Sovraffollate, inumane e degradanti: in Europa peggio delle carceri italiane solo quelle di Romania e Cipro di Viola Giannoli La Repubblica, 30 maggio 2023 Tra i punti critici anche la mancanza di acqua calda e docce nel 50% delle celle. I dati del XIX rapporto dell’associazione Antigone che si occupa delle condizioni di detenzione. Un anno fa il tasso effettivo di affollamento delle carceri era del 112%. Ora è del 119%. Significa che per il 20% dei detenuti la sistemazione è precaria. Soprattutto in Lombardia, Puglia e Friuli Venezia Giulia dove l’affollamento è superiore alla media nazionale. E per ben 4.514 nel solo 2022 l’Italia è stata condannata da parte dei suoi stessi tribunali a causa delle condizioni di detenzione inumane e degradanti, tendenzialmente per assenza di spazio vitale. A raccontarlo è il XIX rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione che l’associazione ha realizzato dopo aver visitato 97 istituti penitenziari e che quest’anno ha intitolato “È vietata la tortura”, dedicando un’ampia parte del dossier ai procedimenti che vedono imputati agenti della polizia penitenziari per presunte violenze ai danni dei detenuti e ai tentativi della destra di abrogare l’articolo 613 bis del codice penale, il cosiddetto reato di tortura introdotto appena nel 2017. La classica da maglia nera del sovraffollamento - Il 30 aprile di questo anno dietro le sbarre c’erano 56.674 persone. La capienza ufficiale delle carceri italiani è di 51.249 posti. Ma a questi vanno sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 2.646. Ci sono insomma 9mila persone in più rispetto a quante ce ne potrebbero essere. Dallo scorso anno i posti sono cresciuti, ma solo dello 0.8%, mentre le presenze sono aumentate del 3,8%, soprattutto tra le donne. La Lombardia ha i numeri peggiori: un sovraffollamento pari al 151,8%, la Puglia 145,7%, il Friuli Venezia Giulia il 135,9%. L’istituto più pieno di Italia è quello di Tolmezzo, poi ci sono Milano San Vittore, Varese e Bergamo. Ma è il dato complessivo italiano a piazzarci comunque in fondo alle classifiche europee: solo Cipro e la Romania hanno tassi di sovraffollamento maggiori di quello italiano. E nemmeno l’uso maggiore di misure alternative ha sottratto numeri alle carceri. La vita (senza confort) dentro - Nel giro delle celle Antigone ha scoperto che nel 35% degli istituti non sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili per ogni detenuto, nel 12,4% il riscaldamento non funziona, in quasi uno su due (45,4%) non c’è l’acqua calda, in ben più di uno su due (il 56,7%) non c’è la doccia. E ancora in un istituto su tre non ci sono spazi adeguati per le lavorazioni, in 3 penitenziari non ci sono spazi per la scuola. In uno su quattro non c’è l’area verde per i colloqui nei mesi estivi. In uno su tre non si fanno colloqui pomeridiani, creando problemi ai bambini che hanno genitori in carcere, di mattina vanno a scuola e dopo scuola non possono vederli. E in molti penitenziari si è tornati a dieci minuti di telefonata a settimana, nonostante una circolare del Dap del 26 settembre 2022 invitasse Provveditori e Direttori ad allargare le maglie per non tagliare i ponti affettivi e relazionali tra il dentro e il fuori. Solo a Velletri, Padova, Firenze e Trieste si può fare una chiamata al giorno. I detenuti: in maggioranza italiani, over 50, condannati per reati contro il patrimonio - Ma chi c’è in carcere? La curva sale non solo per il numero dei detenuti ma pure per la loro età. Quasi un terzo dei reclusi e delle recluse sono over 50: 29% alla fine del 2022 contro il 17% di fine 2011. Nello stesso intervallo di tempo gli ultrasettantenni sono raddoppiati, passando da 571 a 1.117. Sempre meno invece i giovanissimi: gli under 25 sono calati dal 10 al 6%. La maggior parte dei detenuti ha commesso reati contro il patrimonio, seguiti da quelli contro la persone. Circa 20mila sono quelli che tra le imputazioni hanno violato la legge sulle droghe. Poi ci sono i reati contro la pubblica amministrazione e al quinto posto l’associazione per stampo mafioso. Più di uno su due dei condannati presenti deve scontare pene inferiori ai tre anni e non vengono attivate misure alternative. Stabile la percentuale di persone con condanne superiori ai 20 anni, eppure diminuiscono verticalmente gli omicidi. Al 27 febbraio, come riportato dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale, 740 detenuti erano sottoposti al 41 bis. Alla fine del 1993, l’anno successivo alle stragi di Capaci e via D’Amelio, erano varie centinaia di meno, ovvero 473. Un terzo dei detenuti totali sono stranieri, il 31,3%, molti meno del 2011. Si tratta dello 0,34% degli stranieri presenti oggi in Italia. E di solito sono quelli che devono scontare pene più brevi, “segno - scrive Antigone - di una criminalità meno organizzata e di delitti meno gravi”. Marocco, Romania, Albania, Tunisia e Nigeria sono le nazionalità più rappresentate. Le donne, ospitate per la maggior parte nelle quattro carceri femminile italiane (Roma Rebibbia, il più grande d’Europa, Venezia, Pozzuoli e Trani) sono poche: il 4,4 per cento del totale. Lo scarto con le denunce (il 18,3% del totale) è notevole. “Possiamo ipotizzare - scrive ancora Antigone - che tale gap sia frutto di vari fattori: lo scarso spessore criminale, le condanne tendenzialmente più brevi, le norme specifiche sulle alternative al carcere per le detenute madri”. Sono circa 4mila i figli di donne recluse in prigione. Di questi, alla fine di aprile, 22 vivevano dietro le sbarre con le loro madri. I ragazzi negli Ipm - I più giovani entrano in carcere in custodia cautelare, meno di uno su cinque ha commesso reati contro la persona. Negli Ipm, gli istituti penali per minorenni resi recentemente famosi dalla serie tv Mare Fuori, sono 380 i ragazzi detenuti al 15 marzo 2023: 180 di loro hanno meno di 18 anni, 200 sono quelli tra 18 e 25 anni che hanno però commesso un reato da minorenni. Solo 12 sono ragazze. Il carcere di Nisida è il più affollato, quello di Pontremoli, l’unico totalmente femminile, ospita solo 5 ragazze. Ventitré suicidi e due morti per sciopero della fame - Sono stati 23 i suicidi in carcere in questi primi mesi del 2023. L’anno scorso era passato alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Sono state 85 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso del 2022 - su 214 morti totali - ovvero più di una ogni quattro giorni. Cinque i suicidi avvenuti nel solo carcere di Foggia. Negli istituti penitenziari i suicidi sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà. Al contrario del caso, rarissimo, di Alfredo Cospito, che per mesi è entrato nel dibattito pubblico, giuridico, politico e mediatico, in silenzio ogni giorno ci sono circa 30 detenuti in sciopero della fame, in assoluto la più utilizzata delle forme di protesta in carcere, cui talvolta si aggiunge anche lo sciopero della terapia. Il 25 aprile e il 9 maggio 2023 due detenuti sono morti per questo nel carcere di Augusta dopo 41 e 60 giorni di digiuno. Cresce pure il disagio psichico: nelle donne ancora di più che negli uomini. Il 40% delle persone detenute fa uso abituale di psicofarmaci. Tanta dispersione scolastica, poca formazione professionale - Da ultimo, ci sono le scarse possibilità sull’istruzione e la formazione. La dispersione scolastica è altissima, dovuta anche a trasferimenti e problemi organizzativi: meno della metà dei detenuti iscritti a corsi scolastici ha ottenuto la promozione. In alcuni penitenziari poi la percentuale di iscritti è così bassa: Bellluno 1,6%, Brindisi 5%, Poggioreale 6,9%, L’Aquila 7,3%. Mentre sale, buona notizia, il numero dei detenuti iscritti all’università. Chi lavora è il 35,2% dei reclusi. Ma tra questi vengono conteggiati anche quelli che, con turni a rotazione, lavorano appena poche ore al mese Circa due detenuti su tre non hanno accesso ad alcuna forma di occupazione. E la maggior parte, quasi tutti (86,8%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, in piccole attività interne poco spendibili nel mondo lavorativo. Solo il 4,6% della popolazione detenuta lavora per datori esterni. Nonostante sia fondamentale in vista della ricostruzione di un percorso di vita dopo il rilascio, la formazione professionale è quasi assente nel panorama penitenziario italiano. Alla fine del 2022 i detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale erano solo il 4% dei presenti. In Abruzzo, Basilicata, Molise e Valle D’Aosta non è stato portato a termine alcun corso. Carceri, il reinserimento dei detenuti passa anche dall’accesso a Internet di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 30 maggio 2023 Nel 2023, non garantire l’uso delle tecnologie e della Rete negli istituti penitenziari aumenta il divario digitale, precludendo ai reclusi reinserimento sociale e diritti fondamentali. Garantire l’accesso alle tecnologie e la navigazione in internet nelle carceri, nel 2023, dovrebbe essere parte integrante del trattamento e non una questione secondaria o problematica. Da questi aspetti dipendono, infatti, tanti dei nostri diritti di cittadini e tante delle nostre future possibilità lavorative. E quindi anche tanto del percorso di reinserimento sociale. Invece, oggi carcere e tecnologia non vanno d’accordo. È servita la pandemia di Covid-19, con tutte le sue chiusure a portare a un’apertura: quella del carcere alla tecnologia. All’indomani del primo lockdown nel marzo 2020 e delle proteste delle persone detenute in decine di istituti penitenziari, arrivarono centinaia di telefoni e tablet e si aprì la possibilità di fare videochiamate attraverso skype o whatsapp, con un minutaggio molto più ampio dei 10 minuti a settimana previsti da norme e regolamenti, anche per far fronte alla chiusura dei colloqui visivi. Tuttavia quell’apertura, nonostante l’auspicio che fosse definitiva, è durata poco e alla fine della pandemia si sono fatti passi indietro. In moltissime carceri le telefonate sono tornate a 10 minuti a settimana e solo con i classici apparecchi telefonici. Le video chiamate resistono solo in sostituzione dei colloqui in presenza. Per chi, come noi di Antigone, entra in carcere costantemente, l’impressione è quella di essere catapultati in un mondo che fuori non esiste più. Dove la tecnologia si limita a televisioni e radio, come avveniva nelle nostre case oltre 30 anni fa. Dove tutto si muove attraverso carta e penna. Dalle cosiddette “domandine” (le istanze con cui i detenuti presentano tutte le loro richieste), alle forme di comunicazione con l’esterno che passano ancora attraverso lettere spedite con le poste, fino alle e-mail, disponibili in alcune carceri a pagamento, che vengono inviate da terzi (solitamente cooperative che gestiscono questi servizi) con in allegato fogli scritti dalle persone detenute di proprio pugno. Il problema dell’assenza di tecnologia in carcere è molto più serio di quello che si potrebbe pensare. Costantemente sentiamo parlare di digital divide e di quanto questo rappresenti una criticità enorme in un mondo che sempre più spesso, e per alcune cose ormai quasi esclusivamente, passa attraverso tecnologie digitali. Di quanto un gap da questo punto di vista possa precludere la fruizione di servizi, l’accesso alle informazioni, le opportunità di lavoro, impattando direttamente non solo sulla sfera relazionale delle persone, ma anche sul godimento di alcuni diritti inalienabili. Il divario digitale può rappresentare una forma di disuguaglianza e un grave fattore di esclusione sociale, che colpisce in particolar modo ceti sociali che già vivono in situazioni marginali e svantaggiate. Per questo, da tempo, le istituzioni governative sono impegnate nel tentare di colmare questo gap. Ovunque, tranne in carcere, dove invece questo divario viene ulteriormente ampliato. Il carcere, troppo spesso, lungi dall’essere un luogo dove la pena produce reintegrazione sociale, diventa un luogo dove si riproducono le disuguaglianze esistenti all’esterno che, con il carico di stigmatizzazione sociale che rappresenta, non di rado si fanno anche più profonde. Il tema delle tecnologie ne è un esempio evidente. Per chi è entrato in carcere dieci anni fa, tornare in libertà oggi significa tornare in un mondo completamente diverso. Gli smartphone iniziavano a diffondersi, ma ancora la maggior parte delle persone aveva telefoni senza connessioni a internet. Molti dei social network o delle app che utilizziamo quotidianamente non esistevano o erano agli albori e con una diffusione molto più limitata di oggi. Oggi la nostra vita, tanto privata quanto lavorativa, dipende totalmente da queste tecnologie (pensiamo solo alle app di messaggistica istantanea). Mentre dieci anni fa correva su binari diversi. Ma non è necessario guardare a tempi così lunghi “fuori” dalla società. Le tecnologie corrono sempre più veloci e anche pochi anni possono bastare a creare un grande divario. Quando si parla di apertura alla tecnologia in carcere, solitamente ci si imbatte in resistenze e chiusure relative a questioni legate alla sicurezza. Ma, proprio l’esperienza di telefonini e tablet, dovrebbe aver contribuito a decostruire queste preoccupazioni. La maggior parte delle persone detenute ha una corrispondenza libera, può scrivere a chiunque e ricevere lettere da chiunque, senza censure né controlli. Non si capisce dunque perché questa corrispondenza non possa avvenire via e-mail anziché con le lettere cartacee. Le Mandela Rules, regole penitenziarie non vincolanti, adottate dalle Nazioni Unite nel 2015, a tal proposito affermano alla regola 58 che le comunicazioni con famiglia e amici dovrebbero avvenire “per iscritto e utilizzando, se disponibili, mezzi di telecomunicazione, elettronici, digitali e di altro tipo”. Con quel “disponibili”, si riferiscono alle infrastrutture presenti nei Paesi che, non ovunque, sono così avanzate e pervasive come in Italia. Non si capisce poi quale pericolo possa nascondersi dietro al fatto che una persona in carcere, invece di leggere solo i giornali disponibili su carta, possa accedere a fonti informative più ampie e diversificate, attraverso le possibilità che internet