Telefonate come in pandemia: l’ok di molti direttori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2023 Aumentano le sottoscrizioni dell’appello promosso da diverse associazioni come “Sbarre di Zucchero”, Conferenza del volontariato della giustizia o la redazione Ristretti Orizzonti, per chiedere di mantenere il numero di telefonate e videochiamate giornaliere, così come durante l’emergenza pandemia. Diversi direttori dei penitenziari hanno prorogato tale disciplina. Ma altri no. Il garante della regione Lazio, Stefano Anastasìa, riferisce che con un ordine di servizio, anche la direttrice dell’istituto penitenziario di Velletri proroga la disciplina emergenziale in materia di colloqui e telefonate. Con l’ordine di servizio n. 12 del 26 aprile 2023, inviato per conoscenza al Prap, all’Ufficio di sorveglianza e al Garante regionale, la nuova direttrice della Casa circondariale di Velletri, Anna Rita Gentile, “preso atto che le maggiori telefonate durante la pandemia hanno rasserenato gli animi e più che mai le famiglie”, ha disposto che a far data dal 1 maggio “le persone ristrette potranno beneficiare, su loro richiesta, anche di una telefonata al giorno, previa verifica dell’utenza”. Tale disposizione corrisponde a quanto richiesto in queste settimane dalla Conferenza del volontariato della giustizia, affinché le direttrici e i direttori esercitino la discrezionalità che l’ordinamento penitenziario riconosce loro per garantire colloqui, telefonate e videochiamate oltre le ordinarie previsioni normative, prorogando così le regole introdotte con l’emergenza Covid- 19. “La disposizione della direttrice del carcere di Velletri commenta il Garante regionale Anastasìa - dimostra che è possibile mantenere, sia normativamente che organizzativamente, la disciplina in deroga sperimentata durante l’emergenza pandemica. Si può, si faccia: questo il mio appello a tutte le direzioni degli istituti penitenziari del Lazio, in attesa che il governo modifichi la vetusta previsione regolamentare che limita a dieci minuti alla settimana i colloqui telefonici con i familiari”. Ricordiamo le parole di Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti: “Ci sono direttori di carceri che hanno deciso di non interrompere quelle telefonate quotidiane, che stanno rinsaldando tanti legami famigliari”. Favero prosegue rivelando che “alla Casa di reclusione di Padova dove le persone detenute possono di nuovo suddividere tra madri, mogli, figli, nipoti questa “ricchezza” dei dieci minuti al giorno di telefonata, un autentico patrimonio la cui “rilevanza” è costituita prima di tutto dal prezioso contributo a non sfasciare le famiglie, e a non lasciar sole le persone detenute. E a non metterle maggiormente a rischio suicidio. Ma succede anche a Firenze Sollicciano, succede a Trieste, succede in altre carceri”. E rivolgendosi ai direttori, ha auspicato: “Fatelo succedere in tutte le carceri del nostro Paese, fate ogni sforzo per permettere alle persone detenute di telefonare a casa ogni giorno e di continuare a fare almeno una volta a settimana la videochiamata. E ci sarà nelle carceri un po’ di serenità in più, un po’ di solitudine in meno, forse anche qualche suicidio in meno”. Per risolvere definitivamente questo problema, bisognerebbe modificare il regolamento penitenziario del 2000, che contiene una norma assolutamente non più al passo con i tempi, risalente al 1975. Secondo questa regola ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. La nostra legislazione, come ha ricordato più volte Patrizio Gonnella di Antigone, è tra le più arretrate in Europa su questo fronte. Ma la politica dorme, e per compensare a questo problema, i direttori delle carceri hanno il potere - così come indicato dalla circolare del Dap del settembre scorso - di prorogare quella misura “emergenziale”, che ha tutti i presupposti per essere “ordinaria”. Il Dap dà ai dirigenti la discrezionalità di autorizzare i detenuti a chiamare i cari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2023 Mentre si attende, forse invano, che la politica metta mano al regolamento penitenziario sul limite delle telefonate in carcere, ricordiamo la circolare del Dap emanata il 26 settembre scorso dove ricorda ai direttori penitenziari che hanno la possibilità, discrezionale di autorizzare i colloqui visivi o telefonici oltre i limiti stabiliti dal regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. La circolare, in premessa, parte dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, che tutelano la famiglia e i suoi componenti, e l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, a mente del quale “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, riconoscono a ciascun individuo il fondamentale diritto al mantenimento delle relazioni socio-familiari. Le limitazioni all’esercizio di tale diritto devono essere previste dalla legge e possono essere giustificate unicamente da esigenze di pubblica sicurezza, di ordine pubblico e di prevenzione dei reati, nonché di protezione della salute o dei diritti e delle libertà di altre persone. Coerentemente con la richiamata cornice costituzionale e convenzionale, l’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (la legge penitenziaria) stabilisce che “particolare cura e dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. E a tal fine, numerose disposizioni dell’ordinamento penitenziario valorizzano i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, quale strumento per l’esercizio del diritto delle persone detenute al mantenimento delle relazioni con i propri congiunti. Uno è quell’articolo 73, comma 3, del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, che contempla il mantenimento del di ritto ai colloqui con i familiari anche nel caso in cui la persona detenuta venga sottoposta alla sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune. La circolare del Dap, evidenzia che sul versante delle conversazioni telefoniche non sostitutive dei colloqui in presenza previste dal regolamento, si è stabilito, in primo luogo, che la relativa autorizzazione, quando non riguardi i detenuti al 41 bis, possa essere concessa, oltre i limiti stabiliti dal comma 2 del medesimo articolo 39, in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, nonché in caso di trasferimento del detenuto e, soprattutto, che essa possa essere disposta, addirittura una volta al giorno, ove la corrispondenza telefonica si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave oppure con il coniuge, con l’altra parte dell’unione civile, con persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. In sostanza si ribadisce l’ampia discrezionalità che hanno i direttori delle carceri su questo fronte. Quindi, l’appello che chiede ai direttori penitenziari di poter garantire telefonate giornaliere, è possibile. Come già riferito su questa stessa pagina de Il Dubbio, diversi direttori lo hanno già fatto. Sugli arresti decidano giudici distanti dai pm. Così Nordio inizia a separare le carriere di Valentina Stella Il Dubbio, 5 maggio 2023 Misure cautelari valutate non più dal Gip ma da un collegio. E in secondo grado, da toghe della Corte d’appello: riforma quasi pronta. Costa (Azione): “L’ho proposto io insieme con l’interrogatorio di garanzia: si acceleri”. Ultimamente, quasi ogni giorno e in ogni sede, i vertici di via Arenula, in primis il guardasigilli Carlo Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto, ripetono che i motori della riforma garantista si sono scaldati, e che si è pronti a partire entro giugno con i primi testi. “Siamo molto avanti, abbiamo fatto ieri una riunione importante - ha detto Sisto all’assemblea dei commercialisti -, siamo alle battute finali prima di poter presentare una proposta modulare ma complessiva in Consiglio dei ministri. Abuso d’ufficio, traffico d’influenze, misure cautelari, qualcosa sulle intercettazioni. Insomma, è un provvedimento che lentamente ma inesorabilmente prende corpo. Vi stupiremo”. In più ieri, rispondendo a una interrogazione del senatore Scalfarotto, il numero due del dicastero ha insistito sul fatto che, sia in tema di misure cautelari sia in tema di intercettazioni, “è certa l’intenzione di adottare iniziative normative atte a garantire il principio di presunzione di non colpevolezza, di cui all’articolo 27 della Costituzione, rafforzando il controllo giurisdizionale in quei contesti”. Ce lo aveva confermato anche il consigliere giuridico del ministro, professor Bartolomeo Romano, che in una intervista a questo giornale ha ribadito come nel pacchetto di riforme in arrivo saranno previsti “l’interrogatorio di super-garanzia da introdurre nella fase preliminare prima che vengano inflitte misure cautelari” e un organo collegiale a cui affidare le decisioni sulle misure cautelari. In particolare, il Tribunale del Riesame assumerà le funzioni attualmente svolte dal gip, mentre i ricorsi dovranno essere esaminati in Corte d’appello. In realtà queste previsioni erano contenute in un ordine