Tortura, il divieto che fa democrazia di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 31 maggio 2023 Siamo al XIX rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Il primo risaliva al cambio di millennio e fu la straordinaria visione di un grande magistrato, Sandro Margara, che si trovava a capo del Dap a quel tempo, a consentirci di svolgere il nostro lavoro di osservazione delle carceri. Di “stanchezza penitenziaria” scriveva Salvatore Mannuzzu, che introdusse il nostro primo rapporto. Esso si titolava “Il carcere trasparente”. Eravamo nel lontano 2000. Mannuzzu stigmatizzava una retorica che non si trasformava mai in riforma e trasformazione sociale. Il carcere è un grande pachiderma difficile da spostare in avanti. Per riuscirci è necessaria tanta pazienza. Forte, tra gli operatori, è la stanchezza penitenziaria. Ci sono magistrati, direttori, comandanti, poliziotti, educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, infermieri, mediatori culturali, volontari, insegnanti che sono chiusi dentro una routine che stanca, che scandalizza, che si ripete in modo grigio. Molti di loro sono persone eccezionali che “instancabilmente”, anche nei periodi più difficili dell’era repubblicana, hanno continuato a dirigersi verso un’idea di pena che non sia mera sofferenza o pura afflizione. E c’è chi, come è avvenuto nel carcere di Bari, ha avuto la forza e il coraggio di denunciare le violenze nei confronti dei detenuti di cui era venuto a conoscenza. Il carcere è una enorme questione antropologica. I numeri drammatici che sono raccontati nel rapporto di Antigone non sono freddi numeri. A loro corrispondono nomi, storie, biografie, successi, delusioni, fallimenti, morti, figli, genitori, amori, tragedie. Se non capiamo che a ogni numero corrisponde una persona, non sarà mai possibile spostare l’asse della pena fuori dai confini di un’idea di carcerazione intesa come vendetta. Il sistema penale è fortemente selettivo. La questione carceraria è anche una questione di classi subalterne e di esclusione sociale. Negli istituti penitenziari troviamo un altissimo numero di persone povere, con problemi di dipendenza, affette da disagio psichico, sole, provenienti da Paesi lontani. Il carcere è infine è anche una questione democratica. La tortura è stata considerata un crimine in Italia a partire dal 2017. Ci sono voluti 29 anni per adeguarsi agli obblighi provenienti dal diritto internazionale. Nel frattempo ci sono state le torture acclarate al G8 di Genova, nel carcere di Asti, le morti di giovani ragazzi come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, le condanne della Corte Europea dei Diritti Umani. Dallo scorso novembre pende alla Camera dei Deputati una proposta di FdI che vorrebbe abrogare il delitto di tortura. In questo modo si metterebbero a rischio i processi in corso, a partire da quello per le brutalità commesse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. In modo cauto anche esponenti del Governo hanno ribadito la necessità di mettere mano al delitto di tortura. Si legge, tra l’altro, nella relazione introduttiva della proposta di Fdi: “Il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe, inoltre, disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”. È questa una motivazione che atterrisce. I poliziotti hanno bisogno di gratificazione sociale, turni di lavoro dignitosi, rispetto, prospettive di carriera. Non di mani libere. In questo modo si schiaffeggiano moralmente tutti coloro che indossano una divisa e si muovono nel solco della legalità. *Presidente di Antigone “È vietata la tortura”: il nuovo rapporto Antigone denuncia la violenza nelle carceri di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2023 È stato presentato stamattina a Roma presso la Federazione Nazionale Stampa Italiana il XIX Rapporto annuale di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Frutto di un anno di visite agli istituti penitenziari, il Rapporto - cui si è scelto di dare un titolo forte: “È vietata la tortura” - fotografa la realtà delle nostre carceri, rimandandone un’immagine che difficilmente si concilia con lo scopo costituzionale della pena detentiva. Sono oltre 9.000 le persone in più che si trovano in carcere rispetto ai posti effettivamente disponibili. Se il tasso di affollamento ufficiale medio è pari al 110,6%, quello reale arriva al 119%, essendo indisponibili oltre 3.500 posti letto a causa delle sezioni attualmente chiuse per manutenzione. Solo Cipro e Romania hanno in Europa tassi di affollamento penitenziario maggiori di quello italiano. Il tasso di affollamento non è tuttavia omogeneo sul territorio nazionale. Oggi le situazioni più preoccupanti si registrano in Lombardia (151,8%), Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%). Guardando ai singoli istituti troviamo condizioni estreme: il carcere di Tolmezzo è sovraffollato al 190%, quello di San Vittore a Milano al 185,4%, quello di Varese al 179,2%, quello di Bergamo al 178,8%. Oltre la metà dei detenuti che riportano una condanna definitiva, ovvero 20.753 persone, deve scontare una pena residua inferiore ai tre anni. In molti casi potrebbero accedere a una delle misure alternative alla detenzione, che sono ben più efficaci in termini di lotta alla recidiva e che pesano assai meno sulle tasche dei cittadini. Per non dire dei 19.338 detenuti che tra le imputazioni hanno la violazione della legge sulle sostanze stupefacenti. Una diversa politica sulle droghe avrebbe un enorme risultato, oltre che sui destini delle persone che la subiscono, anche sui problemi delle nostre carceri. Sempre di più il carcere è un luogo dove rinchiudiamo le varie forme di disagio sociale. Sono loro che costituiscono la grande massa della popolazione detenuta. Dalla nostra rilevazione diretta è emerso ad esempio come si contino 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti, pari quasi al 10%. Il 20% delle persone detenute assume psicofarmaci potenti quali stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Addirittura il 40,3% assume sedativi o ipnotici. A fronte di ciò, le ore di servizio settimanale degli psichiatri sono in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. I suicidi sono stati 26 in questi primi mesi del 2023. Lo scorso anno arrivarono al tragico numero record di 84. Fu l’estate a vedere una terribile accelerazione. Ci auguriamo che si faccia qualcosa per prevenire che ciò accada di nuovo. Sono cose che andiamo raccontando da tempo, nel nostro tentativo di rendere un po’ più trasparenti le mura delle carceri e di raccontare fuori quanto vediamo dentro. Tra le cose che vediamo, a volte c’è la violenza. La vediamo e la denunciamo. E la combattiamo nelle aule dei tribunali. Oggi si è aperta una discussione, sia a livello parlamentare che governativo, per modificare la legge che ha introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano, se non addirittura per abrogarla. Vi è un obbligo internazionale e interno di punire la tortura. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la Costituzione italiana: tutte impongono che la tortura sia reato. Se oggi il reato di tortura venisse modificato secondo le linee anticipate dal governo e tese sostanzialmente a indebolirlo, i processi attualmente in corso ne risentirebbero fino ad estinguersi in una generale impunità. Parlo ad esempio del processo per il brutale pestaggio di massa avvenuto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, il più grande processo per tortura d’Europa. Antigone è parte civile nel procedimento, davanti a oltre cento imputati tra poliziotti penitenziari e altri funzionari del carcere. “È vietata la tortura”: è a questo ovvio dato di fatto che abbiamo voluto intitolare il nostro Rapporto. Lo abbiamo fatto per ricordare che l’Italia democratica non tollererà che si faccia su questo neanche il più piccolo passo indietro. *Coordinatrice di Antigone Sovraffollamento, peggio dell’Italia solo Cipro e Romania di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2023 L’Associazione Antigone ha pubblicato il suo ultimo rapporto dal titolo emblematico “È vietata la tortura”, nel quale sono stati analizzati i dati relativi alla situazione carceraria in Italia nel corso del 2022. I risultati evidenziano una realtà allarmante, con un notevole aumento della popolazione detenuta e un grave problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. Nel corso del 2022 Antigone ha visitato 97 istituti penitenziari, tra cui 64 case circondariali, 22 case di reclusione, 2 istituti a custodia attenuata e l’Icam di Lauro. È emerso che il 20% di questi istituti è stato costruito tra il 1900 e il 1950, mentre un altro 20% risale addirittura prima del 1900. Ciò mette in evidenza la necessità di interventi urgenti per ristrutturare e modernizzare le strutture carcerarie obsolete. Il rapporto sottolinea l’importanza del contributo di oltre cento volontari- osservatori di Antigone e della disponibilità non ovvia dell’amministrazione penitenziaria, insieme a vari professionisti che lavorano all’interno delle carceri, nel garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione italiana, che tutela i diritti delle persone private della libertà personale. Eppure, nonostante gli sforzi compiuti, la situazione di sovraffollamento rimane critica. Al 30 aprile 2023, la popolazione detenuta nelle carceri italiane era di 56.674 persone, superando di 5.425 l’effettiva capienza regolamentare, che è di 51.249 posti. Inoltre, tenendo conto dei posti non disponibili, l’affollamento reale raggiunge il 119%. La Lombardia risulta essere la regione più colpita, con un tasso di sovraffollamento del 151,8%. A livello europeo, l’Italia si colloca al trentaseiesimo posto per tassi di detenzione, incarcerando meno di Francia e Spagna, ma più di Germania e paesi nordici. Solo Cipro e Romania presentano tassi di sovraffollamento carcerario maggiori di quelli italiani. Il rapporto evidenzia anche l’età media in aumento della popolazione detenuta, con un notevole incremento degli over 50, che rappresentano il 29% del totale. Gli over 70 sono addirittura 1.117. Questo indica la necessità di garantire una gestione adeguata delle esigenze specifiche delle persone anziane detenute. Il rapporto mette in luce la presenza di un elevato numero di detenuti con condanne brevi e una significativa sovrappopolazione carceraria. Questo fenomeno è spesso il risultato di politiche penali che enfatizzano la punizione piuttosto che la riabilitazione. Le condanne brevi possono essere problematiche perché non offrono il tempo sufficiente per affrontare le cause profonde dei comportamenti criminali e per fornire programmi di riabilitazione efficaci. Inoltre, la sovrappopolazione carceraria può portare a condizioni di vita insalubri e degradanti per i detenuti, compromettendo ulteriormente i loro diritti umani. Antigone ritiene quindi importante considerare alternative alla detenzione, come misure alternative alla pena detentiva e programmi di riabilitazione comunitaria, che possono essere più efficaci nel ridurre la recidiva e reintegrare i detenuti nella società. Inoltre, è fondamentale fare investimenti per evitare che le persone finiscano nel ciclo della criminalità. Ciò implica affrontare le disuguaglianze sociali, fornire opportunità di istruzione e lavoro, nonché offrire sostegno ai gruppi più vulnerabili, come i giovani a rischio e le persone con problemi di salute mentale