a Napoli... “No, a Monza”. Come? “L’anno da allenatore… con l’Alba, la squadra di calcio a 7 del carcere di Monza. All’inizio non me la sentivo ma poi... fu l’esperienza più incredibile e bella della mia vita. Perché a Napoli in fondo era il mio lavoro, al carcere di Monza era la mia vita, era fare del bene”. Con rapinatori, ladri, banditi... “Era il momento più atteso della settimana per tutti. Per i detenuti ma anche per il sottoscritto. I detenuti sapevano che dovevano rigare dritto altrimenti avrebbero corso il rischio di non essere convocati. Io scoprivo la lista dei disponibili solo all’ultimo momento. In campo però sapevo che per molti di loro, era uno sfogo, un paio d’ore in cui si sarebbero sentiti liberi, cercavo di farli giocare tutti, mi chiedevo ogni volta come fare per non deluderli” Il rapporto coi detenuti? “Non ho ricevuto mai tanto rispetto in tutta la mia vita. Non chiedevo mai cosa avessero fatto, erano quasi tutti stranieri, ma fu decisivo quando venni presentato il primo giorno. C’era un po’ di tensione, dissero che ero stato un calciatore, che avevo giocato in serie A, ma fu quando nominarono Maradona che tutti capirono: era tanta roba”. Il rapporto si era messo subito sui binari giusti... “Non sono mai stato un fenomeno, ma ho dimostrato di saper stare al mondo, e che se ci si impegna si possono raggiungere grandi risultati. Non è necessario essere campioni, ero come loro”. Quando capiva, prima di una partita, le gambe rischiavano di tremare... “Raccontavo di quando avevo dovuto marcare Hugo Sanchez davanti a 90mila spettatori allo stadio San Paolo, o Van Basten, Platini, Falcao, Rummenigge. Alla fine, dicevo che era tutto un gioco: a maggior ragione oggi, che in campo ci siamo solo noi, gli avversari… e le guardie”. L’Alba vinse il campionato... “Un giorno sul campo mi arrabbiai di brutto con un giocatore, gli urlai contro per uno sbaglio di gioco… soltanto dopo, mi resi conto di cosa avevo fatto”. Il detenuto era un violento, storia criminale da brividi... “A fine partita mi venne vicino e, davanti a tutti, mi disse: ‘Non ho mai permesso a nessuno di alzare la voce con me…’. E nel silenzio generale, aggiunse: ‘Ma Lei può’. Era andata bene”. Ha rischiato… “Un giorno arrivò un bestione di colore, due mani grosse come badili: non voleva andare in porta… non capivo perché: poi venne fuori che non voleva più usare le mani perché con le sue un giorno aveva gettato la moglie fuori dalla finestra”. E lei? “Gli dissi che poteva giocare dove voleva”. Incarcerare il futuro nel passato recensione di Enrica Riera L’Osservatore Romano, 7 maggio 2023 “Fuori” di Birgit Birnbacher, la storia emblematica di un giovane detenuto. Non è importante conoscere il motivo per cui Arthur Galleij sia stato dentro, è importante capire perché adesso che è fuori non riesca a ricominciare. Ora che tutto sembra nuovo - i telefoni, per esempio, non sono più quelli di un tempo ed è cambiata addirittura la modalità con cui si ordina un caffè; non ci sono più le linee di tram, autobus e metropolitana di una volta e, al contempo, è la città stessa a mostrarsi trasformata, un “essere” estraneo, straniero - questo giovane uomo pare essere rimasto vecchio, indietro: non più al passo, tagliato letteralmente fuori dal “sistema”. Come farà, dunque, dopo gli anni di prigione, a ottenere un lavoro? Ma soprattutto chi, nella Vienna che appare così simile a qualunque città italiana per modo di pensare la “dimensione carcere”, sarà disposto a dargli un’opportunità? È meglio essere se stessi o mostrare un’immagine di sé distorta ma più simile a quella che gli altri vorrebbero vedere? Questi, soprattutto, e altri sono gli interrogativi fondamentali in cui ci imbattiamo mentre leggiamo “Fuori” (Napoli, Mar dei Sargassi, 2022, pagine 221, euro 18, traduzione di Emilia De Paola) della sociologa e scrittrice di Salisburgo Birgit Birnbacher. Domande che, considerate le cronache italiane e non solo, non possono purtroppo che rimanere senza risposte. Quando si dismette la propria condizione di detenuto, si è realmente liberi? A seguire è non a caso un silenzio che assorda. Un romanzo-denuncia, pertanto, questo sul ventiduenne condannato a ventisei mesi di reclusione e rilasciato nell’estate del 2020: Arthur fa fatica a tornare alla normalità, ha perduto le relazioni familiari e quelle che hanno a che fare con le cose di tutti i giorni, con la quotidianità. È un protagonista - ce ne rendiamo conto man mano che andiamo avanti nella lettura, fatta di rimandi al tempo passato e al tempo futuro e tra l’altro ben costruiti in questo gioco di incastri da cui deriva anche una certa suspence - che ha mille volti. Arthur ha, cioè, mille volti perché rappresenta quello che vivono gli uomini e le donne accomunati dall’aver fatto esperienza della detenzione, a prescindere dalla nazionalità, dal luogo di provenienza. Per molti “ex reclusi” basta aver scontato la pena, quella stessa pena che - almeno secondo la Costituzione italiana - dovrebbe rieducare e includere all’interno della società fuori dal carcere, per ottenere una seconda opportunità? O lo stigma della cosiddetta risposta sanzionatoria dello Stato non verrà mai annullato? “Mi chiamo Arthur Galleij, ma in realtà il mio nome avrebbe dovuto essere un altro. Sono nato il 29 maggio 1988. Il nome preferito di mia madre era Mario, ma mio padre ha imposto la sua volontà. In realtà non so molto di quel periodo. Singole storie, con cui più tardi ricostruire una provenienza. Quella del nome è in qualche modo rimasta presente. Ci ho pensato più spesso in carcere. Forse il ricordo di una seconda possibilità. Reset, e tutto ricomincia da capo. Nuovo nome, tutto da capo. Ma questo è solo uno stupido sogno”, racconta in prima persona il protagonista già deluso, per l’appunto, da quello che lo aspetta o che potrebbe aspettarlo. Pagina dopo pagina, ciò che emerge, quindi, è una fortissima critica sociale, una critica a una comunità che non riesce ad accogliere chi sbaglia, a perdonare, a infondere speranze, poi da concretizzare. Una riflessione dura, durissima, che ha il pregio di non “macchiarsi” di alcun giudizio morale e che - senza rivelare troppo - sa anche dirci, alla fine e nonostante le tortuose difficoltà del giovane Arthur, che, se guardiamo a fondo e bene, uno spiraglio di luce nell’oscurità ci deve essere, ci può davvero essere. Perché, in ultima analisi, leggere questo libro (e magari proporlo anche ai ragazzi nelle scuole)? La risposta è semplice e sta