“Non diminuite le chiamate”: l’appello ai direttori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 maggio 2023 Ci sono alcuni direttori delle carceri che stanno decidendo di non interrompere le telefonate quotidiane tra le persone detenute e i loro cari, in modo da rinsaldare i legami familiari che spesso vengono spezzati dalla detenzione. Questo è ciò che riferisce Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, la quale ricorda che da volontaria ha passato molti anni in carcere, formandosi come mediatore penale e insegnando l’importanza dell’ascolto. Ornella Favero sostiene che l’incapacità di ascoltare è un problema che riguarda molte istituzioni, inclusi i sistemi carcerari. Spesso le esigenze delle persone detenute vengono ignorate, e questo può avere conseguenze negative sulla loro salute mentale e sulle loro relazioni familiari. Tuttavia, ci sono alcune carceri in Italia che stanno cercando di fare la differenza, concedendo alle persone detenute più tempo per le telefonate quando ci sono motivi di ‘particolare rilevanza’. La direttrice di Ristretti Orizzonti fa riferimento a esempi concreti di carceri in cui è stato possibile suddividere tra madri, mogli, figli e nipoti i dieci minuti al giorno di telefonata, offrendo così un’occasione preziosa per rinsaldare i legami familiari. Inoltre, Ornella Favero fa notare che la pandemia ha contribuito a rendere ancora più importante questa opportunità, poiché ha limitato i contatti personali tra le persone detenute e i loro cari. Per questo motivo invita tutti i direttori delle carceri a fare ogni sforzo per permettere alle persone detenute di telefonare a casa ogni giorno e di continuare a fare almeno una volta a settimana la videochiamata. Questo aiuterebbe a ridurre la solitudine e il rischio di suicidio tra le persone detenute, e a mantenere i legami familiari che spesso sono l’unica fonte di sostegno e conforto durante la detenzione. In conclusione, Favero fa un appello a tutti coloro che lavorano nelle carceri per prendere sul serio l’importanza delle relazioni familiari per le persone detenute, e per fare tutto il possibile per sostenere questi legami preziosi. La possibilità di una telefonata quotidiana o di una videochiamata settimanale può fare la differenza nella vita delle persone detenute, offrendo una piccola ma preziosa occasione di connessione e di conforto. Un appello che è stato poi ripreso ed ampliato da varie associazioni, “Sbarre di Zucchero in primis”, anche perché la fondatrice di tale associazione è l’ex detenuta Michela Tosato. È lei che per un periodo è stata compagna di cella di una giovane ragazza, Donatella Hodo, che si suicidò al carcere di Verona lo scorso 18 agosto. La solitudine, il senso di abbandono, lo sconforto, il sentirsi continuamente sbagliati, la sensazione di essersi rovinati la propria vita e di non avere più alcun un futuro. In carcere tutto è amplificato. Ridurre a pochi minuti a settimana l’affettività, devasta ancor di più. Una telefonata al giorno, Anastasìa: “Si può, si faccia” garantedetenutilazio.it, 3 maggio 2023 Con un ordine di servizio, anche la direttrice dell’istituto penitenziario di Velletri proroga la disciplina emergenziale in materia di colloqui e telefonate. Con l’ordine di servizio n. 12 del 26 aprile 2023, inviato per conoscenza al Prap, all’Ufficio di sorveglianza e al Garante regionale, la nuova direttrice della Casa circondariale di Velletri, Anna Rita Gentile, “preso atto che le maggiori telefonate durante la pandemia hanno rasserenato gli animi e più che mai le famiglie”, ha disposto che a far data dal 1 maggio “le persone ristrette potranno beneficiare, su loro richiesta, anche di una telefonata al giorno, previa verifica dell’utenza”. Tale disposizione corrisponde a quanto richiesto in queste settimane dalla Conferenza del volontariato della giustizia, affinché le direttrici e i direttori esercitino la discrezionalità che l’ordinamento penitenziario riconosce loro per garantire colloqui, telefonate e videochiamate oltre le ordinarie previsioni normative, prorogando così le regole introdotte con l’emergenza Covid-19. “La disposizione della direttrice del carcere di Velletri - il commento del Garante regionale Anastasìa - dimostra che è possibile mantenere, sia normativamente che organizzativamente, la disciplina in deroga sperimentata durante l’emergenza pandemica. Si può, si faccia: questo il mio appello a tutte le direzioni degli istituti penitenziari del Lazio, in attesa che il Governo modifichi la vetusta previsione regolamentare che limita a dieci minuti alla settimana i colloqui telefonici con i familiari”. “Ci sono direttori di carceri che hanno deciso di non interrompere quelle telefonate quotidiane, che stanno rinsaldando tanti legami famigliari”. Così la presidente della Conferenza nazionale volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, su Ristretti Orizzonti del primo maggio (“Quando le istituzioni sanno ascoltare”). “Succede per esempio alla Casa di reclusione di Padova - prosegue Favero - dove le persone detenute possono di nuovo suddividere tra madri, mogli, figli, nipoti questa ‘ricchezza’ dei dieci minuti al giorno di telefonata, un autentico patrimonio la cui ‘rilevanza’ è costituita prima di tutto dal prezioso contributo a non sfasciare le famiglie, e a non lasciar sole le persone detenute. E a non metterle maggiormente a rischio suicidio. Ma succede anche a Firenze Sollicciano, succede a Trieste, succede in altre carceri”. “Gentili direttori - conclude Favero - fatelo succedere in tutte le carceri del nostro Paese, fate ogni sforzo per permettere alle persone detenute di telefonare a casa ogni giorno e di continuare a fare almeno una volta a settimana la videochiamata. E ci sarà nelle carceri un po’ di serenità in più, un po’ di solitudine in meno, forse anche qualche suicidio in meno”. Per una giustizia che ripari il dolore delle vittime di Stefano Arduini vita.it, 3 maggio 2023 Dialogo con Francesco Occhetta, docente alla Pontificia Università Gregoriana e segretario della Fondazione vaticana Fratelli tutti, autore de “Le radici della giustizia”. “La sfida è quella di sostituire la spada della giustizia che è la vendetta e la pena esemplare con l’ago e il filo della riparazione”. Mettendo al centro il dolore delle vittime e non la vendetta e il mito della “pena esemplare” Francesco Occhetta, gesuita dal 1996, insegna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed è segretario della Fondazione vaticana Fratelli tutti. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Milano, ha conseguito la licenza in teologia morale a Madrid e il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana. È specializzato in diritti umani all’Università degli studi di Padova. Ha completato la sua formazione a Santiago del Cile. Giornalista professionista dal 2010 ha ideato “Comunità di Connessioni”, un percorso di formazione per giovani all’impegno sociale e politico e fondato una testata editoriale. Per San Paolo da poche settimane è uscito “Le radici della giustizia”, il suo ultimo libro, che ha un sottotitolo molto pratico: “Vie per risolvere i conflitti personali e sociali”. Il nostro dialogo parte proprio da qui per approdare al designo di un nuovo modello di giustizia. Come scrive a pagina 61: “Il modello della giustizia riparativa capovolge la concessione classica di giustizia e pone al centro dell’ordinamento il dolore della vittima, la pena da espiare umanamente per l’autore del reato, l’incontro delle parti per ricostruire le ragioni dell’accaduto, la responsabilità della società di dare un futuro a chi improvvisamente se lo è visto negato”. Da dove nasce l’esigenza di scrivere un libro proprio in questo tempo che porta come sottotitolo: “vie per risolvere i conflitti personali e sociali”? Abbiamo perso la bussola: una volta si diceva che i conflitti aiutano a crescere. Non è più così? Questo volume nasce perché il tema della giustizia lo insegno all’Università Gregoriana e poi perché per anni ho svolto servizio nelle carceri di San Vittore a Milano, di Bucaramanga in Colombia in cui erano rinchiusi i guerriglieri, e nelle carceri di Arica in Cile costruite nel deserto di Atacama per gli ergastolani. In questi anni ho potuto ascoltare e dialogare con operatori di giustizia e detenuti, direttori delle carceri e cappellani, famiglie e volontari. Ho così imparato che credere nella giustizia è una forma di amore sia quando si è soli o in pochi a crederlo sia quando si viene fraintesi. Alla fine del Novecento quasi nessuno osava introdurre un paradigma diverso di giustizia rispetto a quello retributivo, esistevano solo alcune voci fuori dal coro come quelle del cardinale Carlo Maria Martini, da alcuni biblisti come padre Pietro Bovati e da pochi altri studiosi. Improvvisamente quei semi di cultura, dopo essere stati sepolti hanno fatto nascere i primi steli di vita. Così con questo volume vorrei dire ai giovani di non smettete di credere nella giustizia per diventare persone giuste. Fin dalle prime pagine parli delle responsabilità di un giornalismo giustizialista come fattore di crisi del modello di giustizia. Quali sono queste responsabilità e come rimediare? La costruzione della giustizia inizia dalle parole che si scelgono: se sono ponti o sono pietre, se ricostruiscono la verità dei fatti e sanno distinguere il male commesso dalla persona che lo ha commesso oppure se condannano prima delle sentenze dei giudici. Basta un cattivo articolo o un servizio televisivo mal intenzionato per rovinare la reputazione a persone innocenti, stigmatizzare nel reato le persone che lo hanno già espiato oppure costringere intere famiglie a lasciare le loro terre per la vergogna o per proteggersi. Eppure la deontologia del giornalista regola con molto rigore il tema. La sfida è quella di sostituire la spada della giustizia che è la vendetta e la pena esemplare con l’ago e il filo della riparazione. Tutte le raffigurazioni della giustizia si riferiscono a Dike, la figlia mitologica di Giove e di Temi, dea delle leggi e dei tribunali: il volto austero e duro, il globo nella mano sinistra simbolo del suo dominio e la spada nella mano destra con cui applica le sue sentenze. Sono immagini così tanto sedimentate da impedirne di immaginarne altre. Invece ne esistono di alternative, più miti e gentili. In uno degli affreschi più famosi al mondo, l’Allegoria del Buon Governo (1338-1339) in cui la giustizia è parte di un disegno più grande, indispensabile per far crescere la vita degli uomini e delle donne, è nutrita dalla sapienza e la sua azione genera la concordia. Oppure troviamo l’immagine della giustizia che simboleggia una donna con ago e filo che cuce le relazioni che si fratturano nelle nostre famiglie, nel quartiere, in società e nella vita politica. Un giornalismo in grado di narrare le gesta silenziose di queste realtà che cuciono e tengono insieme il tessuto sociale aiuterebbe la coesione sociale e il servizio pubblico. Come nasce il suo impegno da volontario nelle carceri e cosa le ha insegnato e continua a insegnarle questa esperienza? Fin da ragazzo avvertivo che era un mondo complesso e difficile, ricordo