Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: rinnovato il Consiglio direttivo Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2023 Si è tenuta ieri 5 maggio, a Roma, l’assemblea elettiva della CNVG che, all’esito di una approfondita discussione, ha rinnovato il Consiglio direttivo presieduto da Ornella Favero con la rappresentanza equilibrata delle Conferenze regionali (Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Veneto) e degli Enti Nazionali (AICS, CNCA, JSN, Società di San Vincenzo, SEAC). Molte le tematiche oggetto di confronto: l’applicazione della circolare sulla media sicurezza e il correlato, concreto timore di una probabile regressione nel percorso rieducativo per molte persone detenute, che dovranno rinunciare a un regime detentivo più aperto senza aver commesso nessuna infrazione; l’importanza di garantire la possibilità di effettuare telefonate quotidiane per mantenere i legami familiari, che sono anche una forma di protezione dal rischio suicidi; la giustizia riparativa e la mediazione dei conflitti anche all’interno del carcere; il progetto “A scuola di libertà” e il fondamentale ruolo di sensibilizzazione, non solo nelle scuole, sui temi della giustizia e della legalità; l’importanza di una corretta informazione da contrapporre alle semplificazioni sui temi della giustizia, messi in atto da parte di molti organi di stampa; la possibilità di accedere al lavoro esterno, che trova estrema difficoltà a concretizzarsi a causa di un’amministrazione, soggetta a iter burocratici che non si allineano ai tempi e alle esigenze lavorative/imprenditoriali, amministrazione che fatica enormemente a proporre percorsi formativi che siano aderenti alle esigenze del mercato. La formazione e la collaborazione tra Conferenze Regionali, Enti del Terzo Settore che a livello nazionale si occupano di esecuzione penale e Istituzioni rimangono le priorità, anche alla luce del fatto che è proprio il volontariato e, più in generale, il terzo settore, che svolge la parte più importante delle attività di rieducazione/reinserimento negli Istituti detentivi, ma che fatica a vedere riconosciuto il suo ruolo dall’amministrazione penitenziaria. Da qui l’augurio e l’auspicio di un’interlocuzione costruttiva sulle tematiche d’interesse deputate a garantire una corretta esecuzione della pena, un reale reinserimento sociale, costruttivi percorsi nei progetti di messa alla prova e nelle misure di comunità. Dal sovraffollamento alle mamme con figli: dov’è la politica? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 maggio 2023 Non siamo ai numeri degli scorsi anni, quando avevamo raggiunto un sovraffollamento di quasi 10 mila detenuti in più oltre la capienza regolamentare. Ma i numeri cominciano a salire, risultano comunque alti e rimane il problema di un sovraffollamento penitenziario a macchia di leopardo. Diverse le carceri che hanno raggiunto il 127 per cento. Resta il fatto che il ministero della Giustizia ha aggiornato i dati. Al 30 aprile risultano 56.674 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 51.249 posti. Ciò vuol dire che sono 5.359 i ristretti in più. Ovviamente i numeri sono molto più alti, visto che il dato sulla capienza non tiene conto delle celle inagibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel periodo dell’emergenza Covid, grazie a diverse misure adottate, si sia leggermente ridimensionato. Prima tra tutti il discorso dei circa 700 detenuti in semilibertà. È stato adottato un provvedimento, durato due anni e mezzo, e poi non più prorogato dall’attuale governo, che ha evitato che rientrassero la notte in carcere. Era una licenza straordinaria e i semiliberi avevano dimostrato di meritare la scommessa fatta dai giudici di sorveglianza e dalle aree educative delle carceri sulla loro capacità di avviare un percorso di reinserimento nella vita sociale. Ma sono stati “premiati” facendoli rientrare in carcere. Il sovraffollamento è, di fatto, una emergenza perenne. Ma di fronte ad essa, la politica, vecchia e nuova, risponde puntualmente con la costruzione di nuove carceri che finiscono per non bastare mai, oppure viene riesumata l’idea di convertire le caserme dismesse in nuove carceri. Questione vecchia, proposta già dal precedente ministro grillino Alfonso Bonafede. Ma tali edifici rispondono alle logiche del carcere moderno che deve avere strutture architettoniche adeguate al nuovo concetto della pena? La risposta è ovviamente negativa. Ma non solo. Come già segnalato da Il Dubbio, abbiamo l’esempio concreto a San Vito al Tagliamento, nel Friuli, dove al posto della caserma sarebbe dovuto nascere un nuovo carcere. Ricordiamo che la caserma è stata individuata nel 2013. L’iter iniziale è stato lunghissimo, con non pochi intoppi, tanto da ricorrere alla Corte dei Conti che poi dette il via. Ma la caserma, ovviamente, non risponde ai canoni moderni del carcere, per questo deve essere abbattuta per rifare da zero il nuovo penitenziario. È stata recuperata solamente la palazzina già sede del Comando del Battaglione Piccinini e ospiterà la parte amministrativa della nuova struttura. I lavori sono iniziati ufficialmente nel maggio del 2018, però il bando è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea nel 2013. Il costo era di circa 25 milioni di euro già stanziati dai precedenti ministeri. Finisce qui? No. I lavori non sono più partiti grazie per il ricorso sull’aggiudicazione dell’appalto. Ad agosto 2021 è stato indetto un nuovo bando che ha innalzato inevitabilmente i costi a quasi 40 milioni di euro. La travagliata storia ha finalmente un lieto fine? La procedura viene sospesa. Arriviamo a gennaio di quest’anno e finalmente, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato, viene stabilito che sarà l’azienda emiliana Pizzarotti a realizzare l’opera, per un importo di 30 milioni di euro, comprensivi di indennizzo. Se tutto va bene l’opera potrebbe concludersi nel 2026. Ricordiamo che il primo bando è del 2013. La strada, invece, ritenuta valida da tutti gli organismi internazionali, a partire dal consiglio di Europa che vigila sulla tortura, è quella dell’aumento delle misure alternative, considerando il carcere come estremo rimedio. La grande sfida dovrebbe essere quella che punti a chiudere diverse carceri come è avvenuto in Svezia, non a costruirne di nuove. Eppure, a medio termine, ci sarebbero misure da attuare. Ricordiamo la proposta di legge, rimasta inevasa, a firma del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva in materia di liberazione anticipata pari a 75 giorni per ogni semestre di pena. Proposta di legge auspicata da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, tanto da aver fatto un lungo sciopero della fame con il sostegno di varie personalità e anche diversi detenuti, a partire dalle donne recluso del carcere di Torino. Mercoledì scorso, durante la visita al carcere romano di Regina Coeli, uno dei più colpiti dal sovraffollamento, il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, ha posto l’accento sul fatto che il Lazio è la seconda regione in Italia per tasso di detenuti nelle case circondariali. La percentuale è del 127 per cento, il 12 per cento in più rispetto alla media nazionale di 115. “Un problema di proporzioni drammatiche”, ha affermato. “Era doveroso - ha detto sempre Rocca - da Presidente della Regione Lazio visitare Regina Coeli” visti i numeri eloquenti della struttura: su 628 posti ufficialmente disponibili, i detenuti attualmente reclusi sono 1009. “Non stupisce - ha aggiunto il governatore - che il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura abbia mosso critiche molto dure sulle condizioni di sovraffollamento della storica struttura romana”. I problemi sono anche sanitari: ogni anno si erogano 80 mila prestazioni in condizioni che Rocca definisce “disperate”: su 23 posti letto, due sale operatorie sono chiuse e nel dipartimento di salute mentale è presente uno psicologo senza un medico psichiatra di riferimento. “Come amministrazione regionale ha concluso Rocca - dovremo lavorare di più e meglio, anche di concerto con il ministero della Giustizia, per incentivare misure alternative al carcere”. Sempre secondo gli ultimi aggiornamenti, al 30 aprile risultano ancora 22 bambini in carcere o comunque nelle strutture Icam, che hanno sempre caratteristiche “contenitive”. E rimane infatti il problema della mancata approvazione della proposta di legge della deputata del Pd Debora Serracchiani, la quale ha ripreso quella di Paolo Siani della scorsa legislatura. Proposta ritirata a causa dei parlamentari della maggioranza di governo, i quali in commissione giustizia hanno voluto introdurre emendamenti che, di fatto, avrebbero snaturato e peggiorato la legge. Invece di dare un contributo a come lasciare definitivamente alle spalle lo scandalo dei bambini che crescono in carcere insieme alle madri, nonostante siano condannate perlopiù per reati minori, il sottosegretario Cirielli ha rilanciato la sua iniziativa legislativa (della precedente legislatura) per togliere la responsabilità genitoriale alle donne condannate in via definitiva. Il 13 maggio prossimo, il giorno prima della festa della mamma, nel municipio di Torino partirà la campagna “Madri Fuori”. Una rete composta dalla Società della Ragione, Antigone, la Garante locale Monica Gallo e la Conferenza Nazionale del Volontariato, che punta a invitare parlamentari, consiglieri, garanti delle persone private della libertà, a visitare le donne detenute in occasione della Festa della Mamma, a discutere con loro della “doppia” e ingiusta pena, a dare concreta testimonianza del rifiuto dello stigma che le colpisce. Il carcere e la riforma Cartabia. Una “rivoluzione” incompiuta di Samuele Ciambriello La Città di Salerno, 6 maggio 2023 Fin dalla sua emanazione, la riforma Cartabia è apparsa come un timido passo verso il superamento del carcere. Tanti sono gli aspetti su cui è intervenuta ma quello che interessa maggiormente la popolazione carceraria sono le misure alternative alla detenzione, le cosiddette “pene brevi”. Uno degli obiettivi della riforma Cartabia è stato quello di rivitalizzare le sanzioni sostitutive, differenziandole ed estendendole fino a pene detentive della durata di quattro anni, facendo rientrare tra queste la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, applicabili solo per le pene detentive fino a tre anni. La pena pecuniaria sostitutiva, invece, è stata ampiamente sperimentata ed è stata resa fruibile per pene detentive fino ad un anno. Questi cambiamenti posso essere considerati dei grandi passi in avanti. Tra le altre cose, aver introdotto una disciplina organica della giustizia riparativa, entro la quale si collocano programmi come la mediazione, il cui compito è quello di reintegrare il detenuto all’interno del tessuto sociale attraverso la figura professionale del “mediatore”. Pochi Stati hanno adottato una normativa così ampia in materia; potremo essere oggetto di invidia solo se questa venisse concretizzata. I limiti che incontriamo oggi derivano da una sospensione della stessa riforma: infatti, l’operatività delle pene sostitutive è ostacolata dalla carenza di organico all’interno degli uffici Esecuzione penale esterna, che faticano a prendere in carico in modo tempestivo le persone condannate. È necessario dunque un investimento di tipo culturale che investe prima di tutti la magistratura, il cui obiettivo è quello di potenziare l’area Penale esterna. Attraverso questi investimenti viene posto - finalmente - in essere il contenuto dell’articolo 27 della Costituzione: la rieducazione del condannato. Allora perché questo blocco sulla giustizia riparativa? Alcuni sostengono che questa possa sostituirsi alla giustizia tradizionale; ritengo che questa possa allinearsi così da tracciare un unico solco, il cui obiettivo è quello di garantire un’alternativa a chi commette errori, concedendogli una possibilità per il futuro. La giustizia riparativa è uno strumento per la rieducazione. Il legame tra mediazione e rieducazione è stretto e dovremo iniziare a valutare seriamente questa possibilità. Anche se abbiamo vissuto periodi oscuri in tema di carcere, sono molto preoccupato perché il vento che spira non è tranquillizzante. Ogni giorno incontro donne e uomini, che sono risprofondati nel baratro a seguito della legge 4-bis che ha stretto nuovamente le maglie sui reati. Uomini e donne che avevano la possibilità di recarsi a casa dai loro figli hanno visto rigettare le istanze di permesso. Questa stretta rappresenta un passo indietro; il mio timore è che compiendo molteplici passi avanti e molteplici passi indietro tutto possa arrestarsi, rimanendo fermi. Attualmente il carcere è un contenitore di marginalità sociale. Occorre duque operare una scelta che è strettamente collegata ad una domanda di fondo, ossia cosa vogliamo divenga il carcere nei prossimi anni. Vogliamo un sistema penitenziario di 56mila detenuti che rischiano di aumentare in modo esponenziale, dando vita ad una specie di “ospizio di poveri” o vogliamo un carcere che entra in gioco solo in alcuni casi di particolare e comprovata necessità (reati gravi con finalità di terrorismo, di mafia etc.) e che contiene un numero massimo che potremmo ristabilire intorno alle 30mila unità? Appare evidente che occorre investire sul territorio, sul