o dipendenze. I fondi per la Polizia penitenziaria sono ancora la quota maggiore, anche se in calo rispetto al 2022. Il 62% dei fondi destinati al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria viene indirizzato alla Polizia penitenziaria, confermando la tendenza dell’anno precedente (63%). Le spese per accoglienza, trattamento penitenziario e politiche di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie rappresentano solo il 9,7% dei fondi, seguite dalle spese per servizi tecnici e logistici connessi alla custodia delle persone detenute, che costituiscono il 9,2%. Un dato preoccupante evidenziato da Antigone è il rapporto educatori-detenuti. In media, ci sono 71 detenuti per ogni educatore nelle carceri italiane. Tuttavia, alcune situazioni sono ancora più allarmanti. Ad esempio, nel carcere di Regina Coeli a Roma, dove dovrebbero esserci 11 educatori, ce ne sono solo 3 per circa 1.000 detenuti, il che significa che ogni educatore si occupa di oltre 330 detenuti. Situazioni simili si riscontrano negli istituti di Melfi e Paola, con un rapporto detenuti/ educatori pari a 177. Ci sono, tuttavia, istituti come il carcere di Palermo ‘Ucciardone’ che presentano tassi più bassi rispetto alla media, con 9 educatori effettivi per 364 detenuti, o ad Alba, dove il rapporto è di 12 persone detenute per educatore, o ancora a Fossombrone, dove il rapporto è di 16. Per quanto riguarda il personale della Polizia penitenziaria, ci sono attualmente 31.546 agenti, anche se sono inferiori del 15% rispetto a quelli previsti in pianta organica. Il rapporto è di un agente penitenziario ogni 1,8 detenuti. Il rapporto più elevato si registra a Rossano, con 3 detenuti per agente, mentre il rapporto più basso si trova all’Icam di Lauro, con solo 0,3 donne detenute per agente. In alcuni istituti, il personale di Polizia penitenziaria previsto in pianta organica è uguale o addirittura superiore rispetto al numero di detenuti che il carcere può ospitare. Ad esempio, a Grosseto ci sono 34 poliziotti previsti in pianta organica per 15 posti regolamentari e a Latina sono previsti 132 agenti per 77 posti regolamentari. Tuttavia, ci sono anche casi in cui il personale previsto è insufficiente, come a Carinola, dove sono previste solo 154 unità per 551 posti regolamentari. Uno su tre delle persone sottoposte a misure penali esterne si trova in detenzione domiciliare, mentre l’utilizzo della semilibertà, secondo il rapporto di Antigone, è limitato. Le misure alternative classiche alla detenzione rappresentano il 48,7% del totale delle persone sottoposte a misure penali esterne. Al 15 marzo 2023, c’erano 37.715 persone in misura alternativa, di cui il 9,3% erano donne. L’affidamento in prova al servizio sociale costituiva il 66,4% delle misure alternative, la detenzione domiciliare il 30,9% e la semilibertà solo il 2,6%. Purtroppo, sono pochi i provvedimenti di detenzione domiciliare concessi a detenuti ultrasettantenni. Nel corso del 2021, solo 44 detenuti di età superiore ai settant’anni hanno ottenuto questo tipo di misura su un totale di 993 detenuti. Nel 2020 erano stati concessi solo 12 provvedimenti, 30 nel 2019, 34 nel 2018 e 19 nel 2017. D’altro canto, l’uso della messa alla prova per adulti è sempre più diffuso. A metà marzo, c’erano 25.030 persone sottoposte a questa misura, che rappresentano il 32,3% del totale delle misure penali esterne. Inoltre, più della metà delle 51.630 persone coinvolte nelle attività di indagine e consulenza degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) erano soggette a indagini legate proprio alla messa alla prova. Questa misura, introdotta nel sistema degli adulti con la legge n. 67 del 2014, è aumentata notevolmente negli ultimi anni, passando dalle 503 persone sottoposte alla fine del 2014 alle 24.255 alla fine del 2022. Grave invece la vita interna. Nel 35% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta, nel 12,4% c’erano celle in cui il riscaldamento non era funzionante. Nel 45,4% degli istituti visitati c’erano celle senza acqua calda e nel 56,7% celle senza doccia. Suicidi e violenze, per il carcere il 2022 è anno da cancellare di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 maggio 2023 Presentato a Roma il XIX rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione penitenziaria. Gli osservatori in 97 istituti italiani. Il 40,3% dei reclusi assume sedativi o ipnotici. Usa psicofarmaci il 63,8% delle donne. “I detenuti crescono circa 5 volte di più rispetto alla crescita dei posti in carcere”. È una delle novità sostanziali del lungo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione arrivato alla sua XIX edizione e steso dopo un anno - il 2022 - di visite dei volontari in 97 istituti penitenziari italiani. Sono dati che raccontano un mondo che ci appare lontano e separato, ma che invece sono imprescindibili per fare un check della nostra democrazia. AL 30 APRILE 2023, su una capienza effettiva di 47.603, i detenuti erano 56.674, ossia 9071in più dei posti disponibili. Un affollamento reale pari al 119%, mentre quello ufficiale medio (che non conteggia i 3.646 posti non disponibili) si ferma al 110,6%. In ogni caso, che le condizioni di affollamento penitenziario siano peggiorate lo si evince anche dal rapporto precedente di Antigone che riportava il tasso ufficiale: 107,4%. E come nel 2021, ancora oggi le regioni più affollate si confermano la Puglia (137,3%), la Lombardia (133,3%) e la Liguria (126,5%). “In Europa non siamo messi bene”, sottolinea Antigone. Solo Cipro e Romania hanno tassi di sovraffollamento maggiori di quello italiano. Invece ci collochiamo al 36esimo posto per tassi di detenzione, ossia numero di detenuti rispetto ai cittadini liberi. “Incarceriamo meno di Francia e Spagna, più di Germania e Paesi nordici”. Cosicché nell’ultimo anno, se la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, le presenze sono cresciute del 3,8% (nel settore femminile addirittura del 9%). Un sovraffollamento che per il 26,6% è dovuto all’uso della custodia cautelare. La quale, sebbene venga utilizzata con più prudenza rispetto al passato, rimane comunque più alta della media europea. I famosi braccialetti elettronici per i quali sono stati spesi milioni di euro sono stati utilizzati nell’ultimo anno solo su 3.357 detenuti ai domiciliari. E che ci sia un abuso della carcerazione preventiva lo rende evidente il dato delle 1.180 domande di risarcimento per ingiusta detenzione di cui accolte 556 (103 solo a Reggio Calabria), per un totale di quasi 27,4 milioni di euro pagati dallo Stato. Ma chi sono le persone che, dopo il calo negli anni del lockdown, tornano ad affollare le nostre carceri? Sono detenuti che scontano pene brevi: quelli con una condanna fino ad un anno sono passati dal 3,1% dei definitivi del 2021 al 3,7% del 2022, quelli con condanna fino a tre anni dal 19,1% al 20,3%. Anche se ancora non siamo tornati ai numeri pre-pandemia che segnavano rispettivamente il 7,2% ed il 28,3%. I delitti contro il patrimonio sono i più comuni (32.050 detenuti), seguono quelli contro la persona (24.402), quelli in violazione delle norme sulle droghe (19.338), quelli contro la pubblica amministrazione (9.302) e solo al quinto posto troviamo i reati per associazione mafiosa, con 9.068 detenuti. Resta stabile la percentuale di persone con pena superiore ai 20 anni, il 6,6% dei definitivi (nel 2011 erano il 4,9%). Mentre gli ergastolani, pur essendo leggermente cresciuti in termini assoluti (1.856 nel 2022), sono però calati in termini percentuali, passando dal 4,8% al 4,6% nell’ultimo anno (erano il 4% nel 2011). Eppure, si legge nel rapporto, gli omicidi sono diminuiti di sei volte dal 1991 ad oggi. Nel 2022 sono stati 314 (124 vittime sono donne, di cui 60 hanno trovato la morte per mano del proprio partner), rispetto ai 1.916 omicidi volontari del 1991. Gli stranieri (31,3% dei presenti in carcere) non sono collocati in modo omogeneo in Italia: al top della classifica c’è la Val d’Aosta (61,4%); l’ultima è la Campania (12,4%). Ma è in due istituti della Sardegna che si registrano più stranieri - Arbus “Is Arenas” (68,8%) e Onani “Mamone” (71,1%), - “segno di una politica di allontanamento dal continente e dai legami dei detenuti”. Ma se in media sono in custodia cautelare il 26,6% dei detenuti, come già detto, per la popolazione penitenziaria straniera la percentuale sale invece al 33,7%. Addirittura in attesa di processo sono il 35% dei detenuti non italiani, mentre solo il 30,2% di loro ha una condanna definitiva. Ma il 2022 si ricorderà senz’altro per il triste primato dei suicidi: 85 su 214 morti totali, più di uno ogni quattro giorni. Cinque i detenuti suicidatisi solo a Foggia, 5 le donne. E dall’inizio di quest’anno sono già 26 (dati di Ristretti orizzonti) le persone che si sono tolte la vita in carcere. In particolare, nel totale silenzio dei media e delle piazze, “il 25 aprile e il 9 maggio 2023 due detenuti sono morti per sciopero della fame nel carcere di Augusta dopo 41 e 60 giorni di digiuno”. Ogni giorno, ricorda Antigone, sono circa 30 i detenuti in sciopero della fame. Tanti gli argomenti trattati dall’associazione, ma tra tutti merita una nota particolare la crescita del disagio psichico: sono quasi il 10% le diagnosi psichiatriche gravi, mentre il 20% dei reclusi assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi rappresentano il 12,4% delle presenti; quelle che fanno regolarmente uso di psicofarmaci invece sono il 63,8% delle presenti. In questa situazione, le ore di servizio degli psichiatri sono in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. D’altronde, la maggior parte dei fondi destinati al Dap (3,3 miliardi) è indirizzata alla polizia penitenziaria (62%, l’anno scorso era il 63%); “seguono a grandissima distanza - scrive Antigone - le spese per accoglienza, trattamento penitenziario e politiche di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie (9,7%) e le spese per servizi tecnici e logistici connessi alla custodia delle persone detenute (9,2%)”. Minori in carcere, numeri aumentano a livelli pre-pandemia di Marta Duò ilsussidiario.net, 31 maggio 2023 Sono sempre di più i minorenni in carcere, numeri da pre pandemia. Delle strutture in cui sono detenuti, gli Istituti Penali per Minorenni, il 57% si trova al Sud o nelle Isole. Minori detenuti negli Istituti Penali per Minorenni, i numeri tornano ad aumentare e raggiungono i livelli pre pandemia. Ma anche i numeri dei carcerati in tutta Italia è in crescita. È quanto emerge del diciannovesimo rapporto a cura dell’Associazione Antigone, che parla di 380 ragazzi - di cui 12 ragazze - detenuti negli Istituti Penali per Minorenni al 15 marzo 2023, cioè il 2,7% del totale dei minori in carico ai servizi della giustizia minorile. Andando a esaminare questo dato si scopre che i minori in Ipm sono 180, mentre 200 sono giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni che hanno commesso il reato da minorenni. Numeri che tornano ad aumentare dopo il calo registrato durante la pandemia da Covid. I detenuti erano infatti 374 al 15 febbraio 2020, mentre a maggio 2020 erano crollati a 280 minorenni o giovani adulti (-25%) una cifra piuttosto stabile per i mesi successivi di emergenza sanitaria. Un crollo che Antigone spiega ricordando come durante il Covid il sistema di giustizia penale minorile fosse riuscito a trovare soluzioni alternative alla detenzione, riducendo le entrate e al contempo aumentando le uscite. Una tendenza che però sembra essersi fermata con il decadere dell’emergenza sanitaria, come mostrano i dati. Fino al 15 dicembre 2022, appena il 18,9% dei detenuti minorenni è stato incarcerato per reati contro la persona, mentre il 61,2% è stato condannato per reati contro il patrimonio. Aumenta il numero di ragazzi minorenni negli Istituti Penali per Minorenni, raggiungendo livelli pre pandemici. Tra questi giovani, il rapporto dell’Associazione Antigone illustra che 178 (il 46,8%) sono stranieri, di cui 5 sono ragazze. Gli Ipm attivi in Italia sono attualmente sedici, con grandezza che varia dalle 54 presenze di Nisida alle 5 di Pontremoli, l’unico interamente femminile d’Italia. 