offre. Ad esempio, questo articolo in carcere non lo potrà leggere nessuno. Così come non si capisce perché una ricerca su Wikipedia presenti più problemi di una ricerca su un’enciclopedia cartacea. Perché una persona detenuta, munita di Spid, non possa accedere a siti della pubblica amministrazione per controllare la sua posizione personale o per monitorare, ad esempio, l’andamento di suo figlio a scuola. Se alcuni siti possono poi destare preoccupazioni, c’è sempre la possibilità di bloccarne la navigazione. Nella pubblica amministrazione (ma anche in diverse aziende private), di fatto questa modalità è già utilizzata e i dipendenti non hanno libero accesso a molti portali e a molte applicazioni. *Responsabile comunicazione di Antigone Considerazioni attuali sulle pene e sui reati al femminile di Anna Paola Lacatena Il Manifesto, 30 maggio 2023 Fanno regolarmente uso di psicofarmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici e neurologici il 63,8% delle donne presenti nei penitenziari italiani. Dai dati raccolti nel nuovo report Dalla parte di Antigone, elaborato dall’omonima associazione che monitorata ormai da anni la condizione dei detenuti in Italia, al gennaio 2023 risultano 2.392 le donne recluse nel nostro Paese. Le strutture detentive che accolgono esclusivamente donne - Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia - ospitano circa un quarto (599) del totale della popolazione femminile ristretta. Il grande numero delle recluse è ospitato, dunque, nelle sezioni femminili di carceri che a tutti gli effetti restano improntate al maschile, giocando tutto ciò a svantaggio delle necessità, dei bisogni e del percorso rieducativo delle donne. L’unico aspetto positivo di questa scelta ricade nel permettere alle ospiti di conservare i riferimenti familiari e sociali. Le realtà più popolate sono il carcere del capoluogo lombardo di Bollate, con 117 presenze, di Torino (115) e di San Vittore (79) sempre a Milano. Per la maggior parte costituita da italiane, la media del 4% sull’intera popolazione detenuta è al di sotto di quella mondiale e in decrescita dal 2008. Sono 70, poi, le donne trans presenti nelle carceri italiane, ospitate in sezioni apposite e protette all’interno dei penitenziari di Belluno, Como, Ivrea, Napoli, Secondigliano, Reggio Emilia e Rebibbia. A loro disposizione, scrive Antigone, ci sono attività ulteriormente limitate rispetto alla già inconsistente offerta rieducativa rivolta alle donne cisgender. Ho partecipato alla presentazione del report nel carcere di Taranto dove è presente una sezione femminile il 17 maggio. Al di là degli accurati approfondimenti garantiti dai professionisti che hanno stilato il documento e che con grande passione stanno portando riflessioni e proposte all’attenzione degli stessi detenuti, dei decisori, delle donne e degli uomini liberi i conseguenti risultati, due aspetti - tra i non pochi - a proposito di carcerazione al femminile nel nostro Paese mi lasciano interdetta. Considerato l’approfondimento il passo necessario verso una comprensione più realistica e meno ideologica, ho assecondato la necessità di alcune considerazioni in proposito. Perché si può essere ristretti fisicamente ma anche tanto mentalmente, sia pur ufficialmente liberi. Psicofarmaci a gogò: come riattualizzare la vecchia rieducazione morale - Le statistiche internazionali mostrano come, all’interno della popolazione generale, le patologie psichiche (depressione maggiore, disturbi d’ansia, disturbi alimentari) siano prevalenti ed in crescita tra le donne. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed) nel 2021 le prescrizioni di antidepressivi in Italia sono aumentate del 2,4%, orientate sempre di più verso l’universo femminile. Questo dato è confermato anche dallo Studio Espad sugli studenti di 15-16 anni - trends 1996-2015, secondo il quale rispetto agli uomini, le donne consumano maggiormente psicofarmaci su prescrizione medica e non. La depressione in particolare costituisce la principale causa di disabilità tra le donne di età compresa tra i 15 ed i 44 anni. I tassi di prevalenza nella depressione sono da 2 a 3 volte superiori a quelli degli uomini, nei disturbi di panico le diagnosi che le donne ricevono sono in un rapporto che varia da 3 - 4:1. Il tutto già a partire dalla prima adolescenza. Le adolescenti femmine, infatti, sembrano incorrere più facilmente nel rischio di patologia, dove svettano i dati relativi ai disturbi alimentari con quasi il 90% della casistica totale. Ad oggi, e nonostante queste inopinabili evidenze, l’ottica e la medicina di genere fanno ancora fatica ad affermarsi e il contesto, già così fortemente stigmatizzante per una donna, come la struttura detentiva non sembra fare eccezione. Specificatamente, nelle carceri italiane le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% contro il 9,2% dei presenti (M/F) in tutti gli istituti visitati da Antigone nel 2022. Fanno regolarmente uso di psicofarmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici e neurologici il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% del totale. Vengono erogate in media nelle carceri che ospitano donne 11 ore di assistenza psichiatrica ogni 100 presenze, contro le 7 degli istituti che ospitano solo uomini. Analogo si presenta il discorso relativo al sostegno psicologico: 22 ore alla settimana ogni 100 detenuti negli istituti dove ci sono anche donne, rispetto alle 13 di quelli dove ci sono solo uomini. Per quanto riguarda le donne, dunque e non da oggi: “il ricorso a medicine e psicofarmaci è alto, ma è in generale l’orientamento complessivo che è maggiormente caratterizzato da approcci terapeutizzanti” (Pitch, 1987, pp. 24-5). Ad oggi i dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in merito allo stato di salute delle persone detenute in Europa fa fatica a ricavare un dato puntuale relativo all’Italia. Il nostro Paese non si avvale, infatti, di un monitoraggio di respiro nazionale e soprattutto di una metodica condivisa - a dirla tutta nemmeno di cartelle cliniche informatizzate, carenza rimarcata dagli Stati generali sull’esecuzione penale conclusi nell’aprile del 2016, dai lavori della VI Conferenza Nazionale Dipendenze di Genova del 2021 e dai tavoli degli esperti del Piano di Azione Nazionale Dipendenze 2022-2025. Non sembra possibile, dunque, definire se e come gli psicofarmaci siano somministrati ai detenuti nelle strutture italiane, quanti di questi abbiano effettivamente una diagnosi che ne richieda l’assunzione, quanti vanno incontro a sotto o sovradosaggi. A questa condizione va aggiunta quella del disturbo da uso di sostanza (DUS). Sono in trattamento per dipendenza patologica, infatti, il 14,9% delle donne detenute, contro il 18,7% degli uomini. Dopo questa patologia, il disagio psichico è la seconda causa di suicidio femminile in carcere, che solo nel 2022 ha portato alla morte di cinque donne. Nell’ultimo anno, dal report redatto da Antigone, si legge che il tasso di suicidi è risultato più alto per la popolazione femminile con un 2,2 ogni 1000 persone a fronte di un 1,4 per gli uomini. Numeri spaventosi, considerato che nella popolazione libera quel tasso è di 0,7 suicidi ogni 1000 abitanti. Non sembra andare meglio per le donne neppure relativamente agli atti di autolesionismo registrati con un 30,8 ogni 100 presenti contro i 18,6 del totale della popolazione detenuta. ? ragionevole il dubbio relativo al ricorso generalizzato agli psicofarmaci come controllo e, dunque, come risposta diffusa almeno quanto impropria alla pena nel nostro Paese. La malattia psichiatrica non è il disagio psichico determinato da un contesto che estremizza ciò che esternamente al carcere riprenderebbe il suo giusto peso. L’angustia di una condizione di privazione della libertà non deve sommarsi ad ulteriori afflizioni declinate da un sistema che sembra abdicare quando non arrendersi alla funzione cui è chiamato dal dettato dell’art.27 della Carta Costituzionale. In nessun modo la cura può diventare correzione così come la correzione non può dirsi la cura. Più di frequente può farsi causa della patologia. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’insufficiente disponibilità di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dai servizi sanitari territoriali (Rems) continuano a giocare un ruolo importante a tal proposito. Peraltro, la legge 81 del 2014 ha stabilito anche l’impossibilità, per quanti si ammalano di patologie mentali all’interno di un carcere dopo la condanna, di essere trasferiti nelle Rems. Quando tutto ciò è applicato all’universo femminile, vanno registrate ulteriori criticità. ? ormai inconfutabile - o dovrebbe esserla - l’infondatezza della supposizione per la quale manifestazioni patologiche e terapie, possano considerarsi comuni per entrambi i sessi. In realtà sintomatologia, malattia, risposta al trattamento, decorso e strategie dei curanti sono influenzati dal genere. Le donne rispondono in maniera diversa rispetto all’uomo ai farmaci e questo e principalmente connesso a differenze fisiologiche, anatomiche e ormonali. Le donne mostrano un profilo farmacocinetico differente rispetto all’uomo sia per assorbimento, sia per distribuzione, metabolismo ed eliminazione del farmaco. Hanno un peso corporeo medio inferiore una percentuale di massa grassa più alta, un minore volume plasmatico e un profilo di legame tra farmaco e proteine plasmatiche dissimile. E quindi intuibile come nello studio dei farmaci e nelle prescrizioni tutti questi parametri dovrebbero essere considerati (Franconi et al., 2007; Franconi e Campesi, 2014). Opportunamente, già qualche anno fa il farmaco zolpidem, ipnotico non benzodiazepinico, con deboli proprietà sedative e miorilassanti, ha marcato una tappa importante nella farmacologia di genere (Farkas et al., 2013). Nel 2011 la Food and Drug Administration (FDA), infatti, ha approvato, rispetto alle precedenti formulazioni quella a basso dosaggio con dose massima consigliata distinta per genere: 1,75 mg per la donna contro i 3,5 mg. Già nel 1998 l’OMS ha inserito la medicina di genere nell’Equity Act a conferma che il principio di equità deve essere applicato all’accesso e all’appropriatezza delle cure, considerando l’individuo nella sua specificità. Alle componenti biologiche, però, vanno aggiunti tanti altri fattori sociali e culturali estremamente importanti e insufficientemente studiati, non necessariamente come causa ma per meglio significare l’intera condizione della donna libera o reclusa. L’impaccio maschile e l’impunibilità femminile: la cultura che condanna è la stessa che assolve - Il processo di creazione della devianza inizia quando le norme vengono prodotte e non quando vengono violate. La devianza non è una qualità dell’azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione di regole e sanzioni. “Quando quell’estraneo è davanti a noi, può darsi che ci siano le prove che egli possiede un attributo che lo rende diverso dagli altri (…) un attributo meno desiderabile. concludendo si può arrivare a giudicarlo come una persona cattiva, o pericolosa, o debole. nella nostra mente, viene così declassato (…). crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio un umano. Partendo da questa permessa, pratichiamo diverse specie di discriminazione, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia, anche se spesso inconsapevolmente, le possibilità di vita” (Goffman, 1970, p.17) Nonostante la più accentuata stigmatizzazione alle quali sono condannate le donne, le pene erogate - mediamente sette anni di carcere - risultano inferiori rispetto a quelle comminate agli uomini, e questo non solo in ragione della gravità dei reati commessi. Perlopiù si tratta di sfruttamento o di favoreggiamento della prostituzione (25,8% de casi), di truffa informatica (23,2%) - con buona probabilità riconducibile all’estorsione di denaro attraverso identità fittizia creata in rete - e di furto (20,2%). Sembra opportuno riflettere sulla possibilità che la criminalità della donna sia solo meno apparente e, dunque, meno rilevata e approfondita anche dalla ricerca criminologica. Inoltre, sembra molto più comune per la donna una devianza tradotta in azioni autoplastiche più che alloplastiche. Innegabile il tratto vittimogeno o del disadattamento della presenza femminile nel mondo del crimine, la donna per lungo tempo sembra volontariamente o suo malgrado essersi consegnata o, più spesso, essere stata consegnata a ruoli prevalentemente marginali, di sostegno, di copertura, di fiancheggiamento e/o di favoreggiamento. Alcuni studi hanno puntato a dimostrare come il ridotto numero di reati commessi dalle donne possa essere imputabile al maggior tasso di indulgenza di cui le stesse godrebbero presso le forze di polizia e la magistratura, visto il loro scarso peso in termini di pericolosità sociale. Altri, come precisato da Gulia Fabini all’interno del report, hanno correlato la scarsità di denunce, condanne, ordini di carcerazione ad una sorta di processo selettivo operato dal sistema della giustizia penale e dalla cultura di una data società, in un dato momento. E se invece la risposta si celasse nella natura stessa dei reati statisticamente commessi più di frequente dalle donne? E se pur risultando quelle fattispecie così ricorrenti le stesse fossero in realtà ampiamente sottostimate? La risposta potrebbe essere nel sommerso, difficilmente quantificabile soprattutto per una questione socio-culturale, perché la cultura sessista e machista che condanna la donna potrebbe essere la stessa che in alcuni casi l’assolve. I reati di sfruttamento e favoreggiamento sembrano rispondere, nella maggior parte dei casi e ancora oggi, ad una tipologia di concessione dell’uomo di potere accompagnata dal rinnovarsi della subalternità femminile. La gestione della donna-prostituta operata da un’altra donna monda parzialmente l’uomo a capo dello sfruttamento, ponendolo su un piano più alto e meno deprecabile anche per ciò che attiene al punto di vista tradizionale del pensiero criminale. Spesso, la donna già circuita con il metodo del lover boy, diviene la più affidabile delle prostituenti per lo