sostegno sociale, sull’accompagnamento all’istruzione, alla formazione e lavoro. Da queste scelte dipende la qualità e le competenze necessarie per il carcere di domani. L’orizzonte è quello di “Liberarasi dalla necessità del carcere”: un percorso da seguire per costruire modelli meno reclusivi e segregativi del vivere sociale e non restringersi all’idea dell’ineluttabilità del carcere. *Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Campania Riforma dell’ergastolo ostativo, Procure antimafia centrali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2023 Procura nazionale antimafia e Procure distrettuali hanno concordato un protocollo per rendere più agevole e uniforme la raccolta delle non poche informazioni che dovranno poi essere messe a disposizione della magistratura di sorveglianza. Sull’applicazione della riforma dell’ergastolo ostativo, nei termini e contenuti delineati dal Governo con il decreto legge n. 162 del 2022, si muovono ora Procura nazionale antimafia e Procure distrettuali che hanno concordato un protocollo per rendere più agevole e uniforme la raccolta delle non poche informazioni che dovranno poi essere messe a disposizione della magistratura di sorveglianza. A monte c’è l’intervento, reso necessario dall’avvicinarsi del pronunciamento della Corte costituzionale, che, nell’autunno scorso ha condotto all’apertura nella concessione dei benefici penitenziari anche per i detenuti non collaboranti, seppure condannati per gravi reati. Un esito controverso soprattutto per l’ampio e impervio materiale che il detenuto deve produrre per corroborare la richiesta di accesso ai benefici e che vede oltretutto la platea degli interessati divisa in due segmenti, sulla base della natura dei reati oggetto della condanna. Se infatti la sanzione è conseguenza di delitti collegati alla criminalità organizzata andranno prodotti elementi in grado di dimostrare sia l’assenza dell’attualità di collegamenti con le organizzazioni criminali sia il pericolo che questi legami possano essere rinnovati. Per gli altri reati “basterà” provare l’assenza di attualità. Ai giudici di sorveglianza il compito di valutare il materiale prodotto dalle persone interessate. Integrandolo però con altri elementi, visto che la nuova disciplina prevede che “anche al fine di verificare la fondatezza degli elementi offerti dall’istante” il giudice deve acquisire “dettagliate informazioni in merito al perdurare dell’operatività del sodalizio criminale di appartenenza o del contesto criminale nel quale il reato è stato consumato, al profilo criminale del detenuto o dell’internato e alla sua posizione all’interno dell’associazione, alle eventuali nuove imputazioni o misure cautelari odi prevenzione sopravvenute a suo carico e, ove significative, alle infrazioni disciplinari commesse durante la detenzione”. Vasto programma, che ha reso necessari attenzione e coordinamento da parte delle procure antimafia per formulare i relativi pareri. Di qui il protocollo che delineai rispettivi ambiti d’intervento sulla base della natura delle informazioni che andranno raccolte. Così, toccherà alla Procura nazionale la richiesta all’amministrazione penitenziaria (Dap) dei dati, compresa la posizione giuridica, relativi ai detenuti interessati e alla Guardia di Finanza il tempestivo svolgimento degli accertamenti patrimoniali nei confronti del detenuto o internato, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone a lui collegate risultanti dai dati anagrafici e dalle informative della GdF stessa. Alle Procure distrettuali, poi, con la polizia giudiziaria, l’acquisizione dei dati sull’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria derivanti dal reato, la verifica di eventuali disponibilità economiche segnale dell’attualità dei collegamenti criminosi del detenuto e gli accertamenti sulle circostanze ambientali e personali sintomatiche del pericolo di ripristino dei collegamenti con i sodalizi di riferimento. Cartabia e Occhetta: “Ricucire le ferite, l’altra giustizia possibile” di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 6 maggio 2023 La giurista ed ex ministro assieme al teologo è intervenuta sulla giustizia riparativa “che è un bene per tutti. Solo ricucendo le relazioni si dà speranza”. Sostituire la spada, simbolo di vendetta, con ago e filo, che ricuciono relazioni, rilanciano un nuovo futuro, danno una nuova speranza. Una metafora per indicare ciò che fa la giustizia riparativa. Ne hanno parlato venerdì alla Civil Week, Marta Cartabia, giurista, già presidente della Corte costituzionale italiana, e Francesco Occhetta, teologo e docente incaricato associato, Facoltà di Scienze Sociali, Pontificia Università Gregoriana. Ad ascoltarli, tra il pubblico, anche gli studenti di alcune scuole superiori. “La giustizia riparativa, un bene per tutti” era il sottotitolo di questo dialogo, che ha dato voce anche ad alcuni detenuti del carcere di San Vittore, attraverso interventi letti dagli attori Anna Begni e Franco Rossi di Macró Maudit Teàter. La giustizia riparativa - il percorso, non sostitutivo alla giustizia tradizionale, ma che porta la vittima del reato e la persona indicata come autore dell’offesa a incontrarsi, con l’aiuto del mediatore - è un bene per tutta la società. Perché la carcerazione solo “punitiva” non rieduca e porta a un altissimo tasso di recidiva. Lo hanno raccontato i relatori, portando esempi dall’Italia al mondo, di un percorso diverso. Come quello di Albie Sachs, avvocato sudafricano, attivista per i diritti che fu brutalmente aggredito e mutilato in un attentato, ma convinse i compagni a non cercare vendetta e, anni dopo, insieme a Desmond Tutu diede vita alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, grazie alla quale il Sudafrica riuscì a voltare pagina. Importante anche la testimonianza di due detenuti di San Vittore, Aissa e Roger. Per quest’ultimo, tossicodipendente, le porte del carcere si sono riaperte 22 volte. E, ogni volta che torna a casa, sa che c’è il pusher che abita sotto casa e che, nonostante gli orrori che la cocaina gli fa passare, probabilmente passerà solo poco tempo, prima che ci ricaschi. “Se il carcere non assolve la sua vera funzione, allora l’unico effetto che abbiamo sono tassi di recidiva impressionanti e non si raggiunge la sicurezza di cui abbiamo bisogno” ha sottolineato Marta Cartabia, mentre Francesco Occhetta ha raccontato: “Portai nel carcere di Benevento, per una testimonianza, un genitore a cui avevano ucciso il figlio per uno scambio di persona. Il giorno dopo il direttore mi contatto, dicendo che nel carcere c’era chi lo aveva ucciso e voleva incontrarlo. È cominciato un cammino di dialogo e riconciliazione che ha cambiato la vita di entrambi, il dolore è ricollocato in maniera diversa. Questa scommessa culturale la dobbiamo fare, per almeno tre motivi: abbiamo un tasso di recidiva troppo alto, perché il nostro carcere non rieduca. Una sentenza non riduce il dolore delle parti e spesso si devono attendere tempi molto lunghi. Una sentenza non sempre riproduce la verità dei fatti, la giustizia riparativa sì”. Il modello della giustizia riparativa rende tutti più sicuri. “Il modello che ha come esito il fatto che un detenuto entri 22 volte in carcere non fa bene né alle vittime, né alla società né alla persona interessata” ha concluso Cartabia. Ma la società, ha ricordato il moderatore Paolo Foschini, non ci crede del tutto. È più facile pensare a “metti in carcere e butta via la chiave”. “Come si può riparare a un reato che ti ha tolto per sempre qualcosa o qualcuno?” La risposta, ha detto Cartabia, è nell’abbraccio tra Agnese Moro e Adriana Faranda, nelle testimonianze delle madri israeliane e palestinesi. “Ogni volta che ho parlato con le vittime, mi hanno risposto: ci sono le nostre vite e le nostre memorie da riparare”. Una scelta culturale di fraternità - come ha spiegato il teologo Occhetta - va proprio in questo senso. Ministero Giustizia-Fondazione Don Calabria, nuova convenzione per lavori di pubblica utilità di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 6 maggio 2023 Firmata una nuova convenzione nazionale tra il ministero della Giustizia e la Fondazione Opera Don Calabria-Don Luigi Pedrollo ETS, per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova per adulti. L’iniziativa, siglata dal ministro Carlo Nordio e dal direttore della Fondazione Alessandro Padovani, è volta a offrire programmi e progetti rieducativi e di risocializzazione, destinati a imputati in messa alla prova ma anche a condannati. Sono 58 i posti disponibili e 28 le sedi concentrate a Mantova, Palermo, Roma e Verona, dove gli imputati in messa alla prova potranno realizzare la funzione della giustizia riparativa della misura, assistendo soggetti fragili ed emarginati, persone disabili, anziani e minori. La prestazione lavorativa, non retribuita, potrà anche essere orientata alla manutenzione e fruizione di immobili e servizi pubblici, inclusi ospedali e case di cure, beni demaniali o del patrimonio pubblico. La convenzione, che avrà la durata di 5 anni e, salvo disdetta, si intende tacitamente rinnovata, prevede la nomina di un referente che coordinerà la prestazione lavorativa, impartendo istruzioni e verificando risultati. Al Comitato paritetico è affidata la pianificazione strategica degli interventi, nonché la realizzazione degli obiettivi dell’accordo nazionale. Giustizia, ecco perché si sono arenate le riforme del ministro Nordio di Liana Milella La Repubblica, 6 maggio 2023 A sette mesi dall’ingresso in via Arenula del Guardasigilli e dei suoi tre sottosegretari, Sisto, Ostellari e Delmastro (tutti avvocati), arrivano solo annunci di epocali disegni di legge. Con un filo diretto con le Camere penali. Annunci di epocali riforme. Da ben 180 giorni. Da quando Carlo Nordio, dopo 40 anni di vita come pubblico ministero, ha fatto ingresso in via Arenula. Annunci da lui stesso e dai suoi tre sottosegretari, tutti e tre avvocati, a partire dal viceministro di Forza Italia Francesco Paolo Sisto. E poi il leghista Andrea Ostellari. E infine il meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove. Adesso al team politico si è aggiunto il professore Bartolomeo Romano, cattedra di diritto prima a Bari e poi a Palermo, ed ex componente laico al Csm, noto alle cronache soprattutto per essere stato il giurista di punta dell’ex Guardasigilli Angelino Alfano, l’autore dell’ultima riforma costituzionale della giustizia negli anni dei governi Berlusconi, che, messa a confronto, assomiglia molto agli annunci nordiani. Bartolomeo Romano, adesso, è il consigliere giuridico più ascoltato del ministro della Giustizia, sicuramente scelto dalla potente vice capo di gabinetto vicaria Giusi Bartolozzi, ex deputata di Forza Italia poi transfuga nel gruppo Misto, nonché moglie dell’ex vicepresidente della Regione siciliana Gaetano Armao, considerata la “zarina” di via Arenula, perché qualsiasi decisione passa dalle sue mani. E con il carattere che ha tutti sono costretti a obbedirle. Ma eccoci agli ultimi annunci di prossime riforme. Veicolati attraverso le pagine del quotidiano del Consiglio nazionale forense, Il dubbio, su cui è stato proprio Bartolomeo Romano ad anticipare giovedì i punti cardine della riforma. Che più volte anche il viceministro barese Sisto ha raccontato in interventi e dichiarazioni che riassumono i futuri cardini della manovra sulla giustizia tra leggi ordinarie e riforme costituzionali: “Abuso d’ufficio, traffico d’influenze, misure cautelari, qualcosa sulle intercettazioni. Insomma, è un provvedimento che lentamente ma inesorabilmente prende corpo. Vi stupiremo”. Già, non a caso lo stesso Sisto usa l’avverbio “lentamente”, visto che di questi capitoli delle future leggi sulla giustizia si parla da oltre sei mesi. Da quando a dicembre lo stesso Guardasigilli le ha annunciate nelle commissioni Giustizia del Senato e della Camera, suscitando subito le prime polemiche e il pieno dissenso dei magistrati che, per bocca del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, non ne ha promossa neppure una. Contrari ovviamente sia il Pd che il M5S. La ragione dei sei mesi di “ritardo”? Eccola, per come la racconto lo stesso Bartolomeo Romano: “Il caso di Alfredo Cospito, le polemiche in Parlamento tra esponenti dell’opposizione e l’onorevole Donzelli, la tragedia di Cutro che ha richiesto un provvedimento d’urgenza sull’immigrazione. E ancora, le iniziative, che il Guardasigilli considera giustamente importantissime, nel campo dei crimini di guerra e delle risorse da assicurare alla Corte penale internazionale e che hanno richiesto al ministero, e a Nordio innanzitutto, tempo ed energie”. Addirittura sei mesi? O non sono stati piuttosto i dubbi nella stessa maggioranza, vista la documentata circolazione di bozze da una mano all’altra? E poi il codice dei crimini di guerra ancora deve vedere la luce nonostante i tecnici designati dall’ex ministra Marta Cartabia l’avessero già messo a punto. Riforme della giustizia che di certo piacciono proprio agli avvocati visto che sposano l’idea cardine della separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, il “pezzo forte” di qualsiasi intervento pubblico dell’attuale presidente Gian Domenico Caiazza, che finora però ha perso la sua battaglia in Parlamento, visto che proprio il disegno di legge di