Una telefonata accorcia la detenzione di Valentino Maimone La Ragione, 4 maggio 2023 Seicento secondi. A ciascuno dei circa 55mila detenuti nelle carceri la legge impone che possa telefonare ai suoi cari una sola volta la settimana e per non più di dieci minuti. Come se non bastassero i penitenziari sovraffollati e fatiscenti, dove i suicidi si susseguono (84 nel solo 2022, un record), l’impossibilità di avere un contatto costante con gli affetti è l’ennesimo motivo di oppressione e angoscia per chi vive i suoi giorni in una cella. Con la pandemia si era deciso di rendere quotidiane le telefonate, ma ora - cessata l’emergenza - le carceri si apprestano a tornare al vecchio regime. Qualcuno però va in controtendenza: la neodirettrice della casa circondariale di Velletri (a un’ora di macchina da Roma) ha appena deciso di mantenere la possibilità per i detenuti di chiamare una volta al giorno, “preso atto che le più frequenti telefonate durante la pandemia hanno rasserenato gli animi e più che mai le famiglie”. Sulle orme di Velletri anche i penitenziari di Padova, Firenze e Trieste. “Per lo Stato dovevo mantenere gli affetti familiari dedicando ogni sette giorni 180 secondi a uno dei miei figli, 180 secondi all’altro, poi 120 secondi a mia madre e i restanti 120 a mia moglie”, racconta Angelo Massaro (21 anni in cella da innocente) nel docufilm “Peso morto” che ripercorre l’errore giudiziario di cui fu vittima. Lui ci è riuscito. Tutti gli altri, definitivi o in attesa di giudizio che siano, aspettano di vedere cancellato un obbligo privo di senso. Nelle carceri non c’è spazio per i diritti delle detenute di Luigi Mastrodonato L’Essenziale, 4 maggio 2023 Le donne sono appena il 4 per cento della popolazione carceraria italiana. Anche per questo il sistema penitenziario sembra ignorare i loro diritti e le loro necessità. Insieme a quelli dei loro figli. Quando nell’agosto scorso Marianna ha passato la prima notte nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Milano, ha dormito bene come non faceva da tempo. Avere di fianco sua figlia le ha trasmesso serenità, un sentimento che non era mai riuscita a provare nei sei mesi precedenti, mentre era in carcere da sola. Le giornate trascorrevano tutte uguali, senza niente da fare, nemmeno le attività di base previste per i detenuti, quasi esclusivamente riservate alla sezione maschile. Marianna, 42 anni, ha vissuto tutti i problemi che contraddistinguono la detenzione femminile in Italia: intrappolate in un sistema pensato al maschile, le donne finiscono per essere dimenticate in cella. L’Icam è riuscito ad attenuare queste criticità, ma solo in parte. “Qui si sta meglio, però non mancano i momenti di sconforto”, ammette. “Portare mia figlia in una struttura come questa non è stata una scelta facile”. Secondo i dati del ministero della giustizia, il 31 marzo 2023 le donne nelle carceri italiane erano 2.477. Poco più del 4 per cento del totale della popolazione detenuta, una quota da sempre molto bassa. Questa presenza minoritaria ma costante ha fatto sì che nel paese si sia imposto un sistema carcerario declinato al maschile nelle norme e nell’organizzazione, insensibile alle esigenze delle detenute. Fino al 1975, per esempio, le sezioni femminili erano affidate agli ordini religiosi, che portavano avanti forme di rieducazione moralizzanti e paternalistiche. Ancora nel 2008, il ministero della giustizia ammetteva “un’oggettiva difficoltà nel riconoscere e accogliere la complessità del femminile” nel sistema penitenziario e “un’evidente difficoltà a elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile”. Oggi le strutture penitenziarie interamente femminili sono solo quattro e ospitano un quarto delle donne in carcere. Le altre scontano la pena in sezioni interne alle carceri maschili, rimanendo nascoste e quindi perlopiù escluse dalle attività e dalle forme di assistenza previste. A peggiorare le cose, presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) non esiste un ufficio che si occupi la detenzione femminile. Invisibili - “Gli uomini avevano il corso di teatro, le attività sportive, gli strumenti musicali. Noi nulla, potevamo giusto camminare nel cortile di cemento aspettando la notte. Molte si facevano dare psicofarmaci per dormire anche di giorno dato che il tempo non passava mai”. Maria, 61 anni, nel 2022 ha trascorso sei mesi in un carcere lombardo. Un’esperienza che definisce doppiamente terribile, per il pessimo stato del carcere e per il suo essere donna. “I pochi educatori presenti stavano nella sezione maschile. A noi era concesso uno sporadico corso di cucito e non potevamo nemmeno comprare una tinta per capelli. Ce la passava il cappellano sottobanco”, continua. La situazione era critica anche per le condizioni igienico-sanitarie. Celle minuscole e sovraffollate, materassi strappati, insetti, tubature rotte. “I bagni erano alla turca, c’erano persone di una certa età che facevano fatica perché non c’era niente a cui tenersi. Il bidet non funzionava quasi mai”, ricorda. Il regolamento dell’ordinamento penitenziario del 2000 stabilisce che le sezioni femminili debbano essere fornite di bidet, ma Associazione Antigone, che l’8 marzo ha pubblicato il suo primo rapporto sulla detenzione femminile, ha rilevato che questo succede solo nel 66 per cento delle prigioni. Valentina, 32 anni, ha passato alcuni mesi in un altro carcere lombardo e racconta criticità simili. “Nel maschile giocavano a pallone e facevano diverse attività, da noi invece c’era giusto un corso di cucito o braccialetti un’ora a settimana”, racconta. “Loro avevano il wc in cella, da noi c’erano le turche e non c’era il bidet. Il bagno era completato da un lavandino e un mobiletto con il fornello: ci toccava cucinare lì”. Gli assorbenti dovevano comprarseli, idem la carta igienica, fornita in quantità limitate. Chi non poteva permettersi queste spese si affidava alla generosità delle altre donne. Mancavano i ginecologi, mentre gli ambulatori si trovavano nel reparto maschile. “Da noi arrivavano solo gli psicofarmaci”, spiega. “C’erano ragazze sempre chiuse in cella a dormire, imbottite di pastiglie. Insistevano perché le prendessi anch’io, è proprio una consuetudine”. La visita dei suoi due figli, l’unico momento di gioia per Valentina, si trasformava in un incubo: le detenute ammassate per poco tempo in una piccola sala, l’impossibilità di avere un momento di intimità. “Ho smesso di farli venire, sono stata forzata a questa decisione”. Se la situazione nelle sezioni femminili delle carceri maschili è difficile, negli istituti esclusivamente femminili si riesce a fare qualcosa di più. È il caso della Giudecca a Venezia, dove alle detenute sono offerte diverse attività, alcune molto originali: Associazione Closer, per esempio, dal 2016 organizza l’Ias (Interrogatorio alla scrittura), un ciclo di eventi letterari all’interno del carcere aperti alla cittadinanza e condotti dalle detenute. Nel carcere femminile romano di Rebibbia è invece nata nel 2018 la squadra femminile di futsal, il calcio a cinque, di Atletico Diritti, che nei week end gioca partite di campionato con avversarie che vengono da fuori. Ma tranne le poche storie positive, la situazione generale è critica. E nelle carceri minorili non va meglio. Come sottolinea Antigone, a gennaio 2023 sui 385 giovani reclusi nei 17 istituti minorili solo dieci erano ragazze, il 2,6 per cento del totale. Una percentuale più bassa di quella delle detenute adulte, da cui deriva la medesima condizione di invisibilità. Il rapper Kento da anni tiene laboratori di rap e poesia nelle carceri minorili italiane, ma non li ha mai potuti svolgere con le ragazze. “Le donne non possono seguire le attività con operatori uomini, in più essendo poche ricevono meno attenzione e hanno minori opportunità”, spiega. Kento è riuscito in alcuni casi a lavorare con le ragazze attraverso le loro insegnanti ed educatrici, che hanno trovato il modo di gestirei testi e correzioni per corrispondenza. “Se i carcerati sono gli ultimi, le carcerate e ancor di più quelle degli istituti minorili sono le ultime tra gli ultimi”, osserva il rapper. Di fronte a testimonianze di questo tipo, non stupisce che Antigone nel suo rapporto scriva che l’ordinamento penitenziario italiano non rispetta gli standard internazionali contenuti nelle regole penitenziarie europee, in quelle dell’Onu e nelle norme delle Nazioni Unite che disciplinano il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato. Bambini in carcere - Se le donne sono perlopiù assenti nella legislazione carceraria italiana, il poco che c’è è rivolto soprattutto ai bisogni della maternità. Non a quella di chi ha figli fuori, bensì a quella di chi per contingenze esterne si trova ad affrontare la detenzione con i figli piccoli. La legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario prevede che le detenute madri possano tenere con sé i figli fino ai tre anni in apposite sezioni nido interne alle carceri. La legge 62 del 2011 ha alzato il limite a dieci anni, ha istituito le case famiglia protette e ha introdotto ufficialmente gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), strutture esterne alternative alle sezioni nido. Al 31 marzo 2023 il sistema penitenziario italiano conta 25 detenute madri con 28 bambini. Ventuno di loro, con 23 bambini al seguito, si trovano nei cinque Icam operativi. L’Icam di Milano San Vittore, un elegante palazzo situato in un quartiere benestante nella parte orientale della città, sa nascondere bene la sua natura detentiva. Certo, per entrare bisogna superare una serie di cancelli e gabbiotti metallici, il giardino è protetto da barriere di plexiglass e in portineria è obbligatorio lasciare gli effetti personali. Una volta dentro però l’invisibilità delle sbarre, la libera circolazione delle detenute e i colori sgargianti delle pareti confondono. Sembra di trovarsi in un asilo e inizialmente si fa anche fatica a distinguere detenute, agenti ed educatrici dal momento che sono tutte in abiti civili. È da poco passato mezzogiorno e Marianna attraversa il corridoio in direzione della sala comune con un carrello ricoperto di piatti: il menù del pranzo prevede pasta con le zucchine ei cotoletta alla milanese. In questi giorni è il suo turno di lavoro in cucina, altre detenute sono invece impegnate nella sala lavanderia. Ricevono una retribuzione per questi impieghi, che sono soprattutto un modo per far passare il tempo. Nei corridoi rimbomba il pianto di un bambino di pochi mesi di origine bosniaca - cinque delle sei detenute presenti sono straniere. A quest’ora della giornata ci sono solo i più piccoli, gli altri bambini sono all’asilo: li accompagnano e li riprendono gli educatori, che sulla strada del ritorno magari gli comprano un gelato “per procura” con i soldi delle madri, che possono uscire solo in cortile a orari prestabiliti. Finito il pranzo e riordinata la cucina, Marianna trova un po’ di tempo per parlare. “C’è pochissima informazione sugli Icam. Io ho saputo della loro esistenza dopo diversi mesi di detenzione. A quel punto ho fatto richiesta per entrarci: anche mio marito è in carcere e nostra figlia era in affido, ho pensato fosse giusto farla tornare quanto meno con me”, spiega. Nel giro di pochi giorni Marianna ha ottenuto il nullaosta e all’inizio dell’agosto 2022 è avvenuto il trasferimento. “Qui l’ambiente ti rasserena rispetto al carcere, è più facile costruire relazioni sociali, riusciamo perfino a lavorare e c’è qualche attività in più”, continua. Ci sono una scuola di italiano e corsi per la licenza media, oltre che laboratori di pittura e cucito. Una stanza è stata trasformata in ludoteca, c’è anche l’ambiente tv. La notte le donne dormono accanto ai loro figli in camere doppie. A Marianna mancano pochi mesi per espiare la pena. Nonostante questo, il magistrato di sorveglianza continua a negarle i permessi-premio. “Qualche tempo fa c’è stata la recita di mia figlia all’asilo, ho chiesto di andarci come avevano fatto altre detenute in passato, ma non c’è stato verso”, chiosa. “La sensazione è che le istituzioni non si rendano conto di cosa significhi entrare in carcere e rimanerci, tanto più con dei bambini. Io ho sbagliato, sto pagando ed è giusto così. Ma il fatto che non mi diano i permessi e che a fine pena io debba stare ancora qui con una bambina invece che ottenere misure alternative ti fa perdere la fiducia nello stato. Sembra che vogliano farceli stare i bambini qui dentro”. La più grande paura di Marianna è che questo periodo nell’Icam possa avere strascichi sulla crescita della figlia. Ogni tanto la piccola piange e si sdraia davanti alle porte blindate dicendo che vuole andare a casa. Con gli agenti e gli educatori si è instaurato un rapporto amichevole, il più anziano di loro viene chiamato “il nonno”: un calore che aiuta, ma non risolve i problemi. “Con tutti i suoi