in quanto scrive nell’interessante prefazione Sara Benedetti: “Il carcere è questione di tutte e tutti, è argomento di cui dovremmo occuparci assiduamente con l’esercizio del pensiero individuale e con il confronto democratico. Invece, risulta essere, insieme alle case di riposo e ai cimiteri, uno dei luoghi rimossi del nostro tempo, rimossi perché ospitano ciò che non si vuole vedere, ciò con cui è difficile misurarsi: l’errore, la vecchiaia, la morte”. Ebbene, è arrivato il momento - non è mai troppo tardi - di non voltarsi dall’altra parte, di guardare oltre, di vedere l’uomo e le cose che ci fanno spavento. E di diventare consapevoli che, dentro o fuori, ciò che anima tutti noi è quel vero e proprio anelito di libertà che, per parafrasare una preziosa pronuncia della Corte Costituzionale del 1993, va sempre difeso e salvaguardato, specie quando è ridotto, piegato su stesso. Così, se “il carcere, per le tante funzioni che sembra dover assumere, diventa segno evidente di una società che si è arresa, che non è in grado di garantire opportunità ai suoi membri svantaggiati - si legge ancora nella prefazione di Benedetti - che nulla può per contrastare le derive del capitalismo e della forbice sociale”, vuol dire che anche i nostri brandelli di libertà, quelli in cui può espandersi la personalità individuale e la dignità, non hanno più ragione d’essere. Un romanzo in cui nessuno è innocente. Non c’è pacifismo senza resistenza di Walter Veltroni e Matteo Zuppi La Stampa, 7 maggio 2023 Pubblichiamo per concessione dell’editore Rizzoli un estratto dal libro “Non arrendiamoci, dialogo sui valori del nostro tempo” tra Walter Veltroni e Matteo Zuppi a cura di Edoardo Camurri. Veltroni. Io penso che il pacifismo debba cercare la pace e debba, al tempo stesso, difendere i diritti degli esseri umani a vivere la vita secondo le regole del diritto internazionale. Le due cose sono assolutamente legate. Se accettassimo il principio in base al quale il pacifismo prescinde dal diritto di un popolo, faremmo il contrario delle intenzioni che dichiariamo, cioè accetteremmo che una politica di potenza possa affermare se stessa in contrasto palese con ogni ragione e valore ideale di pace. La difficoltà, la durezza, la drammaticità di questo momento è proprio questa: come evitare la guerra, che deve essere sempre l’obiettivo principale del genere umano, direi degli uomini e delle donne di buona volontà, e al tempo stesso evitare che accada, non oggi, ma domani, che il mondo finisca sotto il giogo di chi ha politiche imperialistiche, ha politiche di dominio, ha politiche autoritarie. Questa è in fondo anche la grande questione che si pose durante la Seconda guerra mondiale. Non dimentichiamo che Hitler e Mussolini e regimi analoghi arrivarono al potere con il consenso, talvolta persino con il voto dei cittadini, e che il mondo occidentale si fece carico di aiutare chi, da questa parte del mondo, con le sue mani, aveva scelto l’inferno. Americani, australiani, canadesi non hanno fatto finta di nulla, non hanno detto che era affare nostro. E sono venuti a liberarci. Le croci bianche del cimitero di guerra di Anzio testimoniano proprio il sacrificio di migliaia e migliaia di ragazzi che anziché scegliere di vivere la propria vita, sono venuti qui per restituirci la nostra. Tornando a quel che avviene in Ucraina, stiamo vivendo un momento molto drammatico in cui il mondo può riscivolare verso il conflitto nucleare, ed è eloquente il fatto che a minacciarlo sia lo stesso Putin: questa minaccia, credo, descrive molto bene chi sia l’interlocutore che abbiamo di fronte, l’interlocutore con cui in molti vorrebbero negoziare la pace. Diffido delle posizioni belliciste di chi sostiene che solo con le armi possiamo porre fine alla guerra, ma allo stesso tempo diffido, e forse in maniera ancor più profonda, di chi invece sostiene, nei fatti, di abbandonare gli ucraini al loro destino. È disumano anteporre i nostri presunti interessi economici alla vita di milioni di persone aggredite la cui sorte, se non facciamo niente, sarà quella di essere trasformati in sudditi di un potere autoritario. Tra queste due ipotesi, tra queste due soluzioni possibili, c’è quella difficile - ma mi sembra che sia anche l’unica praticabile - di continuare con il sostegno all’Ucraina e, al tempo stesso, di attivare tutte le possibili risorse di pace, coinvolgendo i cosiddetti “Paesi non allineati” e rafforzando l’azione che la Chiesa cattolica e papa Francesco possono svolgere in questo senso. In questo momento, però, la priorità è porre fine al massacro degli ucraini e il raggiungimento di questo obiettivo comporta che si immagini, qui e ora, un impianto negoziale che consenta una via d’uscita anche a chi ha scatenato questo inferno. Questo si potrà determinare, però, solo se l’isolamento politico, e vorrei dire persino valoriale, sarà assoluto, senza ambiguità, senza confusione dei ruoli. Quando si dice che Zelensky è come Putin, si dice una cosa che aiuta la guerra, non aiuta la pace; quando si mettono sullo stesso piano gli aggrediti e gli aggressori, si fa la stessa cosa. Ripeto, solo l’isolamento politico e il contrasto inequivocabile nei confronti di chi pratica la violenza possono consentire una via negoziale, altrimenti gli anni Trenta del Novecento sono già dietro l’angolo. Per tutti. Zuppi. Bisognerebbe liberare il pacifismo da ciò che spesso gli viene attribuito, e cioè un elemento di ingenuità, di velleitarismo, di atteggiamento da anime belle. Negli operatori di pace, negli artigiani di pace, c’è invece molta consapevolezza, c’è il desiderio di contare e non rassegnarsi, di correre per questo dei rischi. Non sono spettatori indignati di un massacro appiattito a rappresentazione mediatica e digitale, in cui quelle vite massacrate sono trasformate in immagini pruriginose fruite persino con un certo gusto macabro. No, sono persone in cui vive la consapevolezza profonda e radicata che le vittime della guerra siamo noi, sono i nostri fratelli, i nostri figli, i nostri genitori. A questo proposito, racconto una cosa che mi ha tanto colpito. Nell’aprile del 2022, a quasi novantasette anni, è morta Cornelia Paselli, una sopravvissuta agli eccidi nazifascisti di Monte Sole, a Marzabotto, avvenuti tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944. Cornelia raccontò una cosa umanissima e drammatica. Durante la strage morirono tutti, e la madre di Cornelia, ferita, vedendo che accanto a lei c’era il corpo di una