iniziativa popolare sulla divisione costituzionale delle carriere è finito impantanato nella scorsa legislatura, e anche in questa stenta a fare passi avanti. Piazzato alla Camera in commissione Affari costituzionali, anziché in Giustizia, nonostante le proteste del vice segretario di Azione Enrico Costa, non arriva in aula. Ma quali sono le “epocali” riforme di Nordio e perché latitano? Il suo giurista Bartolomeo Romano, nonché il vice ministro Sisto, le elencano. Si parte con la cancellazione dell’abuso d’ufficio per rispondere alla perentoria richiesta dei sindaci di ogni “colore” politico, a partire da quelli del Pd, come il primo cittadino di Bari, nonché presidente dell’Anci Antonio Decaro. Si prosegue con la riscrittura del reato di “traffico di influenze”, anche in questo caso per ammorbidirlo ed espungerlo dal gruppo dei reati contro la pubblica amministrazione. Su entrambi i reati da mesi c’è il braccio di ferro con il meloniano Delmastro, contrario a qualsiasi manovra che ne depotenzi la portata, abuso d’ufficio compreso, anche se proprio la premier Giorgia Meloni, di fronte all’Anci, ha promesso di dare seguito alle richieste dei primi cittadini che temono soprattutto le conseguenze della legge Severino che, in caso di condanna in primo grado, prevede l’immediata sospensione dalla carica. È dunque l’assenza di un pieno accordo politico a frenare le modifiche ad abuso d’ufficio e traffico di influenze, che certo per la loro portata non si possono iscrivere tra le “riforme epocali”. Ma semmai tra quelle dannose. E passiamo al capitolo più impegnativo, gli interventi sulle indagini preliminari e sulle intercettazioni. Bartolomeo Romano annuncia “l’interrogatorio di supergaranzia da introdurre nella fase preliminare prima che vengano inflitte misure cautelari: in tal modo l’indagato potrà convincere l’autorità giudiziaria che non c’è motivo di adottarle”. Significa che il pubblico ministero, prima di chiedere al gip l’arresto di una persona, dovrà interrogarla per sentire le sue ragioni. Da tempo lo chiede Enrico Costa che ha presentato da tempo una sua proposta di legge. Un passo delicatissimo, che dovrà fare i conti con il pericolo di fuga, destinato a rallentare i tempi di un’indagine. Basti pensare a un’inchiesta in cui ci sono molti indagati. Ovviamente contraria l’Anm. All’opposto entusiasti gli avvocati. Poi il “pezzo forte” di Nordio, non più un solo gip - il giudice delle indagini preliminari - a valutare la necessità di un arresto, ma un collegio di tre giudici. Riforma inesorabilmente bloccata dal fatto che non c’è proprio un numero sufficiente di giudici per attuarla. L’ultima idea - come la racconta Romano - è quella di passare la competenza al Tribunale del Riesame che, dice lui, “assume le funzioni attualmente svolte dal gip, mentre i ricorsi dovranno essere esaminati in Corte d’Appello”. Ma lo stesso giurista non può nascondersi il macroscopico handicap: “Qui si presenta il nodo delle incompatibilità: si deve essere certi che in tutte le Corti d’Appello vi sia un numero di giudici tale da evitare che chi ha esaminato richieste cautelari si trovi a giudicare lo stesso processo in secondo grado”. E anche gli studenti del primo anno di giurisprudenza, nonché qualsiasi esperti di statistica, compresi quelli di via Arenula, sanno che i giudici sufficienti per fare tutto questo non ci sono, sarebbe necessario passare da 10 a 15mila magistrati in Italia. E per fare i concorsi ci vorrebbero almeno 5 anni. Gli ultimi due capitoli della “mega” riforma Nordio sulla giustizia sono stati anch’essi annunciati infinite volte, la stretta sulle intercettazioni e una nuova prescrizione dopo quelle degli ex Guardasigilli Andrea Orlando, Alfonso Bonafede, Marta Cartabia, cioè la quarta riforma in sei anni. Quando gli effetti di quelle precedenti ancora non sono stati pienamente acquisiti e valutati. Sulle intercettazioni Nordio vuole “la tutela dei terzi estranei alle indagini”, cioè tutte le volte in cui una terza persona, non indagata, finisce nelle registrazioni, proprio quell’audio non dev’essere trascritto, e non addirittura cancellato. Una possibile prova, anche alla luce di una successiva scoperta investigativa, finisce al macero, perché non vi sarà alcun “brogliaccio” di polizia che la trascrive, e perché gli stessi avvocati non potranno valutarla nella difesa del loro assistito. Quanto alla prescrizione perfino Romano ammette le difficoltà visto “lo stratificarsi di ben quattro riforme realizzate in tempi relativamente recenti”. Ma il suo obiettivo è sciogliere “il rebus dell’improcedibilità, complicato dai diversi reati per i quali sono previste deroghe temporali: così com’è, la norma confligge con l’ambizione di rendere più veloci i processi”. Parliamo della riforma Cartabia che cambia la prescrizione di Bonafede bloccata in primo grado per i processi con condanna, e la sostituisce con “l’improcedibilità”, cioè un tempo obbligato per chiudere il processo in Appello pena la sua cancellazione. Norma complessa e con varie deroghe che, a quanto scrive l’ex consulente della ministra, il giurista Gian Luigi Gatta, “sta funzionando”. Sarà per questo che Nordio vuole cancellarla. “Stretta al codice rosso necessaria. Così i pm saranno tempestivi” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 6 maggio 2023 Giulia Bongiorno: nessun intento punitivo, ma le donne vanno difese. Giulia Bongiorno la chiama una “legge contro le inerzie fatali”. La presidente della Commissione Giustizia del Senato, notissima penalista, è la madre del cosiddetto “Codice Rosso”, la legge per la tutela delle donne dalla violenza domestica e di genere che l’altro giorno è stata integrata da Palazzo Madama con alcune nuove norme. Senatrice, che cosa è “l’inerzia fatale”? “E quella che provoca la morte di troppe donne, mentre le loro denunce giacciono sulle scrivanie di vari uffici”. Ma la prima legge sul Codice Rosso non prevedeva un intervento del magistrato entro tre giorni? “Sì, certo. Purtroppo, spesso il Codice Rosso non viene applicato correttamente. Per questo abbiamo introdotto il nuovo sistema di controlli”. Secondo alcuni dati ben 15 donne su cento tra quelle che denunziano una situazione difficile finiscono ammazzate… “È una sconfitta per lo Stato: soprattutto dopo anni di battaglie per spingere le donne a denunciare. La violenza è velocissima ad arrivare, la giustizia no. Anzi, spesso col tempo si verifica un’escalation di ferocia. Le denunce devono essere subito approfondite, per capire se esiste un pericolo immediato che impone di adottare misure cautelaci nei confronti dell’indagato, come il braccialetto elettronico o la custodia in carcere. Certo, non è facile: so bene che servono anche operatori, magistrati e agenti di polizia giudiziaria specializzati”. Una parte delle opposizioni sostiene che il Codice Rosso abbia fallito... “Il Codice Rosso non ha fallito. Ma anche la migliore delle leggi, se non viene applicata correttamente non produce effetti. Non c’è stato lo sprint che era lecito attendersi”. Come mai, secondo lei? “C’è un dibattito sul fatto che il termine dei tre giorni sia ordinatorio e non perentorio. Ci sono alcune interpretazioni secondo cui il legislatore avrebbe dato un termine solo orientativo... Io credo che, di fronte a un pericolo, la tempestività sia d’obbligo. Poi, comprendo che i magistrati siano pochi e oberati di lavoro, così come le forze dell’ordine. Ma si impone un sistema ancora più stringente e rigoroso”. Dicono le opposizioni: le nuove norme sono punitive nei confronti della magistratura. Hanno torto? “Ma certo. Se un magistrato è troppo impegnato, deve intervenire il procuratore capo, anche solo per una redistribuzione del carico di lavoro. Le nuove norme introducono controlli, non punizioni. Ricorda Giovenale? Quis custodiet ipsos custodes? Semplicemente, in caso di ritardo un procuratore capo può, senza obblighi, assegnare il fascicolo a un magistrato diverso dall’assegnatario originario”. Il Pd, nel voto in Senato, si è astenuto. Delusa? “Capisco che il Pd, che non ha votato la prima legge, si trovasse in difficoltà a votarne il rafforzamento. Ma i calcoli politici in questa materia sono insopportabili. Per quanto mi riguarda, sono pronta a votare il provvedimento di chiunque, se concordo sul merito. E del resto, il Codice Rosso lo avevo firmato insieme a Bonafede dei 5 Stelle. Quello che mi ha deluso, semmai, sono stati gli argomenti portati in aula. La verità è che il provvedimento non è stato votato perché veniva dal centrodestra”. L’altra critica è: per essere incisivi su un problema come la violenza alle donne, sarebbe stato necessario un provvedimento più articolato e con le risorse necessarie almeno per il personale... “Ma è ovvio che ci sono tante cose da fare, e credo che anche il governo si occuperà presto della materia. Oltre al numero inadeguato di magistrati e di agenti di polizia giudiziaria, ricordo la necessità di una formazione adeguata: la valutazione dell’imminenza di un pericolo per l’incolumità di una donna vittima di minacce e violenze richiede capacità professionali specifiche, mentre oggi la formazione è a macchia di leopardo. In ogni caso, non abbiamo mai detto che le nuove norme aboliscono improvvisamente la violenza di genere; di certo, però, contrastano uno dei problemi più odiosi: l’inerzia risultata troppe volte fatale”. L’Italia è un Paese sicuro: l’Eurispes smaschera i professionisti della paura di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 maggio 2023 Il rapporto sulla criminalità (in costante diminuzione) sfata i luoghi comuni cavalcati per lustri dalla politica. Chi getta benzina sul fuoco della paura, legata anche alla sicurezza delle nostre città, si muove in una direzione che non tiene conto della reale percezione dei cittadini. La differenza tra rischio reale e rischio percepito è, infatti, non di poco conto. Parte da queste tracce l’indagine realizzata dall’Eurispes in collaborazione con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza-Direzione centrale della Polizia criminale. Lo studio, intitolato “La criminalità: tra realtà e percezione”, è stato presentato a Roma. Condivide percorsi di studio e di analisi in uno scambio di dati e di informazioni derivanti dall’esperienza delle forze di polizia e dalla ricerca scientifica. In merito al livello di sicurezza percepito dai cittadini, sia in riferimento alla propria persona sia all’ambiente circostante, l’Eurispes e la Direzione centrale della Polizia criminale, con l’ausilio del Servizio di analisi criminale, hanno coinvolto poco più di mille cittadini. La rilevazione campionaria è stata effettuata tra i mesi di gennaio e febbraio di quest’anno. Sono stati indagati diversi temi legati a criminalità e sicurezza, a partire dalla percezione della sicurezza, dalle esperienze personali dei cittadini, fino ad arrivare alla violenza domestica e all’utilizzo delle armi da fuoco. I dati che emergono sono interessanti e non sono sganciati dalle dinamiche di chi fa della paura una sorta di arma di propaganda politica. Il 61,5% dei cittadini afferma di vivere in una città-località che giudica sicura. Dal confronto con i risultati ottenuti alla stessa domanda nella rilevazione effettuata dall’Eurispes nel 2019, l’inversione di tendenza è palese. Infatti, la quota di quanti si sentivano in sicurezza nel luogo di residenza erano il 47,5%, vale a dire meno della metà del campione. Nel 2023, più di un cittadino su quattro (26,6%) giudica insicuro il luogo in cui abita. Ciò accade con più frequenza al Sud (30,5%) e nelle Isole (38,4%). È stato anche chiesto al campione degli intervistati se e come è cambiata negli ultimi tre anni, dall’inizio della pandemia, la paura di subire reati. “Nella maggior parte dei casi - spiega l’Eurispes - è rimasta invariata (67,9%), per il 24,8% del campione è aumentata e il 7,3% afferma di avere meno paura rispetto al passato. Un aumento del timore di subire reati è più evidente al Sud (30%) e nelle Isole (34%) rispetto alle altre aree geografiche”. Per quanto concerne le strategie sulle quali puntare per contrastare la criminalità, il 16,9% dei cittadini ritiene che sia necessario incrementare l’occupazione, il 16,3% sostiene che vada garantita la certezza della pena, per il 14,9% occorre rafforzare il dispiegamento delle forze dell’ordine e per il 14,6% bisogna sostenere le categorie più deboli. E ancora: l’11,6% degli intervistati richiede un inasprimento delle pene, il 10% vorrebbe una promozione dell’educazione alla legalità, l’8% risolverebbe il problema limitando l’accesso degli immigrati nel Paese e il 7,2%, garantendo processi penali rapidi. Un altro spunto di riflessione offerto dal rapporto Eurispes si riferisce alla considerazione verso i “principali responsabili dei crimini fra italiani e stranieri”. Un’ampia fetta del campione (47%) ritiene che i crimini siano commessi in egual misura da italiani e stranieri; circa un cittadino su cinque pensa che gli autori siano principalmente stranieri (20,7%) e solo il 6,1% attribuisce le colpe agli italiani. È rilevante il tasso di non risposta a questo quesito (26,2%). Sul modo in cui i mass media rappresentano il problema della criminalità, il 27,9% del campione ritiene che la narrazione dei media sia realistica, mentre il 26,1% degli intervistati sostiene che la criminalità sia rappresentata