elementi positivi questo resta comunque un luogo detentivo”, ammette Marianna. “Abbiamo regole e restrizioni noi e di riflesso ce le hanno anche i bambini”. Riforme impossibili - Il sistema degli Icam è considerato un fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria italiana. Questo un po’ per meriti suoi, un po’ per i demeriti delle altre soluzioni esistenti. “Qui si è cercato di creare la migliore condizione possibile con i mezzi legislativi ed economici a disposizione”, sottolinea Marianna Grimaldi, educatrice all’Icam di Milano. “Si cerca di garantire ai bambini tutto quello di cui hanno bisogno, di fargli fare una vita il più possibile simile a quella che farebbero fuori. Certamente si potrebbe fare ancora di più”. L’Icam di Milano è nato nel 2006, prima ancora che la legge del 2011 li introducesse ufficialmente. Una scommessa dell’allora direttore di San Vittore, che ha voluto porre fine alle cosiddette sezioni nido, una sorta di matrioska incastrata nelle sezioni femminili a loro volta racchiuse nelle carceri maschili. “Le sezioni nido sono un’aberrazione, ma purtroppo esistono ancora. La legge 62 ha avuto il merito di riconoscere gli Icam, ma si è dimenticata la cosa più importante: chiudere quelle sezioni”, continua Grimaldi. “Se si dice mai più bambini in carcere allora bisogna dire innanzitutto mai più bambini dentro a un carcere maschile o femminile, quello fatto di rumori metallici, sbarre, blindi e urla”. Oggi in Italia ci sono tre detenute madri che si trovano ancora in quelle sezioni, divise tra Roma, Foggia e Perugia. Ambienti separati dalle altre celle e pensati ad hoc, che si trovano però in strutture carcerarie vere e proprie con tutti i disagi che ne conseguono. C’è a chi va ancora peggio, come una detenuta nel carcere di Lecce, dove la sezione nido non esiste e per lei e il figlio è stata improvvisata un’area di ospitalità temporanea. La parlamentare del Partito democratico Debora Serracchiani nei mesi scorsi aveva presentato un disegno di legge che cancellava le sezioni nido, lasciando come uniche possibilità gli Icam e le case famiglie protette. La proposta è stata poi ritirata dopo che Fratelli d’Italia ha presentato alcuni emendamenti che avrebbero snaturato il testo. Una riforma sui bambini in carcere è lontana, ma in generale servirebbe cambiare quel modello italiano di detenzione femminile fondato su invisibilità e discriminazioni. “Nel libro di Mary Gibson Le prigioni italiane nell’età del positivismo c’è un capitolo sulle carceri femminili dal periodo preunitario alla prima guerra mondiale. Ho trovato una continuità impressionante con il periodo attuale, non solo per quanto riguarda le donne ma per il carcere in generale”, sottolinea Tamar Pitch, filosofa e sociologa del diritto. “Storicamente c’è sempre stato un forte disinteresse nei confronti della detenzione femminile. Le donne in carcere non sono considerate un problema: sono poche, fanno meno rivolte, non sono rumorose e dunque vengono ignorate”, continua Pitch. Come sottolinea Antigone, oggi la quasi totalità delle donne si trova in carcere per piccoli reati contro il patrimonio o per droga. Un quarto di loro ha addirittura un residuo pena di meno di un anno. “Servirebbero politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione delle donne, sarebbe una soluzione al problema della detenzione femminile in Italia. Tuttavia già da 10-15 anni e ancora di più oggi l’accento è tutto sulla sicurezza e la punizione invece che sulla riabilitazione. Un cambiamento delle cose resta un miraggio”. “Visitare i carcerati” il viaggio della speranza fa tappa in Campania di Riccardo Polidoro** e Sergio D’Elia** Il Dubbio, 4 maggio 2023 Nessuno tocchi Caino e l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane stanno visitando le carceri del nostro Paese. Un “viaggio della speranza” che ha, non solo lo scopo di verificare le condizioni di vita dei detenuti, ma anche d’infondere fiducia in chi rischia di far prevalere la disperazione per la propria condizione, fino a spingersi al suicidio. L’anno scorso, negli istituti di pena, i morti sono stati 203 e tra questi 84 suicidi. Numeri, dietro ai quali vi sono persone disperate, che rendono palese il malessere, ingiustificato e del tutto illegale, che affligge i detenuti. Al 28 aprile di quest’anno siamo già a 45 morti e 17 suicidi, eppure non s’intravedono soluzioni a questa tragedia nazionale. “Mai distrarsi un attimo dal carcere”, ammoniva Marco Pannella. “Visitare i carcerati”, è stata l’opera di misericordia laica a cui ha dedicato tutta la sua vita. Continuiamo noi oggi la sua opera. Senza di lui? No, con lui. Facendo di una mancanza una presenza, come Marco ci chiedeva di fare, e di essere. “Spes contra spem”, speranza contro ogni speranza. Cosa sarebbero le carceri, i detenuti e i detenenti, senza la nostra opera di osservazione, di ascolto, di relazione, di denuncia e di proposta. Già il solo “osservare” - noi anche questo siamo: Osservatorio Carcere - modifica l’oggetto dell’osservazione: il carcere. Ne riduce il danno. Altrimenti, detenuti e detenenti sarebbero abbandonati a sé stessi e, probabilmente, diverrebbero vittime predestinate della loro rassegnazione e dell’indifferenza di chi di dovere e di potere. Negli ultimi mesi il “viaggio” ha interessato il Friuli, l’Umbria, la Sicilia, la Puglia, la Toscana e, dall’ 8 al 13 maggio, farà tappa in Campania in collaborazione con l’Ufficio del Garante dei detenuti della Regione, con il Movimento Forense e la partecipazione delle Camere Penali territoriali. Si inizia il giorno 8 ad Arienzo, poi il 9 a Santa Maria Capua Vetere, il 10 a Benevento, l’11 a Sant’Angelo dei Lombardi, il 12 ad Avellino e il 13 a Salerno. Nella scelta degli istituti sono stati privilegiati quelli che raramente sono oggetto di visite, mentre prossimamente sarà la volta di Napoli- Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Nisida. Il “viaggio” ha anche lo scopo di accendere i riflettori su una situazione che meriterebbe maggiore attenzione da parte del Governo, o meglio della Politica. Perché il disinteresse per l’Esecuzione Penale è trasversale ed è la “macchia nera” di tutti i partiti che non hanno nessuna intenzione di cimentarsi in una battaglia civile e giuridica, per la quale rischierebbero di perdere consensi da parte di cittadini, ai quali non sono stati in grado di far conoscere i principi cardine della nostra Costituzione. Prova ne è che, in pochissimi anni, dal 2018 a oggi, vi è stato un avvicendamento al Governo del Paese che ha visto stare nella maggioranza tutti i partiti politici - Formazione Giallo- Verde (5 Stelle e Lega), Formazione Giallo- Rossa (5 Stelle e Pd), Formazione Tecnica- Politica (Governo Draghi, con la sola esclusione di Fratelli d’Italia), e attualmente la Formazione di Centro- Destra (con Fratelli d’Italia maggiore partito) - senza che alcun organico intervento di riforma venisse attuato, sebbene venisse chiesto dall’Europa dal 2013. Ed è proprio dal 2018, che sono scritti i decreti attuativi della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, frutto del lavoro della Commissione Ministeriale presieduta dal Prof. Glauco Giostra, insediata dopo gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e la Legge Delega del Parlamento al Governo. Eppure nessun partito - pur salito al potere - ha ritenuto di promuovere quella Riforma, nonostante l’incessante sovraffollamento e il numero di decessi e suicidi che hanno toccato cifre mai raggiunte prima. Se la politica ha una coscienza, certamente non vi è posto per i detenuti, contro ogni principio di legalità e di umanità. Ma noi siamo ancora qui. Non ci fermeremo e continueremo il nostro “viaggio” con un’eccezionale “guida”: la Costituzione. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi **Segretario di Nessuno Tocchi Caino Caro ministro Nordio, che fine ha fatto l’istanza di Cospito? di Valentina Stella Il Dubbio, 4 maggio 2023 Dopo il silenzio di Via Arenula, la difesa dell’anarchico al 41bis presenta un’istanza al Tribunale di Sorveglianza di Roma: “Via la misura del carcere duro, ci sono le condizioni”. Sono giorni che chiediamo al Ministero della Giustizia se il Guardasigilli intenda dare una risposta all’istanza di revoca del 41 bis per Alfredo Cospito. Nessuno ci dà informazioni: “chiedo”, “non so”, oppure leggono i messaggi e li ignorano semplicemente. Noi più di questo non possiamo fare ma intanto gli avvocati di Cospito, Flavio Rossi Albertini e Margherita Pelazza, il 28 aprile hanno inviato una istanza al Tribunale di Sorveglianza di Roma “avverso il silenzio/rifiuto del Ministro della Giustizia sull’istanza di revoca anticipata del regime detentivo speciale maturata in data 22 aprile 2023, in relazione alla mancata risposta all’istanza di revoca anticipata avanzata in data 23 marzo 2023”. Si ricorda nella istanza come “si sia in presenza di una vicenda caratterizzata da un profondo ostruzionismo governativo di natura politica” pertanto “l’attribuzione al Ministro della giustizia, che fa istituzionalmente parte del governo, della competenza in materia crea il rischio molto concreto che la decisione circa la revoca del regime differenziato sia influenzata da considerazioni che esulano dalla valutazione giuridica relativa alla sussistenza dei presupposti applicativi”. Andando nel merito sono diversi gli elementi di novità addotti dalla difesa per chiedere la revoca del carcere duro. “Al fine di appalesare l’illegittimità dell’inerzia mantenuta dal Ministro a fronte della natura scardinante degli elementi di novità presentati dalla difesa, preme evidenziare come lo stesso - per quanto concerne la paventata necessità di impedire che il Cospito comunichi con l’esterno, al fine di contrastarne la presunta attività istigatoria - nel decreto applicativo” “ ha stigmatizzato l’attività comunicativa del detenuto veicolata tramite gli scritti “Quale Internazionale”, “Contributo per l’assemblea del 9 giugno 2019 a Bologna”, “Contributo giornate anti-carcerarie a Bure”, e l’”Autismo degli Insorti”“. Eppure a marzo 2023 il Tribunale della Libertà di Perugia ha revocato l’ordinanza di custodia cautelare per Cospito e altri cinque indagati per, a vario titolo, istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico in relazione ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista Vetriolo. Il Tribunale per ben due volte ritenne che le esternazioni del Cospito non fossero idonee ad istigare in quanto “l’impiego di un linguaggio violento e, a tratti, truce non costituisce un elemento, di per sè solo, valorizzabile nella valutazione della carica istigatoria dei contenuti pubblicati”. A ciò si aggiunge il fatto che la Corte Costituzionale lo scorso 18 aprile ha compiuto “una dichiarazione di incostituzionalità del divieto di prevalenza di tutte le attenuanti, nei confronti della recidiva reiterata, per tutti i reati la cui pena edittale sia fissa e contempli il solo ergastolo”. Pertanto, “anche il predetto secondo elemento avrebbe dovuto rafforzare il Ministro sulla necessità di una rivisitazione del regime differenziato, nella misura in cui lo stesso ridimensiona, depotenziandola notevolmente, l’enfatizzazione della figura del Cospito, rectius dello spessore e della caratura criminale dello stesso - non potendo in alcun modo la predetta enfatizzazione prescindere dalla valutazione compiuta dalla Corte di Assise di Appello in termini di lieve entità del fatto di reato ascritto al Cospito e di quella in diritto compiuta dalla Corte Costituzionale per come tratteggiata nel decreto applicativo, nonché nella precedente decisione di rigetto del Ministro stesso”. Infine, ad avviso della difesa, Via Arenula avrebbe dovuto prendere in considerazione che nel processo relativo all’operazione Bialystok, che riguardava cinque persone accusate di aver fatto parte di una cellula eversiva anarco-insurrezionalista a Roma, con base il centro sociale Bencivenga Occupato, a Batteria Nomentana, la Corte di Assise di Roma ha assolto il 28 settembre 2022 gli imputati e accertato che non vi era alcuna associazione anarchica di cui Cospito sarebbe stato l’ispiratore. Ragion per cui, “risulta incontestabile come il Ministro avrebbe dovuto procedere ad una lettura sinottica degli elementi addotti dalla difesa nell’ultima istanza di revoca anticipata con quello oggetto dell’istanza antecedente”, proprio perché prima le motivazioni della sentenza rese con riguardo all’indagine Byalistock, e poi il secondo annullamento da parte del Tribunale della Libertà di Perugia, nonché infine il dispositivo emesso dalla Consulta, “rappresentano tre elementi i quali, seppur isolatamente considerati potrebbero non determinare la deflagrazione dell’apparato giustificativo del decreto applicativo, diversamente, se valutati in maniera combinata, assumono una valenza demolitoria”. Infine “risulta incontestabile l’illegittimità del silenzio