sfruttatore reale, spesso dopo periodi di prostituzione in prima persona. La truffa informatica, vedendo la figura femminile calarsi più attivamente nella sfera sociale, economica e politica, rappresenta una nuova frontiera, più moderna sia pur profondamente carica di vecchi significati. Nonostante cresca il numero al femminile delle vittime di love scam o romance scam, ossia la truffa amorosa sulle app di dating - nel 2022 i raggiri “romantici” sono aumentati rispetto all’anno precedente di oltre il 150% - attualmente gli uomini cadono più facilmente vittime del fenomeno delle sextortion. Convinti da belle donne che appaiono in webcam a spogliarsi e filmarsi mentre compiono atti di autoerotismo, gli stessi sono spesso ricattati subito dopo con la minaccia di vedere pubblicate quelle immagini in rete. Se le donne - più facilmente comprese tra i 40 e i 60 anni - fanno fatica a denunciare, vergognandosi di essere cadute vittime di queste truffe, per gli uomini è davvero così diverso o, addirittura potrebbe essere peggio? Se la fascia d’età della vittima amorosa è estendibile anche all’uomo, allora si tratta di persone con un già definito ruolo sociale, pubblico e privato. Nonostante la macroscopica evidenza per la quale sono ancora pochi gli italiani che ammettono di utilizzare app per gli incontri online, le cifre fatturate fanno pensare ad almeno 1 su 3 (il 32.6%) (rapporto 2022 di Business of App). Dalle app ufficiali e rinomate ai tanti sottoboschi della rete, a causa dello stereotipo di virilità declinato per assurdo con il timore di essere creduti, il dato riportato dal report di Antigone potrebbe nascondere un ben più significativo sommerso, giustificabile anche e soprattutto per via di una certa riluttanza a denunciare di essere stati vittime di una truffa, di un raggiro, di un ricatto proposto e, a questo punto, conseguito da una donna. Oltre alla difficoltà che hanno gli uomini nel confessare di essere vittime, il pregiudizio e le aspettative sociali nella fattispecie sembrano giocare un ruolo protettivo al femminile. Per una volta l’espressione per la quale spesso le donne vittime di violenza - e non solo - sono chiamate alla correità, può essere percepita dagli uomini, garantendo indirettamente all’autore di reato (la donna) di farla franca. L’uomo vittima del raggiro femminile non denuncia con facilità, tra i tanti aspetti con cui dovrebbe confrontarsi, infatti, ci sarebbe il finire oppresso dal medesimo odioso postulato del se l’è andata a cercare. Se cambia la cultura cambia per tutti, nel frattempo - ssst! - la donna non ha commesso ciò che l’uomo non ha denunciato. “Servono percorsi di reinserimento più efficaci”. L’appello di Antonio Mattone, della Sant’Egidio di A. Lan. Avvenire, 30 maggio 2023 Una delle condizioni più comuni tra quanti scontano una pena detentiva è la solitudine. L’ascolto e la vicinanza dei volontari possono fare la differenza tra una pena che aumenta la disperazione e una che ridà speranza. Lo racconta Antonio Mattone, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per le carceri in Campania. Scrittore e giornalista, Mattone è anche direttore dell’Ufficio di Pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Napoli. Frequenta il carcere come volontario dal 2006 e ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penali voluti dal ministro Orlando nel 2015. Da quando ha iniziato a frequentarlo ad oggi, come è cambiato il carcere? Di cambiamenti ce ne sono stati molti. Io dico che il carcere è un po’ come un elastico, si allarga nel senso che progredisce, e poi si restringe nel senso che regredisce. Volendo riassumere, direi che gli anni ‘80 era il periodo in cui la camorra comandava all’interno del carcere. Il boss Raffaele Cutolo imperava, del resto il suo potere è nato all’interno di Poggioreale. Il suo dominio è arrivato fino al punto di ordinare l’esecuzione del vicedirettore Giuseppe Salvia, vicenda che il racconto in un mio libro. Nel 1982, in seguito a una serie di rivolte e di sparatorie tra detenuti all’interno del carcere di Poggioreale, c’è stato un primo cambiamento. I reparti speciali hanno fatto piazza pulita e setacciato minuziosamente il carcere, padiglione per padiglione, recuperando da nascondigli segreti una grande quantità di armi, pistole e coltelli. Dopo questa operazione, molti detenuti sono stati trasferiti. Lì è cambiato il sistema: quando si entrava in carcere, bisognava capire che comandavano gli agenti e, soprattutto se non si avevano appartenenze criminali forti. Estremizzando, possiamo dire che questo ha portato la famigerata “cella zero” di Poggioreale, descritta come luogo di pestaggi e umiliazioni dei detenuti. Io mi soffermo su questo Istituto perché è quello che conosco meglio, ma la dinamica che descrivo ha una valenza generale. Questo clima oggi è cambiato. Cosa ha portato al cambiamento? Un insieme di eventi. Molto importante è stata la sentenza Torregiani del 2013. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani. A quel punto il Ministero capì che bisognava riformare il carcere, in particolare bisognava riformare quello di Poggioreale. Sono cambiati così i quadri direttivi del carcere e il direttore. Significativa anche la precedente riforma della medicina penitenziaria del 2008, in base alla quale i medici non dipendevano più dal Ministero della giustizia ma dal Sistema sanitario nazionale, svincolandoli così dalla troppa vicinanza agli agenti della custodia. Una volta un detenuto mi disse: “qui gli agenti sono infermieri, infermieri sono medici e medici sono guardie”, denunciando una commistione tra ruoli che faceva sì che in certi casi fossero gli agenti a stabilire di chi prendersi cura. Anche la visita di Papa Francesco a Poggioreale nel 2015, ha rinnovato lo spirito. Tuttavia serve una riforma strutturale, altrimenti tutto è lasciato alla buona volontà del momento. È vero che tra i volontari giro questo motto: “più mandate fai, meno recupero c’è?” Sì. Se metti una persona in cella e gli neghi la possibilità di recupero già attraverso corsi dentro il carcere - che me lo lasci dire, in molti casi servono più ai formatori che ai detenuti per come sono fatti - oppure gli neghi misure alternative, il recupero è difficile. Anche dare un diploma ma senza poi accompagnare al lavoro la persona, risulta inutile. E anche quando c’è un affidamento al lavoro, in non pochi casi è fasullo. Addirittura, qualche volta, è il detenuto stesso che paga il datore di lavoro: sì, succede anche questo. Così accade che il detenuto si impoverisca perché ad esempio, perde il lavoro. Poi spesso perde legami familiari: che speranze ha una persona in tali condizioni? E che motivi ha di cambiare condotta? Se si danno opportunità invece le cose mutano. Fondamentale in quest’ottica sono le misure alternative al carcere che, non dimentichiamolo, sono uno dei modi di scontare la pena, a dispetto del luogo comune in base al quale solo in carcere si sconta davvero la condanna. Le pene alternative sono uno strumento di recupero e reinserimento graduale nella società importante, per evitare che la persona subisca un passaggio brusco dal carcere alla vita fuori. Tutto questo serve anche per avere una società più sicura: se uno esce dal carcere uguale o peggiorato rispetto a quando vi è entrato non è di certo un bene per la collettività. Senza contare, che, se esci incattivito e impoverito, se facile preda della malavita in cerca di manovalanza. Chiaramente questo discorso si applica alla fattispecie di reati che lo consentono, non mi riferisco certo ai camorristi, ma ai detenuti comuni, che poi sono la maggioranza. Le statistiche sono chiare: chi ha vissuto gli ultimi mesi della propria pena in misura alternativa ha in media una recidiva più bassa. Qual è il senso dell’impegno dei volontari in carcere? Per quanto mi riguarda, i volontari di Sant’Egidio vogliono innanzitutto rispondere ad un imperativo evangelico: “ero carcerato e siete venuti a visitarmi”. Poi nella visita c’è l’aiuto nella solitudine. Ho incontrato pochi giorni fa - ma è solo uno dei tanti esempi - un ragazzo africano appena arrivato in Italia con una nave di migranti, che non parla italiano, completamente solo, in attesa di processo. Gli abbiamo portato dei vestiti: aveva ancora gli abiti di quando è sbarcato. Il senso dell’impegno, allora, è quello di stare vicino a chi vive un momento difficile della propria vita. È chiaro che si tratta di difficoltà diverse: in carcere ci sono senza fissa dimora, tossicodipendenti, stranieri, persone con disagi psichici. A volte si tratta di giovanissimi e questa è davvero una grande ferita. Poi ci sono i criminali, per così dire di alto rango, ci sono i boss. C’è di tutto. Di fronte a questa umanità noi cerchiamo di farci i prossimi: poi ciascuno è libero di prendere quello che vuole. Dal semplice aiuto materiale si può passare alla richiesta di ascolto, di una catechesi in certi casi. A volte nasce un’amicizia che continua dopo la detenzione. Con alcuni detenuti che ho incontrato da volontario è sorto un rapporto che dura da anni: oggi sono uomini liberi, lavorano, hanno una famiglia, fanno una vita normale. Nel 2006 ho varcato il portone di Poggioreale con qualche paura: ero l’unico di Sant’Egidio al tempo e non sapevo bene cosa fare. A distanza di anni posso dire che è una grande esperienza umana. Museruola a giudici e politici? Nordio, che abbaglio! di Astolfo Di Amato L’Unità, 30 maggio 2023 Secondo il Guardasigilli non esiste il diritto dei magistrati di criticare le leggi a meno che non si riconosca al politico il diritto di criticare le sentenze: parole di una ingenuità disarmante. Il ministro Nordio è intervenuto, venerdì 27 maggio, al Festival dell’Economia di Trento. Tra l’altro, ha affermato: “Non esiste da parte del magistrato né il diritto creativo, ovvero di interpretare le leggi come gli pare sostituendosi al legislatore, né il diritto di criticare il merito delle leggi a meno che non si riconosca al politico il diritto di criticare le sentenze, e questo non andrebbe bene né in un senso né in un altro”. Una dichiarazione del genere è semplicemente disarmante per la ingenua semplicità che la contraddistingue di fronte alla complessità dei fenomeni e rapporti, cui si riferisce. Sul Giudice che nella realtà non può che essere “creatore” della legge del caso concreto esiste ormai una pubblicistica vastissima. Già il fatto che si sia in presenza di una pluralità delle fonti normative, dalle quali trarre la regola del caso concreto, impedisce di concepire il Giudice come una mera “bocca della legge”. Basta pensare che il Magistrato italiano è chiamato ad applicare le leggi nazionali, quelle regionali, le norme di diritto europeo, le convenzioni internazionali, le convenzioni sui diritti fondamentali. Si tratta di complessi normativi non sempre coerenti tra loro e che anzi, spesso, sono articolati facendo riferimento a valori diversi. A questo si aggiunge che frequentemente la stessa legislazione nazionale non solo è incoerente, ma giunge ad affidare al Giudice formule vuote, il cui contenuto deve essere riempito proprio in sede giudiziaria: si pensi ai concetti di giusta causa o di giustificato motivo come causa di licenziamento. Di fronte ad una situazione del genere, la conclusione non può che essere del tutto diversa da quella del ministro Nordio. Il Giudice è necessariamente “creatore” della norma del caso concreto. Gli si può solo chiedere di condurre questa opera di “creazione” attraverso un processo ricostruttivo, che sia ragionevole e rispettoso dei principi dell’ordinamento e che non sconfini nell’arbitrio o nella violenta affermazione della propria opinione soggettiva. La seconda affermazione di Nordio, e che cioè il Magistrato non sarebbe legittimato a criticare il merito delle leggi e che a loro volta i Politici non sarebbero legittimati a criticare le sentenze, è egualmente lontana dalla realtà. Bisogna ricordare, in proposito, che, sia pure nell’ambito di opinioni non perfettamente coincidenti, per cultura si intende il “complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico” (così, ad esempio, nell’Enciclopedia Treccani). È evidente che si tratta di un corpo vivo nel quale le varie componenti reagiscono l’una sull’altra, determinando quella evoluzione, che finisce con l’essere il cuore della evoluzione dell’umanità. Ed è altrettanto evidente che elementi centrali di quel corpo vivo sono sia la politica e sia il diritto, nella sua dimensione sia astratta quale risulta dalle norme e sia concreta quale risulta dalla applicazione che ne viene fatta nelle aule giudiziarie. Immaginare che in quel processo, anche caotico, di evoluzione della cultura, processo nel quale le varie componenti reagiscono tra di loro in modo continuo, sia opportuno mettere la museruola proprio a due dei protagonisti principali di quel divenire, cioè Magistrati e Politici, significa avere una visione statica del mondo. Significa, ancora, ignorare i profondi processi di trasformazione in atto, che rendono inevitabile una partecipazione corale ed esplicita dell’intera collettività e, nell’ambito di essa, delle componenti protagoniste di quella trasformazione. A questo si deve aggiungere che il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni è garantito non solo dalla Costituzione repubblicana, ma anche da tutte le Convenzioni internazionali sui diritti fondamentali. Non si comprende, allora, come possa immaginarsi che un diritto fondamentale possa, rispetto ai Magistrati e ai Politici, essere compresso per motivi di opportunità. Cosa diversa, tuttavia, è quando il Magistrato non si limita ad esprimere la sua opinione, ma, sfruttando la posizione che ha nella società e talvolta avvalendosi anche del potere di decidere le controversie, si fa guida dei movimenti contro il merito di alcune norme, ponendosi in quel caso come vertice politico. Allora sì che si verifica una confusione di moli, che rischia di essere esiziale per la democrazia. Egualmente incomprensibile è, poi, anche la pretesa che i Politici si astengano dal criticare le sentenze. Proprio coloro, che dovrebbero avere un ruolo centrale nel guidare i processi evolutivi