del giorno e in una proposta di legge presentata già la scorsa legislatura, e poi all’inizio di quella attuale, dal deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che su questo puntualizza: “La collegialità rappresenta per me il modo giusto per superare la burocratizzazione degli atti del gip”. Oggi quest’ultimo “è diventato un burocrate per quanto concerne sia la proroga delle indagini sia le intercettazioni sia la custodia cautelare”. Insomma una sorta di passacarte dei pm. Secondo i dati di via Arenula al 30 aprile 2023, ci sono in carcere 7.925 persone in attesa di primo giudizio. Il problema dunque esiste. La proposta di Costa stabilisce che “le misure cautelari personali degli arresti domiciliari e della custodia in carcere possano essere disposte esclusivamente dal giudice in composizione collegiale”. Privare i gip della possibilità di decidere sulle richieste cautelari del pm potrebbe essere un primo passo per separare i requirenti dai giudicanti, anche fisicamente, ed evitare la pressione dei primi sui secondi: “L’adeguamento del gip alle richieste dei pm non dipende solo dall’eccessivo carico di lavoro che si trovano a dover gestire ma anche purtroppo da una sorta di sudditanza nei confronti della Procura. A questo si è cercato di rimediare con la nuova regola di giudizio, e anni fa con la riforma che rafforzava gli obblighi di motivazione a carico del giudice, il quale deve fornire una valutazione autonoma che motivi la ragione della custodia in carcere. Ma tutto questo non è bastato, non è cambiato nulla”. Pertanto per Costa “una collegialità, un controllo reciproco tra i giudici chiamati ad un confronto possono essere lo strumento adatto per superare tutti i difetti dell’attuale sistema”. Inoltre il fatto che il giudice collegiale, come ha detto Nordio, “possa essere distaccato dal luogo dove si trova il pubblico ministero e quello per cui i tre giudici possano sentirsi meno deboli rispetto alle richieste del pm assicurano una maggiore ponderazione delle decisioni e, pertanto, accordano al cittadino un livello di tutela maggiore di quello che attualmente assicura la decisione del giudice monocratico”. Tuttavia secondo alcuni avvocati con tale proposta si affievolisce la portata del Riesame: “Io preferisco che ci sia un collegio fin da subito - replica Costa - che eviti all’indagato di far varcare la soglia del carcere”. A tal proposito sempre la proposta di Costa prevede che la fase degli arresti sia “preceduta da un’udienza in camera di consiglio davanti al giudice che procede in composizione collegiale, in cui si effettua l’interrogatorio dell’indagato ovvero dell’imputato e si instaura un contraddittorio sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, anche attraverso la valutazione di misure meno invasive di soddisfacimento delle stesse”. L’importanza di questa iniziativa, per il parlamentare, risiede nel fatto che “una persona non deve varcare la soglia del carcere, eccetto in casi eccezionali. Se un gip dispone la misura cautelare in carcere e poi il Riesame ti scarcera, avrai avuto pure ragione ma intanto sei passato dal carcere che può piegare una persona anche in pochi giorni, e l’esperienza ti rimarrà addosso per tutta la vita”. L’ultima idea che Costa ha inserito nella propria proposta di legge è quella di vietare “la pubblicazione, integrale e letterale, dell’ordinanza con cui il giudice dispone le misure cautelari fino a che non siano concluse le indagini ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Per Costa se il governo riuscisse a portare a casa anche solo quest’ultima previsione “sarebbe un grandissimo risultato”. Uccise il padre violento, ribaltata la sentenza di primo grado: fu un omicidio e non legittima difesa di Irene Famà La Stampa, 5 maggio 2023 La Corte d’Assise d’Appello ha di fatto decretato che Alex Pompa, il ragazzo che a Collegno ammazzò il padre Giuseppe al culmine di una lite, è colpevole. Sollevata una questione costituzionale, ma la decisione è presa. È stato un omicidio e non legittima difesa. Ma 14 anni di carcere sono troppi. La vicenda di Alex Cotoia, il ragazzo che la notte del 30 aprile 2020 ha ucciso il padre Giuseppe Pompa nel loro appartamento di Collegno al culmine di una lite, finisce davanti alla Corte Costituzionale. Lo ha deciso la Corte d’appello di Torino, che oggi, al termine di 6 ore di camera di consiglio, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Nei casi di omicidio di un familiare, infatti, non è possibile considerare certe attenuanti prevalenti rispetto all’aggravante del vincolo di parentela. La Corte d’appello sottolinea come serva, invece, “una pena calibrata e proporzionale” al fatto e alla personalità dell’imputato. Assolto in primo grado, per i giudici dell’appello non c’è stata legittima difesa. “Bisogna avere il coraggio di dire che è stato un omicidio, che un figlio ha ucciso il padre”, aveva detto il pubblico ministero Alessandro Aghemo durante la requisitoria. “Giuseppe Pompa era un uomo violento, ossessivo, aggressivo, che però non è mai passato dalle minacce ai fatti”. Centrale la questione della legittima difesa. “In questo caso, l’imputato non ha reagito a un’aggressione. Alex ha agito in anticipo e si è armato e ha colpito una persona disarmata, sferrandogli il primo colpo alla schiena. Il primo di 34. C’è stato uno scontro tra uno che aveva un coltello e uno che non aveva nulla. Alex non si è difeso, ma ha aggredito”. Quella sera, quando la madre torna a casa, con il marito s’innesca l’ennesima litigata. I toni sono violenti, accesi: l’uomo la accusa di aver sorriso a un collega di lavoro. “Ho agito per difenderci. Per difendere me, mia madre e mio fratello. Mio padre stava andando in cucina a prendere un coltello e io l’ho anticipato. Ci avrebbe uccisi tutti”, aveva detto Alex alla Corte e agli inquirenti durante le indagini e ai carabinieri quando si è costituito. L’avvocato difensore, il legale Claudio Strata, si era rivolto ai giudici: “Non è un assassino. È un ragazzo che è cresciuto troppo in fretta, che ha vissuto cose che avrebbero distrutto una roccia”. Una quotidianità di insulti, minacce, liti violente. A lui, a mamma Maria, al fratello Loris. “Ha evitato una strage”. Anche dopo la Riforma Cartabia il reato di lesioni personali nella forma aggravata rimane perseguibile d’ufficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2023 Non sono quindi applicabili i calcoli di conversione della pena detentiva in quella pecuniaria consentiti al giudice di pace. Il reato di lesioni personali nella forma aggravata resta procedibile d’ufficio anche dopo le novità della Riforma Cartabia e non è quindi mai attratto alla competenza del giudice di pace. E la perseguibilità d’ufficio e la conseguente competenza del tribunale non consentono l’applicazione delle pene pecuniarie comminabili dal giudice di pace quando l’aggravante è compensata dal riconoscimento di attenuanti. In caso scatti tale bilanciamento tra circostanze sbaglia perciò il tribunale che - dopo la novella - condanni l’imputato rapportandosi alla pena pecuniaria applicabile dal giudice di pace. Infatti, la Riforma ha esteso le ipotesi di procedibilità a querela di parte alle lesioni lievi e non solo a quelle lievissime. Ma il reato aggravato non rientra nelle novità previste. Il Legislatore della Riforma entrata in vigore il 30 dicembre 2022 modificando in tal modo le condizioni di procedibilità del reato previsto dall’articolo 582 del Codice penale non ha in realtà esplicitamente attribuito la competenza al giudice di pace creando già una neonata giurisprudenza sul tema (si veda il precedente n. 12517/2023 dello scorso marzo). Di certo, come afferma la Cassazione penale con l’odierna sentenza n. 18796/2023 in accoglimento del ricorso del procuratore, non poteva il tribunale applicare la pena pecuniaria agli imputati condannati per l’ipotesi di lesioni aggravate anche se era stata riconosciuta l’attenuante del fatto commesso prima del compimento dei 18 anni. L’orientamento quindi ribadito dalla Cassazione penale è che l’iniziale procedibilità d’ufficio della lesione personale aggravata soggiace al trattamento sanzionatorio previsto per tale ipotesi senza alcuna rilevanza dell’eventuale riconoscimento di un’attenuante. La riduzione della sanzione penale determinata da tale riconoscimento favorevole all’imputato va comunque operata sulla pena detentiva non convertibile in quella pecuniaria. Milano. Gli avvocati contro l’Assessore Granelli sui Cpr milanotoday.it, 5 maggio 2023 La Camera penale milanese durissima contro l’assessore Granelli: “Affermazioni gravi e sgrammaticate”. Non si fermano le polemiche sulle posizioni di Marco Granelli, esponente milanese del Partito democratico e assessore alla sicurezza della giunta Sala, sui Cpr (Centri per il rimpatrio). L’assessore li aveva sostanzialmente equiparati alle carceri parlando di custodia preventiva, mischiando anche, in alcune dichiarazioni rilasciate a Radio 24, arresti e denunce. ‘Bacchettato’ dal presidente della sottocommissione carceri Daniele Nahum e dal suo vice Alessandro Giungi, anche loro del Pd, e dal capogruppo di Europa Verde Carlo Monguzzi, Granelli aveva incassato la difesa d’ufficio del suo sindaco (“Serve più sicurezza”, aveva detto Sala). Passati due giorni, intervengono anche gli avvocati milanesi della Camera penale, per puntualizzare alcune questioni e fissare le differenze tra un Cpr e un carcere, una detenzione penale e una amministrativa, e così via. Sottolineano, gli avvocati, che quella nei Cpr è “una detenzione amministrativa, una privazione della libertà personale senza che sia stato commesso reato alcuno”. Non solo: i Cpr non sono disciplinati a livello nazionale e sono stati spesso criticati “circa le condizioni inumane e degradanti che caratterizzano i trattenimenti delle persone ivi ristrette”. Premesso questo, la Camera penale afferma il suo stupore nel “leggere parole tanto forti quanto erronee”, ancor più se “pronunciate da un rappresentante delle istituzioni” come l’assessore Granelli, di cui viene citata la frase: “Per quelli che delinquono ci vogliono rimpatri, centri di permanenza o carcere”. Per gli avvocati queste parole “denotano non solo una alquanto confusa concezione dei Cpr, ma anche una scarsa sensibilità verso valori costituzionali quali quello del principio rieducativo della pena espresso dall’articolo 27 della Costituzione”. La Camera penale sottolinea che “la condanna emessa da un Tribunale” in seguito a un reato “non deve e non può corrispondere solo al carcere e alla pena detentiva”, ma prevedere il ricorso “a misure alternative” per raggiungere il “recupero sociale” del condannato, proprio come prevede la Costituzione. Ciò per “scongiurare una recidiva” e ottenere un “guadagno in termini di sicurezza” per tutti. L’affondo: “Granelli sgrammaticato” - E poi l’affondo: “Carcere e Cpr non sono un’ipotesi alternativa, al di là dell’aspetto detentivo assolutamente similare. Presso i Cpr sono ‘ospitate’ unicamente persone che non hanno un titolo di soggiorno. Presso i Cpr transitano spesso anche persone che hanno già scontato interamente in carcere la loro condanna e che alla fine della pena si vedono aggiungere un’ulteriore detenzione poiché lo Stato non è riuscito a espellerli mentre erano (già) ristretti”. Di qui la conclusione, una vera bacchettata a Granelli: “Appaiono pertanto gravi e ‘sgrammaticate’ le argomentazioni svolte dall’assessore Granelli, al quale rivolgiamo un invito: parliamo di sicurezza, ma parliamone tenendo cuore e testa sulla Costituzione”. Trento. Libri “umani” in piazza a Riva del Garda, incontri con i detenuti Corriere del Trentino, 5 maggio 2023 La biblioteca vivente a Riva del Garda. Domani dalle 15 alle 18 in piazza delle Erbe a Riva del Garda si potrà conversare con i “libri umani”, persone che nella quotidianità non avremmo occasione di incontrare e che spesso sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni. In questo caso saranno i detenuti, i familiari, volontari e operatori degli istituti penitenziari. La partecipazione è libera. L’evento si intitola “Biblioteca vivente. Lib(e)ri oltre le sbarre”. Il progetto offre la possibilità di “sfogliare” libri preziosi, i “libri umani”. Nato in Danimarca negli anni Ottanta, il progetto “Biblioteca vivente” rappresenta uno scambio innovativo che promuove il dialogo, abbatte stereotipi e pregiudizi. È riconosciuta dal Consiglio d’Europa come buona prassi per il dialogo interculturale e come strumento di promozione dei diritti umani. Le categorie non esistono, esistono solo le persone con le loro storie personali, le loro scelte e i motivi che le hanno determinate. Grazie alla Biblioteca vivente i “lettori” possono entrare in contatto con persone che nella quotidianità non avrebbero conosciuto. Reggio Calabria. “Seconda Chance” centra l’obiettivo: assunto il primo detenuto in Calabria citynow.it, 5 maggio 2023 Anche nella nostra regione Seconda Chance ha realizzato il proprio obiettivo grazie alla sensibilità di un noto imprenditore reggino. Ha preso servizio nella mattinata di ieri il primo detenuto che ha trovato lavoro in Calabria grazie all’associazione Seconda Chance e soprattutto grazie alla sensibilità e disponibilità del noto imprenditore reggino Carmelo Basile. Il titolare dell’importante e prestigiosa azienda Fattoria della Piana non si è fatto sfuggire l’occasione e ha subito accolto l’invito offerto dalla giornalista di La7 Flavia Filippi, ideatrice del progetto Seconda Chance. L’idea, che ha già ottenuto parecchie adesione al nord e al centro Italia, coinvolge ed appassiona adesso anche diversi imprenditori del Meridione. Il progetto di Flavia Filippi intende far applicare la legge Smuraglia, offrendo ingenti sgravi fiscali e contributivi a chi assume, anche part time a detenuti in articolo 21, cioè ammessi al lavoro esterno. “All’inizio ero molto perplesso - esordisce ai nostri microfoni l’imprenditore Basile - Ero restio ma poi ci ho pensato parecchio e ho deciso di approfondire meglio interessandomi al virtuoso progetto. Quando siamo andati in carcere dentro l’istituto di Laureana di Borrello per i colloqui ho trovato persone positive che avevano compreso i propri errori e che cercavano solo qualcuno che gli potesse dare una seconda occasione”. E così dopo diversi colloqui, Carmelo Basile ha identificato una persona che poteva fare al caso suo. “Una seconda chance spetta a tutti - dichiara Basile - È una persona determinata e l’ho capito subito. Oggi è un giorno importantissimo per la sua vita e anche per la nostra azienda. È il primo giorno di lavoro per lui, ex sportivo, persona dalle grandi doti caratteriali con tanta fame e voglia di riscatto”. Infine un messaggio rivolto ai colleghi imprenditori. “Spesso ci lamentiamo per la mancanza di manodopera e per la difficoltà nel reperire personale. Ai miei colleghi dico di sfruttare questa possibilità data dal progetto Seconda Chance. Andate a fare un colloquio e andate a conoscere queste persone, smettiamola di nasconderci dietro le nostre paure. È un’opportunità per loro di rinascita ma è una occasione anche per noi. Sono sicuro che valuterò altri nuovi ‘acquisti’“. Firenze. Detenuti e lavoro, parte l’iniziativa. Al via i corsi di formazione di Fabrizio Morviducci La Nazione, 5 maggio 2023 Corsi di avviamento al lavoro per i detenuti del Gozzini. Una iniziativa organizzata da Aspri, l’Associazione pelle recuperata italiana, nata a Scandicci nel 2019. Il prossimo 25 maggio con una cerimonia formale verrà inaugurata l’edizione 2023 del progetto, alla presenza del direttore della struttura, Vincenzo Tedeschi e della presidente di Aspri, l’imprenditrice Simona Innocenti. “Grazie al recupero della pelle (materia prima seconda) - ha detto Simona Innocenti - riusciamo a fare molte attività di interesse pubblico. L’iniziativa al Gozzini segue il primo corso di formazione interno al carcere di Sollicciano completato anche grazie anche al contributo della stessa regione Toscana”. Grazie all’attività formativa, vengono attivati tirocini extracurriculari di detenuti in art. 21 che possono uscire e rientrare dalla struttura, in modo da potenziare la loro formazione. “Grazie alle nostre aziende socie - ha aggiunto Simona Innocenti - tutte etiche e tutte italiane, diamo una seconda possibilità a tutti nella speranza di rafforzare l’integrazione. All’interno del Gozzini abbiamo realizzato un laboratorio permanente con strumenti di pelletteria grazie anche alla determinazione del direttore Vincenzo Tedeschi. Formeremo alcuni ragazzi detenuti e rilasceremo loro un attestato di competenze di mansioni addetto al banco pellettiero”. Al termine delle selezioni saranno in otto i detenuti che partiranno con il corso di formazione, per tutti loro la possibilità di cambiare vita, imparando un mestiere che in questo momento offre garanzie lavorative praticamente certe vista l’alta richiesta di personale formato. Bologna. Domenica appuntamento ecologico con Seconda Chance e Plastic Free di Marco Tarozzi Corriere dello Sport, 5 maggio 2023 Insieme ai volontari, quindici detenuti del carcere della Dozza libereranno via Fioravanti dai rifiuti. Lo sport è un patchwork di volti, storie, passioni ed emozioni. Ricerca del limite nelle sue espressioni più alte, ma anche potente strumento di aggregazione e spesso occasione di riscatto sociale. Lo sport, insomma, assomiglia alla vita, viaggia tra alti e bassi, cadute e rinascite. Ecco perché quello che accadrà domenica prossima, 7 maggio, al quartiere Bolognina richiama lo stesso tipo di buone vibrazioni di un evento sportivo. Intanto, si “gioca” all’aperto; soprattutto, gli attori principali dell’evento faranno qualcosa di unico, perché la possibilità di uscire tra la gente non l’hanno tutti i giorni. “In campo”, questa volta, ci sono quindici detenuti della Casa Circondariale “D’Amato”, più semplicemente nota ai bolognesi come “carcere della Dozza”. Un luogo dove, nella stretta osservanza delle regole necessarie in un