10 Ipm sono collocati al sud o nelle isole (4 nella sola Sicilia), con il 57% del totale delle presenze. Non solo minorenni, perché anche il numero complessivo di detenuti nelle carceri italiane è in lento ma costante aumento. Il rapporto Antigone mostra infatti come a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i detenuti al 30 aprile erano 56.674. Le donne erano 2.480 e rappresentavano dunque il 4,4% delle presenze. Gli stranieri erano invece 17.723 (31,3%). Nell’ultimo anno, dal 30 aprile 2022, la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8% mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. Il numero delle donne è cresciuto del 9%. L’aumento degli stranieri del 3,6%, è invece in linea con quello della popolazione detenuta complessiva. Negare i crimini non preclude il permesso premio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2023 La Cassazione (sentenza 23556) accoglie il ricorso del detenuto, anche alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia. Non si può negare il permesso premio al condannato per reati ostativi, che non riconosce di averli commessi. L’ostinazione a disconoscere la paternità di crimini efferati messi in atto in un contesto di criminalità organizzata, non basta per dire no al beneficio a fronte di altri elementi positivi, ad iniziare dalla condotta carceraria ineccepibile. La Cassazione (sentenza 23556) accoglie il ricorso del detenuto, anche alla luce delle modifiche introdotte nell’ordinamento penitenziario dal Dlgs 150/2022, la cosiddetta riforma Cartabia, e della sentenza della Corte costituzionale 253/2019. Viene così annullata con rinvio, l’ordinanza con il “no” al permesso premio all’autore di tre omicidi di ‘ndrangheta e di violazioni sulla legge delle armi. Reati per i quali era scattato il regime differenziato, previsto dall’articolo 4-bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario. La decisione del magistrato di sorveglianza si basava, sull’assenza di revisione critica del passato delinquenziale, disconosciuto invocando il diritto al “silenzio e alla speranza”. Atteggiamento che non consentiva di superare la pericolosità presunta, che esiste per i non “pentiti”. Ma la Suprema corte cambia prospettiva e valorizza, il lavoro di scrivano, la laurea in giurisprudenza e un encomio preso in carcere. La giurisprudenza di legittimità si è mossa sulla scia della sentenza della Corte costituzionale (253/2019) chiarendo che, senza collaborazione, il beneficio può essere accordato, grazie ad elementi che consentano di superare la presunzione del pericolo attuale. In questo contesto si è inserito anche il nuovo articolo 4-bis, comma 1 bis dell’ordinamento penitenziario disegnato dalla riforma Cartabia. Secondo la norma i benefici sono subordinati alla riparazione pecuniaria o alla prova dell’impossibilità dei mezzi economici per farlo. Per escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il rischio che siano ripristinati, contano poi elementi diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla dissociazione. Ad avviso della Cassazione il giudice di sorveglianza deve bilanciare la caratura criminale con 1’ ottimo percorso rieducativo, non limitarsi a constatare la gravità dei delitti. Se così fosse vanificherebbe qualunque aspirazione di recupero per chi non collabora con la giustizia, entrando in conflitto con la funzione rieducativa della pena e con la ratio della legge. Il collegio si dice consapevole dell’esistenza della sottilissima linea di demarcazione che, nei reati gravissimi, divide le valutazioni sulla pericolosità sociale da quelle sulla condanna morale. Il giudice di sorveglianza non può però esimersi dal valutare tutti gli elementi “individualizzanti”, del percorso in carcere, per verificare se è possibile una lettura favorevole. Ergastolo ostativo, sì al permesso premio anche senza intimo pentimento e ammissione di colpa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2023 Ciò che rileva è il taglio dei legami col crimine organizzato e l’assenza del rischio della loro ricostituzione. La concessione del beneficio di un permesso premio al detenuto condannato all’ergastolo ostativo - in assenza di collaborazione con la giustizia - è possibile incentrando il giudizio sull’accertamento dell’avvenuta rescissione dei legami con l’associazione criminale di stampo mafioso e sull’insussistenza di un possibile ripristino degli stessi. Chiarisce la Cassazione penale - con la sentenza n. 23556/2023 - che il presupposto della concessione del beneficio penitenziario è l’acclarata intrapresa di un percorso di recupero. E non - come avevano ritenuto i giudici di sorveglianza, negando il permesso - l’intimo pentimento del condannato e la sua ammissione di responsabilità. Infatti, nel caso in esame, il condannato appartenente alla ‘ndrangheta non aveva mai ammesso la propria responsabilità dichiarandosi ancora oggi innocente. La decisione negativa dei giudici di sorveglianza pone invece l’accento su un’intima emenda che riteneva di non poter accertare per la perdurante proclamazione di innocenza del detenuto a fronte dell’accertata responsabilità penale per gravissimi reati, tra cui tre omicidi. Ma proprio alla luce della riforma Cartabia e del decreto legge varato a dicembre dall’attuale Governo in adeguamento all’ordinanza della Consulta che aveva sollecitato la riforma nel senso di rimuovere l’ostacolo insormontabile della mancata collaborazione ai fini della fruizione di benefici penitenziari i giudici di sorveglianza devono oggi solo acclarare la non perdurante pericolosità del soggetto richiedente. Non rileva quindi il ragionamento dei giudici che hanno adottato la decisione negativa ora annullata con rinvio secondo cui se è vero che l’ergastolano condannato per uno dei reati ostativi gode del diritto al silenzio e alla speranza è pur vero che non può contemporaneamente rifiutare la risposta punitiva dello Stato contro reati gravissimi con la conseguenza di soggiacere anche al diniego dei benefici. Pescara. Detenuto si impicca: in carcere scoppia la rivolta Corriere Adriatico, 31 maggio 2023 Un 41enne detenuto nella casa circondariale di San Donato di Pescara si è tolto la vita, ieri pomeriggio, impiccandosi all’interno del carcere. Lanciato l’allarme, è subito intervenuto il medico della struttura, che ha iniziato le manovre rianimatorie, poi proseguite dal personale del 118, arrivato nel giro di pochi minuti. Per l’uomo, però, non c’è stato niente da fare. In seguito all’episodio, alcuni detenuti, come forma di protesta, non sono rientrati in cella: in via precauzionale, a supporto della polizia penitenziaria, nell’area del carcere sono intervenuti polizia e carabinieri. Il comunicato di Fp-Cgil Polizia Penitenziaria “Un detenuto italiano di 41 anni, originario di Avezzano, ristretto nel carcere di Pescara, oggi pomeriggio è riuscito a togliersi la vita impiccandosi. Il personale di Polizia Penitenziaria ha lanciato subito l’allarme così come immediato è stato l’intervento del medico e degli operatori del 118 arrivati poco dopo che hanno tentato di rianimarlo senza riuscirci. Per protesta, numerosi detenuti non sono rientrati nelle proprie stanze detentive ed è scattato anche l’allarme per una possibile rivolta con arrivo di Carabinieri e Polizia di Stato all’esterno del carcere per presidiare l’area a supporto della Polizia Penitenziaria”. Lo comunica il Coordinatore regionale per l’Abruzzo Gino Ciampa della Fp Cgil Polizia Penitenziaria: “È un clima decisamente teso quello che stiamo vivendo nel carcere di Pescara negli ultimi giorni. Già ieri c’è stato un tentativo di suicidio con un detenuto che si è dato fuoco e ora è ricoverato in gravi condizioni in ospedale. I Poliziotti penitenziari sono stremati. Manca più del 30% delle 170 unità di Polizia Penitenziaria previste con un sovraffollamento di detenuti del 131%”. “Abbiamo rappresentato la situazione delle carceri abruzzesi - continua Ciampa - a tutti i vertici politici e istituzionali: al Presidente della Regione Abruzzo, al Prefetto di Pescara e al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio Abruzzo e Molise. Per ora però, nessuno è riuscito a dare una risposta e la situazione ormai sta sfuggendo di mano”. Mirko Manna, Nazionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria: “Solo il senso del dovere della Polizia Penitenziaria permette di tenere ancora in piedi il sistema penitenziario. Le aggressioni contro i poliziotti e gli atti di autolesionismo dei detenuti, stavolta purtroppo portato al gesto estremo nel carcere di Pescara, rendono le condizioni di lavoro all’interno degli istituti penitenziari, davvero difficili. Nei prossimi giorni solleciteremo anche il Governo durante gli incontri istituzionali già previsti, per cercare di individuare interventi immediati”. Terni. Detenuto dà fuoco alla propria cella e muore asfissiato ansa.it, 31 maggio 2023 Un detenuto di origine nordafricana è morto dopo aver appiccato un incendio all’interno della propria cella, rimanendo intossicato dal fumo. Un detenuto del carcere di Terni è morto dopo che - secondo una prima ricostruzione - avrebbe appiccato un incendio all’interno della propria cella - posta nella sezione G “accoglienza” - rimanendo intossicato dal fumo. Si tratta di un trentacinquenne originario del nord Africa che doveva rispondere di reati connessi agli stupefacenti. Inutili i soccorsi portati dai sanitari, che hanno tentato di salvare la vita all’uomo. Nell’accaduto sarebbero rimasti lievemente intossicati anche altri detenuti. Sono in corso indagini da parte della polizia penitenziaria di Terni, con il coordinamento della procura della Repubblica. La salma del detenuto è ora a disposizione del pm Raffaele Pesiri per gli accertamenti. Lunedì nel carcere di Terni era avvenuto un altro episodio di violenza. Un altro detenuto di origini magrebine aveva infatti colpito con un pugno un’infermiera impegnata a somministrargli la terapia farmacologica. La donna, finita a terra, era stata trasportata al pronto soccorso. Cassino (Fr). Detenuto muore in carcere per un malore, inutili i soccorsi ciociariaoggi.it, 31 maggio 2023 Immediato l’intervento dell’agente di sezione in servizio. Ma per l’uomo di 53 anni non c’è stato nulla da fare. Detenuto muore in carcere a causa di un malore. I soccorsi sono stati tempestivi ma per il cinquantatreenne non c’è stato nulla da fare. L’episodio si è verificato in carcere a Cassino nel pomeriggio di ieri. L’ospite del San Domenico si è accasciato improvvisamente al suolo: immediato l’intervento dell’agente di sezione Italo Velardo - delegato provinciale del Sappe - in servizio in quel momento. I medici e i paramedici accorsi non sono riusciti