donna che la morte aveva riverso in una posizione umiliante, chiese alla figlia di correre e di coprire quella donna. Questa è la manifestazione della dignità, dell’umanità che riesce a farsi largo sempre, anche dove scompare ogni forma di umanità. Dobbiamo ricordarcelo, non siamo mai spettatori. E chi opera per la pace, chi cerca la pace, chi non si accontenta, non è uno spettatore, ma un operatore e un architetto che sa che ogni suo gesto conta e può fare la differenza. Partiamo da questa forza di dignità ed è questa forza che “avvia processi”. Gandhi, con la sua nonviolenza, riuscì a spezzare le catene del colonialismo. Nella nonviolenza c’è appunto una forza, un’idea di persuasione, che vive in tanti architetti di pace, cioè in tante persone che si sono poi ritrovate, per passione, a volte anche per casualità, a gestire le cose pubbliche. Oggi, dobbiamo imparare, esattamente come abbiamo fatto per il Covid, che anche la guerra è una pandemia, che non esistono guerre locali, ma che ogni guerra è un focolaio difficile da circoscrivere, perché ogni guerra è sempre una guerra mondiale. Ogni guerra ha un meccanismo di riproduzione terribile che sfugge al controllo e trovo incredibile che anche di fronte a questa consapevolezza abbiamo non solo indebolito tutti gli organismi internazionali ma abbiamo accettato che fossero indeboliti. Lo abbiamo fatto con l’Onu. E poi abbiamo voluto che fosse la Nato a fare politica. Io non ho niente contro la Nato, figuriamoci, è sacrosanta, ma la Nato è uno strumento di difesa, ha un meccanismo basato su una certa automaticità; e se le decisioni scattano in nome di una procedura per motivi militari, la politica e la diplomazia devono essere forti, non deboli. Nei decenni scorsi, abbiamo persino pensato di esportare la democrazia con la forza. Lo dico più che altro perché, vedendone le conseguenze, dobbiamo renderci conto della nostra debolezza e di come aver voluto dispensare diritti - o addirittura brandirli per stravolgerli - li abbia depotenziati togliendo a quell’ideale ogni credibilità. Detto questo, ovviamente, chiedere la pace non significa confondere le responsabilità, dimenticare la storia. Non vuol dire dare ragione a Putin. Chiedere la pace è invece, per esempio, dare forza alle idee nonviolente di don Primo Mazzolari, al suo Tu non uccidere, un libro importantissimo per la Chiesa cattolica, che lui pubblicò nel 1955 e che in un certo senso preparò la Pacem in terris, l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, nell’aprile del 1963. Per lui, che fu cappellano militare, il cristiano è un uomo di pace, non un uomo in pace, non rinuncia a resistere, sceglie un altro modo di resistere: la non violenza, che è un rifiuto attivo del male, non un’accettazione passiva. Il nonviolento, nel suo rifiuto a difendersi, è sempre un coraggioso. La nonviolenza è un atto di fiducia nell’uomo e di fede in Dio. Rinunciare al posto fisso per una vita migliore: le “grandi dimissioni” mostrano che il lavoro non è tutto di Eugenio Occorsio L’Espresso, 7 maggio 2023 Tra il 2021 e il 2022, con la pandemia che ha fatto da detonatore, oltre tre milioni di italiani hanno lasciato il lavoro. Al netto dei licenziamenti, molti hanno trovato un’altra occupazione, spesso part-time. Ma sono anche tanti quelli che hanno deciso di dire basta a condizioni inaccettabili. “Nella vita ci devono essere l’amore e il lavoro”, diceva Sigmund Freud. In questa fase storica - dopo la pandemia e con una guerra che angoscia - sembra prevalere il primo. Almeno stando alle macroscopiche cifre della “Great resignation”, dai 40 milioni di americani che hanno lasciato il lavoro fra la primavera del 2021 e quella del 2022 in coincidenza con la ripresa economica dopo il Covid, fino ai 3.322.000 italiani, il 36% in più dei dodici mesi precedenti. È quest’ultimo, fornito dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, il dato più sorprendente. È vero che in questa cifra rientrano i licenziamenti (poco più di 400 mila) che erano stati congelati durante la pandemia, ma il fenomeno è comunque senza precedenti. Che fine ha fatto l’Italia del posto fisso, dei concorsi iperaffollati, della peggior disoccupazione del G-7? L’Italia delle raccomandazioni e delle clientele? “Non restiamo agganciati a vecchi stereotipi”, avverte l’economista Innocenzo Cipolletta, che nella sua lunga carriera è stato tra l’altro direttore generale della Confindustria. “Certo, non è come in America dove è facilissimo cambiare occupazione, ma il mercato del lavoro in Italia è migliorato, è diventato più efficiente e flessibile. E intanto le aziende si sono organizzate, a partire dalle maggiori, per offrire condizioni di lavoro più sopportabili e adeguate ai tempi. Rimane il problema dei bassi salari privati e pubblici, ma questa è una realtà difficile da scardinare”. Insomma, non c’è solo il lavoro, ci sono la famiglia, la vita privata, lo smart working. E il basso salario è, in Italia come in America, solo uno dei motivi della “grande dimissione”. “È come se l’esperienza del tutto inusitata del lockdown, visto che ha dato a tutti più tempo per riflettere - spiega Domenico De Masi, padre nobile dei sociologi del lavoro italiani - abbia acceso un faro sulle insoddisfazioni, le frustrazioni, i cattivi rapporti con i capi, tutto quello che non andava nel lavoro, e abbia fatto dire: ma sì, corro il rischio di lasciarlo questo posto”. E poi, sorpresa nella sorpresa, quasi tutti ne trovano un altro, di lavoro: la disoccupazione, comunica l’Istat, è scesa dal 10,1% dell’inizio del 2021 all’8% del febbraio 2023. È aumentato però anche, pessima notizia per i conti pubblici, il numero dei pensionati, visto che in tanti hanno colto l’occasione per chiudere anticipatamente l’esperienza lavorativa, elemento centrale della “grande dimissione”: “Ci stiamo avvicinando pericolosamente, anzi secondo l’Ocse l’abbiamo già raggiunto, al rapporto 1:1, un lavoratore per ogni pensionato, quando negli anni ‘60 il rapporto era 1:6”, commenta Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica. “L’invecchiamento della popolazione, se significa allungamento delle aspettative di vita, è un aspetto della crisi demografica che in Italia è peggiore degli altri Paesi industriali. Gli under 30 sono il 27% della popolazione: al censimento del 1951 erano il 52%. Il numero di chi ha fra i 30 e i 34 anni è di un terzo inferiore ai cinquantenni: nello scenario “mediano” dell’Istat la popolazione diminuirà di 5 milioni da