rifiuto serbato dal Ministro rispetto agli elementi di novità addotti dalla difesa - la quale ha compiutamente assolto all’onere di dimostrare il venir meno delle condizioni legittimanti il mantenimento del regime detentivo speciale”. “Con Nordio è in arrivo una vera riforma penale liberale” di Errico Novi Il Dubbio, 4 maggio 2023 Intervista a Bartolomeo Romano, consigliere giuridico del ministro della Giustizia: “Primo ddl Giustizia quasi pronto: modificherà l’abuso d’abuso d’ufficio, le influenze illecite, l’interrogatorio di garanzia. In revisione le schede su prescrizione, intercettazioni e ordinanze cautelari”. “Del ministro Nordio si possono dire con certezza alcune cose. È una persona di straordinario spessore culturale, il che può persino creare una qualche soggezione negli interlocutori. È nello stesso tempo una figura naturalmente aperta al dialogo e al confronto, per questo non si comprendono eventuali chiusure aprioristiche alle sue proposte”. Bartolomeo Romano è da anni tra le figure dell’accademia più impegnate nel difendere i principi del diritto penale liberale non solo nel perimetro delle università: è ordinario a Palermo, avvocato penalista, ma ora la sua vocazione “politica” ne ha fatto uno dei più stretti collaboratori di Nordio, che lo ha voluto come proprio consigliere giuridico. Romano è dunque un ingranaggio chiave nella squadra di tecnici messa all’opera dal ministro per produrre le prime riforme della giustizia. “Arriveranno a breve, nel giro di poche settimane. Posso confermare la volontà già espressa in più sedi dal guardasigilli: proporre al Consiglio dei ministri e quindi al Parlamento un primo disegno di legge composto da più interventi. E non credo si possa parlare di ritardi: finora l’esecutivo, e in particolare il ministero della Giustizia, sono stati impegnati da varie emergenze che hanno impedito di dedicarsi alle riforme di sistema”. Come si respinge la critica di chi lamenta eccessiva distanza fra le proposte avanzate da Nordio e la tempistica nel concretizzarle? Innanzitutto una premessa: degli interventi normativi in arrivo, il ministro ha parlato in diverse occasioni. Lo hanno fatto anche il viceministro Sisto e i sottosegretari Delmastro e Ostellari. Posso precisare alcuni aspetti tecnici, ma è difficile individuare questioni che non siano state già illustrate da Nordio. Detto questo, non si possono trascurare le vicende che hanno rallentato l’avvio dell’attività legislativa: il caso di Alfredo Cospito, le polemiche in Parlamento tra esponenti dell’opposizione e l’onorevole Donzelli, la tragedia di Cutro che ha richiesto un provvedimento d’urgenza sull’immigrazione. E ancora, le iniziative, che il guardasigilli considera giustamente importantissime, nel campo dei crimini di guerra e delle risorse da assicurare alla Corte penale internazionale hanno richiesto al ministero, e a Nordio innanzitutto, tempo ed energie. Ma a breve la produzione normativa sulla giustizia entrerà nel vivo. Mi lasci evidenziare un’altra cosa: un conto è intervenire anche con provvedimenti d’urgenza su questioni che impongono immediatezza, altro è formulare testi per riforme organiche di sistema, che richiedono ben altra ponderazione. E tempo. Può confermare che a breve ci saranno i primi interventi sul penale? Ci sono diversi testi già pronti. Altri non sono ancora conclusi, e si lavora per consegnare al più presto le schede al ministro, in modo da consentirgli di sottoporre all’intero governo un primo unitario ddl, composto da più misure. Fra le questioni già tecnicamente definite c’è l’interrogatorio di super- garanzia da introdurre nella fase preliminare prima che vengano inflitte misure cautelari: in tal modo l’indagato potrà convincere l’autorità giudiziaria che non c’è motivo di adottarle. L’interrogatorio preliminare sarà previsto quando possibile e in base alla gravità del reato. Contestualmente si assicurerà maggiore riservatezza all’informazione di garanzia. Sulla collegialità delle ordinanze cautelari non c’è una decisione già presa? Il ministro Nordio ha già chiarito che in linea di principio la collegialità è un obiettivo. Realizzarla tecnicamente non è cosa banale: se il Tribunale del Riesame assume le funzioni attualmente svolte dal gip, i ricorsi dovranno essere esaminati in Corte d’appello. Ma qui si presenta il nodo delle incompatibilità: si deve essere certi che in tutte le Corti d’appello vi sia un numero di giudici tale da evitare che chi ha esaminato richieste cautelari si trovi a giudicare lo stesso processo in secondo grado. Nel primo ddl è confermato che troveranno posto le modifiche su abuso d’ufficio e traffico d’influenze? Sì. Si tratta di vere e proprie emergenze nazionali: entrambe le fattispecie mancano di tassatività e determinatezza. A fronte dell’elevato numero delle indagini, questi reati registrano percentuali irrisorie quanto a condanne definitive. In mezzo vi finiscono stritolate le carriere politiche di tanti amministratori. Troppi sindaci, poi riconosciuti innocenti, vengono sottratti al vero giudice di fronte al quale dovrebbero rispondere del loro operato, vale a dire gli elettori. Cosa si prevede ancora si possa portare in Consiglio dei ministri con questo primo ddl? L’obiettivo di Nordio è introdurre subito nuove norme anche sulle intercettazioni, in particolare per la tutela dei terzi estranei alle indagini. pronte. Anche qui, le schede sono praticamente E la prescrizione? Ecco, è possibile che del primo pacchetto faccia parte anche la proposta governativa sulla prescrizione. Materia che richiede un riordino, visto lo stratificarsi di ben quattro riforme realizzate in tempi relativamente recenti. Va sciolto il rebus improcedibilità, complicato dai diversi reati per i quali sono previste deroghe temporali: così com’è, la norma confligge con l’ambizione di rendere più veloci i processi. Ma la prescrizione è stata appena calendarizzata per luglio dalla capigruppo di Montecitorio... È un tema molto delicato: sappiamo bene che esistono proposte parlamentari in materia, ma anche che la questione è troppo importante perché, nella discussione, possa prevalere la fretta. Credo si riuscirà a fare in modo, in Parlamento, da armonizzare e confrontare la proposta governativa con quelle dei parlamentari. A Palazzo Madama è appena partito l’esame di una proposta del senatore di FI Zanettin per l’introduzione del sorteggio temperato al Csm... Premessa: a titolo prettamente personale, condivido l’impostazione secondo cui l’elezione dei togati possa avvenire all’interno di un’ampia cerchia di magistrati estratti a sorte. Non credo vi si ravvisino profili di incostituzionalità. Ciò detto, si tratta di una riforma che diventerebbe efficace per il Consiglio superiore da eleggere fra tre anni e mezzo: mi pare vi sia tempo, sul piano politico oltre che tecnico, per una valutazione più approfondita. A furia di rinviare i decreti attuativi della riforma ordinamentale di Cartabia, salterà il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari? Dal mio punto di vista, non vedo perché si debba precludere nei Consigli giudiziari, cioè a livello territoriale, la stessa condivisione, sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, già prevista a livello apicale, cioè nel Csm. Sono stato al Consiglio superiore da ‘ diversamente togato’, come mi piace dire: da professore universitario ma anche da avvocato. Il proficuo confronto che si realizza in quella sede può avvenire anche nei singoli distretti. Insomma: siete all’opera per portare a breve in Consiglio dei ministri, e poi in Parlamento, la “riforma della giustizia- prima parte”... Il ministro Nordio è stato chiaro: è così, si tratta di attendere poche settimane. C’è un cronoprogramma condiviso e già discusso in Consiglio dei ministri. È chiaro che la scelta precisa del momento in cui incardinare determinate riforme ha a che vedere anche con la sensibilità e l’opportunità politica. Ma sulle scelte di fondo delle riforme, il quadro è chiaro, al di là dei dettagli tecnici di cui le ho detto. Cosa c’è di vero nella rappresentazione di Nordio come di un ministro un po’ isolato nella sua stessa maggioranza? Come ho già detto, Nordio è persona di grande cultura, e non solo giuridica. Nasce tecnico, poi è diventato uomo politico e di governo. Mi sembra naturale che all’inizio abbia dovuto inserirsi in un ambiente per lui nuovo. Ma credo che non sia stato, né sia, isolato o solo. E la sua determinazione mi sembra del tutto integra. Violenza contro le donne, via libera del Senato alla legge Bongiorno, ma il Pd si astiene di Liana Milella La Repubblica, 4 maggio 2023 Se il pm non interviene entro tre giorni dalla denuncia l’indagine può essere avocata dal capo della Procura. Le Dem Camusso e Valente contro una norma che criminalizza i pm anche in assenza di effettivi e macroscopici ritardi. Gelmini di Azione critica, ma vota a favore, come Lopreiato di M5S Codice rosso, si cambia. Passa al Senato - 128 sì e 28 astenuti - e si avvia alla Camera la proposta della presidente leghista della commissione Giustizia Giulia Bongiorno che affida al capo della Procura la possibilità di avocare l’indagine del pubblico ministero che, nel termine perentorio di tre giorni dalla denuncia di una violenza fatta su una donna, non interviene subito per sentire la donna stessa e prendere i provvedimenti necessari. Il Pd si astiene - Ma è subito polemica perché il Pd si astiene. Mentre tutti gli altri gruppi votano a favore. Come dicono le senatrici Valeria Valente e Susanna Camusso, la Lega non ha voluto tener conto delle proposte dei Dem che avevano chiesto di ampliare l’obiettivo anche ad altre misure e invece si limitano a quella che, a loro avviso, rischia anche di “criminalizzare” i pm “pur in assenza di clamorosi casi di mancato rispetto dei tre giorni già previsto”. Pur condividendo le stesse perplessità vota a favore invece il gruppo di Azione anche se Mariastella Gelmini parla di “un timido passo in avanti rispetto alla gravità dei problemi”. Azione aveva chiesto l’abbinamento con la proposta già fatta durante il governo Draghi e firmata dalla stessa Gelmini, dalla ministra Elena Bonetti e da Mara Carfagna che invece non è stata abbinata. Voto favorevole, pur tra molte criticità, anche della M5S Ada Lopreiato. Ma non la pensa affatto così Giulia Bongiorno che già da ministra della Pubblica amministrazione nel governo gialloverde nel 2019 aveva proposto, assieme al Guardasigilli Alfonso Bonafede, il cosiddetto Codice rosso, un insieme di regole stringenti per tutelare le donne minacciate. La legge fu approvata il 17 luglio con 197 sì e 47 astenuti, questi ultimi arrivati già allora dal Pd e da Leu. Chi sorveglierà i sorveglianti stessi? Ma sentiamo dalla sua viva voce le ragioni di questa nuova legge e del mancato abbinamento con altre proposte che però saranno messe in discussione nella commissione Giustizia già da domani. “Quis custodiet ipsos custodes?”. Parte da qui, dalla ben nota domanda di Giovenale, contenuta nella sesta Satira, che letteralmente significa “Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?”. Questo si chiede Bongiorno che motiva le ragioni dell’urgenza della nuova legge: “Se una donna denunzia di essere vittima di violenze continue deve ottenere aiuto subito, chi indaga deve anche proteggere e capire la gravità del fatto ed emettere immediatamente i necessari provvedimenti cautelari. Invece il 15% delle donne escono dal silenzio, chiedono aiuto, ma non lo ricevono perché la loro denuncia resta sulle scrivanie dei magistrati”. Le donne non vengono ascoltate - Ancora la Bongiorno nell’arringa a favore della sua legge: “Le donne vengono massacrate senza che nessuno abbia ascoltato cosa stavano subendo e senza che vengano adottate le misure necessarie. Per questo cito Giovenale, perché c’è un sistema che non va, e quindi mi chiedo ma cosa stavano facendo i custodes?”