in modo meno grave rispetto alla realtà, per il 21% invece i media offrono una visione allarmistica e il 25% non sa o preferisce non rispondere. “Nel lavoro presentato - dice il prefetto Vittorio Rizzi, vicedirettore generale della Pubblica sicurezza - abbiamo voluto dedicare una particolare attenzione ai trend della delittuosità degli ultimi anni e ad alcune categorie criminali che consideriamo particolarmente sensibili all’interno della nostra società. La paura e l’incertezza sono caratteristiche del nostro tempo, spesso alimentate dalle continue emergenze, come la pandemia, il conflitto russo-ucraino e i disastri ecologici”. Il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, si sofferma sull’esigenza di informazione sui temi della sicurezza. “Tali temi - commenta Fara - assumono una rilevanza prioritaria nel dibattito pubblico in Italia, come pure nel sentire di ogni cittadino. La sicurezza rappresenta infatti uno degli argomenti centrali nella comunicazione politica e in quella degli organi d’informazione, ma è necessario distinguere tra rischio reale e rischio percepito, categorie che spesso non collimano, l’uno basato su dati oggettivi e misurabili, l’altro condizionato da dinamiche soggettive come la paura e l’incertezza del futuro”. Il magistrato Giovanni Tartaglia Polcini, vicepresidente dell’osservatorio internazionale di Eurispes, sottolinea il carattere scientificamente innovativo del rapporto: “È un documento di grande utilità sul piano della raccolta e dell’analisi dei dati sulla sicurezza reale e percepita, da mettere a disposizione del decisore. Il divario tra la realtà e la rappresentazione dei fenomeni criminali era stato già dimostrato in materia di corruzione. La metodologia utilizzata dall’Eurispes si presta a un uso sempre più diffuso sia per settore di intervento, sia per scenario di riferimento ed è suscettibile di condivisione sul piano internazionale”. Criminalità: aumentano i reati contro le donne e quelli dei minori. Ma è un’Italia molto sicura di Francesco Grignetti La Stampa, 6 maggio 2023 L’Italia soffre il dopo-pandemia, e la crisi sociale ed economica sta portando ad un lieve aumento di reati. Una crescita innegabile, ma lieve. E comunque i numeri sono generalmente in linea con il 2019. Solo in tre aree i numeri sono in triste continua crescita: la violenza contro le donne, la devianza dei minorenni, i reati predatori ad opera di stranieri. È la fotografia del nostro 2022 criminale a cura della Direzione Centrale della Polizia Criminale e l’Istituto di Studi Politici Economici e Sociali Eurispes, presentata dal vicecapo della polizia Vittorio Rizzi e dal presidente di Eurispes Gian Maria Fara. Ed è un’Italia sostanzialmente più sicura che in passato, a dispetto della percezione di molti. “Aumentano leggermente alcuni reati predatori mentre diminuisce lo sfruttamento della prostituzione e l’usura. Si tratta nel breve periodo di scostamenti minimi, ma nel lungo periodo gli scostamenti diventano significativi e sono tutti in calo e in diminuzione”, afferma il vicecapo della polizia Rizzi. Rispetto al 2021, che fu un anno di crollo dei reati per causa Covid, l’aumento dei reati nel 2022 ha riguardato, in particolare, i furti (+17,3%), le estorsioni (+14,4%), le rapine (+14,2%), le violenze sessuali (+10,9%), la ricettazione (+7,4%), i danneggiamenti (+2,9%) e le lesioni dolose (+1,4%). Risultano, invece, in diminuzione lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile (-24,7%), l’usura (-15,8%), il contrabbando (-10,4%), gli incendi (-3%) e i danneggiamenti seguiti da incendio (-2,3%). Sono le donne le vittime principali del tempo. E sono vittime che nella stragrande maggioranza si tengono dentro tutto: le molestie sessuali, gli atti di violenza in famiglia, le intemperanze degli ex. “Le violenze sessuali - si legge nel rapporto polizia-Eurispes - a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un andamento in costante incremento nel biennio successivo”. Vittime donne di reato sono tra il 74% ed il 76% per gli atti persecutori, tra l’81% e l’83% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e con valori che oscillano tra il 91% e il 93% per le violenze sessuali. In termini percentuali i dati relativi ai “reati spia” fanno registrare nel 2022 una flessione degli atti persecutori (-10%) e dei maltrattamenti contro familiari e conviventi (-4%), mentre per le violenze sessuali l’incremento è pari all’11%. Il trend torna drammaticamente con i femminicidi: nell’ultimo anno sono stati registrati 314 omicidi, con 124 vittime donne (+4% rispetto al 2021), di cui 102 uccise in àmbito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Ma i reati denunciati dalle donne sono solo la punta di un iceberg. Quando si passa dal quadro delle denunce penali che risultano alla polizia a quello che emerge da un sondaggio curato da Eurispes, si scopre che uno spaccato domestico con forme di sopraffazione e abuso sottili, che facilmente passano sotto silenzio, come possono esserlo le umiliazioni quotidiane o le minacce. In più di un caso su dieci (11,6%) si registrano umiliazioni e insulti in àmbito familiare. Il 5,6% ha subìto minacce. Il 4,5% è stata vittima di atti persecutori. Il 3,8% di maltrattamenti in famiglia. Più del 3% del campione ha subìto lesioni e percosse, l’1,8% segregazioni in casa, l’1,3% violenze sessuali. Le vittime hanno dichiarato di aver subìto la violenza da parte del partner nel 20,6% dei casi, di un ex partner nel 30,3% dei casi. Nel 49,1% dei casi, invece, la vittima ha subìto violenza da parte di altro familiare. Le donne hanno subìto violenza da parte del partner nel 24,5% dei casi, dell’ex partner nel 30,6% dei casi, da altro familiare nel 44,9% dei casi. Se per le donne più della metà degli abusi in famiglia (55,1%) sono da imputare al partner o all’ex. Per gli uomini le percentuali si capovolgono: il 54,5% dei rispondenti di genere maschile è vittima di violenze da altro familiare. Il 29,9% è stato vittima di violenza da parte dell’ex partner, mentre il 15,6% da parte del partner. Al momento della violenza, 6 vittime su 10 si trovavano tra le mura domestiche, il 13,7% era per strada o comunque in altro luogo pubblico (12%). L’8% delle vittime ha subìto violenze mentre era sul posto di lavoro, il 5,7% sui mezzi pubblici. La violenza subita nella maggioranza dei casi non si è ripetuta (52,6%), mentre per il 47,4% delle vittime non si è trattato di un caso isolato. Una violenza su tre è avvenuta alla presenza di un minore (33,7%). Come detto, cresce inarrestabile la devianza minorile. “Nell’ultimo biennio - si legge nel rapporto - l’incremento è significativo: nel 2021 sono stati 30.405 (+15,7% rispetto al 2020) e 33.723 nel 2022 (+10,9% rispetto al 2021). Il dato del 2022 è quindi superiore anche a quello del 2019 (+13,8%) evidenziando, per gli ultimi anni, un trend di crescita sostanzialmente costante”. Costante è anche l’incremento dei reati predatori, per lo più opera di stranieri. La popolazione straniera residente nel 2022 sul territorio nazionale rappresenta circa l’8,5% del totale. “Analizzando i dati relativi all’azione di contrasto effettuata sul territorio nazionale dalle Forze di polizia, nel 2022 si rilevano 271.026 segnalazioni nei confronti di stranieri ritenuti responsabili di attività illecite, pari al 34,1% del totale delle persone denunciate ed arrestate; il dato risulta in lieve aumento, sia in valori assoluti che in termini di incidenza, rispetto a quello del 2021, allorquando le segnalazioni erano state 264.864, pari al 31,9% del totale”. Quanto ai furti, le segnalazioni riferite agli stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (41.462) rappresentano il 45,48% del totale3; rapine, le segnalazioni riferite a stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (9.256) rappresentano, per tale delitto, il 47,31% del totale. Eppure gli italiani rifiutano facili equazioni e si dimostrano intimamente non razzisti. Soltanto il 4,7% degli intervistati ritiene che l’eccessiva presenza di immigrati sia la causa della diffusione di fenomeni criminali. Al primo posto viene invece il disagio sociale (16,6%), immediatamente seguito dalla difficile situazione economica (15,8%). Seguono come ragioni ipotizzate le pene poco severe e le scarcerazioni facili (11,9%), la mancanza di una cultura della legalità (11,5%), il potere delle organizzazioni criminali (11,2%). E ancora. Il 9% del campione denuncia un’insufficiente presenza delle Istituzioni dello Stato, l’8,4% indica come causa scatenante la mancanza di lavoro, il 5,7% la sostanziale impunità legata alla lentezza dei processi, il 5,3% le poche risorse a disposizione delle Forze dell’ordine. Il numero di immigrati è davvero l’ultima delle risposte. Gli italiani rifiutano anche il ricorso alle armi e alla giustizia fai-da-te. Il 44,8% le considera un pericolo, perché le armi possono finire nelle mani sbagliate, un 19,2% ritiene che sia un diritto da riservare solo a categorie particolari esposte a rischi (commercianti, ecc.), soltanto un 18,4% pensa che rappresenti la possibilità per qualunque cittadino di difendersi dai malintenzionati. Quasi la metà del campione esprime il proprio timore rispetto al possesso di armi, la netta maggioranza manifesta una generale prudenza. Chiamati a rispondere per se stessi, gli intervistati rivelano una scarsa propensione ad acquistare un’arma per autodifesa: solo un intervistato su 4 (27,1%) afferma che lo farebbe, il 72,9%, al contrario, non lo farebbe. Commentano gli estensori della ricerca: “I risultati confermano una diffusa resistenza culturale nel nostro Paese al possesso di armi, anche nell’ottica della difesa della propria persona e della propria famiglia da eventuali malintenzionati”. Palermo. Pino Apprendi nominato Garante dei detenuti: “Tutelare i diritti di chi sta in carcere” Giornale di Sicilia, 6 maggio 2023 “Cercherò di rappresentare al meglio i diritti dei detenuti, interagendo con i preposti dell’amministrazione giudiziaria e con il Garante regionale Santi Consolo, che subentra al posto del prof. Giovanni Fiandaca che ha svolto un grande lavoro in questi anni”. Sono le prime parole da garante dei detenuti per la città di Palermo da parte di Pino Apprendi. La determina sindacale con la quale viene indicato Pino Apprendi come nuovo garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale è datata 20 aprile, ma solo adesso si ha l’ufficialità. La nomina, nei mesi scorsi, è stata sollecitata da diverse associazioni, anche alla luce dei tanti episodi di suicidio all’interno degli istituti penitenziari. Sono state 84 le persone che si sono tolte la vita in Italia nel 2022, di cui 10 in Sicilia. Numeri sempre in aumento che lo scorso anno hanno visto la nostra Isola al secondo posto in questa tragica classifica. Nei primi mesi del 2023, invece, sono già 8 i suicidi in carcere in tutta Italia, uno in Sicilia: un tunisino di appena 24 anni a Messina. “Metterò a frutto l’esperienza ventennale maturata come fondatore e Presidente di Antigone - ha detto Apprendi in merito alla nuova nomina-. Si chiude una fase aperta 4 anni fa dal Comitato Esistono i Diritti, di cui sono stato copresidente e fondatore insieme al Presidente Gaetano D’amico e Alberto Mangano, che ha chiesto al precedente Consiglio Comunale di approvare un apposito regolamento per la nomina del garante comunale. La mia designazione - continua -, avviene a seguito del bando per la manifestazione d’interesse della giunta precedente”. Infine, i ringraziamenti al “sindaco prof. Roberto Lagalla e all’assessore Antonella Tirrito, per la fiducia ripostami”. Apprezzamenti anche da parte di Gaetano D’Amico, copresidente del comitato esistono i Diritti Transpartito: “Apprendiamo con gioia che il garante comunale per i diritti delle persone detenute della città di Palermo è l’on Pino Apprendi, tra i fondatori del comitato esistono i Diritti Transpartito del quale fino a ieri è stato co-presidente. L’iniziativa politica del comitato ha presso avvio oltre 4 anni fa. Finalmente, adesso, abbiamo il garante comunale per i diritti delle persone detenute nella persona di Pino Apprendi, al quale faccio personalmente gli auguri di buon lavoro insieme a tutti e tutte gli iscritti al comitato esistono i Diritti Transpartito Spes contra spem. Essere speranza piuttosto che avere speranza. Che Pino Apprendi sia speranza, la speranza degli ultimi I cittadini detenuti”. Lucca. Nuovo Garante comunale dei detenuti: approvato l’avviso, 15 giorni per le candidature Gazzetta di Lucca, 6 maggio 2023 È stata pubblicata oggi in albo pretorio la determina con il bando relativo alla raccolta delle candidature per la designazione del nuovo garante per i detenuti del Comune di Lucca che - a norma dello Statuto comunale - verrà scelto dal consiglio comunale. Gli aspiranti potranno presentare la candidatura entro il termine perentorio di 15 giorni dalla pubblicazione del bando sull’albo pretorio on-line. La candidatura, sottoscritta dall’interessato in carta semplice, dovrà contenere il modello di domanda compilato correttamente e contenente le motivazioni a sostegno della candidatura; un curriculum vitae datato e sottoscritto indicando l’esperienza nel campo della tutela dei diritti umani, delle scienze giuridiche e sociali, nonché della indipendenza, competenza e capacità di esercitare efficacemente