a fargli salva la vita. Bari. Protocollo d’intesa tra Procura e Garante dei detenuti per la tutela dei diritti ledicoladelsud.it, 31 maggio 2023 È stato firmato a Bari, dal procuratore Roberto Rossi, dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e dal garante regionale Pietro Rossi, il protocollo d’intesa per la tutela dei diritti delle persone la cui libertà personale è limitata non solo per motivi di esecuzione penale, ma anche quelli di “chi - ha detto il garante regionale Rossi - quella limitazione la vive de facto, ad esempio le persone ricoverate nelle strutture socio sanitarie o i cittadini stranieri in attesa di rimpatrio”. Scambio di informazioni tra Procura a Garante dei detenuti, analisi congiunta delle problematicità, formazione sono i tre pilastri su cui si basa. “È importante rendere il tema delle condizioni dei detenuti centrale nel dibattito pubblico - ha rilevato il procuratore Rossi - Grande attenzione meritano i problemi delle condizioni sanitarie nelle carceri e dei detenuti psichicamente labili che, per carenza di strutture adeguate, si trovano a condividere gli stessi spazi di detenuti comuni. La mancanza di Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, è grave, ed è necessario che si lavori insieme per superarlo”. “L’obiettivo è quello di rafforzare la tutela e inviare alla comunità un importante segnale di presenza delle istituzioni - ha spiegato il garante nazionale Mauro Palma - Le istituzioni ci sono sia per proteggere chi, per vari motivi, non è libero, sia per rassicurare la collettività esterna. Mettere insieme istituzioni di monitoraggio, come il garante, e di indagine come la procura serve a mandare proprio questo messaggio. Ferrara, Carcere, non c’è il Garante dei detenuti. Baraldi (Pd): “A quando la selezione?” ferraratoday.it, 31 maggio 2023 La figura è vacante da febbraio, quando Cacciola è scomparso prematuramente. Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, a quando? È quanto si chiede - e chiede all’amministrazione - la consigliera del Partito Democratico, Ilaria Baraldi. Nello specifico, l’interpellanza presentata dalla Dem verte sulla selezione. “Si chiede - si legge nel documento - quando si intenda procedere con la richiesta e la selezione delle candidature e la successiva elezione da parte del Consiglio Comunale di Ferrara”. Una figura vacante, secondo quanto ricordato dalla stessa Baraldi, dal 7 febbraio, ovvero da quando il garante in carica (Francesco Cacciola) è scomparso prematuramente. “L’ultima relazione annuale sulle condizioni del carcere è datata autunno 2021 - incalza la consigliera -. È una figura fondamentale specialmente per la struttura di Ferrara, dove le sigle sindacali degli agenti di polizia penitenziaria lamentano uno squilibrio tra le necessità di organico e i numeri del personale in servizio. E dove si registrano i più alti episodi di autolesionismo tra i detenuti”. Napoli. Mancate cure di un detenuto a Secondigliano, il Garante: “Si rispetti il diritto alla salute” corrieredellacalabria.it, 31 maggio 2023 Ciambriello sul caso denunciato: “È sacrosanto, non può essere derogato a niente, men che meno alla presunta commissione di un reato”. “Conosco la storia e le condizioni di salute di Andrea S. da diversi mesi e, più volte, sono intervenuto con l’area sanitaria per chiedere maggiore attenzione sul suo caso, più accertamenti specialistici e un monitoraggio costante”. È quanto sostiene il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello sul caso di un detenuto catanzarese che ha denunciato le mancate cure nel Polo clinico di Secondigliano. “L’ho incontrato personalmente - spiega Ciambriello - e l’hanno incontrato diverse volte miei collaboratori e a tutti ha ribadito la sua volontà: andare via dal SAI di Secondigliano. Nessuna pretesa di tornare in Calabria, a lui e anche alla sua famiglia andrebbe bene anche un trasferimento al Nord, purché però venga curato, perché una volta fuori da quelle mura vuole essere un uomo in grado di ricominciare e non un uomo ormai ammalato in maniera irreversibile, spossato e senza alcuna possibilità di ritornare a lavorare”. “Per queste ragioni, già diverse volte, ho scritto per lui al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - racconta il Garante - che però ha rigettato le sue richieste di trasferimento in altro carcere. Ci riproveremo. Intanto, la sua denuncia, pubblicata giorni addietro su testate locali calabresi, suona come una denuncia in nome di un diritto alla salute che non viene garantito e che va oltre il singolo caso, ma che accomuna tutti i detenuti che, oltre alla privazione della libertà personale, vivono anche il dramma di essere reclusi gravemente ammalati”. “Un diritto sacrosanto quello alla salute - conclude Ciambriello - che, purtroppo, non viene garantito, per mancanza di medici, pochi posti letto per i detenuti negli ospedali”, A Roma un Tribunale delle donne per le donne afghane: cercasi giustizia di Antonella Mariani Avvenire, 31 maggio 2023 Alla Casa internazionale delle donne 8 profughe afghane hanno testimoniato davanti a una Commissione di giuriste che elaborerà un “verdetto”. Difficoltà per lavoro e ricongiungimento familiare. Parisa, Mahoba, Sakina, Madina: donne che hanno lasciato in tutta fretta l’Afghanistan nelle ore concitate della presa di Kabul da parte dei taleban (agosto 2021), e, arrivate in Italia, faticano a trovare una nuova vita. Le loro testimonianze, a tratti drammatiche fino alle lacrime, sono state raccolte sabato scorso in un lungo e intenso pomeriggio alla Casa internazionale delle donne di Roma. La prima seduta del “Tribunale delle donne per i diritti delle donne migranti” è stata una occasione per far parlare loro, le protagoniste, ascoltare il loro dolore e i loro sogni. Che non devono restare tali, però: ne va della civiltà dell’intero popolo italiano. “Sono una chirurga, ho rinunciato a tutto pur di studiare” - ha raccontato Mahoba, profuga in Iran da bambina, ragazza piena di speranze durante il ventennio “filo occidentale” dell’Afghanistan. “Sono scappata da Kabul solo con ciò che indossavo. All’arrivo mi dissero che in Italia c’era molto bisogno di medici, che avrei avuto buone possibilità di lavorare. Non è stato così. Oggi ci concedono di fare la badante o al massimo mediatori culturali. Ma io non voglio buttare via tutti i miei obiettivi. Se non riconoscono le mie competenze di medico, la mia laurea, la mia esperienza, non riconoscono la mia dignità”. Altre profughe hanno sottolineato con disperazione l’impossibilità di riunirsi con un figlio appena maggiorenne, perché la legge consente di far arrivare solo i minori, o con una madre, una sorella. Altre donne hanno evidenziato le difficoltà di essere donne in migrazione, in un Paese molto accogliente ma con tante difficoltà burocratiche da affrontare ogni giorno: il riconoscimento dei titoli di studio, l’inserimento scolastico, la ricerca di un lavoro adeguato. La frattura della loro vita tarda a ricomporsi e questo genera un dolore sordo, che si trasforma in lacrime liberatorie durante il racconto. Una giovane donna ha confessato di sentirsi in debito verso chi è rimasto in Afghanistan: “Noi siamo in salvo, ma non siamo nulla. Loro invece sono in pericolo ma nonostante questo continuano a lottare, scendono in piazza, resistono. A volte rimpiango di non essere rimasta con loro, almeno la mia vita avrebbe un senso”. Il Tribunale delle donne non ha una giuria, ma una Commissione di ascolto, composte da avvocate, docenti di diritto, giuriste, esponenti politiche (presente anche la giornalista di Avvenire): l’obiettivo è redigere, a breve, un “verdetto” utile alle istituzioni (Comuni, Regione, Parlamento, ognuno per le proprie competenze) per sostenere i diritti delle donne in migrazione. Una sorta di giustizia riparativa per quanto hanno subìto, che possa garantire loro il riconoscimento dei titoli di studio, un lavoro consono alla loro preparazione, ricongiungimenti familiari più estesi. Il progetto del Tribunale delle donne è stato sostenuto dall’8 per mille delle Chiese Valdesi e proposto dalla Casa Internazionale delle donne, con Differenza Donna e Le Sconfinate e l’adesione di diverse associazioni, tra le quali Nove onlus. Proprio la vicepresidente della onlus, Arianna Briganti, ha voluto sottolineare, a commento dell’iniziativa, come “l’inserimento occupazione, rimane uno dei problemi di più difficile risoluzione. Anche per le donne straniere, spesso arrivate in Italia senza i mariti ma con i figli minori, è quasi impossibile lavorare e al tempo stesso prendersi cura dei bambini. Inoltre l’inserimento professionale delle donne migranti viene rallentato se non impedito dal mancato riconoscimento accademico dei titoli di studio”. Le donne straniere in Italia, ha notato Briganti, passano dalla felicità di essere accolti in un Paese che rispetta i loro diritti fondamentali “alla delusione di trovarsi davanti a delle barriere istituzionali e culturali che sembrano insormontabili”. Protesta, una dichiarazione pubblica che dobbiamo tenerci cara di Paolo Fallai Corriere della Sera, 31 maggio 2023 Non è mai un affare privato ed è sempre una attestazione esplicita, chi non le sopporta non conosce le regole del vivere in libertà. Si protesta per attirare l’attenzione. L’affermazione può suonare banale, ma essere costretti a sottolineare le banalità sembra la malattia di questo tempo. Quando qualcuno sfila per strada, ostacolando il traffico e la normale vita quotidiana, lo fa perché non considera affatto “normale” questa vita e vorrebbe cambiarla e se strilla slogan non è perché non gli piace parlare a bassa voce. Cominciamo da quello che non è. La protesta non è mai un affare privato. Lo sono il dolore e la tristezza, può esserlo la malinconica disillusione, il sapore amaro della sconfitta. La protesta no, è sempre un atto pubblico. Perché sia efficace è necessario che sia conosciuta dal pubblico più vasto possibile. E per raggiungerlo esista una vasta gamma di strumenti che cambiano a seconda del soggetto che la propone, un individuo, una folla di individui, uno Stato. La forza nell’origine. Protestare è un’eredità del tardo latino protestari, verbo composto derivato da testari “attestare”, rafforzato dal prefisso “pro”, che ha il compito di estenderne il significato. Pensate a verbi dalla struttura simile come promuovere o progettare. Il nostro protestare indica quindi una “attestazione pubblica”, dichiarata, espressa con fermezza. Sia che si tratti di sostenere una affermazione sia che voglia contrastarla o negarla. Le unisce una profonda convinzione. Si protesta contro una legge che si considera sbagliata o dannosa per la collettività, ma un accusato protesta la propria innocenza. La differenza dei modi. La protesta è sempre una dichiarazione esplicita ma può vestire abiti molto diversi. Si chiama “nota di protesta” nel diritto internazionale la dichiarazione ufficiale con cui uno Stato afferma l’illegittimità del comportamento di un altro Stato. Ed è ovviamente uno strumento diplomatico di pressione. Se un ministro si sente danneggiato da un articolo di giornale, non è infrequente che faccia precedere la sua nota di replica da una telefonata di protesta al direttore. Quando gli studenti di una scuola vogliono contestare l’insufficienza dei programmi o lo stato dei locali, possono organizzare un sit-in di protesta che interrompe il normale svolgimento delle lezioni. Sono