. Bongiorno torna all’approvazione del Codice rosso: “L’ho firmato con Bonafede convintamente, non ho voluto una “legge Bongiorno”, l’ho condiviso, e questa legge l’avevo già pensata da giovane avvocata a Palermo, quando le donne vittime di violenza venivano nel mio studio e poi però non tornavano né da me né a casa loro, perché la denuncia aggravava la loro posizione. Per questo ho scritto il Codice rosso, per dare sprint all’indagine e dare iniziativa immediata, con l’obbligo dei tre giorni”. Il Codice Rosso non viene applicato come dovrebbe - E qui la senatrice della Lega nonché noto avvocato penalista nonché fondatrice dell’associazione Doppia difesa con Michelle Hunziker si chiede perché il Codice rosso non funziona. E risponde così: “No no no no no no no, il Codice rosso non è stato applicato come doveva essere applicato. Non è la legge che fallisce, ma la sua disapplicazione. Che significa quel tre giorni? È un termine perentorio? Una donna che dice sto per essere massacrata forse può aspettare? Ma mi dicono che nella legge non si parla di termine perentorio, dovete aggiungerlo. E allora noi lo abbiamo messo”. La lacuna da colmare - Poi, di fronte alle richieste del Pd, di Azione e di M5S la garanzia che “ci sarà spazio in commissione per gli altri provvedimenti”, già in calendario da domani. Bongiorno chiude così: “Io non mi sono arresa di fronte alla disapplicazione del Codice rosso. Se tre giorni sono importantissimi per salvare la vita delle donne, la mia domanda è ‘chi è che non le sta salvando? Cosa c’è? Un ingorgo? Oppure i custodes non stanno facendo il loro lavoro? Se non viene emessa la misura cautelare perché il pm non ascolta la vittima, allora il procuratore generale si prende il fascicolo e aiuta il pm, elimina la lacuna, aiuta la donna, con l’unico obiettivo di tutelare donne stesse. È una misura contro la magistratura? No, si colma una lacuna interpretativa, perché le donne non possono aspettare oltre i tre giorni”. Valente: “No ai pm sul banco degli imputati” - Il Pd mantiene la sua posizione critica fino alla fine e Valeria Valente, l’ex presidente della commissione Femminicidio, non si lascia convincere dalle parole di Giulia Bongiorno. Dice no alla legge, anche se con un’astensione perché “già esiste il potere del procuratore capo se il fascicolo non va avanti e lo assegna a un altro”. Valente chiede che “s’investa sulla formazione delle forze dell’ordine”. Ma è convinta che “non tutte le donne vogliano essere ascoltate subito dal pm perché questa può essere un’ulteriore violenza al punto che può minare la denuncia stessa per via di uno stato emotivo importante della vittima”. E la senatrice dice ancora: “Dimostratemi che le donne non vengono ascoltate, datemi un numero per serietà e per rigore. La verità è che le donne non denunciano perché non vengono credute e diventano di nuovo vittime, il problema è il tempo delle indagini e la specializzazione di chi indaga”. Ma sta qui la differenza con Bongiorno: “Adesso noi dobbiamo mettere al centro dell’attenzione gli uomini violenti. Per questo non è giustificato il no al nostro testo e a quello di Gelmini con la motivazione che serve un intervento chirurgico. Io imporrei più misure cautelari, sempre il braccialetto elettronico, più formazione di agenti e pm”. I “ma” di Gelmini di Azione - Maria Stella Gelmini annuncia il sì del suo gruppo nonostante i tanti “ma”. Perché la legge Bongiorno “non è risposta forte, sistemica, coraggiosa, ai fatti che riempiono le pagine dei giornali, ma è un timido passo in avanti, un bicchiere mezzo vuoto, un intervento puntiforme rispetto alla gravità dei problemi”. Secondo Gelmini “c’è il rischio di perdere un patrimonio specializzazione, manca il sostegno economico e sociale alle vittime e ai bambini, è del tutto assente un approccio sistemico con il coinvolgimento di tutte le forze politiche in Parlamento. La richiesta di Gelmini è la seguente: “Custodia in carcere se vengono violati i braccialetti, il divieto di avvicinamento al luogo della persona offesa, più norme di prevenzione, attenzione ai minori vittime nell’assistere stesso alle violenze”. Lopreiato, M5S: “Legge da scrivere meglio” - Con altrettante perplessità vota sì anche il M5S con la capigruppo in commissione Giustizia Ada Lopreiato. Perché “il meccanismo che si crea con questa legge non ci convince. Non si può spogliare di un procedimento un magistrato che non assume informazioni dalla persona offesa e poi valutare le sue motivazioni. Il capo della procura deve attendere le motivazioni del pm prima di dare il procedimento ad altro magistrato o avocarlo a sé, in quanto la decisione di non ascoltare la vittima potrebbe nascere da ragioni di sicurezza della stessa persona o dall’esigenza di non intralciare le indagini”. Ovviamente il M5S parla bene della legge sul Codice rosso: “Sta funzionando e ha solo bisogno di alcuni perfezionamenti. Con quella legge abbiamo rafforzato le tutele processuali delle vittime di violenza di genere, introdotto nuovi reati e aumentato le pene previste per i delitti comunemente intesi quali reati spia del femminicidio. Questo tassello in discussione oggi poteva e doveva essere scritto meglio, i nostri emendamenti avrebbero reso più funzionale il testo ma non sono stati accolti. Peccato, perché abbiamo visto tante volte che governo e maggioranza da soli sbagliano”. Il problema della giustizia italiana non è nelle (poche o molte) mele marce tra i togati di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 4 maggio 2023 Non si correggono in modo efficace, e in realtà in nessun modo, le storture della giurisdizione di questo Paese se si continua a credere e a far credere che esse si producano episodicamente per responsabilità di qualche arbitrio individuale, insomma per la presenza dei pochi frutti marci che basta individuare e rimuovere per restituire al bigoncio giudiziario l’incontaminazione naturale. Per quest’idea, il problema della giustizia italiana ammonta al numero di mariuoli togati che tocca registrare, e il problema si risolve appunto prevenendo quando si può e sanzionando quando si deve quei fenomeni di singolare malversazione. Ma non sta nella presenza né nel lavorìo di quelle personali scostumatezze il problema della nostra giustizia, che è invece costituzionale e non pesca affatto nell’occasionale bacino di illecito in cui effettivamente può sguazzare qualche rappresentante del potere giudiziario. Il problema è altrove: è nella ormai avvenuta costituzione della magistratura in una agenzia di potere deviato, una realtà assolta da qualsiasi controllo e ormai stabilmente interposta tra i poteri legittimi che essa sottopone alla propria interferenza, alla propria minaccia, al proprio ricatto, in buona sostanza al proprio tentativo di sostituirvisi nell’ostentazione delle braccia allargate davanti alle inefficienze e ai ritardi del sistema democratico e rappresentativo. Il fatto che questo costituzionalizzarsi del carattere sostanzialmente eversivo del potere giudiziario non coinvolga gli intendimenti della maggioranza dei magistrati non dice proprio nulla, giusto come non prova niente la circostanza che le finalità golpiste siano estranee al reggimento assoldato per attuarle. È nel profilo presunto legittimo del potere giudiziario il problema della giustizia italiana: non nello sfregio di qualche arbitrio impomatato, facile da giustificare e anzi capace di nobilitarlo come una cicatrice sulla purezza di un viso incolpevole. È nella pretesa legittimità del potere giudiziario deviato il disastro della giustizia di questo Paese: non nelle deviazioni da mattinale. La narrativa dell’antimafia militante di Gian Domenico Caiazza* L’Opinione, 4 maggio 2023 Nessuno si faccia illusioni. Nemmeno la Corte di Cassazione, in una delle sue composizioni notoriamente più autorevoli ed indiscusse, basterà a scrivere la parola fine in coda a questo b-movie giudiziario detto della “Trattativa Stato-mafia”. Un filmaccio di quart’ordine, costruito intorno ad un reato esistente solo nella mente dei suoi approssimativi sceneggiatori, rispetto al quale ci potremmo limitare a scrollare le spalle uscendo infastiditi ed annoiati dalla sala, se non fosse che con esso si sono letteralmente tritate le carni - dignità, onorabilità, salute psicofisica - di protagonisti della lotta (quella vera) alla mafia, linciati come traditori e dati in pasto all’orda famelica delle milizie antimafiose più fanatiche. Perché questo è il punto, tenetelo a mente. Questa antimafia, cioè quella che preconizzò da subito Leonardo Sciascia, quella che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma che è straordinariamente utile a costruire carriere, fortune editoriali, successi politici, fortune economiche, e ancor più a distruggere carriere, fortune politiche, patrimoni altrui, non può certo arrendersi. C’è tutto un mondo, articolato, complesso e potentissimo, che vive e prospera grazie a questa narrazione, la quale nasce da una idea forte ed inconfutabile, e cioè che la mafia ha sempre goduto e gode anche di sponde, collusioni e complicità istituzionali. Ma questa indiscutibile verità viene poi sviluppata in termini iperbolici, ossessivi, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà lotta innanzitutto e soprattutto alle collusioni ed alle infiltrazioni istituzionali, sempre e comunque, anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie traccia, è una inchiesta marginale se non inutile, e magari - perché no - essa stessa espressione e frutto di collusioni più o meno oscure. I protagonisti di questa narrazione - giornalisti, associazioni, forze politiche, e naturalmente magistrati - si sono presto resi conto della sua straordinaria forza comunicativa, della fascinazione esercitata sulla pubblica opinione, e soprattutto della formidabile sua idoneità a stigmatizzare chi osi metterla in dubbio. Ecco allora che nessuna inchiesta giudiziaria su fatti di criminalità mafiosa meriterà considerazione se non contemplerà almeno il coinvolgimento di qualche deputato o consigliere comunale, di qualche ufficiale di polizia giudiziaria, e naturalmente di qualche avvocato, oltre che dell’imprenditore di turno dedito a riciclare patrimoni criminali. Più eclatante sarà il preteso disvelamento di collusioni istituzionali o coperture insospettabili, più forte sarà la ricaduta mediatica e la fortuna professionale dell’inchiesta. L’inchiesta sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme, la sintesi estrema e parossistica di questo fenomeno, perché giunta di fatto ad “inventare” - attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima - un reato inesistente di “Trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nella lotta alla mafia erano in realtà collusi con essa nel ricattare lo Stato. Attorno a questa sconclusionata indagine si sono costruite fortune editoriali e carriere professionali di eccellenza, e si è grandemente irrobustita la vera forza dell’antimafia militante, cioè la sua capacità di dividere il mondo in buoni e cattivi, virtuosi e corrotti, mafiosi ed antimafiosi, con una laconica iscrizione nel registro degli indagati, o con una semplice intervista del pm buono, o articolo del giornalista buono, o interrogazione parlamentare del politico buono, o manifestazione dell’associazione buona. Questa antimafia è ormai un potere enorme, invincibile, perché il consenso della opinione pubblica è ovviamente scontato, e facilmente alimentabile. Anche ora, dopo una sentenza che dovrebbe solo comportare scuse e contrizione nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di quegli imputati innocenti, leggiamo titoli sarcastici, sulla mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità criminali del genere. Assisteremo ad interviste contrite ed addolorate, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria senza precedenti, che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti delle prossime settimane. E la ragione sta proprio nel potere immenso che quella narrazione dell’antimafia, della quale la Trattativa è solo il più fulgido tra i molti capitoli, garantisce a questa vera e propria casta invincibile di giornalisti, politici, magistrati, nonché - non dimentichiamolo mai - amministratori giudiziari di immensi patrimoni, di centinaia di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati ai suoi incolpevoli proprietari, solo perché sospettati di inesistenti collusioni mafiose. Nemmeno questa sentenza di Cassazione, pronunciata da giudici valorosi ed unanimemente stimati ed apprezzati, varrà a ristabilire la verità. Quella storia, come tutta la narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia, quella che poi ruba perfino l’origano alle mense scolastiche o spartisce tra amici e parenti le immense fortune dei patrimoni sequestrati ed amministrati in nome della lotta alla mafia, non mollerà certo quell’immenso suo potere, il più grande che un uomo possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento, impunemente, traendone infine, già che ci siamo, insperate ed imperdibili fortune. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Il trattamento disumano del disabile fa scattare il reato di tortura di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2023 Dalla Suprema corte una delle pochissime applicazioni del reato introdotto nel nostro ordinamento con la legge 110/2017. Un disabile tenuto alla catena, bastonato e costretto ad abbaiare. Questo il “trattamento disumano”, di “straordinaria gravità”, che ha indotto la Cassazione (sentenza 18075) a confermare la condanna per il reato di tortura (articolo 613-bis del Codice penale) a carico della coppia di ricorrenti. Una norma spesso invocata soprattutto in occasione di eclatanti fatti di cronaca, dal caso Cucchi alle violenze nella caserma Diaz durante il G8, ma raramente applicata non solo perché non retroattiva. Una condanna per il reato di tortura, nella forma aggravata (articolo 613-ter del Codice penale) in quanto commessa da pubblico ufficiale c’è stata nel 2021. Difficile arrivare a sentenza anche nel caso della tortura come reato comune, inserito nella nostra legge, con una previsione più ampia rispetto alla definizione imposta dalla Convenzione Onu dell’84, relativa ai comportamenti tenuti in prima persona o istigati da pubblici ufficiali. Sofferenza disumana - Nel caso esaminato, i giudici hanno riscontrato gli elementi per la condanna. Il ragazzo, privato della libertà, era incapace di reagire a causa di una sindrome molto rara. La sua sofferenza era stata portata ai massimi livelli sia dal punto di vista fisico, perché picchiato selvaggiamente, sia psicologico perché offeso “in modo terribile” e minacciato di morte. La Cassazione ha dunque seguito la via scelta dal legislatore italiano di non identificare la tortura solo con il reato proprio del funzionario pubblico, ma di includere anche le condotte di soggetti privati. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere - La Cassazione ha analizzato il reato di tortura, anche con la sentenza n. 8973/2022, relativa al ricorso del comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere per la revoca degli arresti domiciliari. Una misura cautelare applicata nell’ambito dell’indagine sulle azioni commesse dalla Polizia penitenziaria in seguito alle sommosse dei detenuti ad aprile 2020 del 2020. In quell’occasione la Suprema corte ha escluso, che per integrare il reato sia necessaria l’abitualità della condotta criminosa, affermando che bastano anche “due sole condotte e anche in un minimo lasso temporale”. Proprio sulla cosiddetta tortura di Stato si è recentemente concentrata l’attenzione, a causa di una proposta di legge presentata da alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, con prima firmataria Imma Vietri. Un provvedimento, assegnato in commissione Giustizia della Camera, che tende di fatto ad abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del Codice penale lasciando solo l’aggravante prevista dall’articolo 61 del Codice penale sull’abuso dei poteri da parte del pubblico ufficiale. Secondo i firmatari, infatti, l’incertezza applicativa della norma potrebbe comportare una sua applicazione al personale delle Forze di polizia anche quando autorizzate “a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”. Ma l’intenzione di passare un colpo di spugna sulla legge è stata smentita dal guardasigilli Carlo Nordio nel corso di un question time del 30 marzo scorso. Sicilia. Santi Consolo è il nuovo Garante regionale per i diritti dei detenuti cataniatoday.it, 4 maggio 2023 È stato nominato con decreto del presidente della Regione e rimarrà in carica per i prossimi sette anni. Santi Consolo è il nuovo garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia e per il loro reinserimento sociale. Consolo, classe ‘51, magistrato in pensione, è stato nominato con decreto del presidente della Regione e rimarrà in carica per i prossimi sette anni. Tra gli altri incarichi, ha assunto quello di capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia e nel 2014 ha svolto funzioni di procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e quella di Catanzaro. È anche stato componente togato del Csm. Prende il posto di Giovanni Fiandaca che ha concluso il suo mandato. Lazio. Il Presidente Rocca: “A Regina Coeli situazione disperata, serve più umanità” di Carmela De Rose Il Messaggero, 4 maggio 2023 “Era doveroso visitare Regina Coeli. I numeri di questa struttura sono eloquenti: su un range effettivo di 628 posti, sono reclusi al momento 1.009 detenuti. Non stupisce, quindi, che il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura abbia mosso critiche molto dure sulle condizioni di sovraffollamento della storica struttura romana. Il problema non nasce oggi e, per le sue proporzioni, è drammatico: il Lazio, infatti, è la seconda regione italiana per tasso di detenuti reclusi nelle case circondariali. Con il 127% di detenuti, infatti, la nostra Regione supera la percentuale nazionale che si attesta al 115%. Regina Coeli vive criticità molto profonde anche dal punto di vista sanitario. Ogni anno, infatti, si erogano 80mila prestazioni in condizioni che non esiterei a definire disperate. A fronte di 23 posti letto nella sezione chirurgica, abbiamo le due sale operatorie chiuse. Le attività specialistiche sono insufficienti, basti pensare che il dipartimento di salute mentale vede la presenza di uno psicologo senza un medico psichiatra di riferimento. Come amministrazione regionale dovremo lavorare di più e meglio, anche di concerto con il Ministero della Giustizia, per incentivare misure alternative al carcere. Sia nella fase cautelare evitando - eccetto quando sia strettamente necessaria - la reclusione prima del giudizio, sia favorendo il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti così come prevede la nostra Costituzione all’art.27, laddove indica che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere è un luogo di profondo disagio e di sofferenza, ma può essere anche una straordinaria occasione di rinascita. Tuttavia, dobbiamo offrire strumenti e politiche che consentano al detenuto di immaginare una possibilità di futuro e di riscatto”. Così, in una nota, il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, a margine della visita a Regina Coeli. Umbria. Sui circa mille e 400 reclusi in regione, il 15% ha tra 18 e 25 anni umbriajournal.com, 4 maggio 2023 Sui circa mille e 400 reclusi nelle carceri dell’Umbria, il 15 per cento, 200 ha tra 18 e 25 anni. Un dato fornito dal garante dei detenuti per la Regione l’avvocato Giuseppe Caforio durante un convegno sul tema “Il disagio giovanile tra attualità e prospettive di futuro sostenibile. Il sistema riabilitativo - ha detto - deve essere estremamente incisivo perché sono persone che si possono recuperare e riportare all’interno della società. Tra i reati per i quali si trovano in cella questi giovanissimi ci sono quelli legati alle tossicodipendenze ma anche a reati contro il patrimonio (come furti e rapine). Riguardo al tema della prevenzione, Caforio lo ha definito “fondamentale”. “Perché i minori saranno gli adulti di domani. L’Umbria ha una situazione tutto sommato ancora contenuta ma prevenire significa anticipare i tempi, prima che i fenomeni tipici delle grandi città invadano i nostri territori. Sempre più infatti ci sono fenomeni diffusi di violenza, contro il patrimonio e contro la persona, da parte dei minori. È il momento di riflettere e di agire. Procura generale e Università si mettono insieme. Il problema è grave e attuale: necessità di interventi immediati. Milano. Addio a don Caniato, il prete da “galera” stimato da Giovanni Paolo II di Filippo Rizzi Avvenire, 4 maggio 2023 Classe 1928 si è spento a 95 anni nella notte tra il 29 e il 30 aprile. Sacerdote ambrosiano è stato lo storico prete di San Vittore e ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Sulle colonne del “nostro” Avvenire attraverso i suoi scritti o le tante interviste concesse al nostro quotidiano aveva raccontato la vita e il dramma di chi vive in carcere. Spesso in condizioni non rispettose della dignità umana. Ma non solo. Tra i grandi meriti nella sua veste di ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane fu uno degli ispiratori quasi “il motore nascosto” del Giubileo dei carcerati nel 2000, voluto da Giovanni Paolo II e tra i promotori del provvedimento dell’indulto promosso dal governo Prodi e dal suo guardasigilli di allora Clemente Mastella nel lontano 2006. Si possono ascrivere in queste poche righe i principali meriti di monsignor Giorgio Caniato, sacerdote ambrosiano, storica anima dei detenuti del carcere di San Vittore: morto nella notte tra sabato 29 e domenica 30 aprile, nel reparto che ospita i preti anziani dell’arcidiocesi milanese alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone, all’età di 95 anni. Un personaggio che ha legato tutto il suo ministero di “semplice” prete “da galera” - come il salesiano e uomo di fiducia del cardinale Martini don Luigi Melesi per stare sempre in ascolto dei reclusi del carcere di San Vittore. Don Caniato fu, tra l’altro, tra i testimoni indiretti di un gesto molto simbolico ed eclatante compiuto proprio da Martini nell’istituto di pena di piazza Filangieri di cui era allora cappellano: il Battesimo, il 13 aprile 1984, dentro la sezione femminile che il porporato gesuita volle amministrare personalmente ai due figli gemelli Nicola e Lorenza, dei terroristi e “irriducibili” di Prima Linea Giulia Borelli e Enrico Galmozzi. Originario di Milano (vi era nato il 1 gennaio 1928), don Giorgio aveva iniziato il suo ministero come prete dell’oratorio, prima a Casoretto e poi a Sant’Eustorgio. A soli 27 anni era diventato anche cappellano al carcere di San Vittore, ma aveva dovuto aspettare l’arrivo in diocesi di Giovanni Battista Montini nel 1955, perché il predecessore sulla Cattedra ambrosiana il cardinale benedettino Alfredo Ildefonso Schuster lo considerava troppo giovane e “acerbo” per quel delicato incarico. Fu comunque Schuster a ordinarlo presbitero in Duomo a Milano il 19 maggio 1951. Don Caniato si è dedicato per oltre mezzo secolo alle persone che avevano commesso reati, ma di una cosa si era convinto: “Il carcere è una struttura anti-umana e anti-cristiana”. Prete dei detenuti di San Vittore per volere di Montini e Martini - ?Un ruolo che fin da quel lontano 1955 aveva svolto con passione, determinazione e severità. La lunga esperienza (42 anni) nell’istituto di pena di San Vittore, nel cuore storico di Milano, lo porterà, nel 1997, ad assumere l’incarico di ispettore dei cappellani (sotto la sua guida ve ne erano allora 240 sparsi lungo tutta i penitenziari della Penisola), con nomina da parte della Cei, e a trasferirsi a Roma. Un impegno che lascerà solo a 83 anni, con tanto di lettera di ringraziamento verso tutti coloro con cui ha collaborato nei decenni. Di quel periodo romano è giusto mettere a fuoco questa istantanea: la celebrazione in un afoso luglio del 2000 del Giubileo dei carcerati con la Messa, presieduta nel carcere trasteverino Regina Coeli, da Giovanni Paolo II. La parte conclusiva del suo mandato da ispettore generale fu spesa anche pubblicamente per chiedere alle autorità civili del nostro Paese di “individuare delle misure alternative alla detenzione in carcere” per tante persone. Come forte fu il plauso nel luglio del 2006, - era Pontefice Benedetto XVI - quando fu approvato il provvedimento dell’indulto. E degne di nota furono le sue parole: “Questo provvedimento va incontro a molte situazioni di grave difficoltà relative al sovraffollamento al limite dell’umano. Si è trattato di un “gesto di clemenza’’ a favore del mondo carcerario, proprio come era stato indicato da Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 e, successivamente, durante il discorso fatto dal Pontefice a Montecitorio”. Come ferma fu la condanna di Caniato per le condizioni di detenzione sperimentate da Stefano Cucchi prima della sua tragica morte nel 2009. E chiaro e amaro fu il suo commento pochi giorni dopo la morte di Cucchi: “Il carcere è una struttura repressiva. Ci sono uomini detenuti e altri che li devono tenere. Non c’è collaborazione, ma uno scontro strutturale”. Il 3 maggio i funerali a Cesano Boscone presieduti da De Scalzi - Questa mattina si sono svolti presso la chiesa della Sacra Famiglia di Cesano Boscone i funerali di don Caniato. A presiederli è stato il vescovo ausiliare emerito di Milano Erminio De Scalzi. Trento. Detenuta muore, medico indagato di Marzia Zamattio Corriere Trentino, 4 maggio 2023 L’accusa: “Antidolorifici in dose eccessiva”. La difesa: “Serve chiarire”. L’hanno trovata senza vita la mattina del 4 gennaio dello scorso anno. Apparentemente addormentata. Invece la donna, operatrice socio sanitario di 51 anni di origine straniera in carcere dal marzo 2021, era morta. Da un primo esame autoptico avvenuto il giorno dopo all’obitorio di Trento le cause del decesso sono state imputate a cause naturali, ma per la figlia, che ha fatto una denuncia querela alla Procura ipotizzando il reato di omicidio colposo a carico di ignoti, la madre sarebbe invece morta per “negligenza e imperizia e imprudenza” da parte della casa circondariale di Spini di Gardolo dove era detenuta, “determinandole uno choc cardiogeno acuto nel contesto di una insufficienza respiratori” causata da “intossicazione acuta da sostanze oppioidi”. Per l’accusa, il medico del carcere le avrebbe somministrato un sovradosaggio del suo antidolorifico per una lombosciatalgia. La difesa, che rigetta le accuse, vuole fare chiarezza per accertare le cause della morte con la richiesta di acquisire le cartelle cliniche e una perizia. Il medico che era in servizio e che le aveva prescritto la terapia per i