qui al 2050, da 60 a meno di 55 milioni, ma gli ultra 65enni saranno cinque milioni in più”. Un trend che non accenna a migliorare: “Il tasso di fecondità per donna resta di 1,2 bambini, lontano dal tasso di sostituzione che è di almeno 2”. L’Istat si spinge allo scenario a lungo termine: se non si invertirà la tendenza agevolando la maternità con strutture adeguate, gli italiani saranno 41 milioni nel 2070. Qual è il nesso fra il decremento demografico e il fenomeno della “resignation-Italian style”? “Semplice”, risponde l’economista Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. “Se prendiamo la forza lavoro da 24 a 65 anni, gli ultra 65enni sono sempre di più, ma quanti compiono i 24 anni sono sempre meno. Così, ci sono meno giovani che si affacciano sul mercato a contendersi un posto, e quindi per tanti giovani o non giovani che un posto già ce l’hanno vale la pena gettarsi nella mischia e provare ad agguantare una posizione che si ritiene migliore appena se ne intravede la possibilità”. Ma è proprio il concetto di “migliore” che sta cambiando: “I datori di lavoro - si legge in uno studio della McKinsey - devono rivalutare le loro offerte se vogliono trovare dipendenti veramente motivati e leali. Devono inserire componenti come la flessibilità e lo smart working, la vera scoperta di questi anni, insomma reinventarsi la possibilità di impiego presso di loro: fra i dipendenti che sono usciti volontariamente, il 47% sceglie di rientrare nella forza lavoro, ma solo il 29% ritorna alle tradizionali funzioni a tempo pieno”. Per McKinsey, il 40% dei lavoratori nei Paesi industrializzati ha pensato, o lo ha fatto, di cambiare lavoro in questi anni atipici. Se prima veniva accettato il pendolarismo anche estremo, o l’impossibilità di lavorare da casa, ora è cambiato tutto: il lockdown è stata una sorta di epifania. L’Italia è uno dei sei Paesi-campione di McKinsey, in cui questo fenomeno è più avvertito. “A ben guardare, il numero di dimissioni volontarie - ha scritto sulla voce.info Francesco Armillei, economista della Bocconi - può essere l’indicatore di un mercato del lavoro in salute. E addirittura come un fattore di miglioramento in un sistema economico se la riallocazione che segue le dimissioni comporta un aumento di produttività”. Di fatto, persino nella possibilità di “mettersi in proprio” come sbocco finale delle dimissioni, con tutte le incognite che ciò comporta (malgrado le agevolazioni fiscali sempre più larghe per le partite Iva), il nostro Paese è fra i più vivaci. Ma dietro il fenomeno della “grande dimissione” si agitano come in un mixer problemi profondi e strutturali della società italiana, dal salario minimo (“Noi abbiamo ancora oltre tre milioni di persone non coperte da contratti nazionali”, non si stanca di ammonire anche dalle colonne di questo settimanale Carlo Cottarelli) fino alla necessità di integrare un numero di migranti superiore a quello attuale. “L’importante è non considerare chi ha scelto di lasciare il posto come uno sfaticato o un rinunciatario”, avverte Daniele Checchi, già capo ufficio studi dell’Inps e oggi docente di Economia politica alla Statale di Milano. “Prendiamo il reddito di cittadinanza, che con i suoi 6.000 euro all’anno non è competitivo neanche con il meno pagato dei lavori “veri”. Certo, la minaccia dell’integrazione al nero è sempre presente, però ipotizzare che dietro la “grande dimissione” ci sia un recondito tentativo di accedere al RdC mi sembra inappropriato. C’è invece solo un fiero e reale desiderio di migliorare la propria posizione professionale”. Comune all’Italia e a tutto il mondo, c’è una considerazione che forse è la più sottile e riporta al problema iniziale. Ce la suggerisce Robert Wescott, che è stato a capo degli economisti di Bill Clinton e oggi ha il suo think-tank a Washington: “Il Covid, che pure ha portato tragedie immani (un milione di morti negli Usa, ndr) ha permesso a tante persone di riflettere sulla loro condizione, perché gli indennizzi e i sussidi di disoccupazione almeno in America sono stati particolarmente generosi. Chi era più vicino all’età del ritiro ha tesaurizzato i suoi fondi pensione, e non a caso sono stati anni di Borsa sui massimi, ma anche chi apparteneva alle classi più svantaggiate ha avuto tempo e attenzione per ripensare alle proprie condizioni di lavoro. E in tanti casi ha detto: ora basta”. L’Unar mette a rischio milioni di fondi europei contro l’omotransfobia di Simone Alliva L’Espresso, 7 maggio 2023 L’ufficio anti-discriminazioni di Palazzo Chigi ha una dote milionaria. Giorgia Meloni voleva eliminarlo. Il direttore Mattia Peradotto ha scelto il basso profilo. E intanto i centri anti-violenza chiudono. Fingersi morti mentre gli altri si sbranano, salva la vita. Lo si impara da piccoli guardando i documentari sugli opossum. Si spiega infatti con la tecnica della tanatosi l’immobilismo dell’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni interno al Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Un organismo nazionale istituito in attuazione di una Direttiva europea “autonomo e indipendente nello svolgimento del proprio mandato”. Lavora da anni contro tutte le discriminazioni, incluse quelle omotransfobiche. Da quando però è presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che nel 2017 chiese l’immediata chiusura tramite un’interrogazione parlamentare, lavora un po’ meno. O meglio lo fa solo a colpi di convegnistica, qualche conferenza, comunicati stampa. La tanatosi ha però l’effetto di una valanga su una moltitudine di progetti per l’inclusione e contro la discriminazione. In ballo c’è tutta la progettualità dedicata alle persone transgender messa in piedi nel 2013 con i fondi europei. E ancora altri fondi, per i prossimi sette anni, circa dieci milioni già approvati dalla Commissione Ue. Infine, la strategia anti-discriminazione Lgbt. Incagliata per una mancata firma, quella dell’allora ministra Elena Bonetti al decreto attuativo. Intanto nelle città i centri antidiscriminazioni aperti nel 2020 grazie al dl Agosto (unico articolo sopravvissuto al ddl Zan e convertito in decreto-legge) chiudono. I bandi per le annualità successive non sono stati ancora pubblicati. Altri milioni di euro fermi. “L’Unar non combatterà questa battaglia con questo governo e questo è triste”. Sospirano i tecnici dentro la presidenza del Consiglio dei ministri. Già, perché il punto è proprio questo: la paura delle reazioni. È una questione di equilibri, di