tre tipi di protesta, ma è evidente che ambasciatori, ministri e studenti non hanno la stessa possibilità di farsi ascoltare. Per questo è possibile che gli studenti durante il sit-in, alzino la voce con qualche slogan e magari si mettano a cantare per attirare l’attenzione. Ambasciatori e ministri non ne hanno bisogno. Senza infingimenti. Chi protesta vuole che propria voce venga ascoltata. Meno è importante o noto il soggetto che propone la posizione di dissenso più sarà determinato a trovare il sistema migliore perché la sua posizione non si perda nel vuoto. Quindi dobbiamo aspettarci che chi protesta crei una situazione di disagio. Anzi, dobbiamo mettere nel conto che chi protesta è determinato ad essere fastidioso. Se un gruppo di ragazzi versa vernice lavabile su un monumento o sulla facciata di un palazzo, per scuotere la monumentale indifferenza delle istituzioni sulla tragedia climatica, è lecito biasimarli e criticarli. Perfino nello stesso mondo ambientalista c’è chi ritiene queste azioni eccessive e controproducenti. Sono fastidiosi? Sì, ed è esattamente quello che si propongono, mentre scorre l’inverno più caldo della storia, i fenomeni climatici estremi sono diventati quotidiani e le conseguenze di una guerra sciagurata in Europa fanno riaprire le miniere di carbone. È anche una responsabilità generazionale. I più indignati hanno sempre qualche decade più di loro, un passato che fanno fatica ad analizzare e un carico di responsabilità spaventoso. Noi, anche chi scrive fa parte di questo gruppo, per incapacità e indifferenza, stiamo lasciando ai nostri figli un mondo in condizioni indecenti. Se pensiamo di processare la protesta, ricordiamo che i veri imputati non sono loro. Lo strumento del lavoro. Una delle forme più note di protesta è lo sciopero. Una astensione volontaria dal lavoro che ha più di tremila anni di storia. Il primo sciopero di cui si ha notizia avvenne in Egitto sotto il regno del faraone Ramses III, intorno al 1050 a. C. (E andateci al Museo Egizio di Torino, ospita un prezioso papiro che racconta tutta la storia). Se la storia dello sciopero è antica, quella del “diritto” a scioperare è recentissima e meriterà una riflessione a parte. Oggi ci basterà ricordare che in Italia è stato considerato un reato fino al 1889, che il fascismo lo ha duramente represso e che è un diritto riconosciuto dall’articolo 40 della Costituzione solo dal 1947. Una protesta particolare. Se il primo sciopero del lavoro lo dobbiamo agli operai in Egitto, è nel 411 a.C., ad Atene che lo sciopero rompe ogni argine diventando un archetipo della protesta. Nella commedia Lisistrata, Aristofane ci racconta la rivolta delle donne ateniesi e spartane contro la guerra del Peloponneso che teneva i loro uomini lontano da casa. Per convincerli Lisistrata e le sue compagne adottarono una strategia che avrebbe fatto epoca: il rifiuto di qualsiasi rapporto sessuale fino a quando non avessero raggiunto un accordo. Quella di Aristofane non è solo la prima commedia pacifista che conosciamo, è anche l’occasione in cui all’immagine femminile viene riconosciuto un carattere e una personalità in una società come quella greca del V secolo dove le donne non erano ammesse neanche nei luoghi pubblici e certamente non potevano dirsi libere (A proposito, alla fine Lisistrata e compagne vincono. Provate a leggerlo Aristotele, magari mentre andate a Torino al Museo Egizio). Un maschile antipatico. Se a questo punto ci siamo fatti un’idea della protesta, possiamo fare una piccola digressione sul maschile di questa parola, utilizzato nella lingua italiana per un particolare significato, non troppo simpatico. Siamo sempre nell’ambito delle attestazioni pubbliche ma in questo caso con il protesto si indica l’accertamento di un mancato pagamento. È un pubblico ufficiale a stabilire questo debito insoluto, trasformando il debitore in un “protestato” qualifica che gli renderà molto difficile ottenere altri crediti e della quale potrà liberarsi non solo pagando tutto il dovuto e gli interessi maturati, ma dopo un pronunciamento del tribunale. Le regole del vivere insieme. Abbiamo capito che la protesta fa parte della nostra vita in comunità. Soprattutto perché la nostra è una comunità libera, regolata da una carta costituzionale che garantisce ad ognuno di noi la libertà di espressione. Nelle dittature e nei regimi autoritari è molto difficile protestare. Lo sappiamo bene anche noi in Italia che abbiamo avuto il ventennio di regime fascista in cui chi osava protestare e veniva arrestato e processato. Oggi, con i soli limiti rappresentati dalla libertà altrui, protestare non solo è possibile, ma nessuno può proibirlo. E anche se stiamo perdendo la capacità di affrontare un confronto anche duro e aspro, di fronte ad una protesta, indipendentemente dai motivi, dovremmo essere sempre un po’ contenti. Perché rappresenta un’espressione di libertà, che è come l’aria. Comprendiamo quanto sia indispensabile solo quando manca. Zerocalcare: “Il potere ha paura del dissenso e vuole cancellarlo con la galera” di Irene Famà La Stampa, 31 maggio 2023 Il fumettista: “Dai blitz per il clima ai rave party, le indagini e le pene sono spropositate. Il conflitto è il motore della democrazia, in questo Paese c’è un problema di autoritarismo”. In questo Paese c’è un problema con il dissenso. E non parlo solo di questo governo”. Fuori dall’aula 3 del tribunale di Torino il fumettista Zerocalcare, all’anagrafe Michele Rech, ha appena finito di testimoniare al processo contro 28 attivisti del centro sociale torinese Askatasuna. “Accusarli di associazione a delinquere è una follia”, dice. Il dissenso fa paura al potere a prescindere dal colore che ha? “Proprio così”. Facciamo degli esempi: gli Extinction Rebellion. “Fanno azioni dimostrative eppure a Padova sono stati indagati per associazione a delinquere. E l’elenco è lungo: i SiCobas a Piacenza, i disoccupati a Napoli”. Che spiegazione si dà? “Si sta usando l’accusa di associazione a delinquere contro i movimenti che esprimono una critica all’esistente”. Dissenso o conflitto? “Per un grosso periodo c’è stato un problema con il conflitto. E dal G8 di Genova in poi si è represso il conflitto con reati che prevedevano pene sempre più spropositate. Per danneggiamenti, come delle vetrine rotte o delle fioriere rovesciate, si è contestata la devastazione e il saccheggio. Ora non c’è più nemmeno bisogno del conflitto”. Come, scusi? “È difficile pensare che colorare una fontana o buttare della vernice su una statua o sul muro del Senato sia conflitto. Sono manifestazioni simboliche”. E i rave party? “Il decreto rave si estende alle occupazioni in generale. E fa il paio con la questione del blocco stradale prevista dal decreto Salvini. In una manifestazione può capire che, per motivi logistici, senza nessun intento belligerante, si finisca in spazi non autorizzati o a occupare una strada. Pensare che questa cosa si possa risolvere seppellendo le persone in galera mi pare gravissimo”. Prima era un illecito amministrativo. “Ora si va da 1 a 6 anni di carcere, che raddoppiano se si supera un determinato numero di persone. Al di là delle parole significa rovinare la vita delle persone. E terrorizzarne altre. Su questo si dovrebbero interrogare a destra e a sinistra”. Non fa sconti a nessuno? “Il problema con il dissenso non è solo di questo governo. Ogni volta che qualcuno vara una legge che chiude degli spazi, chi arriva dopo è molto contento di approfittarne. Non si torna mai indietro”. Al Salone del Libro la ministra Roccella è stata contestata. Incontro saltato. Giusto o sbagliato? “Chi ha praticamente in mano questo Paese, dalla Rai ai posti di potere, ha tutte le possibilità non solo di esprimere le proprie posizioni ma di farle diventare legge. Per cui penso che debba accettare di poter essere contestato. Fa parte dei meccanismi della democrazia. E l’idea che questa cosa sia “irricevibile” è l’idea di un potere che non accetta nessun tipo di critica”. Ha ragione l’ex direttore del Salone Nicola Lagioia quando parla di deriva autoritaria? “C’è un problema di autoritarismo che va avanti da tanto tempo e che ora probabilmente è più visibile”. Fabio Fazio e Lucia Annunziata sono fuori dalla Rai. Tv di regime? “Questo tema non mi sconvolge. Funziona sempre così, a seconda dei governi e delle stagioni di questo Paese”. Per la premier Meloni “Nazione e Patria” finalmente sono idee centrali nel dibattito politico. Che parole rappresentano, per lei? “Non stento a credere che lo pensi. Però in qualche modo lei e la sua parte politica si sono presentati senza nascondere qual è la cultura politica a cui appartengono. Sono stati eletti democraticamente e con una cultura politica che si è ripresa degli spazi sempre più grossi negli ultimi anni. Senza che nessuno facesse mai da argine in qualche modo”. Elly Schlein è un’alternativa credibile? “Non ho risposte su questo. È un individuo e gli individui non sono mai né il problema né la salvezza”. E che cosa lo è allora, se non sono le persone? “Il conflitto, il dissenso: sono un motore di progresso e democrazia. Purtroppo negli ultimi anni vedo che il conflitto si sfoga in maniera orizzontale, tra gli ultimi. Tra il poveraccio e quello che è più disperato di lui. Un meccanismo che fa gioco alle destre”. Il collasso educativo di scuola e famiglia di Umberto Galimberti La Stampa, 31 maggio 2023 I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda del sedicenne di Abbiategrasso. Ma non cerchiamo facili spiegazioni imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto dalla pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la propria identità, spesso accompagnata da un senso di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e non si riesce ad essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. L’identità, infatti, non la possediamo per il fatto che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato del riconoscimento o del misconoscimento che riceviamo dagli altri. La famiglia oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i figli, soprattutto in tenera età, e in compenso li riempiono di regali che stanno al posto di tutte le parole mancate. Doni a Natale, ai compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro richieste che hanno come effetto l’estinzione del desiderio. Perché il desiderio è mancanza. Non si desidera quello che si ha, ma quello che non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi non desiderano più niente e sono indifferenti a tutto. Oggi poi i genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e dei divorzi, necessari quando il clima in famiglia è connotato dall’indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma non si creda che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli. Non sono rari i casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti o i lavori. È infatti diffusa una concezione della libertà intesa solo come revocabilità di tutte le scelte. Ma veniamo alla scuola che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me lo si lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non educa. L’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede (gli studenti). L’educazione consiste nel prenderei cura della condizione emotiva degli studenti, perché come dice Platone: “La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. E quando dico “cuore” penso a quel passaggio all’emozione a partire