suoi dolori si dice estraneo all’ipotesi di sovradosaggio di medicinali, la difesa ipotizza un mix di sostanze diverse che insieme avrebbero provocate la morte della donna. Ieri nell’udienza preliminare si sarebbe dovuto decidere la perizia, ma l’udienza è stata rinviata. La figlia della detenuta, che vive in Trentino, sostiene che la madre non stava bene da tempo, come emerge dagli atti della denuncia-querela, “si è sempre lamentata che non stava bene, perché aveva mal di schiena, al petto e faceva fatica a respirare” dice la donna. Anche l’ultima volta che l’ha sentita, il giorno prima del decesso “mi diceva che in carcere non facevano nulla per curarla e che aveva ancora male” e poi infine: “La mattina del 4 gennaio dovevo vedere mia madre ma mi è stato detto che era deceduta nella notte”. Bologna. Il teatro esce dal carcere. Punzo: “Stop ai pregiudizi” di Benedetta Cucci Il Resto del Carlino, 4 maggio 2023 Il fondatore della Compagnia Fortezza di Volterra all’Accademia delle Belle Arti. L’incontro alle 17. Il suo manifesto: “Mettere in crisi i cliché spinge a cambiare”. Armando Punzo è l’ospite del terzo incontro del ciclo “riparAzioni: dialoghi d’arte, cultura e società” all’Accademia di Belle Arti, oggi alle 17. Il fondatore della storica Compagnia della Fortezza di Volterra, che ha trasformato uno dei peggiori istituti penitenziari italiani in un raffinato laboratorio di ricerca teatrale, racconterà il suo punto di vista sugli strappi del sociale, attraverso la sua esperienza. Punzo, si parla di azioni riparatrici del sociale e non si può non pensare al suo lavoro. Cosa racconterà? “Cercherò di spiegare che cosa significhi, per noi, ‘riparazioni’. Quando si parla della compagnia Fortezza e di teatro nel carcere, si associa anche questo termine: ma voglio far capire che ‘riparazioni’ non è strettamente legato alla rieducazione e all’uso sociale del teatro”. Lei non è andato in carcere per salvare i detenuti... “Sono andato in carcere per il teatro, per l’arte, perché ero molto affascinato e colpito da questo luogo del reale che rappresenta la prigione nel senso di limitazione della libertà dell’essere umano nella realtà quotidiana. Mi interessava a livello di metafora: quanto tutti noi siamo - o potremmo essere - prigionieri in questo mondo e cosa c’è bisogno di fare per arrivare alla possibile libertà, semmai possibile”. La sua ricerca personale ha avuto però degli effetti sugli altri... “Indirettamente so benissimo che questa attività ha trasformato completamente il carcere di Volterra, che era uno dei peggiori d’Italia e che, con l’arrivo del teatro, non è più riuscito a essere quello che era fino al giorno prima. Ha avuto un cambiamento radicale grazie all’ingresso del teatro 35 anni fa e ha fatto da apripista ad altre attività importanti. Poi, è chiaro, non bisogna per forza essere detenuti perché uno possa accrescere la sua esperienza di vita attraverso il teatro. Il carcere, per me, è stato un buon mezzo per osservare la realtà e lo è ancora oggi”. Quindi la riparazione per lei dove sta? “È il fatto di mettere in crisi i cliché, ogni giorno. Del carcere, cosa si pensa normalmente? Poi si entra a Volterra e si scopre che sì, è un carcere, però dentro si incontrano persone che fanno tante attività e si viene a contatto con la Compagnia Fortezza, un gruppo di teatro premiato, finanziato come ogni altro in Europa. Il punto di vista sul carcere un po’ si sgretola e, quindi, questa è una ‘riparazione’: preconcetti e chiusure vengono sgretolate, e non è poco perché, quando ci facciamo un’idea sulle cose, poi è difficile scalfirla. Quando le persone ci dicono ‘ah, ma io pensavo…’, ecco che è avvenuto un cambiamento concreto. Un artista non deve dire quello che già tutti conoscono ma deve cercare di far aprire gli occhi”. Com’è stato l’incontro con l’architetto Mario Cucinella che col suo studio ha vinto il bando per realizzare il Teatro Stabile dentro al carcere? “Penso che siamo stati fortunati. Cucinella non è un architetto che, come studio, avesse bisogno di fare questo progetto, lui ne fa di molto più grandi. E, invece, dal punto di vista simbolico lui pensa che sia un progetto davvero importante. Ci tengo a dire che il teatro è importante non perché io voglio una casa, un tetto sulla testa: la struttura servirà per fare maggiore formazione professionale ai mestieri del teatro, per radicare ancora di più l’esperienza all’interno del carcere e convincere che si può non solo fare il cameriere o il muratore, se uno ha un lavoro in carcere, ma può diventare mestiere anche l’attore, il macchinista, il fonico. Come è stato con Aniello Arena, storica colonna della Compagnia Fortezza e attore con Matteo Garrone, che ha finito la sua pena e continua a fare film, cinema, teatro”. Catanzaro. Al via il laboratorio teatrale per i detenuti di media sicurezza lametino.it, 4 maggio 2023 È iniziato il laboratorio teatrale rivolto ai detenuti del reparto di Media Sicurezza della Casa Circondariale di Catanzaro. Quest’attività, fortemente inserita dalla Direttrice Patrizia Delfino all’interno del Progetto d’Istituto, coinvolgerà 15 detenuti selezionati dall’Area educativa e sarà curata da Francesco Passafaro, direttore artistico presso il Cinema Teatro Comunale. Nell’incontro introduttivo Passafaro ha illustrato ai detenuti le attività svolte dall’associazione “Incanto” che, nel centro di Catanzaro, coinvolge persone di ogni età che vivono di teatro e che sviluppano un attento percorso di ricerca di sé. Allo stesso modo, nell’incontro settimanale che si terrà nel Teatro dell’Istituto penitenziario, i detenuti saranno coinvolti in role-playing per liberare le emozioni, in momenti di divertimento e di riflessione al fine di conoscere meglio gli altri e se stessi. L’obiettivo finale sarà portare in scena uno spettacolo, rappresentando un’occasione di crescita anche per i detenuti stranieri, che approfondiranno la lingua e la cultura italiana. Il progetto, attraverso il coinvolgimento del volontariato penitenziario, costituisce la base di un percorso di riabilitazione sociale e di riparazione per i detenuti, poiché l’arte, per definizione stessa, ha una capacità riparativa ed un effetto catartico. Il teatro, infine, è un allenamento per l’anima che, specie dopo l’ingresso in carcere, si anestetizza per sopravvivere al senso di colpa, all’isolamento e alla solitudine. Vigevano (Pv). “La vita senza amore”, il teatro in carcere con Mimmo Sorrentino di Annalisa Vella informatorevigevanese.it, 4 maggio 2023 Giovedì 18 maggio e venerdì 19 maggio alle ore 20 la cooperativa Teatroincontro porta in scena nella Casa di Reclusione di Vigevano il nuovo spettacolo di Mimmo Sorrentino dal titolo “La vita senza amore”. In scena diciotto detenute della prima sezione. Come sempre Sorrentino è partito ponendo alle detenute una domanda dirompente. Cosa accade al corpo e all’anima quando viene privato della sessualità? Dal loro ascolto è nato “La vita senza amore”. Uno spettacolo che ci riguarda perché, come sempre negli spettacoli di Mimmo, il carcere diventa uno specchio in cui ognuno può riconoscersi e sentito chiamato in causa. Uno spettacolo che educa alla libertà, dove il verbo educare è da intendere nel suo significato etimologico, ex-ducere, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Perché come è sua consuetudine l’autore e regista vigevanese trasforma il microcosmo in cui lavora in uno specchio dove tutti si possono riconoscere. Infatti ciò che emerge dalla sua ricerca è che non sono gli ostacoli esterni, carcere compreso, che impediscono al corpo d’amare e di essere amato, ma quelli che noi stessi auto fabbrichiamo. Come in “Indesiderate”, il primo spettacolo che Sorrentino ha realizzato con queste donne e che ha riscontrato un notevole successo di pubblico, anche nella “Vita senza amore” il testo è un collage di brani e immagini poetiche. È la parola a essere dirompente nella sua sacralità, la parola diventa corpo e il corpo parola. Dal carcere esprimono molta soddisfazione perché è molto difficile coinvolgere nelle attività le detenute della prima sezione e al laboratorio di Sorrentino partecipa quasi metà delle donne recluse. Queste donne nel mettersi in gioco ci chiedono di metterci in gioco. Ci si sente parlati dai loro corpi, dalle loro parole, dalla loro capacità di diventare nel gioco teatrale donne libere. Una libertà che non diventa mai oscena, nonostante l’argomento, quanto piuttosto una preghiera. “Vieni di notte, ma nel nostro cuore è sempre notte e quindi vieni sempre amore, vieni in silenzio, ma noi non sappiamo più cosa dirci e dunque vieni sempre amore” oppure “Amore che si teneramente mi ricomponesti dopo la rovina. Amore ecco mi arrendo, sarò il tuo splendore eterno…”. La ricerca della sessualità nella sua assenza diventa pertanto una preghiera, un atto di libertà che non ha nulla di osceno, ma è scandaloso come le pietre d’inciampo. Lo spettacolo è gratuito. Come sempre per gli spettacoli rappresentati nella casa di reclusione di Vigevano è necessario prenotarsi con anticipo, non oltre giovedì 11 maggio compilando il form a questa pagina: www.teatroincontrovigevano.com/eventi-in-programma. Oristano. “Gramsci dietro le sbarre”: storie di libertà negata nei dipinti di 71 detenuti linkoristano.it, 4 maggio 2023 Sabato ad Ales mostra e premiazione del concorso nazionale di pittura, con il garante Mauro Palma. Un ospite quanto mai appropriato ad Ales per la premiazione della quarta edizione del concorso di pittura “Peppinetto Boy”, dal titolo “Gramsci visto da dietro le sbarre”. Il concorso coinvolge carcerati da tutta Italia e alla cerimonia di sabato 6 maggio parteciperà Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. La sala espositiva della Casa natale di Antonio Gramsci accoglierà le 71 opere arrivate da 22 istituti di pena distribuiti su tutto il territorio nazionale. I vincitori del concorso saranno proclamati dalla giuria composta da Paolo Sirena, direttore generale della Fondazione Altopiano della Giara, dall’artista di Ales Massimo Spiga e da Lucia Siddi, storica dell’arte e ideatrice del Museo diocesano d’Arte sacra di Ales. Alla cerimonia di premiazione - che inizierà alle 19 - parteciperanno anche il sindaco di Ales Francesco Mereu e il professor Vito Minoia, docente di Discipline dell’educazione e dello spettacolo presso l’Università Carlo Bo di Urbino e presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere. Dopo l’apertura della mostra è previsto un breve saluto del sindaco di Ales, la proclamazione dei premiati, un intervento del professor Minoia sul tema “Arti, persone, trasformazioni per una nuova cultura” e un approfondimento di Mauro Palma dal titolo “L’immagine, la parola, lo specchio”. Il concorso. “Quest’opera rappresenta Gramsci mentre è nella sua cella a Turi, stesso luogo dove sono detenuto io. Nel disegno Antonio Gramsci sta scrivendo le sue famose lettere e fuori dalla finestra c’è gente che sta manifestando per la sua liberazione, poiché detenuto ingiustamente e tra l’altro malato. Sul tavolo c’è una rosa, fiore a lui molto caro, simbolo di libertà. La libertà non ha prezzo. È un valore assoluto”. Queste parole sono arrivate dal carcere di Turi, luogo di detenzione di Antonio Gramsci, e descrivono lo spirito del concorso “Gramsci visto da dietro le sbarre”. Nato da un’idea dell’Associazione culturale Casa natale Gramsci, il concorso dal 2016 raccoglie e premia le opere dei detenuti di tutta Italia. L’iniziativa ha il patrocinio del Comune di Ales e un contributo dell’Assessorato della Pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport della Regione Sardegna. Il bisogno di recuperare un senso del limite di Adalberto Perulli Corriere del Veneto, 4 maggio 2023 Riallacciare il tema della Giustizia sociale con quello della Pace, come avevano cercato di fare i costituenti e, prima di loro, i grandi trattati internazionali e le Dichiarazioni novecentesche dei diritti umani. Tutti questi temi attraversano l’opera di Alain Supiot, giurista e intellettuale di fama mondiale, che sarà all’Università Ca’ Foscari di Venezia venerdì 5 maggio per un seminario attorno al suo ultimo libro, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione. Supiot non offre ricette facili e populiste, ma una nuova “algebra sociale”, in cui il Diritto e la Giustizia ritrovano un terreno comune per raggiungere quel “limite ideale” che - rifacendosi a Simone Weil - egli individua per orientarsi nel mondo e contribuire alla sua trasformazione. È grazie a quel limite che l’organizzazione sociale può essere realizzata senza traccia di oppressione; che la responsabilità degli individui si coniuga alla politica; che quest’ultima cessa di essere un “gioco” e torna ad occuparsi - grazie ad un Diritto che rispecchia la sua funzione primordiale, cioè tracciare dei limiti per contenere la legge del più forte - della possibilità per gli uomini