della società, dovrebbero astenersi dal valutare l’impatto, che può esplicare una componente fondamentale di tale evoluzione, e cioè le sentenze! Il ministro Nordio è persona di grande cultura e di grande esperienza, che non può non essere pienamente a conoscenza della complessità dei rapporti e dei processi, su cui si è espresso. Probabilmente è stato condizionato, nelle frasi che ha pronunciato, da alcuni eccessi, che hanno visto i Magistrati competere con le forze politiche sul terreno squisitamente politico di guida della collettività, e perciò non di loro competenza. La soluzione, tuttavia, non può essere né il Giudice “bocca della legge”, né la negazione, per i Magistrati e per i Politici, del diritto di esprimere liberamente la propria opinione. “Sì, siamo ancora in guerra con la mafia e le super leggi servono” di Errico Novi Il Dubbio, 30 maggio 2023 Intervista al procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, al centro di una polemica a distanza con Alessandro Barbano sulla sostenibilità delle misure di prevenzione: “Non possiamo pensare di trasferire tutte le garanzie del processo penale nei procedimenti su sequestri e confische”. “Sì, siamo ancora in guerra. Non è finita, non illudiamoci. Averne arrestati e condannati anche molti, di mafiosi, capimafia, non deve indurci a considerare conclusa l’opera. Si arriva al traguardo quando il principio di legalità avrà davvero soffocato le organizzazioni criminali. Prima no: continua a esserci bisogno degli strumenti normativi straordinari di cui l’Italia si è dotata per contrastare le cosche. Non solo in termini di sanzione penale ma anche sul piano patrimoniale”. Emanuele Crescenti è stato al centro di una dialettica molto serrata, alimentata anche su queste pagine: procuratore a Palmi, il magistrato di origini siciliane è prima intervenuto a un convegno organizzato a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine forense di Patti, quindi, ad alcuni passaggi molto aspri della sua analisi, Alessandro Barbano ha replicato con un’intervista al Dubbio, anche perché chiamato in causa dallo stesso procuratore. Ma a parte la sequenza, il nodo è tutto in quell’interrogativo: la specialità delle misure di prevenzione è ancora necessaria, coerente con i tempi? La possibilità, prevista dalla legge italiana come lo stesso procuratore Crescenti ribadisce, di sequestrare e addirittura confiscare un’impresa nonostante il titolare sia stato assolto, dalle accuse di mafia, in un processo penale è davvero tollerabile? Davvero l’Italia non può fare a meno di un simile sacrificio delle garanzie? Ecco, procuratore Crescenti: cosa si può rispondere, a questi interrogativi? Che se solo noi per un attimo decidessimo di abbassare la guardia e modificare le misure di prevenzione, la mafia riprenderebbe terreno. È così: lo comprende chi vive sul territorio e ne osserva le dinamiche. Vorrei ricordare come ci si è arrivati, per chiarezza. Prego... A inizio anni Novanta, con le stragi di mafia, ci siamo trovati davanti a uno scenario non troppo diverso dalla Beirut degli anni Ottanta. Capisco si esiti a parlare di guerra, ma se pensiamo che per assassinare Giovanni Falcone è stato fatto saltare in aria un pezzo di autostrada, ci rendiamo conto di come non ne fossimo poi così lontani. Così lo Stato ha deciso di creare un doppio binario nel campo della repressione. Doppio binario che è in sostanza l’oggetto della discussione sviluppatasi da alcuni anni a questa parte... Sì: al binario della giustizia penale ordinaria si è affiancata una procedura mirata particolarmente al contrasto della criminalità, mafiosa e non solo. Sono state schierate le migliori forze possibili di polizia e magistratura. E sono stati introdotti strumenti normativi specificamente rivolti a individuare e colpire i patrimoni mafiosi. Come ho ricordato a Patti, non bastava la privazione della libertà personale, che veniva messa in conto, dagli appartenenti all’organizzazione, come rischio d’impresa: ciò a cui il mafioso non poteva rinunciare, nella propria ottica, era l’accumulo patrimoniale. Lei, al convegno, ha replicato con estrema durezza a chi ritiene che le misure di prevenzione patrimoniale siano sotto diversi aspetti ingiuste... Vorrei fosse chiara una cosa: al convegno non ho dato, come invece sembrerebbe emergere dall’intervista all’autore de L’inganno, Alessandro Barbano, del “mafioso” a chi critica le misure di prevenzione antimafia: ho detto che partire da un singolo caso di possibile ingiustizia per mettere in discussione l’intero sistema, ecco, questo rischia di fare il gioco della mafia. Finiremmo per compromettere anni e anni di efficace contrasto. Ma davvero possiamo accettare casi in cui una persona assolta dall’accusa di mafia nel processo penale vero continui a vedersi sequestrati i beni? Premessa: al convegno di Patti si è parlato di errori giudiziari. Lo ha fatto in particolare un imprenditore, Pietro Cavallotti. Io non posso rispondere su quel particolare procedimento: dovrei sostituirmi al giudice che l’ha seguito. Certo non posso essere d’accordo nel momento in cui l’imprenditore giudica superficiali determinate sentenze della Suprema corte di Cassazione: parliamo della più alta giurisdizione, nella patria del diritto. Non posso essere d’accordo neppure quando Barbano critica pronunce della Corte costituzionale. Ora, intendiamoci: il dubbio non è solo il nome della vostra assolutamente apprezzabile testata. In dubio pro reo è anche una regola basilare per noi magistrati. E il dubbio, sia chiaro, trova la possibilità di insinuarsi anche nel procedimento di prevenzione. Che ha le sue garanzie. Necessariamente diverse, questo sì è inevitabile, rispetto al processo penale. In quest’ultimo, io devo provare la condotta, il nesso di causalità fra la condotta e l’evento accertato, e infine la responsabilità sotto il profilo psicologico, giacché colpa e dolo sono diversi. Nel processo di prevenzione si parte da un accumulo patrimoniale e dall’eventuale sua sproporzione rispetto alla reale capacità lavorativa del soggetto. Qui l’onere probatorio è in capo al destinatario, il quale deve spiegare l’origine di quelle ricchezze. Faccio un esempio: ormai esiste un mercato nascosto per i biglietti vincenti del superenalotto, sui quali la mafia è disposta pagare un sovrapprezzo pur di rimediare giustificativi del proprio capitale. Ecco perché è davvero complicato trasferire sulla prevenzione antimafia i principi garantistici del processo penale. Nel secondo è in gioco la libertà personale, che è un bene primario, per il quale è giusto prevedere procedure più rigide a tutela di chi è accusato. Ma per chi ha lavorato a lungo, anche vedersi privati dei beni frutto del proprio impegno è pesante, quasi quanto finire in prigione da innocente... È evidente, è così. Ma nella prevenzione, garanzie e diritti di difesa sono assicurati. Vogliamo perfezionarli? Benissimo. Ma non possiamo arrivare a far decadere le misure patrimoniali in modo automatico, a fronte di un’assoluzione nel processo penale. Vorrebbe dire vanificare uno strumento di contrasto straordinariamente incisivo. Si pensi alle intestazioni fittizie: può verificarsi di non riuscire a dimostrarne il reato, ma se resta ingiustificata la sproporzione dei beni accumulati, davvero lo Stato dovrebbe revocare il sequestro o la confisca? Può volerci tempo, perché un procedimento di prevenzione completi il proprio iter: nel frattanto l’amministratore giudiziario non riesce a far vivere l’impresa, che magari viene finalmente restituita al titolare risultato innocente, ma quando è troppo tardi... È questo il nodo più urgente da sciogliere: la professionalità, la qualità degli amministratori giudiziari. Su questo ci siamo trovati d’accordo, al convegno, anche con il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza: vanno individuati professionisti dell’impresa in grado di non compromettere il valore aziendale, durante il procedimento di prevenzione, che può concludersi con un esito favorevole al destinatario. Insomma, davvero noi non possiamo veder attuato, in questo campo, il principio cardine del diritto penale liberale, secondo cui scongiurare la misura afflittiva nei confronti di un innocente è più importante che lasciare impunito un colpevole? Nel processo penale si può essere assolti perché un’intercettazione diventa inutilizzabile per vizi procedurali. Se però da quello strumento io ricavo elementi che giustificano il sequestro, non credo si possa far cadere quella misura. Possiamo migliorare le norme, ripeto, ampliare l’interdipendenza fra giudizio penale e misure di prevenzione. Ma non possiamo ragionare come se la guerra fosse finita davvero. Quando la garantista Tina Anselmi difendeva l’eversore nero Ventura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 maggio 2023 Chiara Colosimo di FdI, neopresidente della commissione Antimafia, è ferocemente attaccata per una visita a una cooperativa gestita da un ex militante dei Nar. L’attacco preventivo nei confronti della deputata di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, neo presidente della commissione parlamentare Antimafia, desta stupore. Come ha ricordato Daniele Zaccaria su queste pagine, il motivo è la foto riportata da Report in cui si vedeva insieme a Luigi Ciavardini, ex militante dei Nar, condannato per due omicidi e per la strage alla stazione di Bologna (su quest’ultimo fatto continua a professarsi innocente). La grave colpa è di aver visitato la cooperativa da lui gestita, che si occupa del recupero dei detenuti. Sarebbe dovuto essere, soprattutto per la sinistra, un esempio virtuoso. Anzi, sarebbe stato un motivo in più per esortare la deputata a continuare a occuparsi dei detenuti e delle condizioni disastrate del nostro sistema penitenziario. E invece parte l’accostamento della deputata Colosimo al terrorismo nero. Eppure, per fortuna, non ci fu una levata di scudi nei confronti della grande Tina Anselmi, conosciuta soprattutto per essere stata presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Lei non solo conosceva l’allora terrorista nero Giovanni Ventura perché compaesano e amico di famiglia, ma lo difese dall’accusa di aver ordito la strage di Piazza Fontana. Ma erano altri tempi, in quel contesto storico la politica - tranne una paradossale eccezione che indicheremo più avanti - non era contaminata dal feroce giustizialismo e soprattutto non era affetta dalla peggior dietrologia della Storia repubblicana. Prima la paranoia politica era componente principale dei totalitarismi. Nessuno, e ci mancherebbe, ha osato dire che Tina Anselmi era stata messa a presiedere la commissione per dare seguito a una strategia ordita dal “Deep State”. Definizione molto in voga tra taluni parlamentari grillini (e forse a breve anche piddini) cavalcata dai QAnon americani, gli esaltati complottisti che si sono poi vestiti da Unni e hanno assaltato il Campidoglio americano. Tina Anselmi, ricordiamo, è stata una donna schietta, simpatica, rassicurante, ma anche rigorosa, battagliera, appassionata, a volte pungente e ironica, materna e femminista allo stesso tempo; una personalità politica atipica, sempre attenta ad anteporre l’interesse collettivo a quello personale o di partito. Una cattolica convinta e coerente, ma non integralista. E soprattutto aveva il difetto di essere anche garantista. E lo era persino nei confronti di un terrorista della destra eversiva come Giovanni Ventura. Ma ora viene il bello. Chi tentò di fare polemica sull’amicizia tra Tina Anselmi e l’ordinovista Giovanni Ventura? L’allora deputato Beppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Incredibile, ma vero. Fu proprio lui dell’Msi a rendere pubblica una corrispondenza tra Tina Anselmi e l’allora ministro Silvio Gava, dove sostanzialmente chiedeva aiuto per Ventura. Leggiamola nella sua interezza: “Caro Silvio, grazie dei tuoi auguri che ricambio a te, a Flora, alle piccole e a mamma. Con l’anno nuovo spero di maltrattare meno gli amici e di poter avere la gioia di passare qualche ora con voi. L’amico che ti porta questa mia è il dottor Giovanni Ventura di Castelfranco. È stato coinvolto per colpa di un democristiano, ex- seminarista, con la vocazione di giustiziere, con gli attentati di Milano. La polizia e la magistratura l’hanno completamente scagionato, come per me fu chiaro fin dall’inizio per quanto conosco di lui e della sua famiglia. Purtroppo quel tipo di pubblicità non gli ha giovato e ora ha qualche problema: se puoi aiutarlo, te ne sarò grata: mi sento un po’ colpevole, come democristiana, del male che gli hanno fatto. Grazie, arrivederci a presto e tanti saluti cordiali anche per i tuoi. Tina”. Immaginiamo se una lettera del genere fosse stata scritta da Chiara Colosimo per aiutare Luigi Ciavardini che, messo a confronto con Ventura, appare come una educanda del ‘700. Sarebbe scoppiata una rivoluzione civile. Ricordiamo che Giovanni Ventura, a differenza dei Nar che erano un gruppo spontaneista e fino a prova contraria - senza alcun legame con i servizi segreti o altro, faceva parte della destra eversiva di Ordine Nuovo (da non confondersi con l’omonimo creato da Pino Rauti, anche se si gioca tuttora a fare confusione) e secondo il giudice Guido Salvini, che all’epoca si occupò della strage di Piazza Fontana, avrebbe ricoperto un ruolo cruciale. Ventura avrebbe mantenuto i rapporti con Guido Giannettini, il giornalista legato al Sid, i servizi segreti di allora. Nel 1973 Ventura inizia a parlare e Giannettini avrebbe cercato di farlo fuggire dal carcere, su ordine diretto del Sid. Lui però, in quell’occasione, evita di farlo: temeva che in realtà volessero farlo uscire per ucciderlo. Per la strage di Piazza Fontana ci fu un percorso giudiziario travagliato. Nel 1979 il tribunale di Catanzaro condanna all’ergastolo Franco Freda, Ventura e Giannettini, tutti e tre fuggiti all’estero prima della pena; l’anarchico Pietro Valpreda viene assolto per la strage (come sappiamo messo in mezzo innocentemente a causa di un evidente depistaggio) ma condannato a quattro anni e mezzo per associazione eversiva. Nel 1981 Freda e Ventura vengono assolti in