potere, di poltrone che come sempre rischiano di saltare se si disturba il manovratore. All’Unar oggi c’è Mattia Peradotto, ex FutureDem, ex tesoriere di Italia Viva, ex segretario particolare della ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti e fedelissimo del deputato Francesco Bonifazi, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Matteo Renzi segretario. Felpato e schivo, Peradotto è cauto nelle interazioni con i giornalisti. A differenza dell’attuale ministra alle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, già portavoce del Family Day che a ogni intervista nega i diritti confezionandoli in parole fatte di seta e garbo: no alle famiglie arcobaleno, no alla lotta contro l’omotransfobia, no al riconoscimento dell’identità di genere per le persone transgender. I due non si scontrano. Il primo sta fermo, la seconda avanza e fa come se l’Ufficio anti-discriminazioni e i suoi progetti non esistessero. Ma l’immobilismo non mantiene le cose come sono: le deteriora. Un esempio è la gestione dei fondi europei, affidata al ministero del Lavoro che garantisce alla Commissione Ue tutto il flusso di denaro e la rendicontazione finanziaria. Vengono erogati sulla base delle richieste dell’Unar che in questo stato di “morte apparente” rischia di farli perdere. La progettualità che punta a contrastare l’omotransfobia dura sette anni, era partita formalmente nel 2013, l’erogazione è iniziata nel 2016. Da impegnare restano ancora tre milioni di euro. Ma il cambio di governo è una strada che ha portato all’arresto. A rischio i progetti come campagne di comunicazione, digitalizzazione archivio storico della comunità arcobaleno italiana, indagine Istat su diversity management e discriminazioni sul lavoro, formazione per l’inserimento lavorativo e l’autoimprendorialità delle persone transgender. A giugno terminerà la possibilità di impegnare risorse e fino a dicembre si passerà alla rendicontazione, risultato: fondi persi e progetti cancellati. Centri Lgbt a rischio - Istituiti nel 2020 grazie a un emendamento inserito nel decreto rilancio di agosto, i centri accolgono le persone Lgbt in condizioni di estrema vulnerabilità: buttate fuori casa dai propri parenti, licenziate, aggredite. Persone che hanno perso tutto per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere. Accolte da professionisti e volontari intraprendono un percorso di ripartenza scolastico o lavorativo. Esistevano anche prima. Ma erano solo tre in Italia. I fondi del decreto rilancio ne hanno permesso la diffusione nelle zone più remote d’Italia dove la violenza omotransfobica pesa di più e le possibilità di ribellarsi sono più deboli. L’Unar dovrebbe stilare un bando ogni anno, ma ad oggi l’unico bando pubblicato risulta quello del 2020. Alla direzione del dipartimento, in quell’anno, c’era Trianda Loukarelis che a L’Espresso racconta: “Avevamo previsto un bando che prevedeva due annualità. 2021 e 2022, per 8 milioni di euro (4+4). Avevamo chiesto la pubblicazione dell’avviso in un tempo in cui non era prevista la fine del governo Draghi, neanche si poteva pensare. Ma l’ok dalla ministra Bonetti non c’è mai stato”. Una storia che si gioca su silenzi astiosi e sguardi biechi. Intanto l’Europa ci guarda e di fronte al livello alto di omotransfobia nel Paese chiede di insistere per costruire una rete di servizi e centri per aiutare la comunità Lgbt in difficoltà. In arrivo dieci milioni sul tavolo per i prossimi sette anni. Con la vecchia progettualità ferma, le associazioni Lgbt pronte a chiudere i centri-antidiscriminazioni e non solo, chiedono a tutte le istituzioni “uno sforzo per non buttare alle ortiche il lavoro fatto in questi anni”. Uno sforzo che contempli una reazione dell’Unar. Sarebbe quanto meno un segnale. La resa non sarebbe definitiva. Fine vita, sorpresa in Veneto: passa una legge votata dalla Lega. E gli ultracattolici si infuriano di Simone Alliva L’Espresso, 7 maggio 2023 La norma per “garantire la libertà di scelta astenendosi da qualunque intervento” passa con i voti della maggioranza. Sgomento degli ultra cattolici. Binetti: “Sono stupita che venga dalla destra”. Non c’è nessuna discussione sul fine vita in Parlamento e non si prevedono le repliche della scorsa legislatura, terminate malissimo, così ogni Regione fa come può. Ma proprio guardando alle regioni, il colpo d’occhio è spettacolare: in Veneto il sorpasso sulla materia delicata del fine vita avviene da “destra”. Viene infatti approvata una legge che consente “sul piano regionale, a tutte le persone che avanzano richiesta di fine vita un percorso oggettivo, rapido e scevro da qualunque tipo di condizionamento esterno”. La mozione era stata presentata il 26 ottobre 2022 dai consiglieri Baldin, Ostanel, Guarda, Giacomo Possamai, Camani, Bigon, Montanariello, Zanoni, Zottis e Lorenzoni e approvata in maggioranza il 2 maggio scorso. La legge si propone inoltre di “promuovere, presso tutte le istituzioni, il principio per cui il ruolo della politica è quello di garantire la libertà di scelta astenendosi da qualunque intervento, anche ideologico, potenzialmente in grado di coartare o comunque condizionare, la libera scelta delle persone”. Nella confusione e nello stordimento reagiscono le sigle anti-scelta e volti storici che contro questa battaglia hanno dedicato una vita. Per Pro-Vita “Con il voto favorevole di vari esponenti della Lega e della lista Zaia Presidente si spalanca la porta alla morte, anziché curare e accompagnare malati, fragili e sofferenti. Si dica onestamente che si vuole legalizzare il diritto di chiunque, al di là di qualsiasi condizione fisica o psichica, di essere ucciso in maniera controllata”. “Quella non è una decisione politica, la politica - commenta alla Dire Paola Binetti, psichiatra e già senatrice del Centrodestra - è vero che deve stare lontano perché questa situazione attiene alla relazione tra il paziente, la sua famiglia e i medici. Stupisce che questa richiesta, che sembra invocare una richiesta di eutanasia, venga da uno dei partiti del centrodestra, la Lega, che si è schierata sempre a favore della legge 38 sulle cure palliative e contro questa pratica”. La mozione ha preso il via dopo il caso del vicentino Stefano Gheller, il cinquant’enne di Cassola affetto da una rara forma di distrofia muscolare, che lo scorso ottobre si è visto prestare l’assenso dell’Ulss 7 Pedemontana alla richiesta di fornitura della strumentazione e dei medicinali da autosomministrarsi per il