di esercitare, su un piano di parità, le loro libertà individuali e collettive. Ma questo compito, che è della politica e quindi del Sovrano che non si arrende all’arroganza del suo potere, può essere atteso solo rovesciando il paradigma che, per Supiot, è alla base di tutte le storture che ci affliggono, vale a dire la globalizzazione senza limite, il pensiero unico economico che diventa religione, fede nella virtù della “distruzione creatrice”, senza mai calcolare il danno e lo spreco che ne risulta. E i danni, innumerevoli e incalcolabili, sono sotto i nostri occhi: i rischi psicosociali del lavoro, la disarticolazione del contesto educativo famigliare, l’esclusione e l’emarginazione dei giovani ridotti alla inattività o all’emigrazione, l’aumento dell’intolleranza, dei fanatismi e di forme inedite di violenza. Per non parlare della insostenibile impronta ecologica di una globalizzazione che ignora quanto sia importante la biodiversità per la sopravvivenza dell’umanità. Questo compito, di riportare i limiti alla loro dimensione sovrana, non può essere - per Supiot - quello dello Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, che riduce il problema in una logica manageriale, in cui il pianeta Terra diventa un’enorme impresa alla quale applicare le ricette della governance dei numeri, algoritmica e tecnologica. Occorre cambiare registro: pensare in termini di “mondializzazione” invece che di globalizzazione, tracciando i limiti di un mondo vivibile, pacificato e unito, grazie ad una nuova alleanza tra scienza e politica, nel rispetto della diversità delle situazioni locali e fuori dai dogmi neoliberali della crescita illimitata, della flessibilizzazione del lavoro e dell’egemonismo culturale. Ripartendo dalla sovranità del limite e dal primato dei doveri rispetto ai diritti, si può rimodellare un ordinamento mondiale in base al principio di Solidarietà, unica risposta giuridica alla crescente interdipendenza dei popoli. Prendere sul serio questo dovere di Solidarietà implica però la necessità (e la responsabilità) di richiamare all’ordine coloro (Stati ma anche Imprese) che, oltrepassando il limite interno del loro potere, non vi ottemperano e - prima o poi - saranno costretti a trovare quel limite al loro esterno, proprio come accade ad Hitler nel suo bunker alla fine dell’aprile del 1945. Psichiatria. Se la comunità concorre alla cura, c’è sicurezza di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 maggio 2023 Decine di iniziative in ricordo della psichiatra uccisa. Parla il direttore del Dipartimento di salute mentale di Parma, Pietro Pellegrini. In molte città d’Italia ieri si sono svolte fiaccolate e flash-mob di solidarietà ai colleghi, ai parenti e agli amici della psichiatra pisana Barbara Capovani, uccisa all’uscita dal lavoro da un ex paziente. Migliaia di medici, infermieri e operatori sociosanitari hanno però voluto anche focalizzare un problema di sicurezza che riguarda tutto il mondo sanitario ma soprattutto quello della salute mentale. Una problematica che nessuno sottovaluta ma sulla cui soluzione si spacca il mondo della psichiatria e non solo. Ne abbiamo parlato con un “basagliano” doc come Pietro Pellegrini, direttore del Dipartimento di salute mentale di Parma, esperto dunque sia di Csm, i servizi territoriali, che di Spdc, le strutture di ricovero ospedaliere. Dottor Pellegrini, in un’intervista apparsa ieri su questo giornale, Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici e dirigenti del Ssn, affermava che l’omicidio di Pisa “era prevedibilissimo”. Non sono d’accordo. Senza entrare nel particolare della vicenda, ma a Pisa si è avuta la dimostrazione della carenza di coordinamento tra welfare - salute mentale e sociale - magistratura, amministrazione comunale e forze dell’ordine, non ultime le strutture di sicurezza sui luoghi di lavoro. Si tratta di un omicidio avvenuto in un ospedale pubblico e in pieno giorno. La legge 113 approvata nel 2020 sulla violenza sugli operatori sanitari prevede un piano per scongiurare i casi, viene applicata correttamente? Noi dell’Azienda sanitaria di Parma stiamo facendolo, anche cercando di installare dispositivi di salvaguardia. Nel complesso in Italia c’è però un lavoro da fare sulla sicurezza. Essendo un tema complesso, l’insieme dei fattori che vanno presi in considerazione sono molteplici: c’è un problema di personale, legato alle risorse, uno di attrezzature e spazi lavorativi, c’è il problema dei servizi isolati e non custoditi, e quello della formazione… Secondo Andrea Filippi, un altro problema è una certa cultura antipsichiatrica che ha descritto gli psichiatri come nemici dei pazienti, anziché loro alleati. Lei cosa ne pensa? Sono d’accordo con Filippi quando dice che la figura del dipendente pubblico, e del medico prima ancora dello psichiatra, è stata svalutata molto, a partire dai diritti sindacali non riconosciuti fino al ruolo sociale. Sulla questione della psichiatria credo il tema sia complesso: c’è una psichiatria che deve farsi carico dei momenti difficili del paziente e c’è una psichiatria territoriale e residenziale che può prendere in considerazione non solo gli aspetti farmacologici e biologici ma anche gli aspetti psicologici, relazionali e sociali. Ora secondo me Filippi solleva il tema dell’antipsichiatria un po’ a sproposito, perché la visione strettamente antipsichiatrica di chi nega l’esistenza dei disturbi mentali non è diffusa in Italia. Diverso è il caso delle posizioni critiche che vedono nell’aspetto ambientale, culturale e psicologico degli elementi che possono concorrere al determinarsi dei disturbi. Perché il caso di Pisa è diventato emblematico? Dopo il caso di Pisa è entrato in ballo un tema tutto interno alla psichiatria, è questa la regressione: non riuscire a capire che le problematiche derivanti dal disturbo mentale nascono nella comunità ed è nella comunità che vanno risolte. Nel caso specifico, abbiamo visto all’opera un’aggressività apparentemente antipsichiatrica che in realtà non esiste né all’interno del mondo accademico né da parte di utenti e famiglie, che pur con qualche contestazione si rapportano quasi sempre con i servizi in modo molto collaborativo. La critica riguarda il fatto che ai servizi viene chiesto un intervento più completo e complesso della pura somministrazione di farmaci. Il problema dunque non è tanto che venga negata la malattia mentale o che si neghi o sottovaluti la pericolosità di certi malati, ma è invece legato alla difficoltà di far fronte a questi rischi in contesti aperti, come quelli comunitari. E questo implica il tema, che secondo me dovrebbe essere in primo piano, della forte collaborazione inter-istituzionale necessaria per realizzare la legge 180 ma anche la legge 81 (sicurezza sui luoghi di lavoro, ndr). Questo non è soltanto un problema psichiatrico. A 45 anni dalla legge 180, tra pochi giorni, si può ancora parlare di contrapposizione tra una psichiatria di contenzione e una più illuminata dalla rivoluzione di Basaglia? No, pur nella differenza di accenti che ci possono essere, la 180 è un patrimonio condiviso. Oggi si lavora tutti con quel bagaglio comune. Le linee di tendenza sono piuttosto consolidate ed è chiaro che nessuno psichiatra mette in atto come prima cosa la contenzione. Certo che se poi non ho spazi, personale o risorse, seguire le linee di tendenza trattamentale diventa sempre più difficile. Poi, nell’organizzazione dei servizi possono e devono esserci miglioramenti, verso la piena realizzazione della legge. Bisogna farsi carico anche di tutte le novità e dei cambiamenti sociali, per questo va aggiornata la visione d’insieme e anche l’organizzazione. Anche la legge 180 va aggiornata? Ci sono punti che vanno rivisti, a partire dal Trattamento sanitario obbligatorio. C’è chi vuole più garanzie e più diritti per gli utenti, visto che la legge 180 non prevede la presenza di uno psichiatra durante il Tso ma bastano due medici. E c’è chi invece vorrebbe poter prolungare il Tso e anche poterlo eseguire in strutture diverse dagli Spdc. Ma questa posizione, proposta tante volte in questi 45 anni, finora non ha trovato sufficiente riscontro, solo perplessità sia di carattere giuridico che clinico. Una proposta di legge del deputato Riccardo Magi prevede di modificare il Codice Rocco eliminando la non impunibilità per vizio totale o parziale di mente. Le piace? Il codice Rocco è del 1930 e non è in sintonia con la legge 180. Bisogna differenziare la parte del giudizio a cui va sottoposto il malato per quello che ha compiuto - e questa a mio parere è una questione di rispetto e civiltà - dall’esecuzione penale e dalla cura. Ed è qui che bisogna capire come completare la dismissione degli Opg. La legge è del 2015, quindi siamo ancora in una fase di assestamento. Ma una volta giudicato come gli altri, si può davvero pensare che il “folle reo” sconti la pena in carcere come chiunque altro? Secondo me negli istituti di pena devono rimanere solo le persone con disturbi mentali che sono risultate imputabili e quindi condannabili. Quelle vanno curate nelle articolazioni di tutela della salute mentale interne al carcere. In questo momento ci sono circa 6 mila persone con misure di sicurezza di libertà vigilata, pericolose socialmente, di cui circa il 60% è in strutture residenziali o nelle Rems (che contengono in tutto 700 posti), e il resto è seguito dai Csm. Il trattamento va valutato caso per caso. Bisogna migliorare l’assistenza sanitaria e di recupero sociale dentro e fuori le carceri, con anche forme innovative di gestione dei pazienti violenti. Io non dico di chiudere le strutture residenziali, e credo che dobbiamo anche pensare a delle innovazioni per la residenzialità. Abbiamo però un problema da risolvere: quello delle persone con disturbi psichici che non sono ancora stati dichiarati imputabili o non imputabili, e non sono stati ancora processati, ma scontano misure detentive provvisorie in carcere. E sono la maggioranza. Questa pratica dal mio punto di vista va abolita. È una questione di dove porre l’accento, se sul controllo o sulla cura e la prevenzione. È così? C’è una cosa che va detta con chiarezza: il sistema psichiatrico cura nella libertà, cercando di responsabilizzare le persone, non fa custodia. Se non nei casi estremi. Per quanto riguarda la sicurezza degli operatori, le Rems in questi anni hanno garantito un sistema di cura e anche di salvaguardia del personale. Devono evolversi, ma certo non possono essere pensati come dei luoghi dove le persone malate possono espiare vent’anni di pena. Perché non è nel mandato sanitario. Il pasticcio giuridico dello stato di emergenza sui migranti di Vitalba Azzollini* Il Domani, 4 maggio 2023 Lo stato di emergenza sui migranti presenta varie singolarità. La delibera dell’11 aprile non è ancora in Gazzetta Ufficiale, ove invece il 19 aprile è stata pubblicata l’ordinanza di nomina di Valerio Valenti come Commissario per l’emergenza. Incongruenza temporale che si traduce in incongruenza giuridica. L’emergenza è nazionale, ma il Commissario non lo è: quattro regioni non lo riconoscono. Tuttavia, anche in tali regioni potranno essere realizzate strutture di accoglienza in deroga ad alcune norme del Codice appalti, proprio come può fare il Commissario: il Codice lo consente anche senza stato di emergenza. Valenti, in quanto Commissario, può avvalersi dei prefetti come soggetti attuatori. Ma anche nelle regioni che non hanno firmato l’intesa Valenti potrà comunque impartire direttive ai prefetti, in quanto capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale. La decisione del Consiglio dei ministri sullo stato di emergenza - deliberato l’11 aprile scorso “in relazione al forte incremento dei flussi migratori verso l’Italia”, al “sovraffollamento nei centri di prima accoglienza” e alle previsioni di “un ulteriore incremento delle partenze nei prossimi mesi”, è stata sin dall’inizio poco chiara. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, qualche giorno dopo la deliberazione, aveva affermato che in realtà non c’è un’emergenza migranti e che la dichiarazione di tale stato era solo una “formula tecnica”. Come avevamo rilevato su queste pagine, quanto sostenuto dal ministro, oltre a contrastare con la “narrazione” del governo, poneva un problema sul piano giuridico: se non c’è una reale emergenza da affrontare, manca la base di fatto che giustifica la situazione derogatoria al diritto che si determina con lo stato di emergenza. Ma questa è stata solo la prima di una serie di singolarità connesse con la dichiarazione di tale stato. La delibera dello stato di emergenza - Dal giorno successivo alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, abbiamo monitorato quotidianamente la Gazzetta Ufficiale, dove è previsto siano pubblicati gli atti che “interessino la generalità dei cittadini e la cui pubblicità risponda ad esigenze di carattere informativo diffuso” (art. 18, c.1, T.U. 1092/1985). Tra questi atti può farsi rientrare la decisione di uno stato di emergenza nazionale. Tant’è che, attraverso la Gazzetta Ufficiale, è stata data informazione delle delibere relative a precedenti emergenze. Peraltro, trattandosi di un provvedimento relativo a una situazione di urgenza, ci si aspetterebbe che sia noto in tempi quanto più solleciti. Ma la delibera dovrebbe anche essere pubblicata sul sito istituzionale della Presidenza del Consiglio, presso cui è incardinato il Dipartimento per la Protezione Civile, ai sensi del cosiddetto decreto Trasparenza (d. lgs. n. 96/2016), rientrando tra i “provvedimenti di carattere straordinario in caso di calamità naturali o di altre emergenze” (d.lgs. 33/2016, art. 42). Invece, al momento sul sito del governo si può leggere solo il comunicato relativo allo stato di emergenza, che però non vale come fonte del diritto, anche se negli ultimi anni - specie in pandemia - si è provato surrettiziamente ad ampliare tali fonti. Ma quanto a singolarità non è tutto. La nomina del Commissario per l’emergenza - Il 19 aprile è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la delibera, datata 16 aprile, di nomina del Commissario per l’emergenza migranti. Si tratta dell’ex prefetto di Firenze, Valerio Valenti, attualmente a capo del Dipartimento libertà civili immigrazione presso il ministero dell’Interno. Quindi, la nomina del Commissario per l’emergenza è stata formalizzata in Gazzetta, mentre non la è stata la deliberazione dell’emergenza, che è precedente ad essa e ne costituisce la base. L’incongruenza cronologica si traduce in un’incongruenza giuridica. Ma c’è una singolarità ulteriore. Quattro regioni, guidate dal centrosinistra, non hanno firmato l’intesa per la nomina del commissario: sono Emilia Romagna, Toscana, Campania e Puglia. L’accordo con le regioni è previsto dal cosiddetto Codice della protezione civile (d.lgs. n. 1/2018): “per il coordinamento dell’attuazione degli interventi da effettuare durante lo stato di emergenza di rilievo nazionale si provvede mediante ordinanze di protezione civile (…) emanate acquisita l’intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate”. Dunque, lo stato di emergenza è “sull’intero territorio nazionale”, ma il Commissario per l’emergenza non ha poteri su tale territorio, non potendo operare nelle regioni da cui non è riconosciuto. Le conseguenze di quest’ennesima singolarità sono singolarità ulteriori. Le norme derogabili con l’emergenza - Nel commentare l’attuale stato di emergenza, avevamo rilevato come la possibilità di derogare ad alcune disposizioni del Codice degli appalti per la predisposizione di strutture di accoglienza sarebbe stata possibile anche senza la dichiarazione dello stato di emergenza. Infatti, in casi connotati da urgenza è possibile l’aggiudicazione senza previa pubblicazione del bando di gara (art. 63); inoltre, quando ricorrano “circostanze di somma urgenza che non consentono alcun indugio”, si può procedere all’immediata esecuzione dei lavori o di quanto indispensabile per rimuovere uno stato di pregiudizio, entro il limite massimo di 200.000 euro col vecchio Codice appalti (art. 163), di 500.000 euro col nuovo Codice, a partire dal prossimo luglio (art. 140). Queste norme in deroga sono richiamate dall’ordinanza di nomina del Commissario, che quindi potrà avvalersene. Ma, come detto, sono norme a cui si può ricorrere anche al di fuori dello stato di emergenza, e pertanto potranno essere utilizzate anche nelle regioni che non hanno firmato l’intesa sul Commissario, in base alla motivazione dell’urgenza di realizzare sollecitamente “nuove strutture, adeguate sia alle esigenze di accoglienza sia a quelle di riconoscimento e rimpatrio dei migranti”. Dunque, se pure in tali regioni il Commissario non potrà operare, alcuni dei suoi poteri derogatori al Codice appalti potranno comunque essere esercitati da altri soggetti, in quanto ciò è ordinariamente previsto dalla normativa vigente quando vi siano determinati presupposti. Questo dovrebbe indurre a farsi domande - che su queste pagine già ci eravamo fatti - sull’effettiva utilità di ricorrere alla dichiarazione dello stato di emergenza sui migranti, peraltro affrontando in modo emergenziale un fenomeno che richiede invece soluzioni strutturali. I poteri del Commissario e dei prefetti - L’ordinanza di nomina prevede, tra le altre cose, che il Commissario- avvalendosi dei prefetti in qualità di “attuatori” - coordini le attività per ampliare la capacità del sistema di accoglienza dei migranti, specie riguardo agli hotspot, nonché per predisporre strutture di accoglienza provvisorie, coinvolgendo i territori interessati e assicurando che si provveda a vitto, alloggio, vestiario, assistenza sanitaria e mediazione linguistico-culturale. Ma - come fa notare Openpolis - per svolgere questi compiti a Valenti non serviva essere nominato Commissario per l’emergenza. In quanto vertice del Dipartimento Diritti Civili e Immigrazione, tra le sue competenze rientra - come si legge sul sito del Viminale - quella di “garantire l’accoglienza e l’ assistenza dei richiedenti asilo nonché il primo soccorso agli immigrati irregolari sbarcati o rintracciati sul territorio nazionale”: in sintesi, la stessa competenza che gli viene attribuita dall’ordinanza di nomina. A questo riguardo, c’è ancora un’altra singolarità. Anche nelle regioni che non hanno riconosciuto il suo ruolo di Commissario, Valenti potrà comunque avvalersi dei prefetti, ma non in qualità di soggetti attuatori, bensì come longa manus del ministero dell’Interno sui territori. In altre parole, a Valenti basterà cambiare “cappello” - da Commissario a capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale - ed egli potrà comunque impartire direttive per l’accoglienza degli immigrati ai prefetti delle regioni che non lo hanno accettato come Commissario. E non è tutto. Anche senza le direttive di un Commissario per l’emergenza, i prefetti avrebbero i poteri per agire: la legge del 2015 sull’accoglienza dei rifugiati (d.lgs. 142, art. 11) prevede che, nel caso in cui manchino posti all’interno dei centri di prima accoglienza “a causa di arrivi consistenti e ravvicinati”, i prefetti possano disporne l’accoglienza “in strutture temporanee, appositamente allestite”, mediante procedure in deroga al Codice Appalti. Insomma, ancora una volta, per esercitare certi poteri non serve dichiarare lo stato di emergenza, né nominare un Commissario. In conclusione, siamo di fronte a un pasticcio giuridico, l’ennesimo in cui è incorso il governo e, dal decreto rave party in poi, li abbiamo puntualmente rilevati su queste pagine. Le valutazioni di consenso politico non debbono prevalere su quelle di diritto. Non è mai troppo tardi per capirlo. *Giurista Migranti. L’Italia è pronta a siglare un accordo anche con il criminale di guerra Haftar di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 maggio 2023 Il generale della Cirenaica è a Roma, dove ieri ha incontrato Tajani e oggi potrebbe essere ricevuto da Meloni. Ecco come è ritornato a essere di fatto uno degli interlocutori decisivi nel paese. Il generale libico Khalifa Haftar è a Roma dove ieri ha incontrato il vice premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Oggi potrebbe essere ricevuto anche dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. L’Italia sarebbe pronta a siglare un accordo sui migranti anche con il generale già condannato per crimini di guerra. Il generale, ex ufficiale nell’esercito del colonnello Gheddafi, da alcuni anni è diventato “l’uomo forte” della Cirenaica. Da qualche mese però, grazie ad un accordo con il premier di Tripoli, Abdelhamid Dbeibah, Haftar è ritornato a essere di fatto uno degli interlocutori decisivi in Libia, nonostante il fatto che per mesi dal 2019 avesse provato ad attaccare senza successo la città di Tripoli, scatenando mesi di guerra civile. Sul Foglio di qualche settimana fa avevamo scritto che prima o poi per l’Italia avrebbe potuto “essere necessario sedersi al tavolo e trattare con Haftar e i suoi uomini per fermare i flussi. L’Italia ha l’interesse a mantenere aperti i ponti con il generale, magari per siglare un domani un altro accordo sui migranti sul modello - contestatissimo - del memorandum italo-libico già concluso con Tripoli nel 2017”. E aggiungevamo che scendere a patti con il generale della Cirenaica “è un male necessario anche per Washington, che a fine marzo ha inviato in Libia l’assistente segretaria di stato americana per il medio oriente, Barbara Leaf”, proprio per incontrarlo. “I due hanno parlato della necessità di rinnegare i mercenari russi e di raggiungere un accordo per indire nuove elezioni, anche se nessuno sembra credere davvero nella fattibilità di entrambi i propositi”. Scrivete ai prigionieri politici in carcere in Russia, è un gesto prezioso di Paola Peduzzi Il Foglio, 4 maggio 2023 La giornata mondiale per la libertà di stampa al Giardino dei giusti di Milano ricordando le vittime della repressione di Mosca: con meno di due euro si può scrivere una lettera a un detenuto nella Federazione russa. “Per favore, scrivete lettere ai prigionieri politici”, ha detto Evgenia Kara-Murza, la moglie di Vladimir, condannato qualche settimana fa da un tribunale russo a 25 anni di carcere per essersi opposto alla guerra in Ucraina. Scrivete, scrivete, le lettere sono un bene prezioso “per il morale dei detenuti, combattono l’isolamento e danno speranza”, sono lo strumento per mostrare solidarietà e affievolire la solitudine, perché in quelle celle, come in tutte le celle, si rischia di essere scordati e ignorati, che è poi l’obiettivo di Vladimir Putin e di tutti i regimi, reprimere il dissenso, levarcerlo da sotto gli occhi così poi noi finiremo per dimenticarlo. Ieri al Giardino dei giusti di Milano si è celebrata la giornata mondiale per la libertà di stampa ricordando i giornalisti che sono finiti nelle carceri russe, gli attivisti, i dissidenti, chi si oppone alla guerra, le vittime della repressione russa contro chi cerca di raccontare e testimoniare la realtà. Con la regia della Fondazione Gariwo, tra le gigantografie dell’installazione fotografica “Inversione” del fotografo Danila Tkachenko (inseguito da un mandato di arresto internazionale dello stato russo per aver manifestato contro la guerra), alcuni giornalisti e attivisti russi, ucraini e bielorussi hanno raccontato quest’anno di conflitto e la persecuzione del dissenso in ogni angolo raggiungibile dalla violenza russa. Hanno fatto i nomi, soprattutto, di chi è rinchiuso nelle prigioni dei regimi, i nomi che sentiamo più spesso - Evan Gershkovich, il reporter del Wall Street Journal arrestato con l’accusa di spionaggio - e quelli che sentiamo poco, come le voci dei 25 prigionieri politici russi raccolte nel volume “Proteggi le mie parole”. Qualche giorno fa sul Financial Times, Polina Ivanova ha scritto una lettera a “Evan, il mio amico rinchiuso in una prigione russa”, che cominciava così: “Scrivere al mio migliore amico costa 20 rubli a pagina, 65 per la busta, 75 in più per dargli la possibilità di rispondere”: con meno di due euro, si può far sentire meno solo un detenuto. Gershkovich ha risposto ai suoi amici, “fa battute, descrive i piccoli e quasi divertenti dettagli della vita in prigione per farci ridere”; anche la mamma della Ivanova gli ha scritto: “Hai avuto una giovinezza bellissima a Mosca, nessuno può rubartela”. Il giornalista le ha risposto: “Sto ancora girovagando per Mosca, solo in un unico posto, per ora”. Al Giardino dei giusti, Maria Mikaelyan della Comunità dei russi liberi mi ha detto che le lettere sono importanti, che più ne arrivano più si ha la possibilità che almeno qualcuna passi la censura delle guardie e arrivi al detenuto. Per le carceri in cui ci sono i prigioneri ancora sotto processo si usa il Fsin pis’mo, il sistema centralizzato gestito dalle carceri per le lettere ai detenuti: con meno di un euro (che va ai carcerieri) puoi mandare un’email, il sistema ti dice se la lettera è stata accettata, “ma non saprai mai se poi il destinatario l’ha potuta leggere”, dice Maria. Nelle colonie penali è peggio: c’è un sistema gratuito di missive gestito da attivisti che si chiama Rosuznik (si possono anche fare donazioni), le lettere poi vengono raccolte dagli avvocati che sono gli unici interlocutori dei detenuti che hanno già ricevuto una o più condanne. Gli avvocati le stampano, le mettono negli scatoloni, “ma non è detto che poi riescano a consegnarle - dice Maria - Hanno sempre poco tempo con i loro assistiti e altre urgenze in quei pochi minuti concessi”. Ma qualcosa passa e arriva, come ha detto Alexei Navalny, ringraziando della solidarietà che riesce a sentire anche oltre il muro della censura, delle privazioni, dell’isolamento: le lettere sono preziose.