contesto sociale di riabilitazione e reinserimento, l’attenzione ai valori delle attività sportive e al movimento è sempre stata alta. Nel caso dell’evento di domenica, il “campo” è all’aperto, e ci gioca un ruolo di primo piano Seconda Chance, associazione non profit del Terzo Settore pensata dalla giornalista Flavia Filippi, costituita nel luglio 2022 per offrire occasioni di riscatto e rinascita sociale a chi ha pagato i suoi debiti con la giustizia. I quindici detenuti prescelti saranno impegnati in una “giornata ecologica” insieme ai volontari di Plastic Free, associazione ambientalista creata e guidata da Lorenzo Zitignani: coordinato da Angelica Pantarelli, il gruppo si riunirà alle nove del mattino in piazza Lucio Dalla, per poi dedicarsi alla “ripulitura” di via Fioravanti, alla Bolognina. Tutti i rifiuti, raccolti e accatastati da questa squadra speciale, saranno poi definitivamente rimossi dagli operatori del Comune, mentre detenuti e volontari si trasferiranno nelle strutture dell’associazione Casa di Corticella, che da tempo collabora con l’istituto circondariale e in questa occasione offrirà il pranzo a tutti. Riscatto. Seconda Chance è il frutto del lavoro portato avanti da Flavia Filippi insieme alla documentarista Alessandra Ventimiglia Pieri e all’imprenditrice Beatrice Busi Deriu. In meno di un anno ha procurato oltre centocinquanta opportunità di lavoro per detenuti, ex detenuti e loro familiari, diffondendo la conoscenza della Legge Smuraglia (la 193/2000) che offre sgravi fiscali e contributivi a chi intende assumere, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Soprattutto, abbattendo un muro di scetticismo e sfiducia verso chi cerca un’occasione di rinascita. Niente plastica. E poi, naturalmente, c’è Plastic Free, con cui è nata una proficua collaborazione che porterà il messaggio non soltanto a Bologna, coinvolgendo anche i detenuti delle carceri di Frosinone e di tre istituti calabresi, Palmi, Locri e Lauerana di Borrello, che bonificheranno la spiaggia della Tonnara di Palmi. C’è un precedente: nello scorso dicembre, quelli del carcere di Frosinone hanno risistemato la spiaggia di Sabaudia, insieme ai volontari dell’associazione nata nel 2019 dall’idea di Zitignani, oggi direttore generale, con lo scopo di informare e sensibilizzare sulla pericolosità dell’inquinamento da plastica, sempre più impattante sull’ambiente (oltre 12 milioni di tonnellate finiscono ogni anno in natura). Nata come realtà digitale, Plastic Free oggi conta già oltre mille referenti in Italia, e si impegna in progetti quali appuntamenti di clean up, proprio come quello di domenica in Bolognina, salvataggio di razze animali in via di estinzione, campagne di sensibilizzazione nelle scuole, contando su valori semplici come l’impegno concreto delle persone, delle realtà imprenditoriali e delle istituzioni sul territorio. Valori. Tutto questo non sarebbe possibile se il muro dietro il quale i detenuti sistemano i loro conti con la giustizia fosse troppo alto. Invece, alla “Rocco D’Amato” c’è grande sensibilità anche per quanto riguarda i valori che lo sport può trasmettere. All’interno della struttura diretta da Rosa Alba Casella è nato, già dalla stagione 2019-20, il progetto “Giallo Dozza”, portato avanti insieme al Bologna Rugby Club: un team dedicato alla palla ovale che coinvolge una quarantina di detenuti, che disputa il campionato di Serie C disputando tutti gli incontri all’interno della struttura penitenziaria. Carlo Castagnola ha avuto l’intuizione per il nome della squadra: il cartellino giallo del rugby comporta uno stop temporaneo per chi commette fallo, ed è una perfetta metafora della condizione dei detenuti e del valore rieducativo che deve essere alla base di qualunque pena. Sottorete. Anche dalla collaborazione con la Uisp provinciale è nato un magnifico progetto che coinvolge le detenute: il team “Mani & Fuori”, nato dall’idea di una tesi di laurea che ha vinto un bando Carisbo, si è orientato sulla pallavolo femminile. Ad oggi non partecipa ancora a campionati, ma organizza tornei interni a cui hanno preso e prenderanno parte diverse formazioni del territorio. Il prossimo è in cartellone proprio nei mesi di maggio e giugno, e la prima partita andrà in scena il 13 maggio. Esattamente pochi giorni dopo la rinascita di via Fioravanti, che tornerà a brillare grazie all’impegno di Seconda Chance e Plastic Free. Torino. L’abbraccio di Repole ai minori detenuti di Marina Lomunno Avvenire, 5 maggio 2023 L’arcivescovo di Torino tra i ragazzi del Ferrante Aporti: “Specchio di una società nichilista che non offre prospettive”. “Mi può benedire questa mano? Mi sono fatto male, sto passando un brutto periodo”. Omar (nome di fantasia), 17 anni, è uno dei 46 giovani detenuti all’Istituto penale minorile maschile “Ferrante Aporti” di Torino. Per la maggior parte stranieri, alcuni sono figli di immigrati di seconda generazione. Altri sono giunti con i barconi sulle coste italiane, soli e facile preda dell’illegalità. La richiesta, in un italiano stentato, è rivolta all’arcivescovo Roberto Repole che chiede al ragazzo come si chiama e da dove viene. Lo abbraccia e lo incoraggia a non mollare, ad utilizzare bene il tempo della pena con lo studio e le opportunità di formazione offerte dall’Istituto. Lo benedice tra la commozione dei compagni: una benedizione estesa anche agli operatori che ogni giorno si dedicano con la scuola, i laboratori e lo sport al riscatto di questi giovani “nati nelle culle sbagliate”. È uno dei tanti momenti toccanti della prima e attesa visita di Repole - che in questi giorni festeggia un anno dal suo ingresso in diocesi - nel carcere minorile. Accolto ieri dalla direttrice Simona Vernaglione e dal cappellano, il salesiano don Silvano Oni, l’arcivescovo è subito stato accompagnato alla targa che ricorda come tra quelle mura, nel 1855, san Giovanni Bosco, ebbe una grande intuizione. Durante le sue visite alla “Cascina Generala” (luogo dove aveva sede l’allora riformatorio per minorenni) elaborò il “sistema preventivo”, pilastro dell’impianto educativo del santo dei giovani. Don Bosco intuì che se ci fosse stata una famiglia solida, una comunità accogliente e una scuola con adulti significativi, non ci sarebbero state le carceri. E durante le giornate trascorse al riformatorio con i “giovanetti discoli e pericolanti” escogitò soluzioni per prevenire lo sbando in cui versavano migliaia di adolescenti delle periferie, esattamente come accade oggi. Per questo è tradizione che i cappellani del “Ferrante” siano salesiani. Lo ha spiegato don Oni, successore del confratello don Domenico Ricca, in pensione dallo scorso anno dopo averne trascorsi oltre 40 di servizio, esteso anche ad alcuni novizi salesiani che ogni settimana “si fanno le ossa in questo oratorio dietro le sbarre”. Prima dell’incontro con i minori nelle aule studio dove abitualmente seguono lezioni di lingua, informatica, corsi professionali di cucina, ceramica e grafica, la direttrice con i suoi collaboratori ha spiegato all’arcivescovo che attualmente l’Istituto è a capienza massima. Ci sono giovani “che stanno scontando pene per reati contro il patrimonio aggravati da episodi di violenza. Un dato preoccupante è l’aumento dei reati contro la persona, con episodi di rabbia ingiustificata anche di gruppo, cui segue un distacco empatico da ciò che si è commesso: uno squarcio desolante sul futuro delle nuove generazioni”. I ragazzi detenuti al “Ferrante” non sono che la punta dell’iceberg dei ragazzi “fuori” che come ha evidenziato Repole, “sono lo specchio di una società nichilista che non offre prospettive e valori ai giovani”. Ringraziando tutto il personale - insegnanti, agenti, psicologi, educatori ed obiettori - per la passione educativa con cui si impegnano per costruire un futuro migliore affinché i ragazzi non tornino a delinquere, il presule ha richiamato l’urgenza di una alleanza educativa di tutte le forze in campo. Tra queste, la comunità cristiana, “per riempire di senso la vita dei nostri giovani, in modi diversi tutti fragili”. Nell’aula di italiano c’è un ragazzo che mostra all’arcivescovo una foto che ha appeso al muro del Papa. “Lei lo conosce? Lo saluti, gli voglio bene”. L’insegnante consegna a Repole una lettera che Francesco ha inviato nei giorni scorsi ai ragazzi in risposta ad un loro scritto accompagnato dalle foto del presepe “multiculturale” che hanno allestito a Natale. Accanto alla grotta con Gesù bambino, un barcone di giovani migranti con i soccorritori della Croce Rossa che li hanno accolti. Il Papa: “Grazie per aver voluto condividere con me la vostra esperienza, che mi ha commosso. Quello che avete realizzato è un grande segno di speranza… Siate sempre ‘fratelli tutti’ e non perdete mai il sorriso!”