che scrivevo a un mio vicino di casa che era detenuto. Avevo capito come una lettera poteva cambiare la vita. Poi lo studio e la passione per il diritto penale fino a scegliere di prestare servizio in carcere. Non ci si abitua mai, entrare in un carcere è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista per fare finta che non esistano. È il modo “democratico” per rimuoverle dall’inconscio sociale. Nella mia memoria è rimasto scolpito ogni attimo vissuto nelle carceri in cui ho prestato servizio. Prima il rumore del cancello, poi il saluto agli agenti, i varchi da attraversare, il rumore delle chiavi sulle porte blindate, i lunghi corridoi da percorrere, l’aria rarefatta, l’illuminazione artificiale, i pensieri che si alternano alle paure, fino all’incontro con le detenute e i detenuti. Eppure approfondire la situazione in cui versano le carceri rappresenta la cartina al tornasole per misurare il grado di giustizia di una società su cui pesa il noto monito di Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Lei ha titolato il primo paragrafo del secondo capitolo “I significati della giustizia nella bibbia”. Quali sono questi significati? Il concetto di giustizia nella Bibbia è legato alle relazioni che nella vita si spezzano. Essere giusto o ingiusto è dato non tanto dall’obbedienza a una norma, ma dalla capacità di rispecchiare nel volto dell’altro la propria dimensione di persona giusta. L’”altro” nella Bibbia è innanzitutto Dio, ma è anche il fratello, il prossimo, l’avversario, un uomo o una donna che esigono il riconoscimento della loro dignità. In Israele chi denunciava il falso rischiava di essere punito con la pena stabilita dalla legge quando il processo stabiliva l’innocenza dell’accusato. Accusare un terzo innocente di tradimento o abuso, furto o concussione, significava dover espiare la pena prevista per quel reato. Anche l’onere della prova spettava alla parte che denunciava, non era a capo di chi subiva la denuncia. Sembra un paradosso ma proprio la Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e lo zio Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Non si nasce giusti per natura, lo si diventa per cultura, nella Bibbia la fraternità non è data biologicamente, è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue, l’Enciclica Fratelli tutti definisce questo processo da costruire con il nome di “fraternità”. Il cammino da compiere è lungo e complesso: il logos biblico inizia con l’odio verso il fratello e termina con l’amore per il prossimo. Una tensione irriducibile che rappresenta un punto di partenza e un (possibile) punto di arrivo. Alcuni princìpi biblici che ricostruisco nel volume possono essere così schematizzati: 1. Non giudicare ma rieducare il colpevole. 2. Responsabilizzare la società a coltivare la terra macchiata dal sangue del fratello altrimenti il frutto non crescerà più per nessuno; 3. nel male che si compie c’è già la propria condanna; 4. l’espiazione ha bisogno di tempo e di esperienze che permettano al reo di comprendere il male che ha fatto senza doverlo più giustificare o mascherare. Lei punta molto sul principio della giustizia riparativa: come funziona questo modello e come può essere applicato in Italia dopo la riforma Cartabia? La giustizia riparativa capovolge il modello classico di giustizia, colloca al centro il grande dimenticato dei Codici che è la vittima con il suo enorme dolore, chiede al reo di restituire - concretamente o simbolicamente - ciò che ha spezzato, invita la società civile a non custodire questo incontro senza considerare le carceri una discarica sociale, introduce la figura dei mediatori che favoriscono l’incontro e l’emergere della verità. Le vittime vengono seguite a partire dalle conseguenze interiori causate dal danno subito. La signora scippata avrà paura di uscire di casa, i clienti truffati dalla loro finanziaria avranno paura a fidarsi, i condomini trascurati dall’amministratore aumenteranno le tensioni tra loro, la ragazza violentata sarà toccata nella sua capacità di amare, la persona a cui è stata rovinata la reputazione sarà bloccata dalla vergogna. Al reo invece è chiesto di prendere coscienza del male fatto per poterlo integrare e risarcire. I mediatori attivano un “processo” in cui più che concentrarsi sull’oggetto del reato si pongono al centro i soggetti del reato, al punto che cambia la stessa epistemologia giuridico-criminologica: il reo, invece di essere “responsabile di” (una truffa, una violenza, un abuso, ecc.), è “il responsabile verso” qualcuno. Ricordo quando negli anni in cui prestavo servizio nel carcere di San Vittore permettevo agli autori di reato di incontrare le loro vittime. La pena non diminuiva cambiava il senso dell’espiazione. Il denaro non è sufficiente a risarcire il danno causato. Quando infatti viene ucciso un figlio, si subiscono discriminazioni sul posto di lavoro, si divorzia, si è subito un abuso ecc., il denaro non colma il dolore provato. Qualche anno fa avevo assistito a una mediazione in cui la vittima aveva chiesto un risarcimento di 80mila euro ma al termine del percorso ne ha voluti 2 mila euro, i restanti 78 mila rappresentavano ciò che occorreva per risarcire qualcosa d’altro. Il ruolo della mediazione aiuta a comprendersi. Venendo alla riforma? La riforma sostenuta dal Ministro della giustizia, Marta Cartabia, approvata nel 2021 e la sua attuazione nel 2022 rappresenta un prima e un dopo per la giustizia riparativa in Italia che si fonda sui princìpi di partecipazione attiva e volontaria delle parti e sul coinvolgimento della comunità. Lo spirito della riforma richiede allo Stato di sottrarsi evitando di infliggere una pena in forma autoritaria e di stabilirla volontariamente è una cultura della pena che promuove comportamenti attivi che permettono anche nell’esecuzione carceraria, una sorta di rieducazione e di risocializzazione. Il procedimento è gratuito e senza preclusioni di reato, sarà possibile per ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena o dopo l’esecuzione della stessa. È in questa scelta che risiede il cambiamento: ai programmi riparativi possono partecipare la vittima del reato, l’autore dell’offesa, i familiari, gli enti, le associazioni e i singoli cittadini che vi abbiano interesse. Il consenso alla partecipazione deve essere personale, libero, consapevole, informato, espresso in forma scritta e sempre revocabile (art. 48). Insomma una piccola grande rivoluzione culturale. Tuttavia la classe politica è purtroppo ancora divisa, teme di perdere voti, se fosse lungimirante invece capirebbe che ne guadagnerebbe moltissimi perché tutti desiderano una giustizia che invece di ripagare il male con altro male permette a chi sbaglia e a chi ha subito un nuovo avvenire. Giustizia riparativa: se la pena è ricucire lo strappo sociale di Francesco Occhetta Corriere della Sera - Buone Notizie, 3 maggio 2023 Riforma Cartabia, la pena che parte dalla sofferenza della vittima. È più della rieducazione prevista della Costituzione: ecco perché. Pubblichiamo qui di seguito alcuni passi del libro del teologo Francesco Occhetta “Le radici della giustizia” (Ed. San Paolo), tratti dal capitolo “La giustizia riparativa”. Gesuita, laureato in Giurisprudenza e specializzatosi in Diritti umani, l’autore è giornalista professionista e docente presso la facoltà di Scienze morali della Pontificia Università Gregoriana Misure di prevenzione, un trucco che cancella lo Stato di diritto. Nella storia del diritto la punizione è sempre stata pensata attraverso i sacrifici alla divinità o la vendetta degli uomini mentre la pena rispondeva alla legge e alla comunità offesa; il danno e i bisogni materiali e spirituali della parte lesa non venivano tenuti in considerazione dai legislatori e dai codici. Il modello della giustizia riparativa invece capovolge la concezione classica di giustizia e pone al centro dell’ordinamento il dolore della vittima, la pena da espiare umanamente per l’autore del reato, l’incontro delle parti per ricostruire le ragioni dell’accaduto, la responsabilità della società di dare un futuro a chi improvvisamente se Io è visto negato. Il padre della giustizia riparativa, Howard Zehr, la definisce “un modello che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”. Il modello nasce in Canada, nella provincia dell’Ontario, quando negli anni Settanta del secolo scorso due educatori, Mark Yantzi e Dean E. Peachey, propongono al giudice di non “punire” due giovani con la logica della vendetta ma con quella della riparazione. (...) Con questo modello cambiano le domande di giustizia dal punto di vista antropologico, la pena viene stabilita rispondendo a tre domande: Chi è colui che soffre? Quali sono i bisogni di chi è stato colpito? Quali impegni sorgono e da parte di chi? Nel modello classico, quello della “giustizia retributiva”, gli interrogativi a cui rispondere sono invece molto diversi, gli operatori di giustizia si devono chiedere: Quale legge è stata infranta? Chi l’ha infranta? Quale punizione dare? (...) La Costituzione italiana prevede anche un altro modello, quello della giustizia rieducativa in cui il centro dell’attenzione è focalizzato sul reo. (...) È per questo che i costituenti si sono espressi in chiave solidaristica scrivendo l’art. 27 della Costituzione in cui si afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il vantaggio di questa teoria è il recupero del condannato, la sua risocializzazione, la funzione special-preventiva della pena: il reo deve poter sentire l’espiazione come la condizione per riabilitarsi. Il limite invece rimane l’applicazione pratica, il fallimento dei percorsi di risocializzazione, che purtroppo non impediscono al condannato di ricadere nel delitto. La riparazione include qualcosa in più della rieducazione, scommette su una ricostruzione di relazione a partire da una restituzione causata dal reato, è come il lievito che fermenta la pasta del diritto. Si tratta di un modello adulto che non fa sconti sulla pena, ma umanizza la sua espiazione, chiede di riconoscere la verità, condanna il male, restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime. (...) La riforma sostenuta dal ministro della Giustizia, Marta Cartabia, approvata nel 2021, e la sua attuazione nel 2022, rappresentano un prima e un dopo per la giustizia riparativa in Italia. Introducono una visione nuova, in cui il sistema sanzionatorio carcerario lascia spazio al modello riparativo. Il modello definisce la “giustizia riparativi” con le parole ereditate dal diritto internazionale: “Ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”. La riforma Cartabia è destinata a cambiare anche il modello di difesa. Nonostante gli avvocati rimangano i più critici alla riforma saranno premiati gli studi professionali che scommetteranno sulla cultura della mediazione, investiranno sulle procedure extra-giudiziali e crederanno nella riparazione nel procedimento. In un tempo in cui l’interesse di molti avvocati è quello di alimentare ed esasperare i conflitti, prorogare i termini, fare ostruzionismo, trovare i vizi formali per bloccare i procedimenti, la cultura della riparazione e della