fine vita. Presentata inizialmente dalla consigliera del Movimento 5 Stelle Erika Baldin, la mozione chiedeva un impegno a garantire per tutti la massima libertà possibile sul fine vita. Proprio in Veneto l’associazione Luca Coscioni aveva raccolto oltre settemila firme a sostegno del progetto di legge regionale per il suicidio assistito. “Anche questa volontà, trasversalmente espressa dalla cittadinanza, è servita a sensibilizzare il consiglio”, commenta l’associazione. “Un selfie per le sorelle afghane. Perché ogni burqa diventi un fiore” di Siba Shakib* L’Espresso, 7 maggio 2023 Una foto con il volto nascosto da petali colorati. Da diffondere sui social il 7 maggio per rispondere con la gioia all’odio dei talebani. Che hanno lanciato il loro giro di vite misogino giusto un anno fa. L’appello di una paladina della resistenza femminile. C’è un solo modo per affrontare quel che accade oggi alle ragazze e alle donne dell’Afghanistan: come qualcosa che sta capitando a tutti noi. Pensiamo a loro per quello che in realtà sono: nostre sorelle. Sorelle meravigliose e resilienti, coraggiose e forti, costrette a vivere da due anni a questa parte - da quando il Paese, dopo la fuga ignominiosa dell’Occidente e della comunità internazionale, è tornato nelle grinfie dei talebani e del loro folle regime di terrore - una condizione che può essere apparentata solamente all’inferno. Negata loro ogni sicurezza, a partire da quella di non essere percosse, frustate, molestate, violentate, uccise. Può accadere sempre e ovunque, anche nelle loro case. Negata la loro stessa essenza, perfino quella di avere una forma, un corpo, un volto. Divieto assoluto di eseguire ogni tipo di lavoro all’esterno delle mura domestiche, fosse pure per le Nazioni Unite (una decisione senza precedenti, che nessun regime al mondo aveva mai osato attuare). Divieto di studiare. Divieto di uscire di casa, se non accompagnate da un parente stretto (mahram). Divieto di parlare a un uomo che non sia un mahram. Divieto di lavare i panni in luoghi pubblici, di apparire sui balconi delle loro case, le cui finestre devono essere oscurate, di incontrarsi tra loro in occasioni ricreative, di ridere. Persino il nome donna è bandito da ogni luogo pubblico, tanto che i “giardini delle donne” sono diventati “giardini di primavera”, rendendo sinistro pure il profumo di quella stagione. Sono questi i frutti velenosi del nuovo Emirato Islamico, il regime dei talebani 2.0 al quale le donne afghane sono state colpevolmente abbandonate. Sono più numerosi e più forti dei talebani di vent’anni prima, hanno tecnologia avanzata, armi, equipaggiamenti, persino uniformi, e d’altro lato non hanno imparato nulla: barbari senza cultura, se non quella della prevaricazione e della sopraffazione, della violenza e del terrore, dello stupro delle anime e dei corpi. Barbari che a me, iraniana, rammentano altri barbari: i mullah di Teheran; comuni radici, comune incultura, comuni caratteristiche criminali, e comune logica di repressione del femminile, di quella forza naturale che si contrappone all’ottusità della loro violenza e per questo fa loro paura. Eppure, anche in queste condizioni terribili, le ragazze e le donne dell’Afghanistan lottano e resistono. Se il volto viene loro oscurato, i social media, i giornali e i libri restano gli unici modi per raccontare gli atti criminali che vengono perpetrati ai loro danni e per permettere loro di avere perlomeno una voce. Ho scritto il mio nuovo romanzo, “Mille volte Gioia” (Libreria Pienogiorno), proprio per questo: perché sento la responsabilità di dare voce a tutte le ragazze e le donne di Kabul e dell’Afghanistan. Le vicende della protagonista del libro, Shadi, un nome che in lingua dari significa appunto Gioia, accompagnano l’esistenza di una bambina che diventa donna nei tre decenni che conducono dalla prima alla seconda dominazione talebana e restituiscono le storie che ho sentito e visto con i miei occhi durante tutto il tempo che ho trascorso in quel Paese. Non c’è nulla di inventato, perché nessuna immaginazione potrebbe superare quello che sono costrette a subire le donne afghane. In Italia, il naufragio di Cutro, con le sue 94 vittime molte delle quali provenienti dall’Afghanistan, ha portato per l’ennesima volta alla ribalta il tema di chi emigra per sfuggire a condizioni disperate. Una di loro era una cronista e fotografa di Kabul minacciata proprio per i suoi reportage sulla condizione delle donne. Il suo corpo di donna era stato negato, il suo nome l’ha riconquistato solo due settimane dopo la morte: si chiamava Torpekai Amarkhel. Viviamo un gigantesco senso di colpa per queste vite innocenti che vengono sprecate così insensatamente e non possiamo fare a meno di pensare a cosa possiamo fare; anzi, a cosa dobbiamo fare. Quando qualcuno me lo domanda, la prima cosa che rispondo è: innanzitutto Non ritenete che i talebani siano i legittimi leader del Paese. Sono dei criminali, dei terroristi, degli usurpatori, dei violatori di diritti umani. L’unica possibilità di sopravvivergli, una speranza disperata, spesso è lasciare la propria terra e chiedere asilo. E la seconda è: impegniamoci a ogni livello per sostenere, rafforzare ed educare la società civile afghana. Soprattutto, sosteniamo le ragazze e le donne, in ogni modo. Se c’è una cosa che Shadi e le mille ragazze e donne dell’Afghanistan mi hanno insegnato, è la capacità di creare tra loro, tra immani difficoltà, una rete di legami profondi e indissolubili. Ho scelto per la copertina del mio libro l’immagine di un fiore che si sostituisce al burqa sul volto di una donna, perché quell’immagine sa incarnare la forza resiliente della loro speranza. Se il 7 maggio dello scorso anno un barbaro editto del regime talebano ha reintrodotto per tutte le donne l’obbligo assoluto di indossare il burqa in pubblico, riportando indietro di vent’anni le lancette della storia, nel maggio di quest’anno quell’immagine può servire a ricordare a tutti i loro sforzi, i loro diritti fondamentali negati, la loro lotta che non deve, non può conoscere resa, perché la loro sconfitta sarebbe anche la nostra, in qualunque luogo viviamo. È per me un’immagine di sorellanza. Se volete, donne e uomini, diffondetela sui vostri social media, oppure, ancor meglio, postate una vostra fotografia con un fiore davanti al volto, e scrivete: “Per le mie sorelle afghane”. Combattiamo il silenzio della brutale ignoranza che le ha imprigionate in un gigantesco carcere a cielo