. Torino. Battesimi in carcere, vince la speranza di Marina Lomunno vocetempo.it, 5 maggio 2023 Lorusso e Cutugno. Nel penitenziario torinese la celebrazione per due detenuti seguiti dai cappellani. Il tempo della pena trascorso dietro le sbarre può essere l’occasione per riscoprire le domande di senso che da sempre interrogano l’uomo quando è obbligato a rientrare in sé stesso, è ferito da una colpa, da un lutto, da un distacco dagli affetti. Capita che la perdita “forzata” della libertà per un reato commesso aiuti a riscoprire il senso religioso, il seme della fede ricevuto in dono da bambini, un germoglio che poi la gramigna e i rovi della vita hanno soffocato. Ma, come insegna la parabola del figliol prodigo, c’è sempre tempo per ritornare sui propri passi, per voltare pagina, per chiedere perdono: c’è un Padre che ci aspetta sempre per fare festa per il figlio o la figlia perduti e ritrovati. Così accade nel penitenziario torinese “Lorusso e Cutugno”, come racconta fr. Silvio Grosso che, con i confratelli della Fraternità San Giovanni Battista dei Monaci Apostolici diocesani, fr. Guido Bolgiani Cambiano e fr. Jean Marcel Tefnin condivide la cappellania carceraria insieme al diacono Michele Burzio. I tre religiosi, a cui è affidata la cura pastorale della chiesa di Santa Giovanna Francesca di Chantal, dal 2016 proseguono dietro le sbarre il servizio pastorale che la Fraternità, esperienza di vita religiosa cittadina nata a Torino alla metà degli anni Novanta, offre alle comunità parrocchiali della diocesi. E nella mattinata di sabato 22 aprile, nella cappella del penitenziario sono stati celebrati due battesimi - “i primi da quando siamo cappellani e una cresima di tre giovani detenuti di origine africana che hanno iniziato il cammino di catecumenato un anno e mezzo fa”, precisa il cappellano. La celebrazione, a cui erano presenti, commossi, i compagni reclusi che solitamente partecipano alla Messa ogni domenica, è stata animata dagli scout “un servizio di animazione delle Messe festive avviato nel 2021 su proposta del gruppo Agesci Torino 24 che fa capo all’oratorio Salesiano della Crocetta - dove nella parrocchia è anche attivo un gruppo di volontari carcerari - e che nel tempo ha coinvolto giovani scout di altri gruppi”. I ristretti che percorrono le tappe dell’iniziazione cristiana - altri quattro verranno cresimati sabato 10 giugno e due hanno chiesto di iniziare il catecumenato - sono seguiti in incontri settimanali da quattro catechisti, di cui due della parrocchia della Crocetta: Paola Gaffuri, Benedetta Peyron, Giuseppe Bordello e suor Rose Wangui, cottolenghina. “La domenica di Pasqua”, prosegue fr. Grosso, “abbiamo celebrato il battesimo nella chiesa di S. Giovanna Francesca di Chantal di un terzo catecumeno che sta scontando la pena in regime di semilibertà e che ha condiviso il percorso di catechesi con i compagni battezzati in carcere: è stato un momento forte per tutta la nostra comunità cristiana che ha accolto questo fratello nella famiglia della diocesi”. Come per i battesimi in carcere, i ristretti hanno scelto come madrine le loro catechiste. Per i cresimandi, spesso vengono scelti i compagni di sezione “per il legame affettivo che si crea nella condivisione di un cammino di fede, di ricerca di senso in un ambiente che, come quello del carcere scandito da una di rigida routine e di giornate tutte uguali spesso appiattisce ed opprime”, rileva fr. Silvio. Per questo nell’Eucarestia settimanale nel silenzio della preghiera, nell’ascolto delle Scritture i detenuti ritrovano l’eco di una Parola ascoltata da bambini e che ora li interpella”. Molte persone in carcere riprendono o iniziano a leggere la Bibbia e “per molti di loro il confronto con la Parola diventa un cammino di revisione personale e di condivisione del proprio rapporto con Dio anche nel confronto con i compagni islamici, ortodossi, evangelici…”. Anche in carcere - che grazie ai tanti volontari e catechisti è come una parrocchia della diocesi - il Vangelo è Parola di salvezza e ancor più che “fuori” conclude il cappellano: “è Parola di misericordia, denuncia, provocazione e profezia delle tante criticità che affliggono il sistema carcerario e contraddicono le intenzioni di offrire un sostegno ad un percorso di riscatto sancito dalla Costituzione ma ancora di più, dal senso di umanità e fraternità che ci lega gli uni agli altri e che deve suscitare in tutti noi un senso di preoccupazione e responsabilità per il destino di quanti compiono un reato e di quanti lo subiscono”. La Spezia. “Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada”, detenuti e studenti in scena cittadellaspezia.com, 5 maggio 2023 Spettacolo teatrale nell’ambito del progetto “per aspera ad astra”. Si terrà sabato 6 e domenica 7 maggio al Dialma Ruggero, lo spettacolo teatrale “Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada”, che vedrà in scena gli attori detenuti della Casa Circondariale della Spezia e un gruppo di studenti delle scuole superiori che partecipano al laboratorio “No Recess! Niente Intervallo”, con la direzione artistica di Scarti - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione. L’opera è l’esito finale della quinta annualità del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso su tutto il territorio nazionale da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria tra cui Fondazione Carispezia. Un progetto che sta realizzando in 15 carceri italiane innovativi e duraturi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Ispirata all’esperienza ultratrentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo, questa iniziativa ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento, testimoniando come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Per la prima volta “Per Aspera ad Astra” vede l’incontro tra un gruppo di detenuti e un gruppo di studenti delle scuole superiori del territorio spezzino, partecipanti al laboratorio “No Recess!” guidato dagli Scarti stessi: oltre 60 persone, con diverse età e percorsi di vita, si mescoleranno alla pari nell’azione scenica per dare vita allo spettacolo “Dirimpetto”. Sulla lunga via Fontevivo, alla Spezia, si affacciano due edifici a pochissima distanza l’uno dall’altro dove vivono due distinti gruppi di persone: studenti in uno e detenuti nell’altro. I due edifici si guardano da anni e le persone che li vivono e che li abitano non sanno chi c’è dall’altra parte o, forse, possono solo immaginare chi sono i loro dirimpettai. L’idea dello spettacolo “Dirimpetto” nasce quindi dalla volontà di fare incontrare e interagire questi due gruppi di persone in un campo libero: il campo del teatro. Nelle due giornate del 6 e 7 maggio sono previste due repliche giornaliere dello spettacolo: alle 18.30 e alle 21.15. L’iniziativa prevede inoltre un incontro, aperto a tutti, sul tema “Teatro-Carcere- Comunità” - in programma domenica 7 maggio, dalle ore 11.30 alle 12.45, sempre al Dialma - che intende proporre una riflessione sul rapporto tra teatro, territorio e inclusione sociale, sui numerosi progetti presenti su tutto il territorio nazionale e sulla relazione che esiste tra l’utilità sociale di queste esperienze e la qualità e la forza artistica in esse espresse. La riflessione, coordinata da Andrea Cerri e Renato Bandoli di Scarti, sarà animata dai contributi e dagli interventi dei protagonisti dello spettacolo “Dirimpetto”, dal regista Enrico Casale, direttore artistico del percorso “Per Aspera ad Astra” alla Spezia, e da alcuni ospiti - giornalisti, critici, professori universitari, operatori teatrali - che da anni si occupano di queste tematiche a livello nazionale. Tra gli ospiti: Cristina Valenti, docente in Discipline dello Spettacolo presso l’Università di Bologna e presidente dell’Associazione Scenario, Alessandro Cannavò, caporedattore del Corriere della Sera, l’attrice Micaela Casalboni, co-direttrice artistica della Compagnia Teatro dell’Argine, Giuseppe Di Lorenzo, blogger e critico teatrale. L’incontro sarà preceduto dalla visione del documentario “Tutto quel che sono - Un percorso teatrale nel carcere della Spezia” di Rocco Malfanti, testimonianza del percorso svolto nell’ambito della quarta annualità di “Per Aspera ad Astra”. Biglietti spettacolo. Intero: 5 euro. Gratuito per studenti e familiari dei detenuti. Per info e prenotazioni: tel. 333 2489192, anche su WhatsApp. La società dei consumi e quel male oscuro chiamato isolamento che soffoca i più fragili di Massimo Recalcati La Stampa, 5 maggio 2023 La società dei consumi spinge alla mortificazione della vita. È la prigione-rifugio degli anziani e dei giovani ai margini. Sappiamo che esiste una forza e una poesia nella solitudine. Sappiamo che senza la “capacità di restare solo”, come si esprimeva un grande psicoanalista come Winnicott, non si dà alcuna possibilità di generare legami sociali fecondi. Sappiamo anche che nella solitudine l’Altro resta sempre presente, pur nella forma dell’assenza. È la solitudine che spesso accompagna la sublimazione artistica o quella spirituale che, come tali, sono esperienze altamente creative. Totalmente diversa appare invece la fisionomia dell’isolamento. Qui non c’è alcuna forza né alcuna poesia. Qui non c’è più