mediazione sfidano gli avvocati a una difesa olistica, che va oltre la sentenza e la norma. (...) Per un cliente è un segno di correttezza e di affidabilità sapere che il proprio avvocato lavora per conciliare e risparmiare i tempi e i costi del processo. Rimane vera la massima giuridica: “Una cattiva conciliazione è sempre migliore di un buon giudizio”. Misure di prevenzione, un trucco che cancella lo Stato di diritto di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 3 maggio 2023 Con la consueta ed eccelsa sapienza giuridica Marcello Fattore, in un articolo pubblicato su Il Dubbio del 5 aprile scorso, ricorda che le misure di prevenzione hanno origini remote, sono da sempre limitative della libertà personale e, destinate a fronteggiare situazioni apparentemente eccezionali, hanno finito con essere stabilizzate dal potere statuale di turno: un sistema degno della peggiore inquisizione che, nei secoli, ha fatto una strage di diritti e ancora oggi conserva evidenti connotati repressivi. Conoscerne le origini è necessario, per smascherare l’ipocrisia di chi, pur di difenderle e non potendo altrimenti giustificarne la eccentricità rispetto ai principi generali dell’ordinamento, ne colloca la genesi quale risposta alla eversione terroristica o alla criminalità mafiosa. In realtà, un sistema punitivo/ preventivo era già presente nel Regno di Sardegna: tra le “regie patenti” alcune erano destinate agli “individui dediti alle osterie e all’ozio a tutti i vizi che ne derivano e che troppo sovente riescono ad eludere l’azione della giustizia”, che si ritenevano, pur in assenza di prove, essere autori di furti nelle campagne e che venivano raggiunti anche dalle misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Seguirono la legge Galvagno nel 1852, la legge Pica contro il brigantaggio nelle province meridionali e contro gli anarchici che “costituiscono turbamento” (ogni riferimento alla attualità è puramente casuale…). Nella produzione legislativa, vi fu una breve pausa fino all’avvento del fascismo, regime in cui le misure di prevenzione furono il maggiore strumento contro il dissenso politico. In quella stessa epoca, furono varate le prime misure di prevenzione antimafia, per conferire poteri speciali al prefetto. Con la Costituzione, la mancata previsione delle misure di prevenzione indusse il Legislatore ad una prima giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, prevedendo l’intervento di un giudice, ma senza tuttavia modificare il contenuto della legge: attribuire ad un soggetto diverso da quello esecutivo un potere tanto esteso pareva sufficiente a conferire alle misure di prevenzione dignità e rispondenza al dettato costituzionale. Ma, come contraltare, la proliferazione legislativa di nuovi soggetti passibili e l’introduzione massiccia di misure di prevenzione patrimoniali proseguì incessantemente, estendendo la normativa antimafia ai soggetti considerati pericolosi comuni (legge Reale del 1975), e prevedendo, nel 2009, la applicazione disgiunta di misure personali e patrimoniali per tutti, mafiosi e non, in base ad una semplice sproporzione rispetto ai redditi dichiarati. Nel 2011 l’operazione di “fagocitazione” dei pericolosi comuni tra i soggetti passibili di prevenzione si è completata anche dal punto di vista formale, con il varo del decreto legislativo 159 che passerà alla storia, significativamente, come il Codice Antimafia. In questi ultimi anni, la platea degli assoggettabili a misure di prevenzione si è arricchita, e oggi i destinatari sono anche persone (e patrimoni) che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso (gli stalker, gli evasori fiscali, i corrotti ad esempio). Un sistema così perverso che ha fatto dell’eccezione la regola, dell’emergenza l’ordinario, sacrificando diritti costituzionalmente garantiti, non poteva passare inosservato a livello europeo, al punto che con la nota sentenza del 2017 De Tommaso c/ Italia la Cedu rilevò un deficit di tassativizzazione nella normativa italiana in materia di misure di prevenzione. La Corte costituzionale, con una indubbia capacità di equilibrismo giuridico e un uso disinvolto della semantica, ha ritenuto che le misure di prevenzione pur avendo una dimensione afflittiva non hanno scopi punitivi, non possono essere assimilate alle pene, ma hanno come unico scopo il controllo della pericolosità sociale. Per usare le parole del professor Tullio Padovani, la distinzione operata dalla Corte costituzionale tra afflizione e punizione “corrisponde alla distinzione tra operazioni militari speciali e guerra”. Vane sono state le voci che, da parte della dottrina più illuminata e dall’avvocatura sono arrivate per denunciare l’incostituzionalità dell’intero sistema di prevenzione, che deve la sua sopravvivenza, si diceva, all’ipocrisia dei suoi falsi natali antimafia. E nel nome dell’antimafia, storicamente, è tutto consentito. Ecco che, allora, il presente e il futuro sono in realtà un ritorno al passato. Infatti, dalle “regie misure di prevenzione” del monarca per gli oziosi e vagabondi (in letteratura, quelle del principe per i “bravi” delle grida manzoniane, posti alla corda “ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno…”), siamo arrivati alle misure di prevenzione di competenza del Prefetto e del Questore, quali le interdittive antimafia nei confronti delle imprese e, per quanto riguarda i singoli, l’avviso orale qualificato (“salvato” dal denunciato profilo di illegittimità costituzionale anche con l’ultima sentenza della Consulta del 20 dicembre 2022): misura di prevenzione di tipo amministrativo “a vita” poiché, non ha una durata predeterminata (è l’ergastolo in versione preventiva…). Anche l’istituto del 41 bis è stato considerato dalla Corte di Cassazione una misura di prevenzione ibrida, che presenta “profili di differenza quanto a presupposti e funzioni” con le misure di prevenzione in senso stretto ma, nel contempo, singolari similitudini, in quanto collegato alla pericolosità dell’autore (e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa). Chi pensa, allora, che con qualche correttivo, o interpretazione “tassativizzante”, il sistema di prevenzione possa rendersi rispondente ai principi basilari dell’ordinamento, è come il medico che pensa di curare un tumore con medicine omeopatiche. La loro lunga storia ci dice che tutte le riforme, anche quelle presentate come nuove codificazioni, hanno solo scalfito la superficie di quella che si presenta come la peggiore delle “terribilità” statuali. Per dirla con le parole, ancora una volta condivisibili, di Marcello Fattore “la prevenzione è asistematica”, e come tale inemendabile: l’obiettivo dell’avvocatura penale non può che essere la cancellazione dall’ordinamento di un sistema che “tutti ci invidiano” ma che (chissà come mai…) nessuno ci copia. *Avvocato del Foro di Catanzaro **Avvocato del Foro di Torino La Cassazione: puoi fare impresa pure se hai il nonno colluso di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2023 Con la sentenza dello scorso 11 aprile viene scalfito il pregiudizio assoluto che soffoca l’economia del Sud: per la Suprema Corte l’azienda può andare avanti anche se ha tra i suoi familiari una persona ritenuta vicina alle cosche. È un piccolo spiraglio. Ma può essere l’inizio di un capovolgimento radicale degli stereotipi antimafia. Secondo la Cassazione, l’influenza del crimine organizzato su un’azienda non può essere desunta dalla semplice parentela fra persone ritenute “colluse” e gli amministratori dell’impresa. Dare per scontato che un imprenditore con familiari “scomodi” sia invariabilmente un prestanome di questi ultimi è dunque arbitrario, anzi illegittimo. È il senso di una sentenza (la 15156 del 2023) depositata dalla prima sezione penale della Suprema corte (presidente Monica Boni, relatore Raffaello Magi) poco meno di un mese fa, l’11 aprile. Vacilla finalmente il “comodo” (per chi vi ricorre) principio della “familiarità” che determina di per sé contiguità o addirittura “intraneità” al sistema criminale, principio in virtù del quale sono sottoposte a sequestro e confisca migliaia di aziende. Nello specifico, la Cassazione ha accolto il ricorso con cui una giovane imprenditrice calabrese (M. D.), già destinataria di un’interdittiva, reclamava di poter accedere almeno alla cosiddetta “messa alla prova aziendale”: si tratta del controllo giudiziario attivato su volontà dell’imprenditore, istituto introdotto nel 2017. Non siamo insomma di fronte a una rivoluzione dei comunque rigidissimi criteri delle misure antimafia: si tratta di una concessione minima, ispirata al diritto e alla logica. La sentenza 15156 dell’11 aprile ha semplicemente ritenuto di poter accogliere la richiesta di “messa alla prova” nonostante il nonno della titolare, M. S., avesse avuto in passato rapporti con la cosca dei Mancuso. Secondo gli ermellini non si può negare, all’imprenditrice in questione, la possibilità di smentire l’ipotesi di subire, seppur in modo indiretto, l’influenza “per interposto parente” della ‘ndrangheta. Va detto che tale orientamento era già affiorato in qualche precedente decisione della Suprema Corte, in particolare con la sentenza 31831 del 2021, evocata ora nella pronuncia 15156 quando si ribadisce che “il condizionamento stabile delle attività di impresa, in caso di familiari non conviventi ritenuti portatori di pericolosità, non può essere affidato alla presunzione semplice derivante dalla complicità familiare”. L’affermazione sembra particolarmente adeguata al caso della sentenza di aprile: la giovane imprenditrice, M. D., si era vista prima applicare dal prefetto l’interdittiva e quindi negare dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Catanzaro l’accesso al controllo giudiziario previsto dalla riforma del codice antimafia promossa dall’allora guardasigilli Andrea Orlando (la legge 161 del 2017), la “messa alla prova”, appunto. Tutto perché il nonno della ricorrente, M. S., era stato a propria volta destinatario di misure di prevenzione, per pregresse relazioni con la cosca dei Mancuso. Ma i magistrati di Catanzaro, sia in primo che in secondo grado (nel 2021 e nel 2022), erano stati del tutto indifferenti a un dettaglio, ampiamente segnalato dalla difesa della giovane imprenditrice nel ricorso in Cassazione: il nonno “scomodo” si era visto revocare le misure antimafia già nel lontano 2014, anche in virtù della propria “collaborazione” con i pm, grazie alla quale erano state condotte operazioni anti-’ndrangheta nel Vibonese e nel Lametino. E la prima sezione penale di piazza Cavour è netta nel far notare come la Corte d’appello non abbia tenuto “in debito conto” la decisione con cui la sezione “Misure di prevenzione del Tribunale aveva ritenuto “cessata la condizione di pericolosità sociale” di M. S., il nonno della ricorrente. Cade, nella pronuncia della Cassazione, anche l’automatismo per cui un giovane imprenditore meridionale che abbia qualche parente coinvolto, anche solo in passato, in indagini antimafia, è certamente un “prestanome”, una figura di comodo che il parente colluso utilizza per tenere vive attività comunque collegate al crimine