le funzioni richieste; la fotocopia non autenticata di valido documento d’identità. La candidatura dovrà essere indirizzata al Comune di Lucca - Settore dipartimentale 2 Politiche sociali e giovanili, via Santa Maria Corteorlandini, 6, 55100 Lucca e sulla busta dovrà essere indicato il seguente oggetto: “Candidatura per l’elezione del Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Lucca”. La candidatura deve pervenire a mano o per posta all’Ufficio Protocollo del Comune di Lucca all’indirizzo sopra indicato o tramite PEC all’indirizzo comune.lucca@postacert.toscana.it, entro il termine di quindici giorni dalla pubblicazione del bando. Le candidature saranno sottoposte a verifica formale di completezza e regolarità dall’ufficio responsabile del procedimento. Successivamente, le domande ammesse saranno esaminate dalla Commissione consiliare permanente competente per materia per le valutazioni ed adempimenti. L’avviso sarà inoltre pubblicato sul sito istituzionale del Comune nella sezione Selezioni e bandi di concorso > nomine e designazioni. Roma. Burnout nella Polizia penitenziaria, l’Asl Rm4 attiva sportello psicologico Adnkronos Salute, 6 maggio 2023 Un progetto d’intervento, con l’attivazione di uno sportello di counseling psicologico, rivolto agli agenti di Polizia penitenziaria degli istituti penitenziari di Civitavecchia colpiti da stress, ansia e ‘burnout’. È l’iniziativa dell’Asl Roma 4 in accordo con la direzione penitenziaria. Lo sportello avrà sede nella Casa circondariale nuovo complesso di Civitavecchia. “Il progetto nasce a seguito di alcune considerazioni sulla realtà carceraria - spiega l’Asl Roma 4 - si tratta infatti di una realtà molto complessa in quanto convivono all’interno di essa diverse aree operative (area penitenziaria, trattamentale, sanitaria) e sussistono dinamiche particolari sul piano lavorativo-organizzativo, relazionale e personale talvolta di difficile gestione”. Obiettivo è la prevenzione primaria e secondaria “del disagio psichico di una particolare popolazione, quella degli agenti di polizia penitenziaria, esposta a molti fattori stressanti tanto che si registra, a livello nazionale nella specifica popolazione, un alto tasso di suicidi”, rimarca l’azienda sanitaria. “Nell’ambito di tale generale complessità, per la categoria degli agenti di polizia penitenziaria gli ‘stressors’ (contestuali, psicologici, affettivi) raggiungono un livello molto elevato per quantità ed intensità, un livello tale da poter compromettere il benessere psicofisico degli operatori configurandosi uno specifico profilo di rischio professionale anche di tipo psico-sociale, quale la sindrome da burnout”, ricorda l’azienda sanitaria. “Le possibili improvvise esplosioni di tensione e aggressività tra detenuti nelle varie sezioni, gli eventi critici relativi a detenuti particolarmente problematici, le aspettative ambivalenti degli stessi detenuti, le richieste ‘forti’ delle altre aree operative o dello stesso sistema penitenziari , vissute spesso come delega o scarico di responsabilità, creano tensione, reazioni conflittuali, rifugio nell’evitamento delle situazioni di confronto e, alla fine, isolamento, con possibile comparsa di sentimenti di rancore, inadeguatezza, impotenza. Fino all’ansia strutturata, alla depressione, ad un sentimento di scacco esistenziale”, evidenzia l’Asl Roma 4. Gli obiettivi del progetto sono: offrire ascolto e sostegno psicologico in modo da favorire e accogliere l’esplicitazione delle problematiche connesse al contesto lavorativo; migliorare l’efficacia della comunicazione riducendo la conflittualità intra ed intercategoriale; potenziare la riflessione sul disagio personale vissuto all’interno del contesto professionale, favorendo un inquadramento più obiettivo e affrontabile delle problematiche presentate; potenziare le risorse individuali nell’interazione sociorelazionale; sviluppare le competenze emotive e le strategie personali di coping (cioè di adattamento funzionale) per promuovere un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata; valutare l’eventuale presenza di nuclei emotivi e/o di personalità che richiedano un approfondimento nei modi e nelle sedi più idonee. La Spezia. Teatro, studenti e giovani detenuti debuttano insieme di Luisa Brambilla Io Donna, 6 maggio 2023 Studenti e giovani detenuti stanno in due edifici che affacciano sulla stessa strada. È lo spunto di Dirimpetto lo spettacolo teatrale in scena sabato 6 e domenica 7 maggio a La Spezia, durante Per aspera ad Astra. Studenti e giovani detenuti uniti dal risiedere nella stessa via di La Spezia, in due edifici che affacciano l’uno dirimpetto l’altro. È questa l’occasione per lavorare assieme a uno spettacolo teatrale, Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada, nel prossimo fine settimana clou della quinta edizione di lo “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Per Aspera ad Astra è il progetto che da 5 anni sta realizzando in 15 carceri italiane percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. attori, drammaturghi, scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Il percorso ha già coinvolto oltre 1000 detenuti per un lavoro di formazione di 300 ore ciascuno. Il confine che unisce - I due edifici si guardano da anni e le persone che li vivono e che li abitano - studenti e giovani detenuti - non sanno chi ci sia dall’altra parte o, forse, possono solo immaginare chi sono i loro dirimpettai. L’idea dello spettacolo “Dirimpetto” nasce dalla volontà di fare incontrare e interagire questi due gruppi di persone in un luogo libero - il teatro. i due gruppi di attrici e attori, nei mesi scorsi, hanno effettuato diverse prove all’interno dell’istituto penitenziario. Sessanta giovani coinvolti - Per la prima volta quest’anno all’interno del progetto di avviamento al lavoro è stato inserito il laboratorio “No Recess!” guidato da Gli Scarti - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, che ha la direzione artistica dentro la Casa Circondariale della Spezia. La preparazione dello spettacolo ha coinvolto oltre 60 persone, con diverse età e percorsi di vita. Gli orari di Dirimpetto - Il 6 e 7 maggio al Dialma andranno in scena due repliche giornaliere dello spettacolo alle ore 18.30 e alle 21.15. Inoltre, domenica 7 maggio, dalle ore 11.00 alle 12.30 sempre al Dialma, verrà proiettato il documentario “Tutto quel che sono. Un percorso teatrale nel carcere della Spezia” e si terrà l’incontro sul tema “Teatro-Carcere-Comunità” con operatori del settore, compagnie partner del progetto, giornalisti e studenti coinvolti nei laboratori. Uno spettacolo alla pari - Enrico Casale, direttore artistico del progetto per Gli Scarti aggiunge: “La lezione da imparare da questa nuova esperienza nel carcere della Spezia è il monito che da molti anni sentiamo ripetere da Armando Punzo, il regista del gruppo la Fortezza attivo da 30 anni nel Carcere di Volterra: ‘Nulla è impossibile’. All’inizio pareva una folle utopia fare incontrare le studentesse e gli studenti con i detenuti. Farli incontrare, per creare assieme uno spettacolo “alla pari”. Ancora di più portare queste ragazze e ragazzi a costruire lo spettacolo nella sezione detentiva. Ma la forza del Sogno, si sa, scavalca ogni difficoltà e pregiudizio”. Reggio Calabria. “Seconda Chance” & “Plastic Free”, detenuti di Locri e Palmi bonificheranno aree degradate lametino.it, 6 maggio 2023 Una cinquantina di detenuti di Seconda Chance provenienti dalle carceri di Bologna, Frosinone, Laureana di Borrello, Locri e Palmi, bonificheranno, domenica 7 maggio dalle 9 alle 11:30, aree degradate assieme ai volontari di Plastic Free. Nell’area di via Fioravanti a Bologna, lungo il fiume Amaseno di Priverno e sulla Spiaggia della Tonnara a Palmi va in scena il primo atto della partnership tra l’Associazione ambientalista che ormai da anni combatte il degrado ambientale, e l’Associazione del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento per i detenuti. “Seconda Chance cerca imprenditori disponibili ad andare a valutare manodopera in carcere sfruttando gli sgravi fiscali della legge Smuraglia. In un anno e mezzo abbiamo procurato già 180 posti di lavoro. Proprio martedì 2 maggio è arrivato il primo dei 4 detenuti richiesti dalla Fattoria della Piana - si legge in un comunicato - I candidati che le aree educative degli istituti di pena selezionano per i colloqui sono detenuti a fine pena, con competenze specifiche in determinati mestieri e con ottimi comportamenti intramurari, persone completamente riabilitate e ammesse dalla direzione all’ art. 21, cioè il lavoro esterno. Oltre ai posti di lavoro Seconda Chance cerca occasioni di svago, di relax, di sport, e gli appuntamenti di Plastic Free rappresentano l’occasione giusta per divertirsi, conoscere, diventare parte di un grande progetto collettivo teso a rendere migliore il pianeta. Se per i volontari di Plastic Free è ormai una consuetudine il ritrovarsi un paio d’ore la domenica mattina per raccogliere rifiuti che saranno poi rimossi delle municipalizzate, per le carceri coinvolte da Seconda Chance è tutto nuovo. Da giorni i detenuti scelti dalle Direzioni dei penitenziari per partecipare ai tre eventi di domenica prossima manifestano entusiasmo e voglia di esserci. Per tanti di loro si tratta della prima uscita dopo diversi anni, del primo contatto con il mare, con il fiume, con la città, con gruppi di ragazzi armati di guanti, ramazze e desiderio di condivisione. La fondatrice e presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi, anticipa che questo è solo l’inizio della collaborazione con Plastic Free: ‘I direttori di diversi altri istituti hanno espresso il desiderio di inviare anch’essi i detenuti migliori alle prossime domeniche di pulizia ambientale. E da diverse carceri sono gli stessi detenuti a scriverci per chiederci, oltre a un’opportunità di lavoro, la possibilità di partecipare alle giornate ecologiche’. Per il direttore generale dell’associazione ambientalista, Lorenzo Zitignani, l’obiettivo è quello di sensibilizzare quante più persone possibili sul tema ‘inquinamento da plastica’. Non in modo estremista o radicale, sappiamo benissimo che la plastica oltre ad essere una straordinaria invenzione italiana è indispensabile in certi luoghi, basti pensare all’ambito sanitario. Quello che non funziona è il rapporto uomo - plastica: ne produciamo troppa, ne consumiamo troppa anche laddove non strettamente necessaria, non siamo in grado di riciclarla tutta (il dato mondiale parla di circa 20% di plastica riciclata) ma soprattutto ne disperdiamo tantissima nell’ambiente. Dove? Ovunque: boschi, laghi, fiumi, montagne e soprattutto mare, causando un danno ecologico a tutto l’ecosistema ma anche a noi stessi. La plastica finisce anche nel nostro corpo, poiché ogni giorno respiriamo e ingeriamo micro e nano plastica, un materiale che non si decompone mai. Ci piace però essere concreti e guardare il lato ‘positivo’: oltre 3 milioni di kg di plastica raccolti, 250.000 volontari attivi in più di 4.000 raccolte. Come abbiamo fatto? Coinvolgendo le persone, facendogli toccare letteralmente con mano la gravità del problema. Avere un tale riscontro anche dalle case circondariali e dai loro ospiti ci fa ben sperare, in carcere si consuma molta plastica monouso. La collaborazione con Seconda Chance nasce in quest’ottica: includere, sensibilizzare ed educare. Tutti possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo, non abbiamo un pianeta B”. “Il governo vuole riformare la legge Basaglia per coprire storture e abbandoni colpevoli” di Gianni Cuperlo* Il Domani, 6 maggio 2023 La libertà è ancora terapeutica? Parla Peppe Dell’Acqua, erede di Franco Basaglia. Se passeggiate nel cuore di Trieste, tra Piazza Unità e le stradine risanate di Cavana potrebbe capitarvi d’incrociarlo. Era il 1971 quando cominciò la sua avventura basagliana. Nel senso letterale, di collaborazione e condivisione della sola vera rivoluzione che la città abbia conosciuto nelle traversie di una storia tormentata. Anche per questo viene naturale pensare a lui quando l’attacco alla 180, la legge che di Franco Basaglia porta il nome, trova sponde solide nel governo della destra. Se passeggiate nel cuore di Trieste, tra Piazza Unità e le stradine risanate di Cavana potrebbe capitarvi d’incrociarlo. A passeggio con una Golden Retriver dal pelo chiaro, un tantino acciaccata per l’età e che gli cammina di fianco a passo ridotto. Giuseppe (Peppe) Dell’Acqua a Trieste ci vive da più di mezzo secolo. Era il 1971 quando cominciò la sua avventura basagliana. Nel senso letterale, di collaborazione e condivisione della sola vera rivoluzione che la città abbia conosciuto nelle traversie di una storia tormentata. Due anni più tardi, assieme a Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia, gli sarebbe toccato inventarsi la parabola-simbolo di quel Marco Cavallo che, dipinto d’azzurro, continua a peregrinare su e giù per l’Italia a testimonianza dell’intuizione destinata a fare della dignità del “malato” un traguardo di civiltà. Anche per questo viene naturale pensare a lui quando l’attacco alla 180, la legge che di Franco Basaglia porta il nome, trova sponde solide nel governo della destra. Non che in passato non fosse accaduto, la novità di ora è che, numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi in una restrizione pesante delle maglie che la riforma del 1978 aveva allargato come mai prima di allora. Ma cosa vorrebbe dire abbattere quell’ultimo totem di una libertà conquistata dopo i decenni (o secoli?) della repressione di vite condannate a non vivere mai dentro strutture manicomiali deprivate di qualsiasi umanità? Peppe, dobbiamo per forza muovere dalla cronaca e dalla tragedia di Barbara Capovani, la psichiatra di Pisa che un ex paziente ha ucciso a colpi di spranga. L’emozione che ha prodotto è stata larghissima, non solo tra le colleghe e i colleghi e i tanti che l’avevano conosciuta. Com’era prevedibile quella morte atroce ha riaperto il cantiere mai chiuso di dubbi, critiche, accuse alla legge che Basaglia, e tante e tanti di voi con lui, avete battezzato. Allora, partiamo da qui e dalla domanda più provocatoria. Perché si dice e si pensa che la legge 180 abbia qualche responsabilità politica e morale sulla morte della dottoressa Capovani? No, assolutamente no! È assurdo solo pensarlo, prima di tutto bisognerebbe interrogarsi sulla responsabilità di chi avrebbe dovuto avere in cura Gianluca Seung (l’uomo che ha ucciso Barbara Capovani ndr). La legge di riforma viene chiamata in causa per coprire le storture organizzative, la miseria degli investimenti del Governo e delle Regioni, il rifiuto delle psichiatrie e delle accademie di contribuire al cambiamento culturale che la legge non poteva non pretendere. Dobbiamo domandarci che cosa hanno fatto governi e ministeri che si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni. Le Regioni hanno utilizzato le loro autonomie per realizzare venti sistemi sanitari differenti, abissali diseguaglianze nelle organizzazioni, nel godimento dei diritti costituzionali per i cittadini, nell’uso sempre più inappropriato delle risorse: sistemi organizzativi molto segnati da culture manicomiali; ricorso a un privato mercantile e un privato sociale succube di politiche regionali di risparmio e soprattutto mancante di una qualsivoglia visione; sistemi di contenzione e di controllo nei servizi ospedalieri di diagnosi e cura. Mi stai dicendo che la 180 diventa l’alibi per tutto ciò che non si è fatto, ma resta il dramma di tante famiglie che denunciano la propria solitudine e impotenza? Ma vedi, ancora una volta dopo 45 anni la legge di riforma viene chiamata in causa proprio per nascondere abbandoni colpevoli, inadeguatezza di psichiatrie che per farsi hanno un bisogno ostinato di rendere oggetto l’altro: centri di salute mentale vuoti, ambulatori isolati nel deserto di territori non curati, diagnosi, farmaci e le trincee fangose dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura. E residenze che “ospitano” ormai da decenni sempre le stesse persone. Eppure in tanti luoghi, a volte intere regioni, gruppi di lavoro che ancora credono nelle possibilità del cambiamento utilizzano proprio quella legge come uno strumento di progresso e buone cure per tante persone, specie quando vivono disturbi mentali severi o molto severi, e specie se giovani. Ci sono amministratori che “prendono a cuore” il destino dei matti e cooperative e associazioni di cittadini che con regolamenti regionali adeguati e attenzione alla formazione permanente degli operatori arricchiscono il capitale sociale dei loro territori. Allora perché è così difficile spezzare l’automatismo che collega tragedie come quella di Pisa alla chiusura dei manicomi? Ascoltami, faccio questo mestiere da più di cinquant’anni e ricordo che eventi tragici come quello che stiamo vivendo accadevano prima che chiudessero i manicomi e prima della 180. Che siano sempre accaduti non toglie orrore a questi eventi. I pochi dati di cui disponiamo ci dicono che la chiusura dei manicomi non ha comportato la crescita di omicidi per mano di “malati pericolosi” e di suicidi. Anzi vi è stata una sensibile diminuzione a dispetto di quanto ancora oggi i titoli dei giornali insistono a volerci far credere. Dovrei ricordare quanto accade negli altri paesi europei e drammaticamente negli Stati Uniti dove non c’è mai stata una legge 180. Ma sarebbe un discorso troppo lungo. Invece posso chiederti di ricordare anche solo per titoli il cammino che condusse alla riforma? All’inizio del ‘900 il soggetto, l’individuo, la persona, fino a quel momento resi invisibili dal prevalere del positivismo scientifico, cominciavano ad emergere. Nel secondo dopoguerra cominciò a prendere forma un’attenzione diffusa e preoccupata alle grandi istituzioni. All’epoca erano milioni gli internati e i manicomi, in una sorta di diffusione pandemica, erano uguali in tutto il mondo. Piccole innovazioni e sperimentazioni nascono in molti ospedali psichiatrici in Europa come negli Stati Uniti. In Italia non accade nulla fino agli anni sessanta quando un giovane neurologo viene chiamato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia. Quel giovane neurologo era Franco Basaglia.. Sì, era il 16 novembre 1961 quando Basaglia che, con altri giovani medici e filosofi si era appassionato agli studi di fenomenologia, entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Solo internati, senza più volto, senza più storia. Per incontrare le persone cominciò ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero persone, individui. Da allora fu possibile immaginare un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, le possibilità di vivere e di abitare la città. Cominciò un cammino tra insidie e resistenze che apparivano insormontabili. Si può dire che la “rivoluzione” parte da lì, ma quali furono i passi successivi? All’apertura di Gorizia fece seguito nel 1968 una legge proposta dal ministro della sanità socialista Mariotti che stabiliva la possibilità di ricovero volontario negli ospedali psichiatrici, quindi di dimissione e sostanziali cambiamenti organizzativi. Nel corso degli anni ‘70 in ogni regione e provincia tentativi di trasformazione più o meno profondi furono messi in atto sulle indicazioni della legge. Una forte azione di pressione politica venne svolta dai presidenti riuniti nell’Unione delle Provincie Italiane all’epoca presieduta da Michele Zanetti che a Trieste sosteneva la direzione di Franco Basaglia. Per i presidenti gli ospedali psichiatrici erano un costo sempre più insostenibile e fonte di continui “incidenti”. Parliamo di oltre 100.000 internati e circa 90 manicomi, comprese alcune grandi istituzioni di proprietà della Chiesa. Le proposte di cambiamento degli OP (ospedali psichiatrici ndr) avanzarono assieme a quanto si andava muovendo per la riforma del Servizio Sanitario Nazionale. La politica, partiti e parlamento, come seguivano quel processo? Nel 1975 c’era stato il grande successo elettorale del Pci. Nello stesso anno il programma elettorale della Dc dedicava un paragrafo ampio proprio alla questione degli OP. Intanto in alcune province, Perugia, Trieste, Arezzo, procedevano più spediti i progetti di apertura. Nel 1974 nasceva a Gorizia “Psichiatria Democratica” che negli anni sarebbe stata punto di riferimento costante per le politiche di cambiamento e di approccio critico alla questione psichiatrica. Nel 1977 il partito Radicale promuoveva un referendum per chiedere la chiusura dei manicomi anche a seguito di ripetuti incidenti e violenze. Il Governo si trovò nella necessità di superare con una legge i quesiti referendari e dovette farlo in estrema urgenza. Dall’impianto della legge che avrebbe istituito il Servizio Sanitario Nazionale venne stralciata la parte relativa alla salute mentale. Tina Anselmi, la partigiana Gabriella, ministra della sanità, istituì una commissione e la legge 180, con il voto unanime, fu varata il 13 maggio del 1978. Potrei dire che questa legge si proponeva prima di tutto l’ingresso del “malato di mente” sul terreno del diritto costituzionale. Da qui la conseguenza sarebbe stata anche la chiusura dei manicomi. Qualcosa hai accennato, ma quali furono secondo te le ragioni che fecero coincidere in quell’arco di mesi - parliamo del 1978, l’anno tra i più tragici della storia repubblicana - il rapimento Moro e l’approvazione in Parlamento, oltre alla 180, di altre due riforme a modo loro fondamentali, l’istituzione del Servizio Sanitario nazionale e la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza? Gli anni 70 sono stati drammatici, ma anche anni in cui il nostro paese con una sequenza di leggi ha avviato un cambiamento radicale nel campo dei diritti. Le leggi che tu ricordi vedono la luce in un momento di grande tensione. Una stagione pesante per tutto il paese, i temi della sicurezza erano all’ordine del giorno e tuttavia si approvò una legge che allargava le possibilità di libertà e convivenza. L’art.32 della Costituzione, dopo 30 anni finalmente guardava anche i matti, soprattutto i matti, come altre categorie di cittadini che avevano necessità di attenzioni maggiori. Fa impressione che proprio in quel momento Aldo Moro, il giovane costituente che aveva letteralmente scritto l’art.32 discutendo con uomini come Calamandrei, La Pira e Togliatti pesando le parole per garantire diritti soprattutto alle persone private della loro libertà, veniva assassinato dalle Brigate Rosse. Oggi al governo c’è la destra. E la destra, lo sappiamo, non sono le felpe di Salvini, ma è un impianto culturale - c’è chi la chiama un’ideologia - che fonda sulla paura di un nemico, migranti, poveri, disperati o senza dimora, la sua forza e consenso. Allora, consentimi un’altra sintesi impropria, ma per questa destra chi sono veramente i “matti”? Un alibi? Un bersaglio? Devo dirti che non solo per questa destra, ma in una sorta di regressione che stiamo vivendo i matti sono rientrati nel grigiore dei luoghi comuni, nella categoria dello scarto. La pericolosità che proprio la legge di cui stiamo parlando ha cercato di separare dalla malattia mentale è tornata a occupare tutto il campo. Di nuovo da più parti la gestione della pericolosità viene attribuita agli operatori della salute mentale. Una legge che si propone di garantire alle persone che vivono il disturbo mentale le cure, anche quando le rifiutano, nel rispetto della dignità e della libertà, viene stravolta immaginando una psichiatria e le sue istituzioni come difesa sociale. Di fronte a una storia che cerca di costruire una “normalità larga” la destra tende a ridurre tutte le diversità in un unico contenitore. Migranti, tossicodipendenti, giovani inquieti, persone che vivono ai margini della norma saranno “contenuti” di volta in volta con nuove proposte di inasprimenti, restrizioni, condanne severe e internamenti. So che vivi con angoscia il clima che si sta alimentando. Sinceramente credi davvero che la 180 e tutto ciò che rappresenta potrebbe imboccare davvero il sentiero della sua cancellazione? Penso di no. In questo momento sto avvertendo la preoccupazione di molti operatori della salute mentale e anche di psichiatri accademici che rifiutano di pensare alla fine della legge 180. Certo, ci sono quelli che urlano, che chiamano in causa con stupidità e ignoranza antipsichiatrie, negazione della malattia. La legge 180 in realtà ha trasformato talmente tanto il nostro modo di vedere l’altro che credo ci vorrebbe veramente del tempo se si volesse cambiare. Il nostro paese, che si voglia o no, ha costruito ovunque servizi orientati verso il territorio. Funzionano male, sono poco finanziati, mal organizzati, ma ci sono e costruiscono di per sé una cultura e una strategia di lavoro. Devi ricordare che Norberto Bobbio ha definito la legge 180 l’unica riforma che è stata fatta nel dopoguerra, una riforma nel vero significato della parola, che ha cambiato radicalmente il nostro modo di vedere l’altro. Sono troppe le voci, le persone e le esperienze che si oppongono e che continueranno a lavorare perché questa storia vada avanti. Giunti dove siamo cosa si dovrebbe fare per evitare che quel graffito sul padiglione di San Giovanni nel “tuo” Ospedale psichiatrico a Trieste, “La libertà è terapeutica”, finisca per essere un’eredità del secolo che ci siamo lasciati alle spalle? C’è tanto da fare e tanto è stato fatto. Bisognerebbe che tutti criticamente e consapevolmente guardassero a questi 45 anni che sono un tempo storico considerando tutti i passaggi utili e positivi che hanno innescato visioni prospettiche di futuro. Migliaia sono le persone che hanno potuto vivere e vivono oggi il loro disturbo mentale in una condizione di relazione, di vita con gli altri, di soddisfazione. Credo che dalle esperienze fatte sia possibile cercare di cogliere gli aspetti operativi, culturali ed etici per riprendere una politica di salute mentale territoriale. Già 5 anni fa alcuni di noi hanno formulato un progetto di legge presentato al senato nel 2017, ripresentato con il governo successivo e oggi depositato in parlamento dall’on. Serracchiani e dal senatore Sensi. Ed è una proposta di legge che dettagliatamente cerca di dire come è possibile rimotivare i servizi, le Rems, le residenze, la formazione. Mi piacerebbe che in questo frangente venisse considerata. Credi che dare vita a una rete nazionale di “Comitati popolari per la 180” potrebbe essere il sentiero da imboccare? E quali garanzie lo Stato dovrebbe offrire per preservare il valore di quella riforma? Insomma, è solo questione di risorse, strutture, personale, o non siamo dinanzi al bisogno di