nessun Altro, se non la spinta al suo azzeramento. Qui non c’è all’orizzonte alcuna esperienza creativa ma solo una mortificazione della vita. L’isolamento annienta, infatti, la dimensione sociale della nostra esistenza. Mentre la solitudine può scaturire da una scelta vitale, l’isolamento appare piuttosto come una condizione subita, l’esito di una impossibilità di scegliere, di un naufragio, di una derelizione dell’esistenza. Nel nostro tempo l’isolamento è divenuto una vera e propria piaga sociale. Questo significa che la nostra condizione di vita che appare così più esposta agli stimoli e ai contatti sociali rispetto al passato, rischia di essere solo apparenza. In una società dove la vita media si è straordinariamente allungata, l’aumento della popolazione anziana si associa molto frequentemente al ritiro dai legami sociali, dalla comunità, dalla vita. Dato che si potenzia ulteriormente se lo si associa alle condizioni di precarietà economica e di fragilità soggettiva che spesso accompagna la vita dei nostri anziani. Con l’aggiunta tragica che l’aggressività darwinana del Covid li ha colpiti con particolare virulenza decimandoli letteralmente, esasperando la loro condizione di abbandono. Ma non sono solo gli anziani a sperimentare il laccio mortale dell’isolamento. Il circo della società dello spettacolo e dei consumi, dell’individualismo e del profitto, tende ad isolare tutti coloro che non sono in grado di sostenere un livello adeguato di prestazione. L’isolamento diventa allora una sorta di prigione-rifugio che ripara dalle ferite e dalle umiliazioni imposte da una vita sociale concepita come una gara senza esclusione di colpi. Non a caso sono moltissimi i giovani che rinunciano alla loro libertà per appartarsi, per uscire fuori dalla giostra infernale di una vita obbligata a vincere. La terribile esperienza della pandemia ha esasperato questa tendenza che era però già presente in tutto l’Occidente. L’isolamento non colpisce solo anziani e giovani ai margini del ciclo produttivo, ma anche coloro che appaiono come dei suoi protagonisti. È, per esempio, l’isolamento di chi vive strenuamente impegnato nel proprio lavoro, ma che non è più in grado di coltivare legami generativi di nessun tipo. È l’isolamento di molti - uomini e donne - , che avendo consacrato la loro vita alla propria professione si accorgono di avere fatto terra bruciata attorno a se stessi. In questo senso si tratta di una piaga sociale che riflette l’altra faccia del discorso del capitalista. È l’ombra spessa che incalza l’apparente euforia permanente a cui sembra obbligarci la civiltà ipermoderna. Essa può trovare un suo paradigma clinico nella figura inquietante degli accumulatori compulsivi (secondo il Dsm “disturbo da accumulo”) che riempiono le proprie abitazioni di oggetti di ogni genere, privi di qualunque utilità e accatastati alla rinfusa. Si tratta di oggetti morti, spogliati di qualunque finalità, di oggetti devitalizzati che hanno il solo scopo di riempire un vuoto inestinguibile. Ma, in realtà, questo riempimento non sottrae affatto la vita dal suo isolamento, bensì lo accresce ulteriormente. È la triste verità che accompagna, in generale, la cosiddetta società dei consumi. Le cose hanno preso il posto delle persone, ma la loro presenza in eccesso anziché costruire legami li disfa rendendoli impossibili come diventa impossibile muoversi nei corridoi e nelle stanze delle case stracolme di oggetti morti accumulati dai soggetti affetti da disturbo di accumulo. È lo stesso che accade, per citare un’altra figura clinica tipica dell’isolamento ipermoderno, nell’iperconnessione tecnologica. L’ideale positivo della connessione sistemica si capovolge qui in una disconnessione drammatica e silenziosa raggiunta proprio come esito paradossale di una iperconnessione illimitata, senza pause, senza tregue. L’isolamento è probabilmente destinato a diventare, se non lo è già, la cifra antropologica più inquietante della civiltà ipermoderna. La moltiplicazione illimitata dei “contatti” e l’espansione della tecnologia che li rende possibili, mascherano il reale scabroso di questa nuova condizione di vita. Migranti. Dl Cutro, Sì della Camera alla stretta sulla protezione di Leo Lancari Il Manifesto, 5 maggio 2023 Con 179 voti a favore, 111 contrari e 3 astensioni ieri la Camera ha definitivamente approvato il decreto Cutro che prevede il taglio della protezione speciale, l’aumento dei centri per il rimpatrio con relativi tempi di detenzione e restringe l’accesso dei richiedenti asilo nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Un giro di vite fortemente voluto dalla Lega e salutato al termine del voto con un applauso dai banchi del centrodestra. Il provvedimento verrà però subito corretto. Il governo ha infatti approvato un ordine del giorno che lo impegna a intervenire per rimettere mano all’articolo 7 ter, introdotto al Senato, che rischia di creare problemi interpretativi che potrebbero precludere eventuali ricorsi contro le decisioni di inammissibilità delle domande di protezione internazionale. Il problema era stato segnalato dal deputato di +Europa Riccardo Magi e successivamente messo in evidenza anche dal Comitato per la legislazione della camera. Il testo impegna il governo a “valutare gli effetti applicativi della disposizione” in questione “allo scopo di adottare, in tempi rapidi, le opportune iniziative normative”. Sempre il governo ha invece detto no a un altro ordine del giorno con cui il deputato Pd-Idp Arturo Scotto chiedeva di sopprimere il termine “razza” dai documenti della pubblica amministrazione. “Attorno alla parola razza si sono consumati i peggiori incubi della specie umana: le guerre. i genocidi, i campi di sterminio, le pulizie etniche, le leggi razziali, l’apartheid. Una scelta incomprensibile e grave da parte della destra”, è stato il commento di Scotto. La soddisfazione della Lega, che con il decreto Cutro considera reintrodotti i decreti sicurezza varati in passato da Matteo Salvini, risulta evidente dalle parole del sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, per il quale le nove norme cancellano “la riforma fallimentare della sinistra del 2020”, quando a guidare il Viminale c’era la ministra Luciana Lamorgese. Molto diversi i toni usati dai deputati delle opposizioni. “Non posso nascondere l’amarezza e l’indignazione del Pd per un decreto come questo: vergognoso, ipocrita, demagogico e vigliacco”, si è sfogato il dem Matteo Mauri. “Si tratta di semplice propaganda giocata sulla pelle di chi vive il dramma della emigrazione forzata”. Gli ha fatto eco Nicola Fratoianni di dell’Alleanza verdi Sinistra: “La verità - ha detto - è che questo governo è al lavoro sistematicamente per colpire le cose che funzionano. Il vostro obiettivo è chiaro - ha proseguito Fratoianni -: continuare a costruire l’emergenza, renderla permanente, alimentarla per legittimare la vostra narrazione tossica”. Per Riccardo Magi (+Europa), “leggendo il testo sembra che sia stato scritto da un’intelligenza artificiale al quale è stata tenuta nascosta a Costituzione”. Commenti critici anche da associazioni e sindacati. Per Ero straniero, cartello che riunisce decine di organizzazioni, il decreto Cutro è un “provvedimento inadeguato, disumano, illegittimo che renderà più difficile la vita delle persone straniere nel nostro paese”. In una nota la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti, il decreto “rappresenta uno schiaffo in faccia il senso di umanità e a tutti i parenti dei 94 morti a Steccato di Cutro e a tutte le vittime dei numerosi naufragi di queste settimane nel mar mediterraneo”. Sudan un’altra strage dimenticata, di chi è la colpa? di Federico Rampini Corriere della Sera, 5 maggio 2023 Dopo l’evacuazione (con successo) di quasi tutti gli italiani e gli altri occidentali dal Sudan, abbiamo già declassato la gravità di quello che sta succedendo nel Paese? Ma quali sono le nostre responsabilità? Perché non interveniamo a fermare la violenza? Avendo evacuato con successo quasi tutti gli italiani e gli altri occidentali dal Sudan, abbiamo declassato la gravità di ciò che accade in quel paese africano? È un’altra “strage dimenticata”? In realtà l’emergenza Sudan è in prima pagina sul New York Times, analisi e commenti si moltiplicano, e hanno un elemento in comune: è scattato il processo a noi stessi. Se c’è una strage in corso in un paese africano, dove sono gli Stati Uniti, dov’è l’Occidente? Quali sono le nostre responsabilità? Perché non interveniamo a fermare la violenza? Comincio dalle fonti di casa nostra e riporto qui un appello lanciato da Amnesty International / Italia, che contiene una sintesi della situazione attuale: “Gli scontri tra le forze armate fedeli al capo di stato di fatto del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare denominato Forze di supporto rapido, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, hanno finora provocato oltre mezzo migliaio di morti e quasi cinquemila feriti. L’irresponsabile