organizzato. Non può esserci un pregiudizio assoluto di questa natura, dicono gli ermellini: la Corte d’appello, fa notare la Cassazione, “non basa le proprie considerazioni circa l’assenza di capacità gestionale in capo a M. D. (l’imprenditrice ricorrente, nda) su argomentazioni fattuali, ma desume il dato storco”, cioè la “stabile ingerenza di M. S., (il “nonno” ritenuto in passato contiguo ai Mancuso, nda) dalla ipotizzata riproposizione di un modus agendi constatato in occasione di una precedente procedura di prevenzione”, che però si era conclusa nel 2018 e riguardava “altre compagini societarie”. E in questo modo, la Corte d’appello di Catanzaro, scrive la Cassazione, offre “un esempio di fallacia per generalizzazione”. Esattamente l’esiziale approccio che falcidia migliaia di imprese meridionali. E ancora, la presunzione per cui chi ha un parente macchiato dalla più o meno accertata vicinanza alle cosche ne sia senz’altro un prestanome non può di per sé “condannare” un’azienda, nel momento in cui i giudici si basano “su semplici congetture”, su “ipotesi fondate su mere possibilità”. È un segnale. Certamente non basta a realizzare un definitivo cambio di rotta della magistratura rispetto ai pregiudizi sulle imprese del Sud. Solo per citare una pronuncia di pochi mesi antecedente, basta ricordare che il Tar di Reggio Calabria, lo scorso 20 gennaio, aveva rigettato un ricorso presentato da un altro imprenditore avverso l’interdittiva inflittale dal prefetto con la seguente motivazione: “L’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che ne sono colpiti”, che “si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia” e che “per la sua natura cautelare e la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto ma solo la presenza di una serie di indizi, in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose”. E proprio per questo, secondo il Tar Calabria, “deve ritenersi esclusa ogni presunzione di irrilevanza dei rapporti di parentela, ove essi, per numero e qualità, risultino indizianti di una situazione complessiva tale da non rendere implausibile un collegamento, anche non personale e diretto, tra soggetti imprenditori e ambienti della criminalità organizzata”. Ragionamento in perfetto contrasto con quanto affermato dalla sentenza 15156 della Cassazione. Che però rappresenta un passo avanti impossibile da ignorare per qualsiasi magistrato, amministrativo o penale che sia. Milano. Carcere di San Vittore, reparto La Nave: “I nostri detenuti-pazienti” di Marta Grezzi Corriere della Sera, 3 maggio 2023 Il reparto di trattamento avanzato per le dipendenze in carcere. La scrittura di un mensile e il coro tra le attività terapeutiche. A San Vittore c’è un reparto in cui i detenuti si chiamano “pazienti” e il loro percorso di recupero passa attraverso una “cura”. Non perché commettere reati sia una malattia, intendiamoci: è un reparto di trattamento avanzato per persone con problemi di dipendenza da alcol o da sostanze (di cui le carceri italiane sono piene, anche se per legge non dovrebbe essere così) e quella sì che una malattia lo è. Però in senso lato il “prendersi cura” di chi sconta una pena - affinché questa non sia semplicemente una punizione ma una via di rieducazione e reinserimento, beh, questo è ciò che dovrebbe teoricamente avvenire se il sistema Italia mettesse in pratica su scala generale, e non solo nei casi eccezionali che pure fortunatamente esistono, quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Il reparto si chiama La Nave, è stato fondato nel 2002 dalla psicologa e criminologa Graziella Bertelli - che lo ha diretto per 20 anni - con l’allora direttore del carcere milanese Luigi Pagano ed è oggi guidato dalla dottoressa Giuliana Negri alla testa di una équipe della Asst Santi Paolo e Carlo di Milano attraverso il Servizio dipendenze area penale e penitenziaria, a sua volta diretto da Francesco Scopelllti. I detenuti-pazienti del reparto sono mediamente una sessantina e vi accedono su propria richiesta, previa certificazione dello stato di dipendenza, che implica l’accettazione di un programma trattamentale molto impegnativo e comprendente numerose attività a scandire la giornata, dai colloqui con medici e psicologi allo sport, dalla redazione del mensile L’Oblò al Coro che dopo i tre anni di chiusura iniziati con la pandemia ha recentemente ripreso anche le esibizioni esterne con un oratorio dedicato alla Passione eseguito nella basilica milanese di Sant’Ambrogio con gli artisti volontari della Scala e della Fenice. La particolarità della Nave è prendere “in cura” i detenuti-pazienti già durante la carcerazione preventiva, per impostare il percorso verso la “seconda possibilità” anche all’esterno con i SerD territoriali e in collaborazione con i volontari dell’Associazione Amici della Nave che a sua volta- tra l’altro - riporta quest’anno il Coro alla Civil Week per il concerto finale (6 maggio a Milano, ore 18, in Piazza Città di Lombardia) assieme alla band emiliana dei Rulli Frulli - sessanta percussioni suonate da giovani con disabilità - diretta da Federico Alberghini: l’unione di due fragilità a volte può fare veramente una grande forza. Lecce. La Garante dei detenuti Maria Mancarella riconfermata per altri cinque anni lecceprima.it, 3 maggio 2023 Il sindaco di Lecce ha firmato il relativo decreto di nomina. La figura è stata istituita dal consiglio comunale nel 2017 e il resoconto del primo mandato è stato illustrato a Borgo San Nicola il 20 aprile. Maria Mancarella è stata riconfermata, per un altro quinquennio, nel ruolo di Garante delle persone private della libertà personale. La decisione è stata presa dal sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, sulla base del lavoro fatto nel primo mandato. La figura del garante dei detenuti è stata istituita dal Consiglio comunale nel 2017. Il resoconto della prima esperienza, Mancarella lo aveva fatto in commissione consiliare e poi all’interno del carcere di Borgo San Nicola il 20 aprile. In quell’occasione aveva detto: “Bisogna aver visto e in questi cinque anni di lavoro come Garante, complicati, difficili e intensi in cui ho studiato, mi sono confrontata, ho incontrato persone, dentro e fuori dal carcere, in un costante percorso di scambio conoscitivo, di progettazione e realizzazione di attività e iniziative, ho visto il carcere e le persone che lo abitano”. E ancora: “Ho visto le celle, ho ascoltato le storie dei detenuti, ho accolto il loro dolore e la loro sofferenza; ho provato a cercare soluzioni, ho monitorato, segnalato le tante disfunzioni, le tante, troppe cose che non vanno, che sono la pena aggiuntiva, ingiustificata, che i detenuti sono condannati a scontare accanto alla perdita della libertà, con la sensazione contrastante e a volte contraddittoria, di essere al tempo stesso importante e inutile, punto di riferimento essenziale ma non sempre efficace almeno quanto io avrei voluto e quanto sarebbe necessario”. Il primo cittadino ha firmato il decreto sindacale di nomina il 28 aprile. Maria Mancarella ha insegnato Sociologia della famiglia e Politiche Sociali all’Università del Salento. Bari. Torture nel carcere, in 12 a processo: la vittima un detenuto con problemi psichici La Repubblica, 3 maggio 2023 Il 41enne, secondo la ricostruzione della Procura, aveva incendiato un materasso e durante lo spostamento dalla cella all’infermeria sarebbe stato percosso da sei agenti di polizia penitenziaria, mentre colleghi e infermieri non sarebbero intervenuti per interrompere le violenze. Dodici tra agenti di polizia penitenziaria e infermieri in servizio presso il carcere di Bari sono stati rinviati a giudizio per le presunte torture avvenute il 27 aprile 2022 a danno di un detenuto con patologie psichiatriche. Lo ha deciso la Gup Rossana De Cristofaro, nell’udienza svoltasi martedì 2 maggio nell’aula bunker di Bitonto. Il dibattimento per i 12 imputati inizierà il 21 giugno dinanzi al Tribunale di Bari. La giudice ha ammesso al processo con rito abbreviato tre imputati che ne avevano fatto richiesta. Secondo l’accusa, sei agenti della polizia penitenziaria avrebbero torturato un detenuto di 41 anni dopo che questi aveva dato fuoco a un materasso nella sua cella. Le violenze sarebbero iniziate lungo il percorso dalla cella all’infermeria, con il personale che - si legge negli atti giudiziari - sarebbe intervenuto “con violenze gravi e agendo con crudeltà” prima scaraventando il 41enne sul pavimento, poi colpendolo con calci e schiaffi sulla schiena, sul torace, sui fianchi e sul volto, “sottoponendolo per circa quattro minuti a un trattamento inumano e degradante”. Uno degli agenti, per tenere fermo il detenuto, lo avrebbe bloccato mettendosi di peso sui suoi piedi. In totale sono undici gli agenti coinvolti: tre sono finiti ai domiciliari e sei sono stati sospesi fino a 12 mesi nel novembre 2022. Ai poliziotti non accusati di tortura la Procura contesta di non aver fermato e di non aver denunciato le violenze. Pure gli infermieri saranno processati per omessa denuncia, mentre il medico - che ha scelto l’abbreviato - è accusato anche di falso in atto pubblico per non aver refertato le ferite riportate dal detenuto. L’inchiesta è stata condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e dalla sostituta Carla Spagnuolo. Napoli. “Viaggio nella detenzione al femminile”: dal 3 al 15 maggio mostre e visite nelle carceri napolitoday.it, 3 maggio 2023 Dal 3 al 14 maggio mostre, dibattiti e visite nelle carceri per un “Viaggio nella detenzione al femminile”. L’evento, promosso da Samuele Ciambriello, Garante Campano dei Detenuti, sarà inaugurato con il primo appuntamento (la mostra fotografica “Senza Colpe”), previsto per mercoledì 3 maggio presso il Consiglio Regionale della Campania (Isola F13 centro direzionale di Napoli) alle 10.30. La mostra di Anna Catalano racconta la vita che i bambini in Italia vivono con le proprie madri negli Istituti a custodia attenuata per madri-Icam. Secondo il Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia, sono 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. In Campania sono 333 le donne detenute di cui 11 con 13 figli presenti nell’Istituto a Custodia Attenuata per Madri di Lauro (Av). Inaugurano la mostra il Presidente del Consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero, il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, il pediatra Paolo Siani e la curatrice della mostra Anna Catalano. “Con queste iniziative - dichiara Ciambriello - vogliamo far conoscere l’universo carcerario al femminile, le storie, le criticità, le buone prassi nelle sezioni femminili e la possibilità che non ci siano più bambini in carcere. Una serie di atteggiamenti sta rilanciando lo stigma della ‘cattiva madre’ che poggia sull’archetipo patriarcale della donna ‘doppiamente colpevole’ infrangendo la legge: queste donne hanno ‘tradito’ la ‘natura femminile’, sono venute meno alla ‘missione’ di madre”. Parma. I detenuti-panettieri preparano le ostie per parrocchie e comunità La Repubblica, 3 maggio 2023 Un progetto che prosegue grazie alla collaborazione fra la Mensa di Padre Lino e la Caritas diocesana