dalle pulsioni a cui si arrestano i bulli che, incapaci di esprimersi con le parole, sanno muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che “il bene e il male potremmo anche non definirli perché ciascuno li sente naturalmente da sé”. Oggi non è più vero che tutti i ragazzi avvertono la differenza tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o aggredirlo fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto esagerando a giudicare dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai magistrati che li interrogano. Sono risposte disarmanti: “Ma cosa abbiamo fatto di strano?”, “Volevamo solo divertirci”. Quindi non sanno distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a scuola il doppio del tempo e aiutarli a guadagnare quella risonanza emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi diventeranno soggetti pericolosi. Ma per accorgersi dei percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi frontali che presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai vent’anni, occorre che gli insegnanti dispongano di empatia, che è la capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni che ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso che misura la preparazione culturale dei candidati. A questa prova dovrebbe aggiungersi un test di personalità che misura il grado di empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non ha empatia non può fare l’insegnante, come chi è alto un metro e cinquanta non può fare il corazziere. Tutti noi abbiamo studiato con piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove professori che compongono una classe, sono fortunati quegli studenti che hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e riferimento per la loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia previsto nel loro curriculum di studi un solo libro di psicologia dell’età evolutiva? Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante, nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola d teatro, invece di insistere nelle sue interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50. Da ultimo nelle classi superiori i genitori devono essere tenuti lontano dalla scuola, perché non sono interessati alla formazione dei loro figli, ma unicamente alla loro promozione. E in qualità di sindacalisti dei figli, in assenza di una promozione, ricorrono al Tar. La conseguenza è che, per non avere problemi, gli insegnanti finiscono per promuovere quasi tutti gli studenti a prescindere da chi ha studiato e chi non ha studiato. Invece dell’ora di ricevimento dei genitori gli insegnanti dedichino cinque o sei ore settimanali per ricevere gli studenti. Perché, certo, gli psicologi sono necessari nelle scuole, ma la loro parola non equivale a quella di un insegnante che, ricevendo gli studenti, potrebbe capire cosa passa nella loro testa e nel loro cuore in quell’età incerta che è l’adolescenza, dove l’irruzione delle istanze pulsionali, emotive e sentimentali, le difficoltà del presente e l’ansia per il futuro, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà anche oltre ogni limite si danno convegno per celebrare, sia pure disordinatamente, tutte le espressioni in cui può cadenzarsi la vita. Se queste considerazioni hanno un loro senso, mi si lasci dire che la scuola italiana, se viene meno a questi compiti, è stata pensata unicamente per dare un posto di lavoro agli insegnanti e non per educare i giovani che si affacciano alla vita. E’ vero gli insegnanti sono pagati poco per il compito educativo che dovrebbero svolgere, ma sono pagati tutta la vita perché sono di ruolo. E se abolissimo il ruolo? Quando un professore non funziona lo sanno gli studenti, i colleghi, il preside, i genitori, ma non lo si può sospendere dall’insegnamento perché è di ruolo. E allora? Gli si dà la possibilità di demotivare gli studenti per tutto il tempo della sua carriera? Non è anche questo un modo di favorire le scuole parificate che non hanno questo vincolo, rispetto alle scuole statali che, nonostante tutto, non finirò mai di difendere? Non so dire quanti sono i giovani che si suicidano in età scolare. Non pochi. So però che in Italia ci sono tre milioni di giovani con disturbi alimentari, due milioni di autolesionisti, duecentomila affetti da quella sindrome hikikomori che li trattiene chiusi nella loro stanza, connessi solo con il loro computer, con la sola prospettiva del suicidio come loro ultimo gesto. I giovani dunque stanno male. E quando bevono (e bevono tanto), quando si drogano, non penso lo facciano tanto per il piacere che possono dare queste sostanze, quanto per il loro effetto anestetico. Le assumono per anestetizzarsi dall’angoscia che provano se sporgono lo sguardo sul futuro che per loro non è una promessa e, se non è una minaccia, è imprevedibile. E quando il futuro non è prevedibile non retroagisce come motivazione. “Perché devo studiare? Perché devo darmi da fare? E al limite perché devo stare al mondo”. Se questo è lo scenario, allora è urgente che scuola e famiglia incomincino a prendere in seria considerazione la loro capacità di cura, assistenza, aiuto. Cani poliziotto a scuola. Chi contesta è denunciato e censurato di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 31 maggio 2023 Una scuola superiore, un allarme antincendio che scatta, i controlli antidroga nelle aule, nessuna sostanza trovata ed un professore, Simone Zito, che denuncia l’accaduto su Facebook e finisce a sua volta denunciato e censurato. Quello avvenuto lo scorso novembre nell’Istituto Ferrari di Susa è solo uno di una serie ormai inenarrabile di blitz delle forze dell’ordine all’interno delle aule scolastiche su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo sbandierato è di stroncare il consumo di droghe in base al presupposto che “l’educazione non basta; serve anche la divisa”. È vero, l’azione educativa di famiglie e scuole non basta: infatti merita l’insufficienza e spesso va anche fuori tema. Necessita quantomeno il rinforzo di quei 2,5 milioni di euro investiti invece sulla “sicurezza”, non per gli edifici che crollano (senza PNRR non ci sarebbero stati fondi), ma sugli Accordi territoriali tra Prefetture, Questure, Uffici scolastici regionali e Comuni per fare entrare i cani-poliziotto a fiutare nelle aule gli zainetti dei ragazzi. L’iniziazione al consumo di tabacco, alcol e cannabis in adolescenza ha varie motivazioni, tra cui prevalgono curiosità, trasgressione, imitazione. Così come nei giovani non si è riusciti a contenere il consumo di tabacco e alcol, nonostante il divieto per i minori di età, tantomeno è avvenuto con le sanzioni amministrative per la cannabis e il rischio penale per spaccio. Realisticamente, nel quadro di un consumo giovanile che si protrae da ormai 50 anni, la prevenzione ha tre obiettivi: ritardare l’età del primo consumo; contenere la frequenza e l’entità d’uso per evitare l’instaurarsi della dipendenza; ridurre i danni connessi allo stato di alterazione. Ai servizi socio-educativi compete l’impegno più massiccio; a quelli sanitari la tempestività degli interventi d’urgenza e l’educazione alla salute; alle Forze dell’ordine i controlli alla guida e gli interventi di contenimento delle violenze. La scuola non ha bisogno delle azioni di deterrenza nelle aule della didattica, che ottengono in genere solo effetti boomerang: spaventano la stragrande maggioranza degli studenti, alimentando una cultura di diffidenza e ostilità verso chi deve proteggere i cittadini; inducono nei ragazzi comportamenti di mimetizzazione e di chiusura difensiva, ostacolando il lavoro educativo; stigmatizzano l’eventuale possessore, con esiti spesso deleteri per lo stesso percorso scolastico. La scuola è in grado di impedire il consumo al suo interno, molte buone esperienze lo testimoniano. Per farlo è indispensabile la motivazione: che gli insegnanti vogliano effettivamente “vedere” il problema e affrontarlo. Più facile e comodo, e più illusorio, delegare il problema alle forze dell’ordine, esito che fatalmente avviene dopo che non si è voluto o non si è stati capaci di affrontare la questione all’interno. È il momento in cui la situazione scappa di mano, passando, repentinamente, dalla mancata prevenzione alla demonizzazione della problematica e, peggio, dei suoi presunti colpevoli. Alcuni insegnanti, tra quelli che ritengano che la relazione e l’educare siano parte irrinunciabili dell’insegnamento, provano ad opporsi e dissentire. La “novità” degli ultimi tempi è che il dissenso viene punito, con denunce all’autorità giudiziaria e censure amministrative con ripercussioni di carriera. Penalizzati sono soprattutto i docenti precari. Non tutti i Capi d’Istituto sanno difendere la libertà di opinione e di insegnamento dei loro professori, o rifiutare i controlli di polizia, come ha fatto Il Preside dell’Istituto Marco Polo di Firenze: “Non sopporto l’idea che un cane punti un ragazzo, mi ricorda brutte cose del passato… preferisco puntare su psicologi, educatori, tutors”. La vicenda di Susa e la raccolta fondi per l’azione legale nel podcast e sul sito di Fuoriluogo. Migranti. L’Europa si è persa tra un muro e la foresta di Sabato Angieri Il Manifesto, 31 maggio 2023 Da quattro giorni 24 richiedenti asilo sono bloccati al confine tra Polonia e Bielorussia. Ufficialmente sul suolo di Varsavia che però rifiuta di farli passare. Senza cibo né acqua, l’unica solidarietà arriva da un gruppo di attiviste in presidio permanente. La Cedu deciderà a breve: l’eventuale sì all’ingresso segnerebbe un precedente storico. “La Polonia è un posto sicuro, la Polonia è libertà”, canta un giovane iracheno con la testa tra le sbarre del muro di confine voluto dalla destra polacca per tenerlo fuori. Accanto a lui una bambina di sei anni che volendo tra le sbarre passerebbe. A pochi metri le guardie di frontiera polacche a volto coperto sorvegliano che la decina di attivisti presenti non superino i quindici metri di sicurezza e che, soprattutto, non diano nulla a chi è dall’altra parte del “muro”. Mentre quest’articolo va in stampa ci sono 24 persone accampate da quattro giorni all’addiaccio nella foresta di Bielowieska: tentano di ottenere asilo in Polonia. Da più di un anno non capitava che qualcuno si accampasse di fronte a uno dei cancelli del muro, in genere chi prova a passare lo fa di nascosto. Tra loro un bambino di un anno e mezzo, altri tre bambini piccoli, qualche adolescente e diverse donne, una delle quali incinta al quinto mese. Un ragazzo ha una ferita abbastanza grave provocata da un morso dei cani delle guardie di frontiera bielorusse. Queste informazioni le sappiamo grazie a Maria, un’attivista che conosce l’arabo e che fa da interprete a tutti gli altri che si danno il cambio sotto gli alberi della “foresta più antica d’Europa”. Il muro, finito di costruire a luglio 2022, sorge in territorio polacco, il confine di stato con la Bielorussia si trova a pochi metri. “La cosa assurda è che quelle persone sono già in territorio polacco, secondo le leggi internazionali e anche secondo la legislazione polacca dovrebbero poter richiedere asilo - spiega una ragazza - e l’hanno anche fatto, li abbiamo registrati”. Ma a voce? “La legge polacca dice che, purché sia dimostrabile, la richiesta vale anche se fatta verbalmente e le guardie sarebbero obbligate a trascriverla”. Ma ovviamente non lo fanno. Non c’è da stupirsi, le storie dei migranti fatti passare dalle