secondo grado, ma condannati a 15 anni per (altri) attentati compiuti a Padova e Milano. Il tribunale conferma la condanna di Valpreda e assolve Giannettini. Nel 1982, la Corte di Cassazione annulla la sentenza di secondo grado sulla strage di Piazza Fontana e rinvia il processo a Bari, confermando solo l’assoluzione di Giannettini. La Corte d’Assise d’Appello assolve per insufficienza di prove Freda, Ventura, Merlino e Valpreda. La Cassazione renderà poi definitiva la sentenza nel 1987, confermando comunque la condanna di Freda e Ventura per gli attentati commessi fra la primavera e l’estate del 1969. Si comprende benissimo quanto sia assurdo e strumentale aver ferocemente attaccato Chiara Colosimo. Lei, come Tina Anselmi, non può essere accostata nemmeno lontanamente al terrorismo o allo stragismo. Sia per questioni anagrafiche, sia - come nel caso di Anselmi - per una questione politica che è lontana anni luce dall’eversione. Fratelli d’Italia è erede dell’allora Msi, che ovviamente non aveva nulla a che fare con la strategia della tensione e il terrorismo. È come se dovessimo accostare l’allora Partito Comunista alle Brigate Rosse. Erano nemici. Così come le forze extraparlamentari nere erano nemiche del Movimento Sociale Italiano. D’altronde, lo stesso Paolo Borsellino, roba nota, simpatizzava per l’Msi. Era molto amico di Francesco Grisi, di Giuseppe Tricoli, storico rappresentante della Fuan e più volte deputato regionale eletto nel Msi, di Tommaso Romano. Ma è chiaro l’attacco preventivo. Si crea così un ricatto morale: se Colosimo non si occupa dei neofascisti che avrebbero partecipato alle stragi mafiose, allora è la dimostrazione che è stata messa lì appositamente. Di nuovo siamo alla dietrologia funzionale a ben altro. Tralasciando il fatto che è completamente fuorviante pensare che la mafia sia stata in qualche modo eterodiretta dall’eversione nera (sono suggestioni fuori dal mondo per chi conosce soprattutto la mafia corleonese), la commissione Antimafia dovrebbe invece scavare nelle carte, analizzare i fatti, magari far tirare fuori le 39 annotazioni di Falcone situate probabilmente in qualche faldone della procura nissena e magari pretendere che fine abbia fatto il pc e gli eventuali documenti requisiti dalla polizia giudiziaria dall’ufficio di Borsellino. Magari ripercorrere ogni passo che Borsellino fece durante la sua Via Crucis che si conclude con il suo annientamento. La commissione Antimafia non deve continuare con le fantasie giudiziarie. Non deve riscrivere la Storia, casomai approfondirla. Chiaro che se lo fa, la massacreranno. In tal caso avrà la forza di resistere, al costo di essere impopolare? Reggio Emilia. “Poche pene alternative concesse ai detenuti. Tanti aspettano i permessi da anni” Il Resto del Carlino, 30 maggio 2023 Trecento sessantuno detenuti, quando il limite è di 291. Più del 50% sono cittadini stranieri, la maggioranza dei quali senza regolare permesso di soggiorno (quindi impossibilitati, nei casi previsti, alle forme di pena alternativa). E 99 sono tossicodipendenti, una cifra considerevole, visto che si avvicina a quasi un terzo della popolazione carceraria. Non solo, di quei 361, 44 sono parte integrante della sezione così detta Atsm (Articolazione Tutela Salute Mentale), quando, mediamente, negli omologhi reparti di altri istituti penitenziari simili a quello di Reggio sono massimo 5 o 6. È questo, in sintesi, il quadro che ha ricavato ieri al termine di una visita ad hoc, una delegazione della Camera Penale di Reggio, assieme ad alcuni membri dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’, tra cui anche il segretario Sergio d’Elia, oltre a esponenti politici come l’ex deputato Dc, Pierluigi Castagnetti. L’avvocato Cecilia Soliani, referente per la Camera Penale di Reggio dell’osservatorio sul carcere, ha evidenziato lo stato di ‘indolenza’ dei carcerati: “I quali, pur essendo in età mediamente giovane, non hanno i mezzi per concretizzare l’elemento riabilitativo che dovrebbe essere parte integrante della pena - spiega -. I tossicodipendenti sono 99, di questi una quarantina in carico al Sert, ma quello che fa specie, in negativo, è che i detenuti che accedono alle pene alternative previste dalla legge in questi casi sono un numero bassissimo. Sono solo 3 o 4 i percorsi alternativi aperti al momento”. Sergio D’Elia, invece, fa i complimenti, nonostante le problematiche, alla direttrice della struttura, Lucia Monastero: “La sua grande forza è l’ascolto - sottolinea -. Sia dei detenuti che dei ‘detenenti’, come li chiamava Marco Pannella, ossia coloro che lavorano nel carcere”. L’avvocato Marco Scarpati, membro di ‘Nessuno Tocchi Caino’ chiede: “Ma la Magistratura di Sorveglianza dov’è? È la stessa che i detenuti mi fanno dal 1978. Vi sono richieste di permessi cui i detenuti hanno diritto, ci dicevano, avanzate anni fa, che ancora attendono risposte. Come Ordine e Camere Penali potremmo fare di più”. Alla conferenza hanno preso parte anche l’ex onorevole del Psi e pure lui del direttivo di ‘Nessuno Tocchi Caino’, Mauro Del Bue e Veronica Manca, dell’Unione Camere Penali di Trento. Torino. Lavoro vuol dire futuro: i detenuti e la manutenzione dei modem torinoggi.it, 30 maggio 2023 “Lavorare per un detenuto è importantissimo: nonostante i miei errori, ho ancora la speranza di ripartire”. Ad affermarlo è Simone, uno dei detenuti che all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino smonta e rimonta modem, etichette elettroniche. Qui, “dietro le sbarre”, Simone ha imparato un lavoro. Un lavoro che spera possa aiutarlo, una volta scontata la pena, a ricominciare. Lui, uno tra i più giovani, è tra i detenuti che lavorano per la Service Trade, azienda specializzata in servizi post-vendita scelti dai principali Brand dell’elettronica. Nel carcere di Torino due sono i clienti principali di Service Trade: Tim, per la manutenzione dei modem di rete fissa, e Pricer, per la riparazione delle etichette elettroniche utilizzate nei supermercati. Simone: “Il lavoro mi dà speranza” - Gli occhi di Simone, quando parla di lavoro, si illuminano per un attimo: “È una leggerezza che ti aiuta a superare il contesto. Ho imparato qui a fare questo lavoro, è un’esperienza nuova che spero mi possa aiutare a reinserirmi nella società fuori. E’ importante poter guardare al futuro, ti dà una speranza”. Lavora da cinque mesi circa e questa è la sua prima attività lavorativa che svolge nella casa circondariale. Tanto gli basta per consigliare questo percorso anche ad altri detenuti come lui: “Credo che ognuno dovrebbe avere la possibilità di lavorare per rientrare nella società: ora spero in un futuro diverso. Nonostante i miei errori, ho la speranza di ripartire”. “Lavorare mi fa sentire normale” - Al suo fianco, tra una batteria da smontare e un modem da pulire c’è Manuel (nome di fantasia). Anche per lui lavoro in carcere è sinonimo di normalità, di speranza: “A livello personale mi sento valido, utile. Quando ho iniziato a lavorare mi sono sentito in un luogo che emana una sensazione di lavoro simile a quella che avevo quando stavo fuori. E’ stato fantastico, mi ha aiutato molto”. “Spero possano esserci altri progetti del genere, per dare la possibilità a un detenuto di cimentarsi, mettersi alla prova, ricredere in sé stessi, e sentirsi realizzati”. Concetti normali per chi vive fuori da un carcere, meno ovvi per chi trascorre le giornate all’interno di una cella. Bonazzi: “Il carcere è parte della società” - Chi ha voluto dare a questi ragazzi e uomini una possibilità è Paolo Bonazzi, presidente Service Trade: “Nel carcere di Torino svolgiamo il lavoro nello stesso modo in cui lo facciamo negli altri nostri laboratori”. “Lavorare all’interno di un carcere - racconta Bonazzi - è come lavorare fuori: è parte della società, non un retrobottega di cui non si deve parlare. Il lavoro che facciamo è identico per dignità e qualità a quello che fa il nostro laboratorio in provincia di Vicenza”. D’altra parte, come ricordato dallo stesso presidente di Service Trade, è la Costituzione stessa a citare concetti importanti come il lavoro e la dignità, anche per chi sta in carcere. “Tutti necessitano di avere una seconda possibilità” - I detenuti sono ogni giorno a stretto contatto con Anselmo Barbieri, che per Service Trade si occupa della supervisione dei progetti negli istituti di pena. “Per loro è un vero premio avere ottenuto un lavoro, escono da un quotidiano di violenza e sopportazione. Da spazi angusti e persone che non sono quelle che scelgono”. “Tutti necessitano di avere una seconda possibilità e noi cerchiamo di dargliela: non gli insegniamo un lavoro specifico, ma gli insegniamo a rientrare in un contesto di gruppo, a dimenticare il quotidiano dell’istituto di pena, imparano a relazionarsi, a rispettare gli altri, il lavoro e gli impegni” racconta Barbieri. Quasi commosso, il supervisore ricorda delle telefonate ricevute da ex detenuti, che una volta usciti si sono ricordati di lui e dei momenti passati insieme: “Ti chiamano, ti augurano buon compleanno o buone feste. Vuol dire che hai creato un legame che in teoricamente non si dovrebbe creare: siamo abituati a vivere in un mondo di ‘buoni’ e ‘cattivi’, ma non è sempre così. È gente che ha sbagliato, ma chi è qui ha capito di aver sbagliato e sta cercando di ripartire”. E anche i carcerati, a volte, possono insegnare qualcosa a chi vive in libertà. “Da loro ho imparato che errare è umano, non si può mai dire ‘io non l’avrei fatto’. Può capitare a tutti di sbagliare, senza ombra di dubbio c’è sbaglio e sbaglio ma bisogna dargli una seconda opportunità. C’è chi se la merita, chi per cultura o errore non la merita. Ma questo non vuol dire che non bisogna provarla a dare a chi la vuole, a chi la merita”. Varese. Il convegno: carcere e lavoro, può essere una scommessa vincente di Fulvio Fulvi Avvenire, 30 maggio 2023 Le buone pratiche a Varese e Busto Arsizio, dalla cioccolateria all’officina per le biciclette. E zero recidive per chi torna fuori. Un protocollo rilancerà la collaborazione tra enti e imprese. Risorse statali non sfruttate per un terzo (10 milioni di euro spesi su 15 milioni stanziati nel 2022) e una legge che favorisce l’assunzione di detenuti, la n.193 del 2000 (detta “Smuraglia”, dal nome del senatore che la propose), ancora in gran parte sconosciuta agli imprenditori italiani. Eppure la normativa consente loro di ridurre del 95% le aliquote per l’assicurazione previdenziale e assistenziale e di usufruire di un beneficio fiscale fino a 520 euro al mese come credito d’imposta per ogni carcerato assunto con regolare contratto. Opportunità che potrebbero rilanciare interi settori messi in ginocchio dalla crisi e consentire un’adeguata occupazione anche dopo, a chi ha scontato la pena dietro le sbarre o in regime di semilibertà. Inoltre, i carcerati lavorando imparano un mestiere, seguono percorsi di formazione professionale e si preparano al reinserimento nella società civile. E per i pochi che già svolgono un’attività lavorativa retribuita - circa 18.500 su un totale di 56mila reclusi (dati del giugno 2022) - la recidiva risulta ridotta al 2% mentre il 70% degli “inoccupati” una volta fuori torna a commettere reati. Non solo. Il lavoro svolto all’esterno, alle dipendenze di imprese private, presso cantieri, magazzini o uffici, del quale usufruiscono attualmente solo 2.500 detenuti (ancora davvero pochi), rappresenta una delle possibili soluzioni alla piaga del sovraffollamento delle carceri ed è una risposta al fabbisogno di manodopera di aziende e cooperative. Tra le esperienze in campo nei 192 istituti di pena italiani, quelle che riguardano la provincia di Varese, dove sorgono le Case circondariali del capoluogo e di Busto Arsizio che ospitano in tutto circa 500 reclusi, sono tra le più virtuose, con una recidiva pari a “0” di chi lavora e una soddisfazione piena di imprenditori e clienti finali. Se n’è parlato ieri in un convegno a Ville Ponti fortemente voluto dal prefetto Salvatore Pasquariello e dalla locale Camera di Commercio presieduta da Mauro Vitiello. Titolo: “Carcere e lavoro: diritto, rieducazione, opportunità”. A Varese, nei prossimi giorni, l’Amministrazione provinciale firmerà con le due istituzioni penitenziarie, i Comuni dell’Insubria, la Regione Lombardia e le organizzazioni datoriali e sindacali, un protocollo d’intesa, sul modello di quello varato a Milano, per la creazione dietro le sbarre di sportelli informativi per far convergere domande e offerte di lavoro. “L’idea del convegno su questo tema è nata dopo la mia visita all’istituto penale di Busto Arsizio nel giorno dell’Epifania - spiega il prefetto - e, parlando coi detenuti, mi hanno detto che vogliono lavorare e avere una chance in più per redimersi”. C’è già chi lo fa, ma sono in pochi. Umberto, detenuto nella struttura di Varese, è tra quelli che usufruiscono dei benefici dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario: dal lunedì al sabato esce la mattina e rientra la sera per dormire in cella, da due anni e mezzo lavora alle dipendenze della Croce Rossa con mansioni di pulizia e manutenzione dei locali, ai quelli arriva ogni giorno in bicicletta: “Ho un contratto annuale rinnovabile - racconta - e qui mi trovo a mio agio sin dall’inizio, sono stato accolto benissimo da tutti, mi sento utile e ho imparato a rispettare le regole e i valori della legalità”. Antonio invece è stato “preso” dalla Cooperativa La Valle di Ezechiele di Busto Arsizio per produrre la Prison Beer, in collaborazione con il birrificio The Wall di Venegono: “Non avevo mai lavorato prima, nemmeno quando ero libero, ma adesso mi sono appassionato, inoltre dal novembre scorso posso tornare a dormire a casa a Tradate dopo il lavoro svolto in sede, nel 2024 finisco di scontare i miei 7 anni di detenzione e continuerò a far parte di questo progetto”. È così bravo che ora una gustosissima “bionda” porta il suo nome nell’etichetta. “In due anni come cooperativa abbiamo dato lavoro a 15 persone e nessuno di loro ha più commesso un reato, una cosa meravigliosa” ha specificato don David Maria Riboldi, cappellano a Busto Arsizio. Luca Spada