parmense. Si chiama “Pane libero & solidale” il progetto rivolto a una dozzina di persone detenute nel carcere di Parma. Una iniziativa che prosegue grazie alla collaborazione fra la Mensa di Padre Lino, gestita dai frati minori che svolgono anche servizio di assistenza religiosa in carcere, Caritas diocesana parmense e Cefal Emilia Romagna, ente di formazione del Movimento cristiano lavoratori e grazie al sostegno del contributo 8xmille di Caritas italiana. Attraverso la produzione del pane, destinato alle mense dei poveri, e delle ostie, distribuite nelle diverse parrocchie della diocesi, si cerca di migliorare la qualità della vita all’interno del carcere e di creare uno scambio fra la città e la realtà carceraria. I detenuti coinvolti, tutti condannati all’ergastolo ostativo, hanno studiato per acquisire la qualifica di panettiere e hanno deciso di donare il frutto del loro lavoro alle mense dei poveri e alle associazioni di volontariato di Parma. “Pane libero & solidale” è iniziato in occasione del Giubileo della misericordia e si è interrotto solo a causa della pandemia. Poi è ripreso e infatti nella sede della Caritas (in piazza Duomo, 3) sono disponibili per parrocchie e comunità religiose le ostie. Trani (Bat). Origami per i bambini malati, il dono del detenuto per dare coraggio di Emiliano Moccia vita.it, 3 maggio 2023 Un detenuto del carcere di Trani ha realizzato degli origami a forma di supereroi, minnions, orsetti, coniglietti per poi donarli ai piccoli pazienti del reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico di Bari, seguiti dall’associazione Apleti Ets. Ha scritto anche una lettera ai bambini per dare loro forza e coraggio. “Vi dono questi supereroi in quanto loro non finiscono mai di essere eroi, come voi. Anche mio figlio è un guerriero come voi. Siete guerrieri esemplari al mondo, perché non vi stancate mai di essere eroi e combattete tutti i giorni”. I guerrieri a cui queste parole fanno riferimento, sono i piccoli pazienti del reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico di Bari. A scrivere la lettera, invece, un detenuto del carcere di Trani che nelle scorse settimane ha realizzato gli origami colorati fatti con le sue mani per poi consegnarli al cappellano del penitenziario don Raffaele Sarno. È il sacerdote, infatti, che ha poi consegnato ad un volontario dell’associazione Apleti Ets i lavori realizzati, con la richiesta ben precisa di donarli ai bambini degenti al Policlinico. Il nome del detenuto non si conosce, ma il suo gesto è stato reso noto dalla stessa associazione Apleti Ets che nelle corsie del reparto svolge attività psicosociali, prendendo in cura sia i piccoli pazienti sia le loro famiglie. “Anche essendo lontano vi mando un abbraccio immenso con tutta la mia forza” scrive il papà-detenuto. “Vi amo come mio figlio”. Gli origami che ha realizzato nella cella del carcere di Trani sono ricchi di colore. Rappresentano supereroi, minnions, orsetti, coniglietti. “Sono delle vere e proprie opere d’arte realizzate con la tecnica degli origami, delle creazioni davvero splendide” dice a VITA Giovanna Natile, direttrice dell’associazione Apleti Ets, che attraverso la sua equipe di professionisti e volontari supporta medici ed infermieri del reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico di Bari. “Questi lavori raccontano il riscatto di un papà detenuto, che non conosciamo, non sappiamo chi sia, non sappiamo neanche per quale motivo sia finito in carcere. Ci fa riflettere e ci colpisce molto, però, il fatto che anche in un momento così doloroso, come quello della detenzione, lui abbia deciso di realizzare qualcosa per i bambini. In questi lavori c’è cura, impegno, amore” evidenzia Natile. “L’arte manuale di un uomo in rieducazione nella casa circondariale diventa dono per il sorriso dei nostri bambini”. Nei prossimi giorni, dunque, i volontari del sodalizio provvederanno ad esaudire il desiderio del detenuto, che in questo gesto di carezza verso bambini che non conosce e che stanno vivendo un momento difficile, riconosce anche tracce della vita di suo figlio. Gli origami saranno donati agli attuali 12 piccoli pazienti ricoverati nel reparto. “Prima di Pasqua, un detenuto della casa circondariale mi ha avvicinato per espormi un suo desiderio: ha un figlio piccolo gravemente malato di diabete e questo lo ha spinto ad una bella iniziativa nei confronti di bambini che versano nelle medesime condizioni. È stato molto bello come pensiero” aggiunge don Raffaele Sarno “perché lì dove tante volte si afferma una mentalità che io definisco predatoria, ha avuto la meglio una mentalità di solidarietà, di vicinanza, di condivisione soprattutto nel dolore”. Ferrara. Il Comune sostiene il laboratorio del Teatro Nucleo dentro la Casa circondariale cronacacomune.it, 3 maggio 2023 Il teatro come strumento di riscatto e di piena inclusione nella vita sociale. Va in questa direzione la realizzazione di un laboratorio teatrale all’interno della Casa Circondariale di Ferrara, che coinvolge oltre 30 detenuti, curato dal Teatro Nucleo e con il sostegno del Comune di Ferrara. L’assessorato alle Politiche sociali ha infatti destinato alla progettualità un contributo di 10mila euro. “Si tratta di una meritoria iniziativa - dice l’assessore alle Politiche sociali Cristina Coletti - che rappresenta, per le persone che vi prendono parte, un’opportunità reale di rilancio e di crescita personale. In questo progetto il teatro va infatti visto come una modalità attiva per far nascere in chi lo pratica nuove attitudini, per stringere relazioni, sviluppare il gioco di squadra e lo stare insieme. Tutto ciò è finalizzato a migliorare il benessere dei detenuti e soprattutto la loro esperienza di rieducazione e reinserimento nella società. Dall’altro lato si vuole creare nella società una visione nuova, che consenta ai cittadini di incontrare i carcerati oltre i pregiudizi”. La progettualità è stata ideata con l’obiettivo di fornire ai detenuti coinvolti gli strumenti professionalizzanti nel campo dell’arte teatrale, in modo da far acquisire ai partecipanti competenze e far intraprendere un percorso di alfabetizzazione non solo linguistica, ma anche emotiva a relazionale. Il laboratorio prevede l’individuazione di un tema specifico intorno al quale costruire la fase creativa, a cui seguirà la realizzazione di uno spettacolo e la produzione di documentazione e materiale promozionale per sensibilizzare sul percorso svolto sia i cittadini che gli stessi detenuti. “Agnusdei” è stata l’ultima opera teatrale messa in scena all’interno del carcere di Ferrara, liberamente ispirata alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Interpretata da attori-detenuti la serata, aperta al pubblico, ha visto la partecipazione dell’Assessore Coletti che ha avuto l’occasione per ribadire il valore del teatro in carcere come movimento che costruisce un ponte tra dentro e fuori e ringraziare il registra Marco Luciano per essere riuscito a creare un percorso così positivo all’interno della struttura penitenziaria. Lo spettacolo sarà riproposto al teatro Comunale di Ferrara il prossimo 12 giugno alle 21. Firenze. Un evento-mostra con le opere artistico teatrali realizzate in carcere dalle associazioni Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2023 Sabato 29 aprile il gruppo portAperte della Casa del Popolo di Galluzzo di Firenze, ha ospitato l’evento “Invisibili - Segni dal carcere”, a cura dell’associazione La Poltrona Rossa. Si tratta di una mostra d’arte di opere che sottolineano l’importanza delle pratiche artistiche e teatrali nei luoghi di detenzione. Fulcro di questo evento sono stati le opere e i video realizzati dalle giovani ristrette e i giovani ristretti che momentaneamente vivono negli Istituti Penali per Minorenni di Pontremoli e G.P. Meucci di Firenze. Le tele sono state prodotte durante i laboratori svolti dagli operatori dell’associazione La Poltrona Rossa e dell’associazione Progress. A contribuire all’incontro, aperto alla città fiorentina, è stata la presenza dell’associazione Pantagruel che ha esposto i prodotti realizzati dai detenuti nella Casa Circondariale Sollicciano di Firenze. L’evento è stato inaugurato con una conferenza sulle pratiche artigianali, artistiche e teatrali in carcere. Tra i relatori sono intervenuti Grazia Mattioli, coordinatrice del gruppo portAperte; Sergio Tamborrino, presidente della Sezione Anpi di Galluzzo (FI); Antonia Bianco, direttore dell’Istituto Penale per Minorenni G.P. Meucci di Firenze e Simone Andreozzi, educatore delegato dalla direzione del carcere minorile di Pontremoli. Per il Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere è stata molto apprezzata la lettera di saluti del Prof. Vito Minoia, presidente. Per le associazioni protagoniste sono intervenuti il Presidente Giuseppe Maulli con l’Architetto Gianni Biagi dell’associazione Pantagruel, Franca Fringenti dell’associazione Progres e Ivana Parisi Presidente dell’associazione La Poltrona Rossa. Nelle diverse fasi della conferenza l’attrice Margherita Casamento ha letto i testi scritti dalle giovani ristrette ed editi nel libro Castelli di Lunae realizzato dall’associazione La Poltrona Rossa con i Fondi Otto per Mille della Tavola Valdese. Invisibili è un’iniziativa patrocinata dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia che in occasione della decima giornata del teatro in carcere e, in questa occasione sono stati proiettati i video “Le donne nell’arte” (associazione Progress) e “La Mia Tempesta” (associazione La Poltrona Rossa). Giornalismo, un mestiere a rischio di Raffaele Lorusso La Repubblica, 3 maggio 2023 Per tutelare l’indipendenza dei giornalisti e rafforzare il diritto dei cittadini a essere informati, è in discussione al Parlamento di Strasburgo una proposta di legge europea per la libertà dei media. Sono passati trent’anni da quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì la Giornata Mondiale della libertà di stampa per riaffermare un diritto fondamentale che costituisce il pilastro della democrazia liberale. Dal 1993, il 3 maggio è l’occasione per ricordare i giornalisti uccisi, arrestati, perseguitati nell’esercizio della loro professione, ma anche per riflettere sullo stato di salute dell’informazione. Un esercizio non retorico, soprattutto in una fase caratterizzata da una radicale trasformazione del settore dei media che in tutto il mondo mette a dura prova il mercato del lavoro e minaccia la sopravvivenza di numerose testate. È indubbio che il mestiere del giornalista sia sempre più a rischio. Il numero dei cronisti ammazzati, arrestati, sottoposti a misure di polizia o intimiditi per via del loro lavoro è in costante aumento. “Il giornalismo non è un crimine”, ha ricordato qualche giorno fa il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel corso della cena con i corrispondenti alla Casa Bianca, chiedendo il rilascio dei giornalisti americani detenuti all’estero, a cominciare da Evan Gershkovic, arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio. Un caso tutt’altro che isolato. La stessa sorte è toccata ad Andrzej Poczobut, giornalista bielorusso corrispondente