varie polizie d’Europa, compresa quella italiana, per richiedere asilo in un altro Paese si sprecano. Secondo gli accordi di Dublino il primo stato dell’Unione nel quale il richiedente asilo entra è obbligato a registrare la richiesta. E quindi, niente verbale, niente richiesta di asilo. Gli attivisti, o meglio le attiviste, quasi tutte donne di varie età, sono qui da oltre 40 ore e ogni tanto si danno il cambio. Dormono qui, “prometto che non me ne andrò finché non si trova una soluzione”, dice Maria, che tra tutte è forse la più indispensabile al momento. Ogni tanto qualcuno urla con le mani appoggiate alla ringhiera “Mariaaaa” e lei dopo un po’ finisce per dire sempre le stesse frasi, condite da diversi “habibi”, “sorry” e “inshallah”. Quando ci faranno entrare? Habibi non lo so se vi faranno entrare, sorry, ma noi restiamo qui con voi. Potete darci del cibo? Habibi non possiamo, sorry, dobbiamo aspettare che le guardie ci diano l’autorizzazione. E le guardie non la danno, sono dall’altra parte dello stradone, appoggiati al grosso pick-up verde e osservano. Ogni tanto passa un grande camion militare con otto ruote e due rimorchi. “È il camion che usano per i respingimenti, quando trovano qualcuno lo caricano lì e lo portano fuori dal muro, lo minacciano e gli dicono di non tornare”, spiega una ragazza. “Lo scorso Natale nelle scuole dell’infanzia ai bambini hanno chiesto di fare un lavoretto per i “nostri eroi che proteggono la patria” - racconta una donna - Disegni, letterine, che poi le maestre dovevano mandare a questi qui, la cosa tremenda è che poi andavano nelle scuole con quei grossi mezzi militari e ci facevano salire i bambini sopra; sullo stesso mezzo che usano per ricacciare indietro questa gente, capisci? Le strade intanto sono piene di manifesti che ringraziano “gli eroi che stanno difendendo la patria”. Ma non è follia questa? Non è fascismo? Guardali, ti sembrano pericolosi?”. Quando il grosso camion passa rumorosamente le attiviste iniziano a cantare per distrarre i bambini, cantano canzoncine, motivi tradizionali polacchi, anche qualcosa che assomiglia al “Ballo del qua qua” con tanto di mimi. I bambini ridono e poi applaudono. Per ricambiare, un ragazzo intona strofe in arabo. “Sono un cantante famoso - dice alla fine - In Iraq tutti mi conoscono”. Maria gli dice che quando passerà faranno un duetto. “Ma è famoso davvero?”, sento chiedere, “sì, ci ha dato il suo profilo Instagram, ha un sacco di follower”. A ogni modo canta benissimo. Si avvicina un gruppo di signore anziane, sono turiste polacche come tante venute qui per ammirare le bellezze della foresta. Chiedono che succede, poi alcune di loro si uniscono ai canti, tra cui una donna con i capelli tinti di rosso acceso. Un’amica la chiama mentre si avvia, annoiata. L’altra, l’anziana con i capelli rossi, risponde “vai tu” e per una mezz’ora intrattiene i bambini con canti e balletti. Anche le attiviste sono galvanizzate da quel siparietto, ma le guardie non gradiscono, salgono sulla jeep e iniziano a passare ripetutamente sullo stradone che separa il muro dalla boscaglia. Ogni volta che arrivano tra le attiviste e le teste tra le sbarre sgommano, alzando un polverone. Dopo poco arrivano anche degli uomini, forse i mariti delle signore anziane. La maggior parte guarda da lontano, non fa domande e se ne va. Una delle attiviste racconta che a volte si vedono uomini loschi poco dietro i richiedenti asilo. “Hanno il volto coperto, sono vestiti di nero… secondo noi sono guardie bielorusse che vanno lì a fare pressione, ricordano a quelle persone cosa li aspetta se tornano indietro”. I militari polacchi osservano impassibili e non agiscono. L’avvocato che si sta occupando del caso ha presentato una domanda alla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) con procedura urgente per obbligare il governo polacco a lasciarli entrare e chiedere asilo. L’ultima volta la Cedu obbligò Varsavia soltanto a prestare soccorso, fuori dal muro. Per questo l’avvocato ora ha chiesto che si obblighi il governo a lasciarli entrare e a ospitarli mentre chiedono asilo. Sarebbe la prima volta in assoluto, un precedente per tutti i confini con muri. In genere la Cedu risponde in giornata, stavolta stanno prendendo tempo, sono più di 24 ore che si attende una risposta. “È sicuramente per questioni politiche”, dicono le attiviste. Si fa sera, inizia a far freddo, ieri la temperatura è scesa fino a zero gradi. Nel frattempo le guardie di frontiera hanno distribuito delle bottiglie d’acqua, dei vasetti (forse yogurt) e qualche kiwi, inshallah. Ma li danno solo alle donne e ai bambini. Ai maschi dall’adolescenza in su non vogliono dare nulla. Qualcuno insiste e alla fine ottiene un kiwi, ma sono pochi. I bambini iniziano a piangere e i genitori aprono i sacchi a pelo per la notte. “Ieri hanno provato ad accendere un fuoco ma non ci sono riusciti”, raccontano. Anche le attiviste iniziano a prepararsi, le magliette sono state coperte da pile e giacche, c’è chi indossa il cappuccio di lana. Dall’altra parte hanno sempre gli stessi vestiti. Arriva un gruppo di ragazzi, turisti polacchi, in bici. Si fermano perplessi di fronte al cartello “Zona militare, limite invalicabile”. Mentre passiamo per andare via li guardiamo osservare quelle persone oltre le sbarre. Sembra che siano allo zoo, guardano con la stessa indifferenza con cui guarderebbero un animale. Uno dice una cosa che suona come una battuta, qualcun altro ridacchia, tutti girano le biciclette e ripartono scampanellando. Turchia. Congratulazioni a Erdogan e ai “nostri” amici dittatori di Alberto Negri Il Manifesto, 31 maggio 2023 Che le carceri turche siano piene di prigionieri politici, oppositori curdi e giornalisti (molti in esilio) e che i media siano nella morsa del potere, sembra importare a pochi. In un conciso libretto dal titolo “Il malessere turco” (edizioni il Canneto), il saggista Cengiz Aktar fa notare che l’ascesa dell’autocrazia e delle derive ultranazionaliste e fasciste in questo Paese non è avvenuta come accadde in Europa come conseguenza di crisi sconvolgenti ma in uno stato storico membro della Nato, con un’economia promettente (naturalmente salvo l’ultima fase) e l’ambizione (ormai lontana e non più desiderata) di entrare nell’Unione europea. Risultato: oggi nel nuovo Parlamento saranno non più di 100 su 600 i deputati che potremmo definire autenticamente democratici e anti-fascisti. Eppure oggi tutti si congratulano con Erdogan artefice massimo di questa deriva: dalla Casa Bianca a Macron, da Israele agli europei, oltre naturalmente all’ “amicone” Putin, che Erdogan ha elogiato nella sua ultima intervista alla Cnn. Erdogan è l’unico filo-putiniano che nessuno si permette di criticare anche qui in Occidente, visto che media sul grano ucraino e russo mentre sul Bosforo tiene le chiavi del Mar Nero. Che le carceri turche siano piene di prigionieri politici, oppositori curdi e giornalisti e che i media siano nella morsa del potere, sembra importare a pochi. Questo purtroppo è il segnale che l’Occidente è già pronto a convivere con Erdogan e nessuno si aspetta di avere a che fare con un leader più malleabile. Del resto sono il suo ultra-nazionalismo, il mito rinato dell’impero ottomano, la politica estera spericolata, che gli hanno ridato la vittoria, non i calcoli sull’inflazione in aumento oppure i suoi errori nella gestione della tragedia del terremoto. Persino l’opposizione ne è stata contaminata visto che faceva a gara con Erdogan su come liquidare la presenza di alcuni milioni di profughi siriani. Se è vero, come sottolineava ieri Michele Giorgio sul manifesto, che per le sue ambizioni regionali Erdogan ha bisogno di Israele e Golfo, il “reiss” turco comunque nella regione sta sfilando insieme a un lungo corteo di autocrati e dittatori che si sta riposizionando. La rielezione di Erdogan coincide con il ritorno del siriano Bashar Assad nel grembo al mondo arabo, come se nulla fosse accaduto, il generale egiziano al Sisi, finanziato dagli Usa e dai sauditi, riceve il nostro ministro della Difesa Crosetto ma anche il procuratore generale di Mosca, il principe Mohammed bin Salman cerca la pace con l’Iran e accoglie a Gedda il dittatore siriano come pure il leader ucraino Zelenski. E che Zelenski abbia accettato di farsi fotografare al vertice della Lega araba con un corteo di despoti e monarchi assoluti la dice lunga sulla sua affannosa ricerca di alleati. Ma ci vorrà più di una visita per allontanare il principe assassino - mandante dell’omicidio del giornalista Jalal Khashoggi - da Putin, compagno di strada del regno saudita nell’Opec allargato, e rinunciare alla manna finanziaria piovuta sui produttori di petrolio e gas con la guerra in Ucraina. Erdogan fa scuola. La Turchia è un alleato nella Nato che non solo non mette sanzioni a Mosca ma collabora con la Russia in ogni campo: dalle importazioni di gas all’energia atomica e da quando è iniziata l’invasione russa ha raddoppiato gli scambi commerciali con il Cremlino. Ankara ha aiutato con i suoi ormai famosi droni Bayraktar il governo di Kiev contro l’aggressione di Mosca ma si guarda bene dal recidere i legami con la Russia. Eppure la Turchia in Libia è schierata con il governo di Tripoli contro il generale Haftar sostenuto da Mosca e dalla Wagner mentre appoggia l’Azerbaijan contro l’Armenia, vecchio alleato di Mosca. Come pure la Turchia si era schierata contro Assad in Siria, dove occupa militarmente parti di territorio curdo, mentre il leader di Damasco è rimasto in piedi con il sostegno della Russia e dell’Iran. Contraddizioni che possono sembrare inaccettabili: ma non da Putin, Erdogan e dai loro compagni di strada. Per la verità un tratto in comune tutti questi regimi dall’Egitto alla Turchia, dalla Siria all’Arabia saudita ce l’hanno: sono amici di Mosca. Anzi continuano a collaborare in vari campi da quello energetico alle forniture militari. Come del resto fanno i governi di Cina e India e di quasi un terzo dell’umanità, dall’Asia, all’Africa al Sudamerica. E se poi andiamo a vedere i parternariati economici ci si accorge che i sauditi sono tra i primi fornitori e clienti della Cina il cui leader Xi Jinping era stato accolto a Riad con tutti gli onori. Anche l’amicizia con la Cina, che si guarda bene dall’osservare la carta dei diritti umani, è un’altra caratteristica comune di questi regimi: nessuno ha dato minimamente retta alla condanna venuta dal recente vertice dei G-7 di Hiroshima per contenere l’avanzata economica, militare e tecnologica di Pechino. Questo si chiama oggi mondo multipolare, dove la maggior parte dei Paesi un tempo legati all’Occidente fanno quello che pare a loro in funzione dei propri interessi nazionali e regionali. Erdogan docet. Iran. Elaheh Mohammadi alla sbarra, ora rischia l’impiccaggione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 31 maggio 2023 La giornalista iraniana svelo il caso di Mahsa Amini assassinata dalla polizia morale. È in prigione dallo scorso 29 settembre, è accusata di cospirazione e spionaggio. “Il processo a Elaheh Mohammadi è andato bene. La data della prossima sessione sarà annunciata dal tribunale”. Con una scarna dichiarazione, rilasciata all’agenzia ILNA, l’avvocato Shahabeddin Mirlohi ha fatto sapere che la persecuzione contro la reporter iraniana va avanti. Una corte infatti si è riunita lunedì a Teheran a porte chiuse, una prima udienza del procedimento che dovrà giudicare