invece sta… dall’altra parte della barricata, è uno titolari della Eolo Spa di Casciago che installa ripetitori per bande larghe. “Abbiamo cominciando assumendo 6 detenuti per dare un supporto telefonico ai nostri clienti - dice -, e adesso sono diventati 30, lavorano in un Call center allestito in una struttura attigua al carcere: abbiamo rilevato una grandissima qualità delle loro prestazioni professionali anche perché tenendosi occupati rompono l’inedia quotidiana e la ripetitività della vita dietro le sbarre, si sentono motivati”. E un ormai ex detenuto, Gianni, che ha lavorato con la ditta Eolo è diventato così bravo che ora, da uomo libero, va nel carcere di Bollate a fare formazione ai reclusi. Gianluca Caruso, dirigente del settore pubblico del Comune di Varese, racconta delle 15 esperienze frutto della collaborazione con le carceri locali: progetti per la manutenzione del verde pubblico e per il recupero di edifici e aree dismesse: 500 euro al mese per ogni detenuto assunto, una borsa e i pasti: “Mai nessun criticità e zero recidive”. E a tutto questo vanno aggiunte le iniziative lavorative all’interno delle mura detentive delle due carceri: una cioccolateria e una ciclofficina, un orto e una falegnameria con commesse anche all’estero. “Vorremmo cementare la collaborazione col territorio con la stesura di un protocollo che lavori in sinergia per migliorare il pianeta carcere, anche attraverso la pianificazione di open day per favorire la conoscenza da parte di realtà datoriali esterne su quello che è il clima all’interno dell’istituto, oltre che la possibilità di far incontrare proposta e offerta di lavoro mediante formazione e assunzione” ha spiegato Maria Pitaniello, direttore della Casa circondariale di Busto Arsizio. ??In chiusura del convegno di Varese il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ha auspicato una maggiore sinergia fra tutte le parti impegnate nella vicenda. “Sono necessari rapporti più stretti tra istituzioni pubbliche e private, realtà imprenditoriali e consulenti del lavoro, per rendere più efficace il sistema e usufruire di una legge che c’è e funziona ma che potrebbe essere applicata meglio” ha sostenuto il rappresentante del governo che ha proposto la costituzione di istituti di pena interamente dedicati al lavoro dei detenuti. “Perché il lavoro è lo strumento che più di tutti rende migliore l’uomo - ha detto Delmastro - e dobbiamo lavorarci seriamente, dobbiamo garantire alle imprese che lavorano dentro o fuori dagli istituti che quello sia lavoro vero e redditizio per le stesse imprese. Questa è la scommessa, perché altrimenti le imprese dopo un anno o due poi smettono di fare i benefattori”. E sul tema delle agevolazioni fiscali previste dalla legge Smuraglia ha aggiunto: “Ci sono già oggi dai 18 ai 24 mesi di trascinamento delle agevolazioni fiscali, questo io lo ritengo assolutamente corretto, così come ci sono le cooperative di tipo b che fra le persone svantaggiate per avere una fiscalità di vantaggio possono annoverare detenuti. Oltre una certa misura, però, potrebbe diventare distorsivo del mercato”. ?“Tutti i soggetti devono essere coinvolti nelle varie iniziative, nella consapevolezza che il proprio ruolo si esercita meglio se insieme ci si raccorda - ha dichiarato ad “Avvenire” il prefetto di Varese, Salvatore Pasquariello - e la Camera di commercio può aiutarci a dialogare con commercianti, agricoltori, industriali, artigiani”. Bolzano. “Carcere, lo Stato sblocchi i fondi” di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 30 maggio 2023 Pressing dell’assessore Bessone: struttura fatiscente, aspettiamo i soldi per partire. Non si intravedono svolte all’orizzonte per la realizzazione del nuovo carcere di Bolzano. Un anno fa, l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia visitava la struttura di via Dante assicurando massima celerità nello sbloccare i fondi necessari. Poi però il cambio di governo ha arenato per l’ennesima volta la questione. L’assessore Bessone: “Noi abbiamo fatto la nostra parte. Scontiamo l’instabilità politica del Paese”. “Inadeguato non solo per le condizioni ma anche per gli spazi”. Con queste parole un anno fa (era il 17 giugno 2022) l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia definiva il carcere di Bolzano dopo una visita nei locali del penitenziario. Aggiungendo, con il plauso della giunta provinciale, che “c’è la necessità di intervenire prontamente per dotare la città di una nuova struttura”. Quasi dodici mesi dopo però, dalle parti di via Dante è cambiato poco o nulla. In compenso, il cambio di Governo a Roma e l’insediamento di un nuovo Guardasigilli - Carlo Nordio di Fratelli d’Italia - hanno ulteriormente complicato le cose. E a Bolzano si resta in attesa. Il progetto c’è già, e la Provincia avrebbe anche fatto la sua parte: “Da tempo abbiamo espropriato il terreno (siamo a Bolzano sud, non lontano dall’aeroporto ndr): attendiamo il finanziamento dello Stato e poi saremo pronti a partire con la nuova costruzione” sottolinea l’assessore provinciale al Patrimonio Massimo Bessone. I soldi da sbloccare promessi da Roma sono un centinaio di milioni, ai quali vanno sottratti gli otto che la Provincia darà allo Stato per l’acquisto dell’attuale sede carceraria. Il penitenziario di via Dante poi sarà abbattuto in quanto non tutelato da un punto di vista architettonico. Così come è stato risolto il caso dell’impresa costruttrice: toccherà a Fincantieri, dopo che quest’ultima ha rilevato Condotte Spa, la società vincitrice del bando poi finita in amministrazione controllata. Mancano i soldi, e non è certo un dettaglio. Il problema, rilancia l’assessore Bessone, sta anche nella mancanza di stabilità che contraddistingue storicamente i governi italiani: “La nostra giunta nello spazio di una legislatura ha incontrato quattro ministri di ogni competenza e estrazione politica. Simbolo del fatto che in Italia non c’è stabilità: senza programmazione è difficile per un Ministero mettere sul piatto una somma di questa portata”. Ora tra l’altro, la palla in mano ce l’ha un ministro di centrodestra. In realtà, un incontro interlocutorio tra il presidente Arno Kompatscher e lo staff del dicastero di via Arenula c’è stato lo scorso dicembre, così come tra il Landeshauptmann e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per avere certezza della copertura finanziaria. Bessone però non si sbilancia su una possibile accelerazione: “Credo che sarà difficile vedere qualcosa a breve. Di sicuro, non possiamo partire se non arrivano i soldi da Roma”. Considerazione questa che fa ancora più effetto se letta alla luce delle notizie passate: quando nel 2013 si chiuse la gara per una nuova struttura capace di ospitare 200 detenuti, 100 operatori di polizia penitenziaria, 30 posti per agenti in caserma e 25 unità di personale civile, si sbandierava una consegna prevista nel 2016. Inutile dire che siamo ancora al punto di partenza. Il progetto però non dovrebbe subire variazioni: “Già adesso con oltre 100 prigionieri siamo in sovrannumero, quindi andarne a costruire un altro delle stesse dimensioni non avrebbe senso. Per questo, anche su indicazioni del Ministero, avevamo fatto fare un progetto per ospitare 200 carcerati” aggiunge Bessone. L’assessore infine sottolinea le condizioni di chi il carcere lo vive quotidianamente: “Ogni tanto vado a fare qualche sopralluogo, conosciamo bene la realtà di chi lavora lì e dei carcerati. Tengo tantissimo alle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, che si trova ad operare in un ambiente assai difficile. Più di tanto però non possiamo fare” ribadisce l’assessore. Insomma, anche per una questione di competenze (la casa circondariale infatti è gestita dallo Stato), si aspetta una mossa dal governo centrale: “È lo Stato che deve farsi carico di costruire il carcere. Noi siamo il mezzo, lo Stato finanzia e decide quanto e come. Ma per il momento siamo allo stesso livello di qualche mese fa” sintetizza Bessone. Un anno fa la ministra Cartabia raccontò di “avvertire l’urgenza di risolvere gli ultimi problemi che riguardano gli aspetti finanziari per poter portare a termine un progetto su un’area che è già stata identificata e quindi spostare la struttura penitenziaria da qui”. Oggi però, per il carcere di Bolzano, non si intravede ancora una possibile svolta. Bolzano. “In via Dante spazi inadeguati” di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 30 maggio 2023 La Garante per i detenuti: “Va favorito il reinserimento sociale”. I problemi di organico, sovraffollamento e manutenzione del carcere di Bolzano non sono una novità. Così come le condizioni nelle quali si trovano sia i detenuti che il personale dipendente. I numeri aggiornati messi nero su bianco descrivono una realtà complicata sotto tanti punti di vista: secondo i dati più recenti del Ministero, in via Dante ci sono al momento 120 detenuti, contro gli 88 posti regolamentari. E poi c’è il capitolo del personale: al 31 marzo risultavano in servizio effettivo 62 unità di polizia penitenziaria contro le 75 previste, 7 dipendenti amministrativi e un educatore, quando ne servirebbero rispettivamente 25 e 4. E non aiuta anche la descrizione che del carcere viene fatta sul sito del ministero: “Edificio austro-ungarico risalente alla fine dell’800 situato in centro storico, privo di sale socialità e ambienti per lavorazioni, in fase di dismissione”. In questo quadro la garante per i detenuti per il Comune di Bolzano, Elena Dondio, ricorda come il carcere non debba essere visto solo come una punizione: “C’è la necessità, in tutto il Paese e non solo in Alto Adige, di dover superare il sistema carcerario attuale. Soprattutto nel momento in cui ci sarà il nuovo istituto, bisognerà riformare le cose. Penso soprattutto alle difficolta di reintroduzione che ci sono nel mondo del lavoro: durante la detenzione i corsi sono insufficienti, ed è difficile essere assunti con la fedina penale sporca. Ma senza reinserimento sociale il carcere fallisce: per questo va rivisto tutto l’insieme, soprattutto per quanto riguarda il senso della punizione” commenta. Per quanto riguarda la struttura attuale invece, c’è ben poco da salvare. Ancora Dondio: “È fatiscente. Ci sono spazi ristretti, muffa da pulire continuamente, poca luce, bagni maleodoranti. Poi con l’arrivo del caldo sarà tutto ancora più complicato. In più c’è un serio problema di spazi, con un solo cortile dove si può stare per non più di due ore al giorno”. La garante Dondio è esponente dei Radicali, e da sempre uno dei capisaldi del partito è stato quello di portare condizioni migliori nelle carceri italiane: “È vero, sono persone che hanno fatto del male - osserva Dondio - ma sono chiuse in quattro mura e in condizioni psicologiche difficili. La convivenza forzata (soprattutto tra detenuti provenienti da Paesi diversi ndr) è estremamente complicata”. Al momento, un piccolo adeguamento è stato fatto con l’installazione di alcune lavagne digitali dove prima c’erano gli alloggi del comandante. Sale per attività che possano dare ai detenuti competenze spendibili una volta fuori. Avellino. Criticità nelle carceri, Ciambriello: “Dare maggiore centralità alla persona” di Sabina Lancio avellinotoday.it, 30 maggio 2023 “856 detenuti, ma io mi occupo della comunità penitenziaria e quindi di detenuti e detenenti, perché se stanno bene gli uni stanno bene gli altri”, lo ha dichiarato il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello che, in occasione della presentazione della Relazione annuale 2022 alla Chiesa del Carmine di Avellino, ha evidenziato le problematiche inerenti le quattro carceri irpine. “Dal concetto di custodia bisogna passare a quello di accudire” - “Parlare dei detenuti - ha specificato il Garante - significa parlare dei problemi reali, dei 132 detenuti con problemi di tossicodipendenza, della mancanza di psichiatri e psicologi, dei 32 detenuti malati di mente. Nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, ad esempio, ci sono 10 posti per malati psichiatrici ma un solo posto è occupato perché non c’è lo psichiatra. Credo si tratti di omissioni di atti di ufficio. Se nelle carceri aumenta la presenza di tossicodipendenti e pensiamo di curarli solo scalando il metadone, sbagliamo, perché vanno in crisi di astinenza e chiedono la droga, da qui il sequestro di sostanze stupefacenti e cellulari. Per cui dobbiamo passare dal concetto di custodia a quello di accudire”. Ciambriello ha proseguito: “Dalla Rems di San Nicola Baronia escono più o meno 4 o 5 persone all’anno e quindi c’è il rischio che, nonostante i magistrati diano la possibilità di misure alternative al carcere, non ci sono i posti sufficienti. Inoltre abbiamo avuto lo scorso anno 14 tentativi di suicidio, e ce n’è stato uno. Non basta, dunque, rafforzare il numero degli agenti, bisogna anche stabilire meglio turni e operatività di quello che è uno dei lavori più usuranti. Abbiamo centinaia di immigrati stranieri e un solo mediatore culturale a Bellizzi irpino. Così come abbiamo forme di autolesionismo: 107 quelli che si sono tagliati, un centinaio in sciopero della fame, o in scioperi sanitari, ma io stesso che sono il Garante ho difficoltà a parlare con i responsabili sanitari”. “Se il carcere è una discarica sociale - ha aggiunto Ciambriello - nel momento di un’aggressione ad un agente facciamo il titolone ‘rivolta in un carcere’, ma la mia attenzione di oggi è rivolta anche al team che sarà intorno a me, Procura, magistratura di sorveglianza, comune e UEPE. Il problema vero è la centralità della persona che deve essere aiutata”. Il Garante chiede maggiore consapevolezza della responsabilità singola - Sull’ultimo episodio avvenuto nel carcere di Avellino, ha dichiarato: “Ancora una volta cito fatti e persone che conosco, in quel primo piano c’erano detenuti che escono in permesso. Dunque, bisogna avere più consapevolezza della responsabilità singola, perché non si tratta sempre di proteste generali, ma molte volte di problemi personali che posso diventare focolai e far scattare una rivolta. Bisogna incrementare quello che si fa molto bene a Sant’Angelo dei Lombardi, cioè