del quotidiano di Varsavia “Gazeta Wyborcza”, arrestato due anni fa e di recente condannato a otto anni di carcere perché giudicato colpevole di “incitamento all’odio nazionale e religioso, istigazione a danneggiare la sicurezza nazionale e riabilitazione del nazismo”. Non vanno dimenticati Julian Assange, sul quale pende una procedura di estradizione negli Stati Uniti, e le decine di giornalisti rinchiusi nelle carceri turche. Ovunque nel mondo, sia pure in modalità diverse, il lavoro dei cronisti è sotto attacco. Non fa eccezione l’Italia, dove da anni aumenta il numero dei cronisti sotto scorta perché minacciati di morte dalla criminalità organizzata o da gruppi di ispirazione nazifascista. Ancora più subdole, e sempre più diffuse, sono le intimidazioni che arrivano attraverso le cosiddette querele bavaglio e le richieste di risarcimento danni milionarie. Un fenomeno che il Parlamento, da diverse legislature ormai, non riesce ad arginare per l’esistenza di uno schieramento trasversale che rende impossibile l’approvazione di qualsiasi intervento. Il dibattito è ripartito nella legislatura in corso, ma l’esito è tutt’altro che scontato. Questione di volontà politica. Cosa che non è mancata nel 2021, quando con il decreto legislativo numero 188 è stata recepita la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, diventata il pretesto per limitare il diritto di cronaca nel nostro Paese, impedendo ai cittadini di conoscere fatti rilevanti di cronaca nera e giudiziaria. Le criticità della situazione italiana sono state evidenziate nel rapporto 2022 della Commissione europea sullo Stato dell’Unione. Oltre alle minacce ai cronisti e alle liti temerarie, a indebolire l’informazione nel nostro Paese sono anche il lavoro precario e la vulnerabilità del servizio pubblico radiotelevisivo. Per tutelare l’indipendenza dei giornalisti e rafforzare il diritto dei cittadini ad essere informati, è in discussione al Parlamento di Strasburgo una proposta di legge europea per la libertà dei media. La bozza di Regolamento, che prende le mosse da un impegno assunto nel 2021 dalla presidente della Commissione, Ursula von del Leyen, prevede l’istituzione del Comitato europeo per i servizi dei media (l’Agcom europea) e norme a tutela del lavoro dei cronisti. A partire dal divieto per gli Stati membri di trattenere, sanzionare, intercettare, sorvegliare e perquisire i giornalisti e le redazioni perché rifiutano di rilevare le loro fonti, se non nei casi di rilevante interesse pubblico. Inoltre, sarà vietato utilizzare spyware nei dispositivi utilizzati dai giornalisti e dai fornitori dei servizi dei media, a meno che vi siano ragioni di sicurezza nazionale. Ulteriori garanzie riguarderanno i media di servizio pubblico: per assicurare il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione, le procedure di nomina delle governance e dei direttori dovranno essere “trasparenti, aperte e non discriminatorie”. Le istituzioni europee hanno presente il rischio di un generale indebolimento dell’informazione professionale. La crisi dei media tradizionali provoca in tutto il mondo chiusure di giornali, riduzioni di costi e tagli agli organici delle redazioni. Con il programma “Europa creativa” l’Ue ha messo a disposizione risorse per il sostegno anche ai mezzi di informazione, soprattutto digitali, e al giornalismo di inchiesta. Si tratta, però, di misure insufficienti a soddisfare le richieste presentate. Per incentivare e sostenere la trasformazione digitale delle aziende editoriali e la crescita di buona occupazione e di nuove professionalità in grado di cogliere le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale, schivandone i rischi, sarebbe necessario un Next Generation Eu dell’informazione. Senza risorse da investire nei nuovi modelli organizzativi il giornalismo professionale rischia di diventare una rarità. A venir meno sarà quella che il presidente americano Thomas Jefferson considerava l’anima della democrazia: “allo Stato senza i giornali, preferisco i giornali senza lo Stato”. Nessun rappresentante delle istituzioni può restare indifferente di fronte a questo scenario. In caso contrario, la Giornata Mondiale della libertà di stampa sarà soltanto una ricorrenza vuota. Psichiatria. La riforma contro la nostalgia del manicomio di Stefano Cecconi e Franco Corleone Il Manifesto, 3 maggio 2023 È ancora forte l’emozione, dolorosa, per la morte di Barbara Capovani, la psichiatra aggredita e uccisa a Pisa. Parlarne non è facile, immaginando la sofferenza dei suoi familiari, degli amici, dei colleghi. Ma perché non resti un fatto di cronaca nera, bisogna intervenire con razionalità su questa tragedia, per evitare che ne accadano altre, e per restituire senso e valore al lavoro per la salute mentale. Servono interventi concreti, con priorità verso misure per prevenire la violenza contro gli operatori, nel rispetto dei diritti costituzionali. Servono finanziamenti, assunzioni, formazione; e servono modifiche legislative. Occorre riportare al centro del dibattito pubblico l’urgenza di restituire forza ai servizi e agli operatori del Servizio Sanitario Nazionale. Un SSN ferito da anni di tagli e di trascuratezza politica, che, nonostante la lezione della pandemia, oggi è tornato ad essere marginale nelle scelte dei governi; anzi con il recente Def se ne programma il ridimensionamento. Particolarmente drammatica è la situazione dei servizi della salute mentale, per chi vi lavora e per i cittadini utenti. Sugli operatori si sono scaricate enormi responsabilità, quasi mai assicurando risorse adeguate, alimentando insicurezza e paure, atteggiamenti difensivi. È così che trova spazio la voce di chi evoca il ritorno dei manicomi, di chi non ha mai digerito la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e propone di moltiplicare i posti nelle Rems, sancendo così il loro ruolo di nuovi Opg. In questi giorni abbiamo visto come la tragedia di Pisa sia stata strumentalizzata da chi pensa alla psichiatria come strumento di controllo sociale, invece che come caposaldo per il diritto alla cura e alla salute di ogni persona. Ma se vogliamo davvero difendere e rilanciare la legge 180, è indispensabile completarne il disegno riformatore che si è interrotto e su cui era impegnato Franco Rotelli che ricorderemo sabato 6 a Trieste. Il passo compiuto con la legge 81 del 2015, che ha permesso la chiusura e il superamento degli Opg (che nemmeno la legge 180 era riuscita a scalfire), è stato importantissimo ma non è sufficiente. È rimasto in piedi il “doppio binario per i folli rei” soggetti senza diritti e senza responsabilità. Se giudicati incapaci di intendere e volere non sono imputabili. Una situazione che non permette un effettivo esercizio della giustizia verso chi ha commesso reati, anche gravi. Con le misure di sicurezza detentive in Rems, viene affidato alla psichiatria un mandato sempre più “custodiale”, sostitutivo del carcere. E allora bisogna cambiare questa situazione: affermare la responsabilità, commisurata alla condizione di salute, di ogni individuo che commette un delitto e il diritto di affrontare un processo e, se giudicato colpevole, ricevere una pena adeguata. In alcuni casi, soprattutto per i reati più gravi o per persone violente con gravi disturbi di personalità antisociale, il Dipartimento di Salute mentale dovrà effettuare un intervento terapeutico in carcere. Saranno previste misure alternative alla detenzione, con soluzioni individuali e percorsi volontari. Per questo, già nel 2021, con il manifesto ““folli rei”, cancellare il codice rocco contro le insidie neo-manicomiali” (promosso da StopOpg, la Società della Ragione, Coordinamento salute mentale e altri) abbiamo sostenuto un testo di legge in materia di imputabilità per le persone con disabilità psicosociale. La proposta di legge è stata ripresentata in questa legislatura alla Camera dei deputati con il n. 1119, sempre da Riccardo Magi e ora va rilanciata. È una risposta concreta e coerente e ripropone l’urgenza di misure forti per assicurare il diritto costituzionale, troppo spesso negato, alla salute e alle cure anche in carcere. Migranti. La disperazione non è una colpa di Franco Mirabelli huffingtonpost.it, 3 maggio 2023 Non si tratta di accogliere tutti ma di governare l’immigrazione, sapendo che solo in una dimensione europea è possibile farvi fronte, che l’Italia e gli altri Paesi di approdo non devono essere lasciati soli e che è necessario aiutare lo sviluppo dei Paesi africani per intervenire sulle cause stesse del fenomeno. Il tema dell’immigrazione è stato da sempre una priorità per le forze politiche che oggi governano il Paese. Di fronte a un fenomeno epocale che porta con sé problemi e alimenta paure, la destra ha spiegato che l’avrebbe contrastato con blocchi navali inattuabili e interventi mirati a far capire alle persone in fuga da guerre, dittature e fame che da noi vivrebbero male. Oggi che quelle forze sono al governo sono costrette a misurarsi con un fenomeno che, data la collocazione geografica del nostro Paese, non è possibile cancellare ma va governato. In questi mesi gli sbarchi sono quadruplicati rispetto agli anni scorsi e il governo Meloni ha dimostrato di essere impreparato e di essere condizionato dalla necessità di non rinunciare alle inutili parole d’ordine della propaganda contro gli immigrati. Se mettiamo in fila i provvedimenti assunti dall’esecutivo in questi mesi, risulta evidente la confusione e la loro inutilità. Il governo ha per prima cosa, con un decreto, reso più difficile il lavoro di salvataggio in mare delle ONG, imponendo loro di intervenire solo una volta in soccorso in mare per poi dover sbarcare i naufraghi in porti sempre più lontani dalle zone di intervento, decisi dal Ministero degli Interni. Un provvedimento, questo, che voleva colpire le ONG, come se avessero loro la responsabilità delle partenze dalle coste africane e alimentando il sospetto di loro connivenze con gli scafisti. L’aumento degli sbarchi in questi mesi basta a confermare quanto sia sbagliato e inutile quell’intervento. Ma il più recente decreto che, paradossalmente, porta il nome di Cutro, del luogo della tragedia più recente in cui hanno perso la vita decine di persone in fuga soprattutto dall’Afghanistan, è addirittura dannoso. Togliere, come si fa in quel provvedimento, la protezione speciale a persone che sono riconosciute in difficoltà per ragioni di salute e perché discriminate nei Paesi da cui fuggono significa, di fronte al moltiplicarsi degli arrivi, aumentare il numero degli irregolari, condannare all’illegalità e alla clandestinità chi potrebbe essere riconosciuto e integrato. Quarantamila persone (il dato è del capogruppo della Lega al Senato), che grazie alla protezione speciale vivono e spesso lavorano legalmente in Italia, diventeranno grazie a quel decreto clandestini. È evidente che un provvedimento come questo rappresenta il contrario di ciò che serve, anche per evitare che disperazione e clandestinità producano nuova manovalanza per la criminalità e nuovi ghetti che pesano sulle nostre città e sulla vita delle nostre comunità. L’idea che provvedimenti come