la giornalista che si trova in carcere, nella famigerata prigione per detenuti politici di Evin, unicamente per aver svolto il suo lavoro. Elahe Mohammadi ha 35 anni ed è redattrice del quotidiano Hammihan, è stata arrestata il 29 settembre dopo essersi recata nella città natale di Mahsa Amini, a Saqez, nel Kurdistan iraniano. Stava seguendo come corrispondente il funerale della 22enne curda riportando le notizie delle manifestazioni, represse nel sangue, che si stavano svolgendo all’indomani delle esequie. L’accusa e di aver attentato alla sicurezza nazionale in collusione con potenze ostili, seminando discordia nel paese attraverso la copertura informativa della morte della giovane Amini. Le autorità iraniane l’hanno imputata per essere una presunta spia della Cia. Un reato chiaramente motivato politicamente che serve come monito a tutti coloro che sono scesi in piazza dopo la fine della ragazza. Quest’ultima è deceduta mentre era nelle mani della polizia morale il 13 settembre 2022 perché non indossava in maniera consona il tradizionale hijab, il velo imposto alle donne. La notizia del decesso ha sollevato un vento di protesta senza precedenti tra la popolazione con manifestazioni contro il potere durate per diversi mesi. Ma quello contro Mohammadi non è il solo processo in corso, la magistratura iraniana ha comunicato che ieri è iniziato anche il procedimento a carico di Niloofar Hamedi, del quotidiano Sharq. I reati che le vengono contestati sono gli stessi della collega, aver fatto sapere al mondo che la morte di Amini non era assolutamente un fatto accidentale provocato da un malore. Hamedi infatti si trova dietro le sbarre per una foto, pubblicata su twitter, un’immagine divenuta virale che ritraeva i due genitori di Mahsa Amini abbracciati, stroncati dal dolore dopo la notizia della morte, in un corridoio vuoto dell’ospedale di Kasra, a Teheran. Tre giorni dopo la pubblicazione della foto uomini dei servizi segreti hanno fatto irruzione nella sua abitazione portandola via. L’Iran ha ignorato le ripetute richieste delle organizzazioni che si occupano di diritti umani affinché venisse celebrato un processo pubblico per le due giornaliste, una richiesta che è stata palesemente ignorata, aggravata dal fatto che i due procedimenti sono svolti separatamente. Il pericolo è che vengano comminate pene, che prevedono anche la morte, al chiuso di un’aula senza possibilità di informazione. Ciò rispecchia lo stato della giustizia (con condanne a morte eseguite dopo lunghi periodi di detenzione in penitenziari semi segreti e l’impossibilità per gli imputati di essere rappresentati da un avvocato, fino ad arrivare a vere e proprie torture e confessioni estorte) e della libertà di stampa in Iran. Non a caso l’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières ha rilevato che censura e arresti stanno diventando sempre di piu la regola e l’Iran ora si trova in 177 esima posizione su 18o aesi di una poco lusinghiera classifica che certifica la repressione della libera informazione. Esiste poi un altro elemento che riguarda i processi attuali, le accusate sono ambedue giornaliste. Se da un lato si tratta della testimonianza che le donne sono il vero motore della rivolta e del cambiamento voluto dalla società iraniana, dall’altro appare chiaro il tentativo dei leader religiosi di perseguirle. Da quando è scoppiata la rivolta contro il regime i giornalisti arrestati sono stati 72, 25 sono ancora detenuti, la maggior parte donne. Durante le proteste del 2o19 erano state solo 4. Basta citare ad esempio il caso di Nazila Maroofian che, come le due colleghe, stava indagando sulla morte di Mahsa Amini. Condannata a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena, senza processo, per la solita accusa di propaganda contro il sistema e diffusione di notizie false, ha trascorso ben 71 giorni in prigione. Il suo lavoro è stato importantissimo, è l’autrice dell’intervista al padre di Mahsa nella quale luomo ha rivelato che la ragazza curda non soffriva di alcuna malattia come invece sostenevano le autorità. Arabia Saudita. Riyadh mette a morte due bahraniti, oltre 40 le esecuzioni da inizio anno di Michele Giorgio Il Manifesto, 31 maggio 2023 L’uso della pena di morte è raddoppiato dall’ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman. Oltre mille i giustiziati dal 2015. Inutili le proteste dei centri per i diritti umani. Continuano le proteste in Bahrain per l’esecuzione eseguita lunedì in Arabia saudita di due giovani cittadini bahraniti, Sadiq Thamer e Jaafar Sultan, entrambi musulmani sciiti. Cortei con centinaia di persone hanno percorso le strade di varie località del Bahrain e sui social si moltiplicano le condanne delle due esecuzioni. La protesta ha raggiunto anche la prigione di Jau, dove sono rinchiusi numerosi prigionieri politici. Il governo di Manama è accusato di non aver mosso alcun passo per ottenere l’estradizione dei due condannati a morte e di aver lasciato campo libero all’Arabia saudita, protettrice del piccolo arcipelago del Golfo. Thamer e Sultan erano stati processati in contumacia e condannati al carcere da una corte del Bahrain con l’accusa di far parte di una organizzazione sovversiva. Dopo la cattura in Arabia saudita i due non sono stati estradati ma riprocessati e nel 2021 condannati a morte. Riyadh si è limitata a comunicare di aver giustiziato due cittadini del Bahrain accusati di aver pianificato “atti di terrore” e per “aver ricevuto addestramento in campi appartenenti a entità terroristiche che mirano a destabilizzare la sicurezza dell’Arabia saudita e del Bahrain”. L’uso della pena di morte è raddoppiato dall’ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman, sotto accusa per i suoi sistemi brutali nei confronti degli oppositori politici e i rivali nella famiglia reale. Mbs, così come è conosciuto l’erede al trono saudita, è anche accusato da più parti di essere stato il mandante, il 2 ottobre del 2018, dell’assassinio a Istanbul del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Nonostante ciò, l’ex presidente del consiglio italiano Matteo Renzi lo ha definito qualche anno fa il simbolo del “rinascimento arabo”. Dal 2015, quando Mbs è diventato il governante di fatto dell’Arabia saudita, nel regno sono state eseguite più di 1.000 condanne a morte. Questo mese nove, più di 40 dall’inizio dell’anno. Prima di Thamer e Sultan, erano stato messi a morte tre cittadini sauditi Hassan bin Issa al-Muhanna, Haidar bin Hassan Muwais e Mohammed bin Ibrahim Muwais. Pare inoltre imminente l’esecuzione di tre membri della tribù Howeitat, nella provincia di Tabuk, accusati di aver resistito allo sgombero per far posto alla megacittà di Neom, uno dei progetti faraonici annunciati da Mohammed bin Salman. I due bahraniti sono stati processati da una corte speciale e condannati sulla base della contestata legge antiterrorismo con cui l’Arabia saudita giudica spesso gli oppositori politici e i membri della minoranza sciita che vive nella regione di Qatif. Varie organizzazioni locali per i diritti umani affermano che le ultime due esecuzioni eseguite da Riyadh devono essere considerate “omicidi arbitrari”. I due giovani avevano negato con forza le accuse nei loro confronti e denunciato ai giudici di aver subito a torture e maltrattamenti per costringerli a confessare. “La leadership saudita si sente immune da qualsiasi conseguenza quando giustizia le persone che ha torturato. Il regime del Bahrein è complice poiché non è intervenuto per salvare le vite dei suoi cittadini”, ha commentato Sayed Ahmed Alwadaei, direttore del Bahrain Institute for Rights and Democracy, che ha chiesto attenzione internazionale verso la violazione dei diritti umani nei paesi del Golfo. Amnesty International aggiunge che Thamer e Sultan erano stati detenuti in isolamento per tre mesi e mezzo, senza accesso ad una vera assistenza legale durante il processo. Inoltre, durante gli interrogatori, sono stati torturati e minacciati in vario modo pur di estorcere loro le confessioni successivamente usate per condannarli a morte. Sultan, prosegue Amnesty, è stato torturato a tal punto da essere stato ricoverato in ospedale per dieci giorni. All’inizio di maggio l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva nuovamente criticato la legge saudita sul terrorismo del 2017 perché “eccessivamente vaga” e “non in linea con il diritto internazionale”. El Salvador. “Decine di detenuti morti per tortura” di Lucia Capuzzi Avvenire, 31 maggio 2023 La denuncia di “Cristosal”, principale organizzazione nazionale per la tutela dei diritti umani, che ha raccolto centinaia di prove nelle carceri dove, in oltre un anno di stato di emergenza, sono stati recluse oltre 68mila persone accusate di appartenere alle gang. Qualche mese dopo l’arresto, X - 30enne che deve restare anonimo per ragioni di sicurezza - è tornato a casa in una bara, con vistosi segni di strangolamento sul collo. Lo stesso è accaduto al 42enne Y, il nome è celato per la stessa ragione. Il cadavere di Z, invece, 32 anni compiuti da poco, presentava segni di gravi contusioni sul torace e ferite al collo e alla testa. Eppure le autorità di El Salvador insistono: i tre sono morti cause naturali. Proprio come gli altri 150 detenuti deceduti nelle prigioni del piccolo Paese centroamericano tra il 27 marzo 2022 e il 27 marzo 2023, primo anno dello stato di emergenza dichiarato dal presidente Nayib Bukele e tuttora in corso. Per Cristosal, principale organizzazione nazionale per la tutela dei diritti umani, a ucciderli sono state le torture perpetrate dai carcerieri. “La violenza sistematica è diventata politica di Stato”, denuncia il direttore Noah Bullock. L’accusa si basa su centinaia di interviste a ex reclusi rilasciati dopo mesi in quanto innocenti e familiari di quelli che invece sono morti dietro le sbarre, nonché su rapporti medici, documenti della polizia e foto. E conclude che almeno 29 dei 153 decessi avvenuti in cella in 365 giorni di regime di eccezione sono stati provocati dagli abusi. Per altri 46 esiste il fondato sospetto mentre per 39 è stato impossibile determinare la causa. La cifra, dunque, potrebbe rivelarsi ben più alta. E non include quanti - quattro, secondo il governo, ma non ci sono verifiche - sono stati sepolti in fosse comuni. O si sono spenti per malattie non curate. Lo studio poi riporta centinaia di testimonianze di torturati nei modi più crudeli: dalle scariche elettriche, ai pestaggi, ai finti strangolamenti e annegamenti. Un decalogo degli orrori a cui non si assisteva dalla fine della guerra civile, nel 1992. Nonostante lo choc, però, la maggioranza della popolazione continua a sostenere il pugno di ferro di Bukele nei confronti delle “maras”, le bande che negli ultimi decenni hanno tenuto in ostaggio i quartieri poveri di San Salvador e del resto del Paese. Dopo un intento di negoziato fallito, il governo ha sospeso le garanzie costituzionali e scatenato una vera e propria offensiva contro le gang che ha portato all’arresto di oltre 68mila persone: il maggior tasso rispetto agli abitanti, 6,3 milioni. Nessuno sa quanti di questi siano realmente esponenti delle maras. Le organizzazioni e i media che hanno denunciato la “caccia” sono state accusate di difendere i criminali e molte hanno dovuto chiudere. “Viviamo in un regime del terrore”, ha detto il cardinale Gregorio Rosa Chávez, storico collaboratore di San Oscar Arnulfo Romero.