l’art. 21, all’esterno del carcere. E quindi prestare attenzione alle piccole cose che possono migliorare la vita e la serenità quotidiane dentro le carceri”. “Le carceri devono adeguarsi ai tempi”, la visione del Sostituto Procuratore - Anche il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino, Vincenzo D’Onofrio, ha sottolineato che le criticità non sono solo nel penitenziario di Bellizzi irpino: “Le criticità sono ovunque, ormai da anni la situazione si profila come endemica. Riduzione del personale di polizia penitenziaria, disparità di numero tra detenuti e personale che è sotto numero, già questo dà l’idea della difficoltà di gestire una situazione sempre più esplosiva. Perché all’interno delle carceri vi sono gruppi di detenuti che gestiscono tutta la comunità anche grazie a nuovi strumenti tecnologici che facilitano la gestione di nuovi traffici di droga, computer e cellulari. Tutto questo all’interno di strutture vetuste, per cui la gestione di una tale situazione con personale ridotto risulta difficile se non impossibile”. “Quello di Avellino è solo l’ultimo episodio, ma quotidianamente la polizia penitenziaria è costretta a subire abusi da parte dei detenuti. La struttura penitenziaria, dunque, si deve adeguare ai tempi, sia come struttura che come personale, perché altrimenti si rischia di mettere davvero il carcere in mano ai detenuti”. Milano. Gli agenti che hanno picchiato la donna trans denunciati per tortura di Nello Trocchia Il Domani, 30 maggio 2023 Emergono nuovi particolari sul pestaggio subito da una donna trans a Milano, denunciato pubblicamente nei giorni scorsi con la diffusione di un video nel quale diversi agenti si alternavano a colpire con manganello e calci la vittima inerme. La signora Bruna sarebbe rimasta venti minuti nell’auto della polizia locale di Milano, gli agenti l’avrebbero lasciata lì dopo averle spruzzato contro lo spray al peperoncino e averla ammanettata, chiudendo le porte e i finestrini. Un’ulteriore violenza nei confronti della donna trans inerme che sarebbe seguita all’aggressione davanti all’università Bocconi, documentata da alcuni video diffusi nei giorni scorsi. Sarebbe rimasta venti minuti nell’auto della polizia locale, gli agenti l’avrebbero lasciata lì dopo averle spruzzato contro lo spray al peperoncino e averla ammanettata, chiudendo le porte e i finestrini. Sono i nuovi particolari che emergono sul pestaggio subito dalla signora Bruna, la donna transessuale ripresa a Milano nei giorni scorsi in un video, nel quale diversi agenti si alternavano a colpirla con manganello e calci. Un’ulteriore violenza, dunque, che sarebbe seguita all’aggressione davanti all’università Bocconi. Per questo gli agenti sono stati denunciati anche per il reato di tortura, aggravato dall’odio razziale. Il dato è contenuto nella denuncia-querela presentata in procura da Debora Piazza, avvocata della donna trans, che da sempre segue le istanze dei senza potere. “Ha una brutta ferita alla testa, è sconvolta, triste, depressa, piange e non riesce a rivedere il video che ha ripreso quella scena”, spiega Piazza. Venti minuti in auto - Il dettaglio dei venti minuti nei quali la donna sarebbe stata segregata in auto non è l’unica novità sulla vicenda, ci sono anche un secondo filmato (pubblicato sul nostro sito) e un nuovo testimone che aggravano la posizione degli agenti. Nelle nuove immagini si vede la donna portata in auto da due poliziotti municipali, Bruna si volta e mostra i rivoli di sangue che le segnano il volto. “Vergogna, vergogna, abbiamo visto che l’avete picchiata, vi chiediamo di presentarvi, l’abbiamo visto che l’avete picchiata, cosa è successo?”, dicono alcuni cittadini, tra cui il nuovo testimone. Il suo video è stato depositato agli atti così come la denuncia che ricostruisce quella mattina in cui lo stato, nella circostanza gli agenti della polizia locale di Milano, ha mostrato il volto della violenza brutale e cieca. La denuncia - Abbiamo chiesto all’assessorato alla sicurezza del comune, dal quale dipende la polizia locale, una replica su questa ricostruzione, ma ci è stato detto che si attendono le risultanze investigative dopo il deposito delle relazioni in procura, il fascicolo è seguito dalla magistrata Giancarla Serafini e dall’aggiunta, Tiziana Siciliano. La signora Bruna si trovava in una zona antistante una scuola, quando è stata insolentita e insultata da quattro uomini sudamericani. Non risulta alcuna segnalazione per atti osceni, come indicato inizialmente anche da un sindacato. All’arrivo degli agenti, lei avrebbe chiesto aiuto, ma i poliziotti avrebbero risposto esigendo la presentazione dei documenti, una richiesta che avrebbe provocato i pianti di Bruna. Aveva in tasca solo la tessera della mensa dei poveri. Il timore della signora Bruna era quello di ogni migrante senza documenti, essere identificata con l’avvio della pratica di espulsione, e così in auto ha continuato a piangere e dolersi. Secondo la denuncia e la versione della signora trans, i poliziotti si sarebbero fermati insultandola e dicendole che l’avrebbero picchiata se non avesse smesso di piangere. Interrotta la corsa dell’auto, la donna sarebbe riuscita a scappare nascondendosi dietro a un cespuglio. Gli agenti, dopo alcuni minuti, l’avrebbero trovata e a questo punto è scattato il pestaggio. C’è il video a dimostrarlo: colpi di manganello, calci, lo spray al peperoncino spruzzato in faccia alla vittima. Gli insulti - I poliziotti, dopo averla riportata in auto sanguinante, come mostra il secondo filmato, l’avrebbero continuata a insultare con frasi come “frocio di merda” prima di chiuderla all’interno dell’auto, ammanettata e con portiere e finestrini chiusi, il tutto sarebbe durato circa venti minuti. Portata al comando, sarebbe rimasta lì per ore fino a quando un funzionario del consolato brasiliano, dopo aver visto il video pubblicato dai giornali, sarebbe andata a riprenderla. Una ricostruzione che ha indotto l’avvocata Debora Piazza a denunciare gli agenti per lesioni aggravate, minacce e tortura aggravata dall’odio razziale. Il silenzio del governo - Il referto dell’ospedale parla di cinque giorni di prognosi a causa delle botte subite, in particolare il colpo di manganello alla testa che si vede chiaramente nel primo video diffuso. La signora Bruna non è sola, a Milano si susseguono le manifestazioni di vicinanza e solidarietà che denunciano quanto accaduto e l’esigenza di introdurre una legge che tuteli le persone appartenenti alla comunità LGBT+ e introduca un’aggravante specifica. Intanto dal governo e dagli esponenti di maggioranza non arriva alcuna presa di posizione, un silenzio rotto solo dalle parole del deputato di Fratelli d’Italia, Stefano Maullu, che, qualche giorno fa, aveva espresso solidarietà agli agenti coinvolti nel pestaggio. Airola (Bn). In scena i giovani detenuti dell’Ipm in “Disadirare. Un’Altra Iliade” welfarenetwork.it, 30 maggio 2023 l laboratorio teatrale è stato sviluppato dall’Associazione CCO - Crisi Come Opportunità, coordinatrice dal 2006 del progetto nazionale Presidio Culturale Permanente negli Istituti Penali per Minorenni. CCO - Crisi Come Opportunità, l’associazione impegnata dal 2006 in progetti di inclusione sociale attraverso l’utilizzo dell’arte in tutte le sue forme all’interno degli Istituti Penali per Minorenni, presenta l’opera inedita “Disadirare: un’altra Iliade” scritta e diretta da Adriana Follieri, con musiche originali scritte dal rapper e formatore Luca Caiazzo, in arte Lucariello e costumi donati dal Teatro San Carlo di Napoli. L’opera teatrale, realizzata in collaborazione con i giovani detenuti del carcere minorile di Airola, sarà presentata in anteprima al Teatro Trianon di Napoli, nell’ambito del Campania Teatro Festival, sezione progetti speciali, il 16 giugno 2023 alle 20:00. “Disadirare: un’altra Iliade” rappresenta un’esperienza trasversale ed unica, capace di unire arte, creatività e trasformazione. Attraverso un intenso laboratorio teatrale all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni di Airola (BN), i giovani attori detenuti hanno lavorato insieme alle studentesse dell’I.I.S. “A. M. De Liguori” di Sant’Agata De’ Goti (BN), coinvolte all’interno dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO). Uno straordinario lavoro di gruppo, basato sull’alleanza tra operatori, educatori, ragazzi e ragazze dentro e fuori il carcere, per mettere in scena uno spettacolo in grado di superare le barriere facendosi potente portavoce di un messaggio di speranza e trasformazione. Un’opera che, ispirandosi all’epica greca dell’Iliade, mescola linguaggi poetici, musica e scenotecnica dinamica e dove i personaggi si muovono in un mondo che cambia forma, trasformando la guerra in un’opportunità per la pace conquistata attraverso la forza delle relazioni umane. “Il teatro dell’IPM di Airola nei miei occhi luminosi ambisce a diventare lo spazio materiale e immateriale in cui dar vita alla ricerca artistica condivisa con i giovani attori detenuti - commenta Adriana Follieri - per la nascita di spettacoli che sappiano essere una pratica di libertà, un’esperienza di democrazia autoriale, occasione di ricerca, trasformazione e dunque creazione. Non credo basti recitare, credo sia indispensabile per questi attori leggere e scrivere, decifrare i codici teatrali, metterli insieme in composizioni virtuose, perché avere parole vuol dire avere voce”. L’intero progetto ha avuto fin da subito questo obiettivo: “dare voce a chi non ne ha” attraverso il teatro, creando una compagnia teatrale mista con le studentesse e i ragazzi in regime ristretto, scrivendo e mettendo in scena uno spettacolo destinato a debuttare in uno dei più prestigiosi festival di teatro in Italia. Sarà il Campania Teatro Festival il primo palcoscenico di “Disadirare: un’altra Iliade” dove lo spettacolo ha un posto d’onore all’interno della programmazione. Questa iniziativa, così come tutti i progetti di CCO - Crisi Come Opportunità, sono anche occasione di riflessione sull’impegno dei giovani detenuti nel coltivare la propria creatività ed offrono al pubblico un’esperienza teatrale unica nel suo genere. Partecipare a questo spettacolo non significherà essere solo spettatori, ma testimoni e attori di un percorso di crescita e trasformazione. Il progetto nazionale, Presidio Culturale Permanente negli Istituti Penali per Minorenni è coordinato da CCO - Crisi Come Opportunità grazie al sostegno di Fondazione San Zeno e Fondazione Alta Mane Italia. L’appuntamento è per il 16 giugno 2023, alle ore 20:00 al teatro Trianon di Napoli. Quando scegliemmo la violenza, il saggio di Luigi Manconi e Gaetano Lettieri di Roberto Esposito La Repubblica, 30 maggio 2023 Il ‘68 è stato uno spartiacque tra i radicali come Pasolini che difendevano le istituzioni democratiche e i terroristi. Ad apertura del libro, scritto a quattro mani con Gaetano Lettieri, “Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia”, pubblicato da il Saggiatore, Luigi Manconi racconta di essersi ripromesso di non parlare più del Sessantotto. Le pagine che adesso leggiamo ci dicono che ha infranto la promessa, ma anche che le è restato altrimenti fedele. Infatti ne parla, ma non in prima persona. A parlare, attraverso di lui, sono altri. Personaggi minori, marginali - un’operaia dell’industria farmaceutica, uno studente sacrestano, un calciatore di terza categoria, dei poliziotti insicuri. Ciò che ne risulta, più che un discorso diretto, è un contro-discorso, una memoria dolente e autocritica, rivolta alle zone più opache e contraddittorie di quella stagione. Ma anche una riflessione, alta e drammatica, sul significato della politica e la problematicità della democrazia, colta nella tensione irrisolta tra libertà e potere, ordine e conflitto, giustizia e violenza. A collegare i due testi di Manconi e Lettieri - convergenti negli esiti, ma diversi nel tono, più laico il primo e più messianico il secondo - è il comune riferimento a Pasolini. In particolare alla sua controversa poesia Il Pci ai giovani, scritta a ridosso degli scontri di Valle Giulia, il 1° marzo del ‘68, tra studenti e polizia. Anche a prescindere dall’autentica intenzione di Pasolini, ciò che entrambi gli autori rilevano è l’ambivalenza degli avversari. Contrapposti ideologicamente, essi condividono la condizione di essere insieme soggetti e oggetti di violenza. Anche Manconi ricorda il rapporto complesso, non riducibile all’odio che, nel contrasto, lo legava ai rappresentanti delle forze dell’ordine. Immersi in una lotta senza quartiere, essi abitavano lo stesso spazio di confine, il margine sottile che al contempo separa e congiunge ragione e passione, diritto e giustizia, legalità e violenza. Il momento in cui la linea tra politica e violenza è varcata è individuato da Manconi nella strage di piazza Fontana e negli episodi tragici che seguono, dalla morte di Pinelli all’omicidio di Calabresi. È allora che il patto sociale si rompe e la violenza dilaga. Alla sua radice la sensazione diffusa che lo Stato, o almeno alcuni pezzi del suo apparato, preparino una svota autoritaria. Da quel momento nel conflitto, restato fino allora politico, s’introduce il seme della guerra civile. Anche l’omicidio entra nel novero degli strumenti di lotta, in un cortocircuito perverso che porterà all’assassinio di Moro. Ma quel parricidio non è che l’esito di un lungo fratricidio - tra studenti e poliziotti, destra e sinistra, riformisti e rivoluzionari. Nell’analisi di quella deriva Manconi non fa sconti a nessuno, a partire da se stesso. A determinare la svolta sanguinosa è l’assenza di una cultura della non-violenza capace di infrangere la gabbia ideologica, intransigente e ottusa, che individua nella violenza l’unica forza di trasformazione storica. Lungo una strada che dall’omicidio conduce al suicidio di un intero segmento generazionale, come è rappresentato efficacemente nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. È da quell’apice negativo che inizia, per alcuni, il faticoso processo di ripudio della violenza come strumento di azione politica e il progressivo rientro nelle istituzioni. Quelle istituzioni