questo coincidano con una maggiore possibilità di rimpatriare gli immigrati irregolari non è reale: i rimpatri continuano a essere pochissimi perché sono pochi i Paesi di provenienza disponibili. L’ultima trovata del governo è stata la dichiarazione dello “stato di emergenza” per l’immigrazione. Siamo di fronte a un fenomeno che è tutt’altro che una emergenza ma che va affrontato per quello che è, cioè una realtà con cui dovremo fare i conti per molto tempo. Sia chiaro, non si tratta di accogliere tutti ma di governare l’immigrazione, sapendo che solo in una dimensione europea è possibile farvi fronte, che l’Italia e gli altri Paesi di approdo non devono essere lasciati soli e che è necessario aiutare lo sviluppo dei Paesi africani per intervenire sulle cause stesse del fenomeno. Ma è sbagliata l’idea che il tema si possa affrontare alimentando le paure e colpendo le persone che migrano, come se la disperazione fosse una colpa. Migranti. Decreto Cutro, il governo pone la fiducia. Le opposizioni: “Dl disumano” di Simona Musco Il Dubbio, 3 maggio 2023 Giovedì il voto finale sul provvedimento. Magi: “Pieno di rozze sgrammaticature”. Il governo ha posto alla Camera la questione di fiducia sul dl Cutro, che prende il nome dalla tragedia del 26 febbraio scorso, costata la vita a 94 persone. Ad annunciarlo in Aula il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani. L’Assemblea si riunirà oggi per le dichiarazioni di voto sulla fiducia, a seguito delle quali è prevista l’illustrazione dei pareri e degli ordini del giorno. Giovedì è previsto invece il voto finale. L’obiettivo delle nuove misure - ha detto in aula il relatore di maggioranza, Riccardo De Corato (FdI), è quello di “rafforzare gli strumenti per favorire l’immigrazione legale, semplificandone gli aspetti procedurali, il potenziamento dei flussi regolari e, quindi, intensificare i corridoi umanitari e il contrasto alle reti criminali degli scafisti, che sono il vero grande problema che abbiamo di fronte a noi nel Mediterraneo”. Concetti fortemente contestati dalle opposizioni, secondo cui, invece, si tratta di un provvedimento bandiera che colpisce solo i più deboli. “Siete andati a Cutro, proprio lì, dove il mare è diventato un cimitero, per produrre un testo normativo che restringe le garanzie dei richiedenti asilo e i diritti delle persone migranti. Proponete, per arginare i flussi migratori, di indebolire la protezione speciale, scaraventando così decine di migliaia di persone in stato di irregolarità - ha detto in Aula il deputato del Pd, Mauro Berruto. Invisibili per la legge, ma materialmente presenti sul territorio, queste persone sono private della propria dignità, della possibilità di costruirsi una vita in Italia o in Europa. Certamente con questo decreto, dopo aver colpito le ong, colpite violentemente gli esseri umani e negate l’evidenza della storia, le ragioni dell’emigrazione: guerra, indigenza, miseria, a cui oggi si aggiunge l’emigrazione climatica”. Per Il M5S si tratterebbe di un vero e proprio atto di incivilita, a partire dall’espressione “sostituzione etnica”, utilizzata dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. “Basterebbe questo per non votarlo - ha detto in aula il deputato Alfonso Colucci -. La nostra Costituzione vede l’umanità al centro di ogni politica e governo e maggioranza la stanno calpestando. L’abolizione della protezione speciale è, dunque, un vero e proprio atto di inciviltà. La verità è che questo e altri provvedimenti del governo Meloni, come il dl Rave e il dl Ong, servono per instillare paura e smarrimento nella popolazione italiana, coprire l’incapacità del governo e preparare il terreno ad altre e più gravi limitazioni ai diritti fondamentali della persona”. Ad esprimere dissenso anche + Europa, che nella relazione di minoranza depositata da Riccardo Magi ha criticato l’impossibilità di una discussione effettiva sul decreto, evidenziato le storture in punta di diritto ma anche quelle culturali che soggiacciono al testo già approvato al Senato. Secondo Magi, “il testo è irricevibile in toto”, in quanto “prodotto di un’ideologia basata su una lettura storica e su un’interpretazione errate dello sviluppo attuale”. Il segretario di +Europa ha parlato della fake news del danno economico cagionato dai migranti, che invece si inseriscono “nel gioco dei fattori produttivi e del protagonismo economico”, citando, tra le altre cose, persino il Documento di economia e finanza 2023, approvato dal Consiglio dei ministri l’11 aprile 2023, che “riconosce che un flusso più consistente di migranti porterebbe a lungo termine benefici al nostro quadro economico e alla flessione del debito pubblico” . Le disposizioni del decreto, ha affermato Magi, “si caratterizzano per insipienza e, al contempo, per crudeltà, ipocrisia e flagrante violazione del diritto costituzionale ed europeo”. E il suo vero scopo, aggiunge, è teorizzare “l’immigrazione come illecito penale in sé”, consentendo, in deroga a ogni legge pur attualmente vigente e fino al 31 dicembre 2025, “la creazione di nuovi hotspot”, vere e proprie “carceri a cielo aperto” che “potrebbero rivelarsi fonte di guadagno incontrollato per quanti risultassero assegnatari di incarichi e appalti”. Ma non solo: l’esclusione dei richiedenti asilo dal sistema di accoglienza e integrazione è illegittima, in primo luogo perché opera una discriminazione, non riguardando i richiedenti asilo ucraini o afghani, e in secondo luogo perché in contrasto con le direttive dell’Unione europea, la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Un decreto pieno di “rozze sgrammaticature giuridiche e costituzionali”, ha concluso, che evidenzia “una profonda carenza di comprensione dei fenomeni contemporanei e di strategia politica di lungo periodo”. Dl Migranti, oggi il via libera della Camera alla stretta di Leo Lancari Il Manifesto, 3 maggio 2023 Previsto il voto di fiducia per il provvedimento che taglia la protezione speciale. Tutto come previsto. E tutto di fretta, perché il dl Cutro scade il 9 maggio, tra appena sei giorni, e il governo non vuole rischiare sorprese. Che non ci saranno. Oggi il provvedimento che tra le altre cose taglia la protezione speciale e impedisce ai richiedenti asilo di essere inseriti nel sistema Sai, verrà licenziato definitivamente dalla Camera dove è arrivato dopo essere stato approvato dal Senato. Via libera che sarà dato con il voto di fiducia, come ha annunciato ieri il ministro per i rapporti con il parlamento Luca Ciriani poco prima che l’aula bocciasse le pregiudiziali di costituzionalità. E tagliato, su richiesta della maggioranza, i tempi della discussione, ridotti a Montecitorio dopo che si erano allungati troppo a Palazzo Madama. “Questo decreto usa i migranti come una clava, non risolve il problema dei flussi migratori e mortifica il ruolo parlamento”, dice non a caso il segretario di +Europa Riccardo Magi illustrando in aula la relazione di minoranza al provvedimento. Sono stati dunque del tutto inutili gli appelli rivolti al governo da sindaci, associazioni e da alcuni governatori perché rimettesse mano al provvedimento varato dopo la strage di Cutro del 26 febbraio scorso e costata la vita a 91 migranti. Le nuove norme, oltre alla stretta sulla protezione speciale, smantellano il sistema di accoglienza e prevedono un aumento dei centri per il rimpatrio (Cpr) con un allungamento dei tempi di detenzione fino a 90 giorni prorogabili di altri 45. Viene inoltre previsto un nuovo reato penale per i trafficanti di esseri umani con pene che possono raggiungere i 30 anni di carcere. Quando il testo si trovava ancora al Senato un intervento dell’ultimo minuto della premier Giorgia Meloni ha portato alla riscrittura di un emendamento della maggioranza nel quale era inserita un’ulteriore restrizione che prevedeva lo stop al rispetto degli obblighi internazionali nel valutare la concessione della protezione e al momento delle espulsioni. Un passaggio che, se approvato, avrebbe rischiato di aprire uno scontro con il Quirinale. Le norme che oggi vanno al voto sono comunque più che sufficienti alla Lega per gridare vittoria e dirsi soddisfatta per aver reintrodotto i decreti sicurezza di Salvini. Ma anche per alimentare le preoccupazioni delle opposizioni che denunciano come l’ennesimo giro di vite, oltre a non risolvere il problema degli sbarchi, farà precipitare decine di migliaia di migranti nell’irregolarità. “La verità - afferma il deputato M5S Alfonso Colucci - è che questo e altri provvedimenti del governo Meloni, come il decreto Rave e il decreto Ong, servono per instillare paura e smarrimento nella popolazione, coprire l’incapacità del governo e preparare il terreno ad altre e più gravi limitazioni dei diritti fondamentali delle persone”. Per la dem Laura Boldrini, si tratta invece di “un insieme di misure affastellate tra loro che a tutto mirano tranne che a prevenire il ripetersi di tragedie come quella avvenuta il 26 febbraio”. “Di fronte all’immensità del problema delle migrazioni - afferma ancora Magi - il governo predilige un’ottica nichilista e sceglie ancora una volta di identificare nemici simbolici: gli “scafisti” e le organizzazioni non governative che svolgono il ruolo che lo spirito di umana solidarietà dovrebbe imporre a qualsiasi paese civile, prima ancora delle norme del diritto internazionale: la salvezza delle vite e l’accoglienza”. Migranti in Toscana, accoglienza allo stremo: torna l’ipotesi delle tendopoli di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 maggio 2023 Oltre agli immobili privati e non, la Prefettura chiede disponibilità di parchi e terreni per accogliere i migranti in Toscana. Continuano gli sbarchi di migranti anche in Toscana. I centri di accoglienza sono pieni, alcuni di questi già over quota. D’altra parte non è semplice gestire i numerosi arrivi, tanto che negli ultimi giorni è stata la stessa Prefettura a chiedere espressamente ai gestori dell’accoglienza di mettere a disposizione non solo immobili, ma anche giardini, prati, terreni, segno evidente che c’è il rischio tutt’altro che astratto di dover installare tendoni per l’accoglienza. L’assessore regionale all’immigrazione Stefano Ciuoffo, esprimendo contrarietà alle tendopoli e sottolineando che “in Toscana siamo in condizione di fare accoglienza”, sostiene che “potrebbero essere invece utilizzati immobili privati, alberghi o caserme, dove accompagnare i migranti ad personam con l’aiuto del Terzo settore”. Preoccupato anche il sindaco Dario Nardella, che ieri a Controradio ha detto: “Il governo, che diceva che bisognava chiudere i porti, fa poi i decreti flussi perché dice che vanno accolti i migranti. Il rischio delle tende c’è, non lo dico io ma la Prefettura, e il messaggio che diamo mettendo le tende è di vera emergenza sociale. Noi finora abbiamo detto che la soluzione non sono le tende, bisogna trovare le strutture e raccogliere le risorse per predisporle. Le nostre città sono arrivate a un punto di saturazione con le strutture di accoglienza di migranti”. Conferme arrivano dai gestori dell’accoglienza, come la cooperativa Albatros: “Le nostre 22 strutture nell’area fiorentina