condotta militare delle due parti in conflitto, basata su pesanti attacchi contro i centri abitati, sta flagellando la popolazione civile della capitale Khartoum. Si registrano imponenti flussi di sfollati provenienti dal Sudan e diretti oltreconfine. Nel frattempo, sono ripresi gli scontri anche nella regione del Darfur, dov’erano iniziati nel 2003: coloro che si scontrano oggi per il controllo del potere sono gli stessi che per 20 anni hanno commesso crimini di diritto internazionale contro la popolazione darfuriana, provocando almeno 300.000 morti e la fuga di tre milioni di persone. La persistente impunità e l’incapacità di garantire un corretto accertamento di responsabilità nei confronti di coloro che sono sospettati di aver commesso crimini di guerra, oggi in una posizione di leadership in Darfur, stanno contribuendo alle violenze ora in corso in Sudan. Le testimonianze che ci arrivano dal posto sono terrificanti. Continuiamo ad appellarci alla comunità internazionale affinché non volti nuovamente le spalle al Sudan e non ripeta quanto accaduto nel 2019, quando una sollevazione popolare pose fine al regime di terrore di Omar al-Bashir, ma la popolazione sudanese venne poi di fatto lasciata sola. Le persone sono nuovamente in fuga, vittime di un conflitto tra forze di potere che lottano tra loro per il controllo del paese. È evidente che i civili ne subiscano le conseguenze senza un’adeguata protezione e assistenza. Tale atteggiamento è inaccettabile pretendiamo che le parti in conflitto garantiscano la protezione dei civili e permettano l’accesso agli aiuti umanitari per tutti coloro che ne hanno bisogno. Stiamo assistendo ad un vero e proprio omicidio dell’umanità. Quanto sta accadendo in Sudan rappresenta anche il fallimento dell’impegno della comunità internazionale a collaborare alla giustizia internazionale. Infatti, la Corte Penale internazionale ha emesso sette mandati di cattura, quasi 15 anni, fa nei confronti dell’ex presidente al-Bashir e di altri esponenti dell’esercito e dei paramilitari, ma solo uno di essi è stato eseguito. Lo stesso al-Bashir, il principale sospettato, è ancora in fuga e addirittura libero nel suo paese”. L’appello accorato che lancia la sezione italiana di Amnesty International è giusto in tutto, salvo che nella conclusione. Il presunto “fallimento della comunità internazionale a collaborare con la giustizia internazionale” sarebbe dimostrato dal fatto che l’ex dittatore sanguinario al-Bashir non è stato catturato e consegnato alla Corte penale internazionale. Questo però avviene perché, come nota Amnesty, al-Bashir è “libero all’interno del suo paese”. Dovremmo mandare una forza di spedizione militare per catturarlo, all’interno di un paese dove gode di complicità e protezioni? Magari una forza di occupazione che ristabilisca pace ordine e sicurezza a vantaggio della popolazione stremata? Formata da quali paesi, con quale missione precisa, per quale durata? Salvo poi sentirci accusare di ingerenze neo-coloniali? Tornando al caso di al-Bashir, di questo passo dovremmo considerare un “fallimento della comunità internazionale” il fatto di non avere ancora catturato e consegnato alla Corte dell’Aia Vladimir Putin? Peraltro, quand’anche al-Bashir venisse effettivamente arrestato e processato, altri sono i generali che in questo momento tengono il Sudan nel terrore. Nell’impotenza a fermare guerre e guerre civili, affiora sempre i noi occidentali una sorta di “nostalgia imperiale”, inconscia e inconfessabile, il vago desiderio di un mondo dove tocca a noi riparare le ingiustizie, fermare le atrocità, proteggere i deboli e gli indifesi. Quel mondo in realtà non è mai esistito e men che mai esiste oggi quando i generali golpisti che tengono in ostaggio la popolazione del Sudan sanno rivolgersi di volta in volta alla Divisione Wagner russa, alla Cina, all’Egitto o all’Arabia saudita, se l’Occidente diventa un loro nemico. Quando queste tragedie fanno scattare il riflesso automatico dell’auto-colpevolizzazione, sotto sotto c’è una forma di euro-centrismo o americano-centrismo, un’illusione di onnipotenza, una sopravvalutazione di ciò che possiamo fare noi. Amnesty International è in buona compagnia visto che il più importante giornale americano fa la stessa cosa: imbastisce un processo all’America, che naturalmente deve essere colpevole se qualcosa va storto da qualche parte nel vasto mondo. Il New York Times sbatte il Sudan in prima pagina con questo titolo: “Come un piano Usa per la democrazia in Sudan si è concluso con una fuga frettolosa”. L’inchiesta che segue mescola dati di fatto innegabili con analisi e giudizi molto discutibili. Su tutto l’articolo pesa una evidente esagerazione del ruolo della diplomazia americana e di ciò che essa può fare nel Sudan in particolare, in Africa in generale. “Ancora poche settimane prima del golpe - esordisce il reportage del New York Times - i diplomatici americani pensavano che il Sudan fosse vicino a una svolta, un accordo che avrebbe accelerato la sua transizione dalla dittatura militare verso una democrazia piena, realizzando così la promessa della rivoluzione del 2019”. Il New York Times arriva a definire il Sudan come “un importante test per l’obiettivo centrale della politica estera di Joe Biden, quello di rafforzare le democrazie nel mondo intero… anche per consentire alle democrazie di resistere contro l’influenza di Cina, Russia, e altri potenze autoritarie”. Quest’ultima è un’affermazione azzardata, innalzare il Sudan al rango di un test per la politica estera di Biden è un’esagerazione, visto che in un’ordine gerarchico d’importanza l’Ucraina, Taiwan, il Golfo Persico, sono terreni prioritari per misurare lo stato della competizione fra superpotenze, ma anche la gara d’influenza rispettiva tra Washington Mosca Pechino su giganti come l’India o il Brasile o il Sudafrica attira più risorse ed energie diplomatiche. Comunque il reportage prosegue con la descrizione di una débacle: “Il 23 aprile, gli stessi diplomatici americani che erano stati coinvolti nei negoziati in Sudan si ritrovarono di colpo a chiudere l’ambasciata e ad evacuare Kartum nottetempo e in gran segreto, su elicotteri, mentre il paese sprofondava in una potenziale guerra civile”. La requisitoria sul fallimento della diplomazia americana si basa su questo: la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato avrebbero sbagliato a trattare con degli “uomini forti” - i due generali golpisti e rivali tra loro - che promettono democrazia e disattendono regolarmente gli impegni presi. L’America non avrebbe dato abbastanza spazio e risorse alla “società civile”, quella che scese in piazza nel 2019 per abbattere il regime di al-Bashir. È un film già visto: le Primavere Arabe furono l’occasione di illusioni analoghi, e poi scatenarono processi all’America e all’Occidente per ciò che avevamo fatto, oppure avevamo omesso di fare. Il mito di una società civile buona, virtuosa, liberaldemocratica, che regolarmente viene tradita e abbandonata da noi, è tenace. Resiste anche all’evidenza: per esempio quella stessa società civile in Egitto - paese confinante col Sudan e con alcuni problemi in comune - appena chiamata alle urne consegnò il potere ai Fratelli Musulmani, e la rivoluzione democratica si trasformò in rivoluzione islamista, calpestando molti diritti delle minoranze. Il Sudan è il luogo dove va in scena oggi la stessa illusione, lo stesso psicodramma, la stessa liturgia di auto-flagellazione per gli errori che avremmo commesso noi. Sempre rifiutando di accettare che “noi” contiamo meno di quanto crediamo - o forse vorremmo - e soprattutto ignorando che paesi come il Sudan hanno dei leader capaci di manovrare e manipolare le rivalità tra potenze, e lo stanno facendo in questi giorni con grande spregiudicatezza. Russia. Navalny: “Così Putin mi tortura, costretto ad ascoltare i suoi discorsi a tutto volume” di Anna Zafesova La Stampa, 5 maggio 2023 “Sono il campione di ascolto dei discorsi di Putin, mi addormento al suono della sua voce”. Dopo aver torturato Alexey Navalny con la fame, il freddo, la cella di punizione e l’abolizione delle visite, l’amministrazione del carcere dove è rinchiuso il leader dell’opposizione russa ha inventato un supplizio ideologico, costringendolo ad ascoltare a tutto volume il suo peggior nemico. Una “punizione creativa”, come la chiama il detenuto più famoso di Russia, che a lui ricorda “un libro di spie dove i prigionieri dovevano ascoltare a volume assordante le poesie di Mao Tsedong”. Più che un tentativo di rieducazione da rivoluzione culturale cinese, o da Arancia meccanica, questa innovazione nel regolamento carcerario della colonia penale numero 2 della regione di Vladimir sembra una tortura psicologica: le registrazioni con Putin vengono accese nella ora di “tempo personale” serale e durano fino al momento di coricarsi. Un nuovo dispetto che conferma quello che ieri ha ripetuto anche Evgeny Cichvarkin, l’imprenditore russo amico di Navalny