rimotivare quella “rivoluzione” anche sul fonte della cultura che può ancora sorreggerla? Tu fai delle domande che contengono già delle belle risposte. Come sai la fatica che alcuni di noi fanno è quella di mettere in moto questo “comitato Nazionale”. Abbiamo messo insieme un Forum Salute Mentale che nasce nel 2003 per guardare criticamente alla realizzazione della trasformazione. Esiste un Coordinamento Nazionale per la Salute Mentale con centinaia di associazioni. Cerchiamo faticosamente di far funzionare momenti di partecipazione che a me sembrano sempre più fragili e distanti. Un comitato potrebbe prendere atto di queste realtà e soprattutto della proposta di legge e darsi finalmente una linea. Con tanti altri colleghi ci siamo vergognati nel leggere l’intervista ad Andrea Filippi pubblicata in prima pagina dal Manifesto. Non entro nel merito delle enormità che questo collega sindacalista della CGIL ha potuto dire. Ma è davvero singolare l’ignoranza che traspare quando si parla di antipsichiatria e di ideologie senza neanche rendersi conto del significato delle parole che si dicono. Tra qualche giorno nel parco di San Giovanni “Conferenza Basaglia” e Copersamm promuovono un evento per ricordare Franco Rotelli, con te e pochi altri, uno degli eredi diretti di Basaglia. Non ti chiedo un ricordo di Franco. Ti chiedo se avete seminato il tanto da farci sperare che nel dopo ci sarà chi continuerà a camminare sul sentiero giusto... Posso solo dirti che siamo stati protagonisti di un cambiamento radicale che si è dovuto interrogare sulla natura della malattia mentale, sulla violenza delle istituzioni della psichiatria, sulle politiche nazionali e regionali e ancora sulle cure, sulle forme di vita dei pazienti con disturbo mentale, sulle opportunità reali di integrazione. Questo lavoro non ha potuto non toccare i cittadini che vivono quest’esperienza, i familiari, gli operatori e i giovani in formazione. Una semina credo ci sia stata. Ricordo i viaggi di Marco Cavallo che ancora continuano, sarà a Brescia capitale della cultura nei prossimi giorni. Marco Cavallo continua a ricordare che quella rivoluzione non è stata altro che una rivoluzione delle coscienze che ci ha permesso di interrogarci, di vedere finalmente al di là del matto pericoloso, del malato di mente, dell’internato, un soggetto, una persona, un cittadino. Se volessero buttare a mare questa legge sarebbe ricacciare nell’invisibilità le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. La legge suggerisce continuamente la strada del riconoscimento dell’altro che per prima cosa dobbiamo accogliere nella sua individualità, nelle sue passioni, sentimenti, dolori e anche fallimenti. La legge 180 invita a negoziare più che a reprimere. E la negoziazione è sempre possibile nel momento in cui io riconosco l’altro. Con la regia di Erika Rossi hai raccontato a teatro la storia di quel vostro miracolo laico. Eravate tu e Massimo Cirri a conversare su una panchina (e a far cadere qualche lacrima a chi vi stava davanti). Si chiamava “Tra parentesi - La vera storia di un’impensabile liberazione”, capisco la fatica e l’emozione, ma il tempo è ora. Possiamo annunciare che la panchina sta per tornare? Forse più che bello sarebbe utile. Non so quanto riuscirei a reggere la fatica. La conversazione l’abbiamo replicata per più di 50 volte, poi c’è stata la pandemia. Chissà se ci saranno teatri disposti a riproporla. Che dirti? Noi ci siamo. *Dirigente Pd “Legge Basaglia, un faro nel mondo. Ma nessun Paese l’ha realizzata” di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 maggio 2023 Intervista a Dévora Kestel, direttrice del Dipartimento di Salute mentale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, oggi a Trieste. “La priorità deve andare alla prevenzione e a fermare la violenza. Servono Corti giudiziarie di salute mentale che si occupino dei folli-rei conoscendone i contesti sociali”. Dévora Kestel, la direttrice del Dipartimento di Salute mentale e Abuso di sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarà oggi a Trieste, nel Roseto del Parco di San Giovanni, ospite d’onore del convegno promosso dall’associazione “Copersamm Conferenza permanente per la Salute mentale nel mondo Franco Basaglia”, e dedicato a Franco Rotelli, uno dei protagonisti della riforma che negli anni Settanta chiuse i manicomi e che in questi giorni compie 45 anni. Come si posiziona l’Italia nel panorama mondiale e in quello europeo sul tema della salute mentale? Non esiste una classifica mondiale o europea, stilata su parametri precisi, riguardante questo tema. Un elemento che possiamo prendere in considerazioni è il superamento degli ospedali psichiatrici, cosa che l’Italia ha fatto da tanti anni. Ci sono istituzioni comunitarie che oltre al trattamento strettamente medico pongono l’attenzione anche su altri bisogni delle persone con disturbi mentali, come la casa o il lavoro. E sicuramente l’Italia ha fatto enormi progressi e sforzi in questo senso. In questo Paese, dove sono appena arrivata, ci sono esperienze sicuramente molto ricche, come Trieste e la sua regione, considerate esempi positivi riconosciuti a livello mondiale, pur con margini di miglioramento. Quando però guardiamo gli investimenti economici - mi riferisco a dati di alcuni anni fa, non recenti - sicuramente ci sono Paesi che dedicano alla salute mentale una percentuale maggiore della spesa pubblica. Purtroppo, è difficile trovare un Paese nel mondo che abbia tutto il proprio territorio sviluppato allo stesso modo in termini di servizi per la salute mentale. In questo l’Italia non fa eccezione. Se la riforma Basaglia ha fatto scuola nel mondo, adesso che sta per compiere 45 anni, si può dire che l’Italia è il Paese che l’ha realizzata meglio o è stato superato da altri? Non direi. È vero che l’Italia non è arrivata a compiere del tutto la riforma Basaglia, però non credo ci siano altri Paesi che abbiano fatto di meglio. Ci sono Stati che offrono una varietà enorme di opportunità e che mettono a disposizione maggiori quantità di risorse per la salute mentale, ma è difficile trovare esempi di Paesi che ce l’hanno fatta. Per esempio, sicuramente l’Inghilterra è un Paese che continua a progredire da questo punto di vista. Ma se parlassimo con i colleghi inglesi sicuramente sentiremo denunciare una serie di problematiche o di realtà non efficienti come si vorrebbe. La spesa pubblica ad hoc in certi Paesi europei è alta, ma non vuol dire che abbiano trovato soluzioni a tutto. Fuori dall’Europa, gli Stati uniti sicuramente spendono tanti soldi in salute mentale, ma anche là non è che siano riusciti a compiere la riforma che si erano prefissi. Diciamo che non ci sono modelli compiuti. Quello che vediamo noi dell’Oms è che manca una comprensione completa di cosa sia, e cosa bisogna fare, per favorire la salute mentale. Che è un concetto complesso e che non significa solo prendersi cura delle persone malate. Lei si occupa anche di abuso di sostanze. Secondo lei, in un’epoca in cui il quadro delle patologie psichiche va mutando (doppia diagnosi, alterazioni comportamentali, ecc.) deve cambiare l’approccio degli psichiatri e degli psicologi? Non so se in Italia c’è un reale mutamento del quadro patologico, ma credo che quando parliamo di salute e benessere mentale bisogna considerare la necessità di promuovere ruoli, spazi e opportunità per i giovani, in modo che possano sviluppare se stessi al meglio. E questa non può essere una responsabilità solo degli psichiatri e degli psicologi. Che si attivano quando il problema c’è, ma il tema dovrebbe essere come evitarlo. Quando si ha a che fare con una persona con doppia diagnosi - disturbo psichico e di dipendenza - il problema non sta solo nelle mani dei professionisti, perché sono questioni complesse, che non si risolvono magicamente con una pillola o con qualche seduta dallo psicologo. Ci sono tanti determinanti che concorrono alla sofferenza psichica di una persona. Questo è ciò che non si è capito ancora bene, nel mondo. In Italia, dopo l’omicidio di una psichiatra pisana compiuto da un suo ex paziente, si discute molto della violenza sugli operatori sanitari e in particolare su quelli della salute mentale, e su come evitarla. Una proposta di legge riguarda l’eliminazione di ogni forma di non imputabilità dei folli rei. Cosa ne pensa? La convenzione delle Nazioni unite per i diritti delle persone con disabilità psicofisica, che è stata sottoscritta dalla maggior parte dei Paesi del mondo e anche dall’Italia, stabilisce che tutte le persone hanno diritti, doveri e responsabilità, al di là della diagnosi. Dunque questa proposta di legge mi sembra risponda alla Convenzione Onu. Il problema però è che prima di giudicare o punire una persona con disturbi mentali che ha commesso un reato, bisognerebbe evitare l’occasione della violenza. È di questo che si dovrebbe parlare: cosa non ha funzionato nel caso di Pisa? In genere questi fatti accadono in situazioni di isolamento, di punizione, di carenza di personale, eccetera. Perché anche se il folle reo viene giudicato, nel frattempo ci sono state le vittime. Ed è questo che va evitato. Come? Non con una legge più dura, ma con più servizi. In questo momento in Italia sembra ci siano due accenti diversi sul terreno comune della riforma Basaglia. Quali sono i servizi da potenziare, secondo lei: quelli territoriali di prevenzione o quelli residenziali per la contenzione? Io non sono d’accordo con la necessità di creare più strutture restrittive, dove storicamente le persone entrano e non escono mai, e rimangono così come sono. Per fortuna, l’Italia può vantarsi di aver superato quel modello. Credo che la priorità debba andare alla prevenzione della malattia e ad evitare di lasciare spazio ai violenti. Poi bisogna lasciar lavorare le Corti giudiziarie di salute mentale che esistono in tanti Paesi, con magistrati che si occupano di casi psichiatrici e violenti, e che sono a conoscenza del contesto socio-economico che concorre alla problematica della persona. Secondo lei la legge Basaglia va attualizzata? Faccio fatica a dire di sì, anche se non ho chiarissimo il quadro italiano. Però il problema è che se non si mettono le risorse, se non ci sono le possibilità di sviluppare i servizi, allora non c’è legge che tenga. Allora torniamo a un modello più restrittivo e punitivo. Medio Oriente. Diritti umani e processo di pace: l’universalismo della Ue alla prova di Roberta De Monticelli Il Domani, 6 maggio 2023 Francesca Albanese si è trovata nel raggio dei riflettori, e non da ora: è da quando è uscito il suo Rapporto, nell’autunno dell’anno scorso. Più recentemente, in concomitanza con le sollevazioni di piazza contro il governo delle destre estreme in Israele, è di nuovo oggetto di una campagna di diffamazione, a base di accuse di antisemitismo. Una campagna orchestrata precisamente da quelle forze governative israeliane, come il ministro Amichai Chikli, che negano apertamente il diritto dei palestinesi a esistere come gruppo nazionale. Vi si è accodato l’ex ministro Giulio Terzi, che in una lettera al ministro degli Esteri Antonio Tajani, cui Repubblica (20 aprile) ha dato ampio risalto, ha incongruamente richiesto la rimozione della Relatrice speciale dal suo incarico. Centinaia di associazioni, alcuni parlamentari e molti accademici hanno firmato una lettera aperta in sua difesa (il manifesto, 27 aprile). Sorprendente che ci sia stato bisogno di “difendere” un difensore della legalità, colpevole di aver svolto il suo compito con la precisione fattuale e l’esattezza normativa che il suo mandato esige. Ma non è ancora questo il problema filosofico. Questo è solo un fatto: è l’antico groviglio di violenza e ragioni di cui si diceva sopra, il tragico della storia. Ci sono volti, fisionomie espressive, quasi direi figure vive dell’umano, che all’improvviso si ritrovano nel fascio di luce di un riflettore: non di quelli dozzinali, sulle ribalte televisive in cui si rappresenta sera dopo sera l’avanzata del nulla. No, penso al teatro del mondo, quando il riflettore di un pensiero nuovo illumina l’antico groviglio di violenza e di ragioni, di tragedia e progressi, che è la storia umana. Allora un volto, una figura viva pare improvvisamente incarnare un’idea. E non è il volto a svanire nell’idea, ma l’idea a farsi viva, anzi vivida e vivace come solo una creatura umana riesce ad essere quando la passione del vero la possiede. O come Platone dipingeva le idee, appunto, dando loro anima, corpo, passione - e pianto e riso. L’idea del diritto - Guardatevi il video dell’Un Special Rapporteur, Francesca Albanese, mentre presenta all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 27 ottobre 2022, il suo primo Rapporto sulla situazione dei diritti umani in Palestina e capirete cosa intendo. Il confronto con il borborigmo monotono - da lettura telegrafica, per intenderci - della delegata dell’Unione europea rende l’idea. Anzi non la rende, se parliamo dell’Idea che si staglia nitida nella presentazione di Albanese, e che la delegata dell’Ue, come ogni altro delegato di nazione rappresentata all’Onu, dovrebbe condividere: l’idea del Diritto, che dovrebbe prevalere sull’Arbitrio e la Forza. Dei diritti umani individuali, violati. Del diritto collettivo per antonomasia - il diritto di un popolo all’autodeterminazione - negato. Il