sono tutte piene - spiega Vincenza Vicino - La Prefettura ci ha chiesto ulteriore disponibilità ma abbiamo risposto che non abbiamo più posti”. Parole simili dalla Fondazione Caritas: “Centri pieni, stiamo cercando nuovi immobili ma non si trovano” dice la direttrice Ginevra Chieffi. Poi la cooperativa Girasole: “Siamo pieni - dice Mauro Storti - ma i migranti continuano ad arrivare, il sistema è saturo, servirebbero bandi con più risorse soprattutto per l’integrazione, altrimenti nessuno partecipa”. E infatti sono poche le associazioni che partecipano ai bandi, soprattutto dai decreti Salvini del 2018, in seguito ai quali ci sono meno risorse sul fronte integrazione. Negli ultimi anni sono stati tanti i soggetti fiorentini e toscani che si sono ritirati dai bandi, tanto che a Firenze gran parte dei gestori dell’accoglienza non ha sede sul territorio. Pochi giorni fa, in via straordinaria, la cooperativa Girasole ha aperto un Cas da 50 posti a Bivigliano. “Ma i posti non bastano” continuano a ripetere le associazioni. A pesare sul sistema d’accoglienza anche i tanti migranti ucraini - soprattutto donne con bambini - ancora presenti nelle strutture. Soltanto a Firenze, sono circa 1.800 i migranti presenti nei Cas. Secondo il governatore Eugenio Giani, però, la situazione è ancora gestibile: “Se ci si aiuta nell’accoglienza diffusa in Toscana c’è spazio per tutti”. Nei giorni scorsi il presidente, insieme ad altre tre Regioni, non aveva firmato l’intesa Stato-Regioni sullo stato di emergenza voluto dal Governo, decisione che nelle prossime ore potrebbe essere rivalutata dalla Toscana per consentire una gestione più agevole dei tanti arrivi. Israele. Il carcere senza processo fa una vittima, morto Khader Adnan in sciopero della fame di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 maggio 2023 Il detenuto che digiunava da 86 giorni contro la cosiddetta detenzione amministrativa praticata da Israele è spirato nella notte tra lunedì e martedì. La sua organizzazione, il Jihad islami, vuole vendicarlo. Israele minaccia una campagna militare. Khader Adnan non era il leader del Jihad islamica come hanno detto e scritto in tanti. Piuttosto era diventato un simbolo di “sumud” (resilienza) per la sua organizzazione e tutti i palestinesi. Più di ogni altra cosa, Adnan era uno dei mille palestinesi - su un totale di circa cinquemila prigionieri politici - incarcerati in Israele che non subiranno un processo e non conosceranno il motivo ufficiale del loro arresto. Khader Adnan, 45 anni, di Arrabe (Jenin), padre di nove figli, è morto nella notte tra lunedì e martedì nella prigione di Nitzan (Ramle) dopo un lungo sciopero della fame: 86 giorni. Per lui ieri, tra i palestinesi, gli aggettivi si sprecavano: eroe, martire, combattente. Ma alla storia Adnan passerà per la sua battaglia contro la “detenzione amministrativa” praticata da Israele che lo scorso 5 febbraio lo aveva costretto ancora una volta ad entrare in una cella senza processo. Contro di questa forma di “custodia cautelare”, potenzialmente a tempo indeterminato, eredità del Mandato britannico sulla Palestina (1917-48) che Israele continua ad impiegare quasi esclusivamente contro i palestinesi sotto occupazione militare, Adnan ha speso gli ultimi anni della sua vita. E lo ha fatto usando l’unica protesta possibile, lo sciopero della fame. Per ben cinque volte: 25 giorni nel 2004; 67 nel 2012; 54 nel 2014; 25 nel 2021. Martedì è diventato il primo prigioniero politico palestinese a morire per uno sciopero della fame in Israele dal 1992. Altri sei detenuti, aggiungono fonti palestinesi, erano morti in circostanze simili nel 1970, all’inizio degli anni 80 e nel 1992. Per giustificare la detenzione di Adnan, le autorità israeliane insistono sulla sua appartenenza al Jihad islami e i media israeliani aggiungono che il detenuto aveva espresso in maniera pubblica sostegno alla lotta armata. Ma Khader Adnan questa volta come altre volte precedenti non è stato processato. Contro di lui non sono state mosse accuse precise in linea con una forma di detenzione che mira prima di tutto a “togliere dalla circolazione” per mesi, in alcuni casi per anni, un palestinese ritenuto scomodo o pericoloso senza che l’intelligence produca le prove di suoi “reati”. Contro questa pratica che prima i britannici e poi gli israeliani hanno impiegato contro i palestinesi - molto rari sono i casi di cittadini israeliani posti in detenzione amministrativa - si sono espressi nel corso dei decenni attivisti, giuristi, personalità di spicco, centri per i diritti umani internazionali e locali senza ottenere alcun risultato. La salute di Adnan era peggiorata rapidamente nelle ultime settimane. La famiglia aveva avvertito che stava morendo e che era a rischio di un infarto a causa dei suoi passati scioperi della fame che lo avevano portato più volte sull’orlo della morte. Le autorità israeliane si sarebbero rifiutate di trasferirlo in ospedale ad aprile, dopo che si era aggravato, sebbene avesse bisogno immediato di terapie mediche. E sostengono che il detenuto “aveva rifiutato di sottoporsi a esami clinici”. Il tribunale militare di Salem aveva sommariamente esteso per due volte l’ordine di detenzione amministrativa di Adnan e il 23 aprile gli ha negato la libertà su cauzione. Il 1° maggio, il giudice d’appello del tribunale militare ha rinviato la sua decisione per altri 10 giorni. Il Consiglio delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani (Phroc) parla perciò di “lenta uccisione” e di “omicidio premeditato” di Khader Adnan. La moglie Randa Musa attacca non meglio precisate parti palestinesi che “non avrebbero fatto nulla di concreto per fermare la lenta morte” del marito. Parole che, con ogni probabilità, sono rivolte all’Autorità nazionale palestinese (Anp) che non si è attivata per far liberare Adnan. Da parte sua il primo ministro dell’Anp Muhammad Shtayyeh ha accusato le autorità israeliane di aver “commesso un assassinio” e il ministero degli esteri ha chiesto una indagine internazionale sulle circostanze del decesso del prigioniero. Il Jihad islami ha avvertito che la morte di Adnan non resterà impunita. Manifestazioni e raduni di protesta si sono svolti in Cisgiordania e Gaza dove è stato proclamato uno sciopero generale. Le ore successive alla morte del detenuto sono state una lenta e sempre più ampia escalation militare. I lanci di razzi da Gaza verso Israele da parte del Jihad, Hamas e altre organizzazioni, sono stati prima sporadici poi più continui. 22 in totale fino a ieri sera, alcuni dei quali sono caduti a Sderot e in altri centri abitati senza fare danni alle persone. Israele ha colpito Gaza con l’artiglieria e l’aviazione quindi, attraverso i suoi comandi, ha annunciato che la sua reazione si sarebbe fatta più dura con il passare delle ore. Poco alla volta i tamburi di guerra hanno preso il sopravvento e della detenzione amministrativa, condannata dal diritto internazionale perché viola i diritti umani, non ha parlato quasi più nessuno. Egitto. Giornalista di Al Jazeera scarcerato dopo 4 anni di custodia cautelare nigrizia.it, 3 maggio 2023 Dopo quattro anni di detenzione in custodia cautelare in Egitto, è tornato libero il 30 aprile scorso Hisham Abdel Aziz, corrispondente della rete televisiva Al Jazeera. La notizia è stata data dalla moglie su Twitter e confermata dai responsabili del canale qatarino e dal capo del sindacato egiziano della stampa, Khaled El-Balshy. Abdel Aziz, cittadino egiziano che lavorava nella sede a Doha, era stato fermato all’aeroporto internazionale del Cairo nel giugno 2019 mentre era in viaggio per motivi famigliari. Al Jazeera sostiene che il giornalista sia stato “sottoposto a sparizione forzata per circa un mese” prima che si scoprisse che era in custodia cautelare. Seguendo una prassi ormai tristemente famosa in Egitto, da allora le autorità hanno chiesto e ottenuto ripetute proroghe di 45 giorni per la sua detenzione. Il canale televisivo è stato messo sotto accusa dal presidente Abdel Fattah al-Sisi dopo la sua conquista del potere nel 2013 in seguito alla deposizione di Mohamed Mursi. L’ex presidente era considerato vicino al movimento dei Fratelli Musulmani, che ha bandito, e Al Jazeera di essere un portavoce del gruppo. Dal 2017 Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein avevano boicottato il Qatar, accusandolo di sostegno al terrorismo. I rapporti avevano poi iniziato a distendersi nel gennaio 2021. Fu allora che Egitto e Qatar ripresero i rapporti diplomatici, cui seguì la nomina dell’ambasciatore egiziano a Doha nel giugno dello stesso anno. Lo scorso settembre, in concomitanza con la prima visita ufficiale di al-Sisi in Qatar, le autorità egiziane hanno rilasciato un altro giornalista di Al Jazeera, Ahmed al Nagdy. In detenzione al Cairo restano altri due giornalisti della tv qatarina, assieme a decine di migliaia di attivisti, blogger e detenuti politici, vittime della feroce repressione del regime contro il dissenso. Marocco. Divieto di leggere e scrivere nelle prigioni amnesty.it, 3 maggio 2023 Almeno quattro giornalisti e due intellettuali, detenuti nelle carceri marocchine, non possono leggere né scrivere. Taoufik Bouachrine, giornalista di Akhbar el-Youm, uno degli ultimi giornali di opposizione del paese, sta scontando il quinto di 15 anni di carcere che gli sono stati comminati per aggressione sessuale. Fino a poco tempo fa, poteva scrivere un diario e studiare per conseguire un master in Giurisprudenza. All’inizio di maggio, è stato trasferito dalla prigione di Ain Borja a quella di Arjate e gli sono stati confiscati appunti e manoscritti. Omar Radi, giornalista d’inchiesta molto critico nei confronti della situazione dei diritti umani, è stato condannato il 6 luglio 2021 a sei anni di carcere per stupro e spionaggio al termine di un processo-farsa. Gli è vietato scrivere e ricevere lettere dei familiari e degli amici. Anche lui non può studiare per un master. Soulaiman Raissouni, direttore di Akhbar el-Yaoum, condannato per aggressione sessuale, ha condiviso lo stesso carcere con Radi tra luglio 2020 e aprile 2022. Nonostante fossero entrambi in isolamento, i due prigionieri si erano messi d’accordo per scriversi a vicenda ogni domenica, con l’intenzione di pubblicare un libro intitolato “Le lettere della domenica”. La direzione del carcere li ha scoperto e ha sequestrato tutto il materiale. Quando Raissouni è stato trasferito nella prigione di Ain Borja, nel maggio 2022, gli è stato sequestrato un racconto che aveva iniziato a scrivere alla fine del 2021. Rida Benotmane, scrittore ed esponente dell’Associazione marocchina per la difesa dei diritti umani, è detenuto in cella d’isolamento nella prigione di Arjate dal settembre 2022. Gli è vietato possedere una penna. Una volta gli è stato sequestrato un libro perché conteneva la parola Kabul nel titolo. Mohamed Ziane, 80 anni, avvocato ed ex ministro per i diritti umani, è in carcere dal 21 novembre 2022. È stato condannato a tre anni di carcere per 11 reati, tra cui offesa a pubblico ufficiale e aggressione sessuale. Gli è vietato leggere i quotidiani e non può scrivere al suo avvocato.