costretto già anni fa all’esilio dal regime: l’oppositore incarcerato è “il detenuto personale di Putin”, e quello che gli viene fatto dietro le sbarre accade per ordine del Cremlino. Oltre alle vessazioni comuni a tutti i prigionieri di quello che resta ancora per tanti aspetti un “arcipelago Gulag” - come la denutrizione cronica per via di razioni troppo piccole e scadenti - per Navalny è stato inventato un programma di tormenti in un girone dell’inferno a lui dedicato. Le sue lettere vengono bruciate, i suoi pacchi viveri buttati, non riesce a ricevere cure mediche e soffre di dolori addominali che hanno fatto venire ai suoi familiari la paura di un nuovo, lento, avvelenamento. Da mesi ormai il politico non esce quasi dalla cella di punizione, alla quale viene condannato anche per la più piccola delle violazioni, come un bottone slacciato: si tratta di 15 giorni rinchiuso in un cubo di cemento gelido, dal quale il politico emerge dimagrito di 5-8 chili. Quando rientra nella sua cella abituale, Navalny si ritrova spesso in compagnia di un altro detenuto, che soffre di squilibri mentali e non si lava da settimane: “Avverto una giustizia nel fatto che la prigione equipari l’impatto dei discorsi di Putin a quello della puzza”, ironizza Navalny nel suo messaggio, consegnato agli avvocati e diffuso sui suoi social. Una situazione tragicomica, se non fosse che il dissidente si trova al centro di un Gulag dentro il Gulag, costruito appositamente per lui e dal quale chiaramente non dovrebbe più uscire, almeno nelle intenzioni del suo carceriere. Condannato a due anni e mezzo per una presunta violazione delle regole di libertà condizionata per una precedente condanna, già in carcere Navalny è stato processato e sentenziato a dieci anni per “truffa” e “offesa alla corte”, mentre ora è stato incriminato per “organizzazione comunità estremista” e altri reati che insieme dovrebbero fruttargli fino a 30 anni. Di recente però il politico ha comunicato che rischia l’ergastolo, quindi probabilmente alle imputazioni esistenti si sono aggiunte altre, presumibilmente quella di “terrorismo”, basata sul fatto che Daria Trepova, la giovane che ha portato la bomba che ha ucciso ad aprile il propagandista nazionalista Vladlen Tatarsky, fosse una seguace del movimento di Navalny. È evidente che per Putin Navalny non deve uscire più dal carcere. Nonostante il suo movimento sia stato messo fuori legge, e i suoi militanti siano in esilio, o in carcere, il suo solo nome è già un capo d’accusa: nei giorni scorsi un uomo è stato arrestato per aver postato sui social il programma dei “15 punti per chi vuole bene al proprio Paese”, in cui Navalny invita i suoi seguaci ad aiutare la vittoria dell’Ucraina e rovesciare il regime di Putin per costruire una Russia democratica e “non più imperiale”. La vicepresidente della Fondazione anticorruzione di Navalny, Anna Veduta, è appena finita al centro di polemiche per aver dichiarato di donare soldi all’esercito ucraino: il Cremlino ha appena introdotto l’ergastolo come pena massima per “aiuto al nemico”, ma anche nei ranghi degli oppositori non tutti approvano. Dopo un anno e mezzo, un fronte anti putiniano non è ancora nato, e anche alla recente conferenza che ha cercato di unire a Berlino i vari esponenti del dissenso i navalniani non si sono presentati. E Boris Zimin, il principale sponsor del movimento, ha proprio ieri annunciato di voler diminuire gradualmente il finanziamento alle donne e agli uomini di Navalny, per spingerli a “variare e cercare altre fonti”. Navalny resta comunque la figura più carismatica dell’opposizione russa, l’unico ad aver creato un movimento massiccio e ad aver dato voce e parole d’ordine a milioni di persone, soprattutto esterne ai salotti liberali di Mosca e Pietroburgo. Uno dei motivi per cui rimane il nemico pubblico numero uno, per Putin come per gli ufficiali penitenziari dei quali ha esposto - già dal carcere - le ruberie. Una condanna all’ergastolo lo sposterebbe in un carcere di massima sicurezza, dove l’accesso alle lettere e agli avvocati sarebbe limitato al minimo, “cancellando la sua presenza”, dice Cichvarkin. Soltanto la settimana scorsa 130 personalità della cultura - da J.K.Rowling a Benedict Cumberbatch - hanno firmato una lettera in cui chiedono a Putin di liberare il suo “prigioniero personale”. Ma è difficile che il Cremlino molli la preda: a questo punto, è uno scontro personale, come dimostra la tortura con la voce di Putin che deve avvelenare anche quei 60 minuti di tempo libero che la prigione concede a Navalny. Afghanistan. “La migliore arma contro i talebani? Sensibilizzare l’opinione pubblica” di Simona Buscaglia La Stampa, 5 maggio 2023 La prima guida turistica donna dell’Afghanistan, fuggita dal suo Paese con l’arrivo dei talebani, si racconta al Festival dei diritti umani di Milano. “Abbiamo tutti il diritto di vivere in libertà, e noi che oggi abbiamo questa fortuna, dobbiamo pensare a chi non ce l’ha, parlare e fare sensibilizzazione: questa è la migliore arma contro i talebani”. Oggi Fatima Haidari ha 24 anni e frequenta l’Università Bocconi di Milano ma prima della presa di Kabul da parte dei talebani nel 2021 era la prima guida turistica donna dell’Afghanistan e insieme a delle amiche aveva fondato un’organizzazione per l’emancipazione femminile della quale era coordinatrice. Una vita che in tutto e per tutto la metteva in pericolo davanti all’avanzata dei talebani: “Vivevo a Herat quando arrivarono, tutti mi dicevano di andarmene perché lì non ero più al sicuro, per proteggere chi amavo ho raggiunto Kabul, dormendo per un mese in un dormitorio - racconta Haidari nel suo intervento di apertura al Festival dei Diritti Umani, in programma dal 3 al 6 maggio presso il Memoriale della Shoah di Milano - Un giorno a mezzogiorno hanno bussato alla mia porta e mi hanno detto di andarmene perché i talebani erano arrivati anche lì e non potevano più proteggermi”. Quegli attimi saranno impressi nella sua memoria per sempre, tinti solo di terrore e dolore: “Ero scioccata e non sapevo cosa fare, in strada le persone urlavano, c’erano spari che venivano da tutte le parti, restavo in movimento senza una meta precisa, a volte piangevo ma poi mi facevo forza e mi dicevo che avrei trovato una soluzione”. All’orizzonte compare la possibilità di poter abbandonare il Paese: “Provo ad andare in aeroporto a mezzogiorno perché mi avevano detto che avrei preso l’aereo la sera ma io e altri non siamo riusciti a entrare per gli scontri in corso - prosegue l’attivista - Le persone che cadevano dagli aerei in partenza erano la metafora del mio paese che stava purtroppo crollando”. Alla fine, grazie a una persona che diceva di poter avvicinare i talebani e al pagamento di 300 dollari è riuscita a prendere un volo per l’Italia. Dal suo arrivo nel nostro Paese cerca di non far cadere il buio sulle vicende che interessano l’Afghanistan e soprattutto sulla condizione delle donne: “Le cose stavano lentamente cambiando in meglio, abbiamo lottato tanto come donne per assicurarci diritti basilari, come l’educazione, ma con l’arrivo dei talebani nel 2021 tutto è cambiato in una notte. Ci siamo svegliati una mattina sotto il suono dei proiettili e delle sirene dei talebani dopo 21 anni dalla loro cacciata. Le più fortunate, come me, sono riuscite a scappare, le donne rimaste là, invece, sono state allontanate dalle scuole, dalle università, dai bar: hanno il divieto di partecipare alla vita pubblica”. Quando parla della quotidianità delle donne nel suo Paese d’origine, Haidari usa le parole “sepolte nelle loro stesse case”. Ripensa spesso a tutte quelle battaglie che, prima del 2021, erano costate molto a tante giovani che si erano battute, anche a costo della vita, per la loro libertà: “Penso a Farkhunda, leader religiosa di 21 anni attaccata, lapidata e gettata in mezzo alla strada perché stava predicando; o ancora, una ragazza, anche più piccola di me, giustiziata dall’intero villaggio perché scappata con l’uomo che amava invece di sottostare al volere del padre di un matrimonio combinato con un uomo molto vecchio. Penso alle ragazze prese di mira e uccise mentre stavano andando a scuola o alle stesse scuole femminili bombardate”. Anche la vita di Haidari è cambiata: “Dieci anni fa ero una bambina che avrebbe voluto vivere la sua adolescenza come tutti. Ora ho più consapevolezza ma ho anche più dolore dentro di me. Questo mi differenzia dagli altri studenti. A volte è difficile essere lontana dalla famiglia e dagli amici, sempre con la preoccupazione di quello che può accadere loro”. Ma la studentessa afgana non perde la speranza: “Voglio pensare positivo: almeno da qui posso aiutare i miei genitori economicamente, studio in una buona università, organizzo ancora dei tour virtuali in Afghanistan, realizzo anche altri progetti come un canale YouTube per far vedere a tutti le bellezze dell’Italia. Le donne afgane sono coraggiose, istruite e combattono: spero che le cose possano cambiare un giorno”.