aperto con il rumore dell’indignazione, della solidarietà, della mobilitazione. Non lasciamole sole. Raccogliamo il grido di quei fiori colorati e moltiplichiamolo. Perché come dice un proverbio: una gioia condivisa è una gioia raddoppiata, un dolore condiviso è un dolore dimezzato. Scrittrice, regista, documentarista, Siba Shakib è nata e cresciuta a Teheran, in Iran, e ha vissuto a lungo in Afghanistan, oltre che in Germania, in Italia e a New York. Attivista per i diritti delle donne, prima dell’avvento del nuovo regime talebano ha contribuito alla realizzazione di molti centri femminili. Il suo film “A Flower for the Women in Kabul - 50 years UN”, legato alla campagna “Un fiore per le donne di Kabul” lanciata da Emma Bonino nel 1998, ha vinto il German Human Rights Film Prize per i cinquant’anni della dichiarazione dell’Onu sui diritti umani. Le sue opere sono bestseller tradotti in 27 lingue e pubblicati in più di 100 Paesi. Per “Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere” (Piemme) Shakib ha vinto il prestigioso PEN Prize, e nel 2010 la Biennale Donna di Ferrara le ha dedicato un omaggio. “Mille volte Gioia”, il suo nuovo romanzo, esce in Italia in anteprima mondiale il 3 maggio per Libreria Pienogiorno. Stati Uniti. Chico Forti e l’ergastolo dei misteri: un cavillo impedisce il rientro in Italia di Luigi Manconi La Repubblica, 7 maggio 2023 Il produttore televisivo nel 1998 è stato arrestato per l’omicidio di Dale Pike ed è detenuto nel Dade Correctional Institution di Florida City. Che fine ha fatto Chico Forti? Nessuna fine, si potrebbe dire, dal momento che si trova sempre là, in una cella del Dade Correctional Institution di Florida City, il carcere di massima sicurezza nei pressi di Miami. Esattamente dove si trovava il 23 dicembre del 2020, quando il Ministro degli Esteri dell’epoca, Luigi Di Maio, comunicava: “Chico Forti tornerà in Italia”. Da allora sono trascorsi 862 giorni, più di 20.664 ore. E c’è da porsi due domande. La prima: quanti di coloro che sanno della vicenda giudiziaria di Forti hanno creduto, in perfetta buona fede, che si fosse risolta positivamente già da tempo? La seconda domanda riguarda lo stesso Forti: che cosa significa ricevere l’annuncio che la propria sorte sta per cambiare radicalmente e, poi, trovarsi a verificare - minuto dopo minuto - che tutto resta atrocemente uguale? Uguale il paesaggio esterno della Florida, quello che si scorge attraverso le sbarre della cella, e altrettanto uguale il paesaggio mentale, con il suo immutabile ciclo di vita, la sua routine quotidiana, le sue relazioni coatte, le sue aspettative corte, cortissime. Enrico Forti, detto Chico, nasce a Trento nel 1959. Nella sua vita è stato campione di windsurf, ha lavorato come videomaker e come produttore televisivo. Con la somma vinta in un programma di Canale 5, condotto da Mike Bongiorno, può trasferirsi negli Stati Uniti e intraprendere una nuova attività. Lì si sposa e diventa padre di tre figli. Nel 1998 viene arrestato per l’omicidio dell’australiano Dale Pike. Le incongruenze - L’impianto accusatorio si rivela da subito assai fragile. Oltre che l’inconsistenza del movente costituito dall’imputazione di una presunta truffa (poi archiviata), si noti che ad accusarlo c’è un’affermazione dello stesso Forti, successivamente ritrattata, rilasciata nel corso di un lunghissimo interrogatorio condotto in assenza di avvocato difensore. D’altra parte, emerge una contraddizione acutissima rispetto all’intero schema logico e giudiziario. Se Forti non è stato l’esecutore materiale dell’omicidio, come ha riconosciuto il procuratore dell’accusa, davvero non si intende perché si sia cercato di collegarlo in tutti i modi al luogo del delitto. E non è l’unica incongruenza. Restano una condanna all’ergastolo senza condizionale e una serie di violazioni delle garanzie dell’imputato: dalla mancata lettura dei suoi diritti (come quello a non rilasciare dichiarazioni autoincriminanti) da parte dei poliziotti, fino al comportamento gravemente negligente del primo legale e alla omessa comunicazione alle autorità consolari italiane di ciò di cui si stava accusando Forti, secondo quanto previsto dalla Convenzione di Vienna. Nel corso del tempo, nuove inchieste giornalistiche e nuove testimonianze hanno sollevato dubbi profondi circa la solidità delle accuse a carico di Forti e, di riflesso, riguardo alla fondatezza in fatto e in diritto della sentenza di colpevolezza. Tuttavia, secondo l’ordinamento giuridico della Florida, non ci sarebbero le condizioni per ottenere una revisione del processo. L’unica via d’uscita è la Convenzione di Strasburgo - Di conseguenza, l’unica e sola via d’uscita è quella del ricorso alla Convenzione di Strasburgo del 1983. In base a essa, una persona condannata in uno Stato diverso da quello di appartenenza può ottenere di scontare la pena nel proprio Paese. C’è tuttavia un elemento critico: come si è detto, la pena inflitta dal Tribunale statunitense è quella dell’ergastolo senza condizionale, misura non contemplata dai nostri codici. Qualora venisse trasferito in Italia, quindi, Forti non potrebbe scontare la pena comminatagli, in quanto abilitato a usufruire della libertà condizionale e di altri benefici. Da qui, la necessità di adeguare quella sanzione al sistema penitenziario italiano. Il che esige una complicata mediazione con le autorità giudiziarie della Florida e un compromesso che possa soddisfare queste ultime. A tale difficoltà si aggiunge, presumibilmente, l’incertezza del governatore della Florida Ron DeSantis, probabile candidato alle prossime presidenziali per il Partito repubblicano, che sembra preoccupato per le possibili reazioni ostili dell’opinione pubblica. Lo conferma quanto da me appreso da una fonte confidenziale, secondo la quale la “pratica Chico Forti” sarebbe ancora pendente: dal momento che il Governatore non avrebbe ancora concesso un’autorizzazione definitiva al trasferimento del detenuto, ma solo un’autorizzazione condizionata a non meglio precisate garanzie. Una vischiosa lentezza - In questi anni, va detto, i governi italiani succedutisi non hanno ignorato la vicenda. Nel giugno del 2021, l’allora Ministra della Giustizia Marta Cartabia aveva indirizzato al Dipartimento di Giustizia statunitense una forte sollecitazione a che si arrivasse a una soluzione positiva. Anche l’attuale Governo e personalmente la premier Giorgia Meloni - le va dato atto - si stanno interessando della questione. Ma, pur