borborigmo eurocratico, in questo momento tanto decisivo per l’umanità europea, oltre che tanto drammatico per l’umanità tutta, uccide l’idea più di quanto la lettera uccida lo spirito, e gli azzeccagarbugli il fuoco della ragione pratica. C’è un problema filosofico qui, da sviscerare. Una campagna di diffamazione - Francesca Albanese si è trovata nel raggio dei riflettori, e non da ora: è da quando è uscito il suo Rapporto, nell’autunno dell’anno scorso. Più recentemente, in concomitanza con le sollevazioni di piazza contro il governo delle destre estreme in Israele, è di nuovo oggetto di una campagna di diffamazione, a base di accuse di antisemitismo. Una campagna orchestrata precisamente da quelle forze governative israeliane, come il ministro Amichai Chikli, che negano apertamente il diritto dei palestinesi a esistere come gruppo nazionale. Vi si è accodato l’ex ministro Giulio Terzi, che in una lettera al ministro degli Esteri Antonio Tajani, cui Repubblica (20 aprile) ha dato ampio risalto, ha incongruamente richiesto la rimozione della Relatrice speciale dal suo incarico. Centinaia di associazioni, alcuni parlamentari e molti accademici hanno firmato una lettera aperta in sua difesa (il manifesto, 27 aprile). Sorprendente che ci sia stato bisogno di “difendere” un difensore della legalità, colpevole di aver svolto il suo compito con la precisione fattuale e l’esattezza normativa che il suo mandato esige. Ma non è ancora questo il problema filosofico. Questo è solo un fatto: è l’antico groviglio di violenza e ragioni di cui si diceva sopra, il tragico della storia. Perché non c’è dubbio che lo sfondo sia una tragedia. O Una storia d’amore e di tenebra, per dirla con il titolo di Amos Oz ripreso da Enrico Franceschini, per sei anni corrispondente di Repubblica da Gerusalemme, nella sua ricostruzione della storia dello stato ebraico di Israele in sei puntate (la prima su Repubblica il 30 aprile), Terra promessa. Un peccato originale? Dove le tenebre sono certamente l’antisemitismo secolare che culmina nella Shoah e ancora ne sgocciola quando l’Europa e il mondo respingono i profughi ebrei nel Dopoguerra. E sono anche quelle del “peccato originale”, come lo definì Shimon Peres citato da Franceschini, dell’andare verso “una terra senza un popolo”, omettendo il fatto che su quella terra “c’era un altro popolo”, quello palestinese. Questa omissione, certo, ha determinato il lunghissimo, crudele regime di occupazione della parte di Palestina assegnata nel 1947 dall’Onu ai palestinesi, che soprattutto dal 1967 ha visto una gigantesca crescita degli insediamenti coloniali, documentata dal Rapporto Albanese in tutte le sue fasi e nei suoi momenti - sottrazione di risorse, sradicamento, frammentazione, deprivazione di libertà fondamentali, distruzione dell’eredità culturale - fino a sottrarre al supposto futuro stato palestinese qualunque base economica, territoriale, esistenziale. Ma neppure questo è ancora il problema filosofico. Fra l’altro in Israele la rimozione dal discorso pubblico di questa radice della spirale di violenza, che affligge (in diversa misura) entrambi i popoli, ha luminose eccezioni in associazioni, ricercatori, giornalisti. Il problema filosofico è che la rimozione offuschi la coscienza europea proprio al vertice di quella costruzione di diritto sovranazionale e di universalismo morale che è l’Ue, tanto apparentata, nelle sue origini e nelle sue carte, alla Dichiarazione universale del 1948 e alla Carta dell’Onu del 1945, che pone gli “eguali diritti e l’auto-determinazione dei popoli” fra i suoi obiettivi primari, insieme con il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ecco: se volete vedere non come vive, ma come muore l’idea del Diritto nell’impeccabile sorriso istituzionale di un’altra umana fisionomia, guardatevi il video del discorso della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per i 75 anni dello stato ebraico di Israele. “75 anni di vibrante democrazia” (pazienza se coronati dalla legge costituzionale del 2018 che sancisce la disparità di diritti fra due categorie di cittadini, ebrei e non-ebrei). “Avete fatto fiorire il deserto” (pazienza se sradicando decine di migliaia di ulivi nei Territori). “La vostra libertà è la nostra” (pazienza per quella del popolo palestinese). Negoziare l’illegale? È la normalizzazione dell’illegalità proprio da parte delle istituzioni nate a garanzia delle norme legali, il mistero filosofico. Ed è la denuncia di questo, che tanto ha irritato i critici di Francesca Albanese. È là che s’accende la sua passione per il vero. Di tutte le critiche che dalle sue analisi discendono nei confronti dell’approccio alla questione israelo-palestinese da parte della comunità internazionale, è questa la più limpida e profonda, perciò la più imperdonabile: quand’anche fosse possibile, è lecito, eticamente e logicamente, “negoziare l’illegale”? Affidare il “processo di pace” a “negoziati bilaterali” sulla base del fatto illegale compiuto? No. “Una violazione del diritto internazionale non dovrebbe essere soggetta a negoziazione, perché questo legittimerebbe ciò che è illegale”. E’ vero: Ben Gurion rifiutò di indicare, nella Dichiarazione di indipendenza, i confini di Israele, affermando, come ci ricorda Franceschini, che “lo stato che proclameremo al termine della guerra non nascerà da una risoluzione dell’Onu, bensì da una situazione di fatto”. Questa, indubbiamente, è la realtà della storia e la legge della forza. Può diventare anche l’idea del diritto? O non ne è il suicidio? La voce “speciale” dell’Onu questa volta ci dice con passione e fermezza: “Occorre cambiare paradigma”. E questo, per intera comunità internazionale, è il “pensiero nuovo” di cui si diceva all’inizio. Nuovo ogni volta che rinasce vivo, come la prima volta, con Platone. Libia. Haftar chiede aiuti per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 6 maggio 2023 Ieri l’incontro con i ministri Piantedosi e Crosetto. Fonti libiche: “Commissioni congiunte per controllare i confini della Libia”. C’è chi ha capito molto bene che i migranti possono essere una risorsa importante. Tra questi di sicuro figura il generale Khalifa Haftar che proprio grazie al fiume di barconi pieni di disperati che partono dalla Cirenaica da lui controllata, per tre giorni è stato accolto a Roma come se fosse un capo di Stato. Dopo il ministro degli Esteri Antonio Tajani (mercoledì) e la premier Giorgia Meloni (giovedì), ieri il generale ha visto i ministri dell’Interno e della Difesa, Matteo Piantedosi e Guido Crosetto. Niente male per un personaggio che non ha alcun ruolo istituzionale ma che negli ultimi tempi ha visto crescere notevolmente la sua influenza in Libia. A tutti il generale ha chiesto supporto e aiuti sotto forma di mezzi per la sorveglianza delle coste, insieme all’addestramento di personale per controllare i flussi migratori. Un sostegno che adesso dovrà essere deciso in uno dei prossimi consigli dei ministri insieme alla possibilità - che secondo la pagina Facebook del Comando generale delle forze armate arabe libiche Haftar avrebbe discusso con Crosetto - di creare “commissioni congiunte per monitorare e rendere sicuri i confini meridionali della Libia, al fine di rafforzare la sicurezza nazionale di entrambi i Paesi”. Dopo la cosiddetta Guardia costiera libica e quella tunisina, l’Italia si starebbe quindi preparando a sostenere un’analoga forza navale della Cirenaica. Del resto dopo la Tunisia sono mesi ormai che la regione orientale della Libia controllata dal generale amico di Egitto e Russia è diventata il principale punto di partenza dei barconi che attraversano il Mediterraneo. Dei 16.637 migranti arrivati dall’inizio dell’anno fino al 2 maggio dalla Libia (il 166% in più rispetto allo stesso periodo del 2022) circa diecimila sono partiti proprio da lì. Numeri che al Viminale conoscono bene e dei quali sicuramente Piantedosi ha discusso con l’ospite libico nell’incontro di ieri durante il quale, sempre secondo i libici, si sarebbe “discusso il meccanismo per consolidare le relazioni e la cooperazione tra la Libia e l’Italia nei settori della sicurezza, rafforzando la cooperazione nella lotta all’immigrazione clandestina e preparando programmi di formazione per individui ed elementi dei servizi di sicurezza”. “È andata bene, sono soddisfatto”, ha commentato al termine il ministro. L’incontro con Haftar è l’ultimo tassello degli sforzi che l’Italia sta facendo in nord Africa per fermare i migranti. Sempre Piantedosi la prossima settimana sarà di nuovo in Tunisia dove incontrerà il suo omologo Kamel Feki. Mercoledì al Viminale si è tenuto un tavolo tecnico con funzionari italiani e tunisini che è servito anche per mettere a punto i dettagli del viaggio. Già oggi dalla Tunisia arriva la gran parte delle persone che sbarcano sulle nostre coste: ventiquattromila nei primi quattro mesi dell’anno. Per il governo Meloni un default della Tunisia potrebbe spingere decine e forse centinaia di migliaia di tunisini a decidere di abbandonare il proprio paese per arrivare in Italia. Un incubo per il governo Meloni già sotto pressione per l’alto numero di sbarchi. Per di più reso sempre più probabile dal rifiuto del presidente tunisino Kais Saied di avviare le riforme chieste dal Fondo monetario internazionale per sbloccare un prestito fermo da ottobre di 1.9 miliardi di dollari. “Nessuno dall’esterno ha il diritto di obbligare lo Stato a fare ciò che il popolo non accetta, cosi come nessuna parte in Tunisia ha il diritto di agire contro la politica determinata dal presidente”, ha ribadito anche ieri Saied. Un’ostinazione che nelle scorse settimane ha portato anche l’Unione europea a bloccare gli aiuti previsti se prima non si avvia il programma di riforme. In questo scenario l’Italia ha scelto di mantenere il rapporto con la Tunisia anche attraverso nuovi finanziamenti. Solo due giorni fa il ministro degli Esteri Tajani ha disposto uno stanziamento di 10 milioni di euro, di cui 6.5 per ulteriori forniture di equipaggiamenti per il contrasto alle migrazioni irregolari Arabia Saudita. Condannati a morte tre membri di una tribù che si oppone al megaprogetto Neom di Veronica Stigliani La Repubblica, 6 maggio 2023 Esperti delle Nazioni Unite denunciano l’imminente esecuzione di chi protesta contro la megalopoli voluta dal principe Mohammed bin Salman. Condannati a morte con l’accusa di terrorismo, i tre membri della tribù saudita Huwaitat che si erano opposti al megaprogetto Neom rischiano l’esecuzione della pena in tempi brevi. A denunciare la sentenza sono stati alcuni esperti delle Nazioni Unite, che hanno espresso preoccupazione per il “rischio imminente” che questi uomini vengano giustiziati. La tribù a cui appartengono i tre condannati popola la regione del nord-ovest dell’Arabia Saudita, dove è in costruzione l’avveniristica megalopoli “The Line” - fulcro del progetto Neom - chiamata così perché si svilupperà su una lunghezza di 170 chilometri attraverso il deserto. Il progetto, dal valore di 500 miliardi di dollari, era stato annunciato nel 2017 dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Per gli esperti dell’Onu che si sono occupati della questione, nonostante i tre uomini “siano accusati di terrorismo, sarebbero stati arrestati per essersi opposti agli sgomberi forzati” per la realizzazione del progetto. Nella dichiarazione si legge che Shadly Ahmad al-Huwaiti, Ibrahim Salih Khalil al-Huwaiti e Atallah Moussa al-Huwaiti erano stato condannati il 5 agosto scorso, e le loro sentenze sono state confermate in appello il 23 gennaio. La denuncia degli esperti dell’Onu è stata elaborata a titolo personale, non a nome dell’organizzazione. La sentenza sarebbe basata sulla legge sull’antiterrorismo del 2017, definita “eccessivamente vaga”. Inoltre, “secondo il diritto internazionale, gli Stati che non hanno ancora abolito la pena di morte possono applicarla solo per determinati crimini, come l’omicidio”. Condizione che non si sarebbe verificata in questo caso. Al contrario, la tribù Huwaitat starebbe venendo sfollata illegalmente per fare spazio al progetto Neom. Secondo il comunicato degli esperti Onu, agli sfrattati non verrebbe garantito un adeguato risarcimento, e qualsiasi protesta sembrerebbe venire repressa in maniera brutale. Nel 2020, un membro della tribù sarebbe stato ucciso a colpi di arma da fuoco dopo essersi rifiutato di lasciare la sua terra. Almeno 47 membri della tribù in Arabia Saudita sono stati arrestati o detenuti per essersi opposti allo sfratto, di cui tre sono stati condannati a pene comprese tra i 27 e i 50 anni di carcere. Per il personale dell’Onu si tratta di “violazioni del diritto alla libertà di espressione e all’accesso alle informazioni”. Alcuni detenuti avrebbero anche accusato le autorità saudite di tortura, tema su cui l’Onu ha chiesto di aprire un’indagine. I maltrattamenti sarebbero stati finalizzati a estorcere false confessioni di colpevolezza. La dichiarazione invita tutte le aziende, compresi gli investitori stranieri, coinvolte nel progetto - che dovrebbe essere 33 volte più grande di New York - ad “assicurarsi di non contribuire a gravi abusi dei diritti umani”. Esorta inoltre le autorità saudite a rivedere le condanne inflitte ai membri della tribù, in conformità con gli standard internazionali e il diritto al giusto processo.