considerate la complessità e la delicatezza della controversa sostanza giuridica, si avverte una sorta di vischiosa lentezza nell’affrontarla. Quasi che il tempo di Chico Forti abbia la stessa consistenza e la stessa scansione del tempo nostro. E quasi che i giorni e le ore per lui abbiano la stessa misura dei nostri giorni e delle nostre ore. La Turchia al bivio sull’autocrazia di Erdogan di Maurizio Molinari La Repubblica, 7 maggio 2023 Il Paese al voto domenica prossima per scegliere tra il presidente al potere dal 2002 e Kilicdaroglu, che si ispira ad Ataturk e vuole riavvicinare Ankara a Usa ed Europa. Fra sette giorni si svolgono in Turchia le elezioni politiche nazionali più importanti dell’intero 2023: sono destinate ad avere profonde conseguenze per la sicurezza dell’Europa, del Medio Oriente, del Nordafrica e, più in generale, per gli equilibri strategici nello scacchiere del Mediterraneo allargato che investono direttamente anche l’Italia. A cento anni dalla fondazione della Repubblica turca da parte di Mustafa Kemal Ataturk, a sfidarsi nelle urne per la guida politica di una nazione di 85 milioni di abitanti saranno due contendenti che non potrebbero essere più differenti. Recep Tayyip Erdogan, 68 anni, è il presidente uscente, il cui partito “Giustizia e Sviluppo” (Akp) controlla la Turchia dal 2002, ideologo dell’Islam politico, autore di una riforma istituzionale che ha accentrato sulla presidenza i poteri del Parlamento e interprete della strategia neo-ottomana della “Patria blu” per fare della Turchia la potenza capace di imporsi ovunque nel Mediterraneo, alleandosi con chiunque, dettando condizioni ed accordi a piccole e grandi potenze con l’unico fine di far tornare il “mare di mezzo” un lago turco. Lo sfidante è invece Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, leader del maggiore partito di opposizione “Chp” (Partito Popolare Repubblicano), meglio noto come il “Gandhi turco” per essere riuscito a creare un’”Alleanza nazionale” composta da sei partiti - dai nazionalisti alla sinistra, dai curdi ai verdi - diversi in tutto ma accomunati da voler sconfiggere Erdogan, ripristinare la sovranità del Parlamento, riavvicinarsi all’Europa ed agli Stati Uniti, rompere l’abbraccio con Putin, rimandare indietro 3,6 milioni di profughi siriani e restituire la Turchia alla scelta dell’identità laica di Ataturk ponendo fine ad ogni legame con il fondamentalismo islamico e soprattutto abbattendo un’autocrazia che ha sistematicamente limitato e represso i diritti umani. I sondaggi suggeriscono che il voto per assegnare la presidenza ed i 600 seggi del Parlamento è un vero e proprio testa a testa, dove ogni previsione può rivelarsi errata. Il tema-chiave si preannuncia l’economia perché l’inflazione record al 51% - stimata dagli esperti al 112% - ha polverizzato il potere d’acquisto e il benessere che Erdogan è riuscito, nell’arco di due decadi, a garantire alle regioni più povere del Paese, nell’Anatolia asiatica sua roccaforte, trasformando milioni di poveri in classe media. E il terremoto del 6 febbraio con gli oltre 50 mila morti ha infierito proprio su alcune di queste regioni, a lui più vicine. Sono tali premesse a far credere al “Gandhi turco”, un uomo dal carattere mite, di poter vincere già al primo turno, sfondando il quorum del 50 per cento dei voti. Ma Erdogan ha già dimostrato più volte in passato di essere un combattente formidabile, capace di risollevarsi dalle difficoltà più serie, usando ogni strumento possibile per mettere ko l’avversario. Per comprendere quanto il voto di domenica prossima è un referendum sull’identità stessa della Turchia, basta ascoltare le voci degli opposti campi. Unal Cevikoz, consigliere di Kilicdaroglu, definisce così le elezioni: “La possibilità di passare da un sistema autoritario guidato da un uomo solo ad un governo espressione di un processo democratico”. Ma sul fronte opposto Akif Cagatay Kilic, capo della commissione Esteri dell’attuale Parlamento, ribatte: “In 20 anni siamo stati noi a portare la Turchia ad essere al centro di qualsiasi cosa che accade in Medio Oriente, nell’Egeo, nel Mediterraneo Orientale ed in Russia. Tutti vogliono sentire la voce di Erdogan”. Lo scontro è dunque sulla conferma al potere del leader dell’autocrazia più influente dell’intero Mediterraneo. E questo spiega perché l’estrema destra ultranazionalista del “Mhp” è l’unico vero alleato di Erdogan. Da qui il motivo per cui su tutti e tre i Continenti che si affacciano sul “mare di mezzo” si trattiene il fiato. È la stessa dinamica del Mediterraneo allargato, uno scenario strategico frutto del proliferare di grandi e piccole potenze in questo inizio di XXI secolo, ad esaltare l’importanza del voto turco. Se infatti Erdogan restasse in sella avrebbe davanti altri cinque anni di potere assoluto - un’eternità agli attuali ritmi della Storia - per imporsi come interlocutore obbligato di Usa, Russia e Cina nella regione “blu” fra il Bosforo e Suez, Hormuz e il Canale di Sicilia. Se invece fosse battuto dal “Gandhi turco” molte crisi regionali, militari o energetiche, congelate dai suoi veti potrebbero aprirsi: dalla Libia alla Siria, da Cipro al Kurdistan iracheno. Per non parlare degli accordi sull’immigrazione siglati da Erdogan con l’Unione Europea che Kilicdaroglu vuole rivedere all’interno di un nuovo approccio per “riaprire i negoziati per l’adesione a Bruxelles iniziando a liberare dalle carceri turche chi viene ingiustamente detenuto”. Anche per il nostro Paese, dunque, le elezioni di Ankara si preannunciano come un passaggio cruciale, che chiama direttamente in causa i nostri interessi nazionali su temi strategici come la guerra in Ucraina, la coesione della Nato, i confini dell’Unione Europea, la lotta al terrorismo islamico, la stabilità della Libia, il controllo dei flussi migratori verso l’Europa e lo sviluppo di nuove fonti di energia nel Mediterraneo Orientale. Lo scenario regionale di cui siamo al centro è divenuto negli ultimi anni lo scacchiere più conteso fra Stati Uniti, Russia e Cina, di conseguenza qualsiasi importante cambiamento politico-economico ha, al tempo stesso, un impatto diretto sulla nostra sicurezza nazionale e sugli equilibri globali. Per questo sarebbe il caso di guardare con grande attenzione a quanto sta maturando nella Repubblica che Ataturk ha creato, di cui Erdogan si è impossessato e che ora è teatro della più imprevedibile delle sfide elettorali. Dove le sorprese non sono affatto escluse.