che proprio Pasolini definiva “commoventi” - non perché avulse da opacità e violenza, come ci ricordano gli omicidi di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, ma perché “l’umanità non può farne a meno”. Il Sessantotto fallisce per l’incapacità di offrire sbocchi politico-istituzionali a movimenti antistituzionali. È questa consapevolezza, politica ed etica, che separa l’estremismo infantile di chi pretende di demolire le istituzioni dal radicalismo di chi, come Pasolini, le riconosce nella storicità contraddittoria di ogni vicenda umana. Nulla, nella storia, ha la purezza del cristallo - neanche la democrazia. I processi di socializzazione politica non scorrono in maniera lineare e coerente. Può - si chiede Manconi - il tirocinio della democrazia passare per forme non democratiche? Certo, così è accaduto spesso. Ma ciò non abolisce il confine tra mezzi legali e mezzi extralegali, anche quando il male sembra convertirsi in bene. Nessun bene compensa i danni fatti e subiti da altri. La forza della riflessione etica dell’autore sta nel non dare risposte semplici a domande complesse e nel non sottrarsi a conclusioni radicalmente autocritiche. Ancora più radicali, venate di spunti esplicitamente teologici, sono le tesi di Gaetano Lettieri. I temi che ripercorre, in dialogo con Manconi, sono gli stessi: il Sessantotto, la democrazia, la violenza. Mescolando il messianismo di Paolo di Tarso alla decostruzione di Derrida, Lettieri coglie i limiti del Sessantotto nell’incapacità di articolare innovazione di costume e impegno sociale. Ciò che invece Pasolini faceva, anche schierandosi dalla parte dei poliziotti sotto-proletari contro gli studenti borghesi. In quella scelta c’era, forse, un rifiuto regressivo dei processi di secolarizzazione moderni, ma anche e soprattutto la carità verso la parte più debole e povera della società. Il tasso di democraticità di un regime, afferma giustamente Lettieri, si misura non solo sul numero degli inclusi, ma anche su quello degli esclusi. Solo una politica aperta ai disperati e ai reietti può fecondare lo spazio comune della cittadinanza. “Olivia e le altre”, vite segnate dall’ombra della violenza. In un libro della magistrata Diana Russo di Lucio Luca La Repubblica, 30 maggio 2023 Da anni in prima linea contro i cosiddetti reati ai danni di “vittime vulnerabili”. Venti storie lancinanti pubblicate da Zolfo Editore. “Immaginate di aver subito una violenza sessuale. Immaginate di entrare per la prima volta in un Palazzo di Giustizia, di percorrere un lungo corridoio, raggiungere un’aula larga e profonda, trovarvi al cospetto di almeno tre giudici, un paio di tirocinanti e stagisti, un cancelliere, uno stenotipista, almeno un pubblico ministero, almeno un difensore, personale delle forze dell’ordine e infine l’imputato, ovvero il vostro abusante. Nella migliore delle ipotesi desidererete che questa penosa esperienza abbia fine il prima possibile e darete delle risposte insoddisfacenti”. Diana Russo di situazioni del genere ne ha vissuto a centinaia. Forse a migliaia. Perché questo è il suo lavoro. In magistratura dal 2009, ha svolto le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica in posti non facili come Palermo, Napoli Nord e Velletri. E da diversi anni si occupa proprio di reati in materia di vittime “vulnerabili”: maltrattamenti in famiglia, pedofilia, violenza sessuale, stalking, prostituzione, immigrazione. Un bagaglio di esperienze, dolorose, lancinanti, che adesso racconta in un libro appena uscito per Zolfo Editore con la prefazione dell’attrice Maria Chiara Giannetta. Si intitola Olivia e le altre ed è uno spaccato di orrori che Russo racconta con pudore ma senza alcuna reticenza. Nomi, luoghi, circostanze sono naturalmente artefatti per evitare di consentire l’identificazione delle vittime - spesso minorenni - ma le storie sono vere. Terribilmente vere. C’è Olivia, appunto, una bimba abusata dal marito della sorella e Rosalia, con un lieve handicap mentale, rimasta incinta dopo anni di violenze da parte del padre: “Adesso mi guarda con gli occhi colmi di odio - scrive Diana Russo - Siamo nell’aula d’udienza del giudizio abbreviato, e ho appena fatto condannare suo padre a cinque anni e due mesi di reclusione. E ancora Queen, universitaria delle Canarie in Erasmus a Palermo che riesce per un soffio a fuggire dall’auto di un amico, o quello che lei riteneva un amico, che tenta di violentarla. Claudia, che a 11 anni frequenta un sito di incontri sessuali e Giacomo, accompagnato dalla madre alla Squadra Mobile per testimoniare sui maltrattamenti che la donna avrebbe subito dal marito. Un capitolo è dedicato al tormentato rapporto tra Valentina e Domenico. La paura di lei dopo averlo lasciato, lui che l’accusa di non fargli vedere i figli. Valentina chiede al magistrato un divieto di avvicinamento per l’ex compagno, Diana non può accordarlo perché non ci sono mai stati episodi di violenza. Poi, alla vigilia di una vacanza, una notizia che appare improvvisamente in un sito: il padre di Valentina ha sparato a Domenico quando lui era andato a casa sua minacciando la donna e i bambini. E la storia di don Enzo, ‘u parrinu lo chiamano tutti, il sacerdote fermato per induzione alla prostituzione di diversi adolescenti, tutti di età compresa fra i quindici e i diciassette anni. Don Enzo gravita in orari notturni nelle aree di Palermo più frequentate dai giovani, li invita a salire in macchina, chiede loro le preferenze sessuali, introduce argomenti a sfondo carnale, fino a sondare la possibilità di avere rapporti in cambio di denaro. ‘U parrino offre sempre di più, e in cambio chiede sempre di più. Fino a quando qualcuno decide che è venuto il momento di fermarlo. Vite segnate dall’ombra della violenza quelle raccontate da Diana Russo che riavvolge il nastro dei ricordi e in venti frammenti esistenziali racconta il suo confrontarsi, da giovane magistrata, con l’insospettabilità del male e la vulnerabilità delle vittime, ma anche con la loro tenacia e il loro forte desiderio di giustizia. “Le storie sono forti, raccontate in modo diretto, ma sotto le parole trapela tutto lo sforzo della scrittrice di mantenere la sua compostezza e lucidità - scrive nella prefazione Maria Chiara Giannetta, l’attrice che ha interpretato Anna Olivieri nella serie Don Matteo e Blanca Ferrando nella serie Blanca - Storie che ci insegnano anche come sia difficile spiegare alle vittime cosa sia giusto o sbagliato. Quello che subiscono dai loro cari è l’unica forma d’amore che conoscono, e quando arrivano degli estranei a dire loro che l’amore è tutt’altro, si sentono spiazzate, abbandonate, arrabbiate e nella maggior parte dei casi rifiutano ogni forma di aiuto. In altre vicende invece le vittime sono forti e ribelli, hanno bisogno di persone come Diana, di professionisti che sanno bene dove mettere mani e piedi per ridare loro una dignità”. Don Puglisi, il docufilm sul prete di Palermo che spaventò Cosa nostra parlando ai bambini di Emiliano Abramo* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2023 Piazza Anita Garibaldi, a Palermo, la sera del 15 settembre 1993 era deserta. A terra giaceva il corpo di un uomo sanguinante e agonizzante, freddato da due sicari di Cosa nostra. Si chiamava Giuseppe Puglisi, prete palermitano e parroco di Brancaccio che, proprio quel giorno, compiva 56 anni. A trent’anni da quel tragico evento e a dieci dalla sua beatificazione, Rai 1 presenta al grande pubblico il documentario “Me l’aspettavo - il sorriso di don Puglisi”, in onda lunedì 29 maggio alle 23:45. È vero, è stata la mafia a mettere fine alla vita di questo bravo sacerdote, ma descrivere don Pino come un prete antimafia è riduttivo e anche sbagliato. Lui era innanzitutto un cristiano vero che, attraverso il sacerdozio, aveva scelto di seguire il suo Signore, che celebrava sull’altare e serviva ritrovandolo nel volto dei poveri, specialmente in quello dei bambini. Sullo sfondo di una Palermo bisognosa e violenta nasce questo figlio del suo tempo, che guardava con l’intelligenza e la motivazione dei missionari al bisogno della sua città, al punto da dire: “L’Africa l’abbiamo qua!”. Officina della Comunicazione e Matteo Billi, rispettivamente produttore e autore del docufilm - realizzato in collaborazione con Rai Documentari con la regia di Simone Manetti - raccontano, anche attraverso una raccolta di voci di amici, allievi e contemporanei di don Pino, la straordinaria avventura di un uomo che seppe affrontare la vita e il servizio affidatogli con la sola forza delle parole, della cultura e della fede. Senza difese e senza garanzie, senza fuggire quando avrebbe potuto. La nota eroica di quell’uomo fu il suo amore per il Vangelo, per i documenti del Concilio, per i libri che alla sua morte vennero ritrovati a casa sua ben organizzati, etichettati, rivelando pertanto anche la sua sensibilità culturale. Puglisi inoltre amava il suo Papa, Giovanni Paolo II, e i poveri che gli era dato di incontrare perdendosi per le viuzze di Brancaccio. Non fuggiva di fronte ai problemi della gente e del quartiere, piuttosto li affrontava e, davanti alle difficoltà, sorrideva di rimando. Fece così anche quella notte. Puglisi stava rientrando a casa da solo dopo aver festeggiato con pochi amici il suo compleanno. “Padre, questa è una rapina” disse Gaspare Spatuzza, mafioso che insieme a Salvatore Grigoli prese parte al suo assassinio. È sorprendente ma coerente la risposta del prete, che, racconta Grigoli, un attimo prima di essere ucciso si girò verso Spatuzza e con un sorriso disse: “Me l’aspettavo”. Il male si affronta, non si aggira. E se la mafia ha potuto stroncare la vita di un uomo non è riuscita a infiacchire il valore della testimonianza, del martirio del prete di Brancaccio. Alla base di questo lavoro non ci sono nuove rivelazioni di pentiti o altri dettagli che appassionano gli studiosi della criminalità organizzata o gli esperti del genere crime: c’è invece la voglia di far parlare don Puglisi alla coscienza del nostro tempo. Infatti è proprio il ritratto a tutto tondo del parroco di Brancaccio - uomo pieno di vita, di sogni e di domande - che fa di lui un cristiano, un siciliano non autoreferenziale o complesso, ma piuttosto accessibile a tutti, ieri come oggi. Il documentario ci aiuta a capire meglio la storia dell’uomo Puglisi facendola emergere in tutta la sua affascinante grandezza. Don Pino non amava scrivere, sebbene fosse un vero umanista cristiano. Questa è una difficoltà per chi vuole ricostruire il suo pensiero. Avendo avuto il piacere di collaborare e seguire la realizzazione del lavoro, voglio mettere l’accento anche sulla ricerca delle fonti audio e video, che, unite alle memorie degli amici intervistati presso la piccola chiesa della “Maruzza” nel quartiere del mercato storico del Capo, hanno permesso importanti ricostruzioni che ci traghettano oltre la riduttiva narrazione del prete antimafia. Puglisi era uomo dell’incontro, dell’ascolto e del dialogo. Lo si vede nella vastità dei rapporti costruiti, nell’apertura verso tutti, nella capacità di non ritirarsi spaventato di fronte ai problemi nuovi e inaspettati. Infine vorrei sottolineare un altro aspetto ben raccontato nel docufilm, ovvero di come la vicenda di Puglisi marchi la distanza incolmabile tra la fede cristiana e la realtà mafiosa. La visione, infatti, non è solo appassionante perché mostra la grandezza di don Pino nel confronto con la realtà tragica dei membri di Cosa nostra: forte e significativa è la presenza di povere donne che attendono inutilmente il ritorno dei figli inghiottiti dalla violenza, che non riescono ad uscire dal circuito mafioso ereditato dai padri, uomini raffinati e spietati nei loro disegni criminali ma anche rozzamente impauriti dal legame tra Puglisi e i bambini nel quartiere. La miseria di Cosa nostra si vede infatti a partire dai piccoli, dai bambini di Brancaccio, costretti a vivere in condizioni indegne, destinati ad essere aspiranti soldati. Puglisi aveva compreso la mafia perché aveva dedicato gran parte della sua azione pastorale ai piccoli e ai giovani. Impressiona a tal proposito il fatto che un uomo disarmato sia riuscito, solo con la forza delle sue parole e del suo senso cristiano dell’amicizia, a far preoccupare uomini che hanno a disposizione soldati, denaro, armi e bombe come quelle fatte esplodere a Palermo, Firenze o a Roma. “La mafia è forte, ma Dio è onnipotente” celebra la targa fissata sul luogo dove don Pino Puglisi morì, ma dove regalò anche il suo ultimo sorriso. *Presidente della Comunità di Sant’Egidio di Catania “Infanzia violata, in Italia ce ne accorgiamo in ritardo e si sottovalutano le violenze” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2023 Si è tenuto sabato il convegno nazionale di Unicost “Le Medee del nostro tempo: spunto di riflessione sull’infanzia violata”. Ne parliamo con uno dei relatori, Raffaele Sabato, giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In quanti modi si può violare l’infanzia di un bambino? In molti modi: dal negargli una vita di “bambino”, spensierata e giocosa (anche per ragioni incolpevoli, quali difficoltà economiche e culturali), fino a negargli la vita vera e propria (come negli abusi fisici per violenze, nella denutrizione e nella morte nei paesi del sud del mondo). Ci sono poi gli abusi sessuali diretti, nonché gli stessi in maniere indirette, quali lo sfruttamento delle immagini dei bambini nelle reti di pedofilia. Vorrei però sottolineare delle forme di abuso più sottili, ma altrettanto pericolose: il negare al bambino l’istruzione (anche in questo caso talvolta possono esserci difficoltà economiche e culturali) o il consentire che il bambino subisca quella che si chiama “violenza assistita”: vivere in ambienti dove i genitori o altri familiari, tra loro o nei confronti di terzi, indulgano a violenza, o anche solo pratichino eccessiva e non filtrata esposizione a spettacoli, discorsi, immagini violente. Sono situazioni che danneggiano talvolta irrimediabilmente una personalità in formazione. Rispetto a questi tristi fenomeni, di cui si è discusso nel convegno, l’aggancio al personaggio eterno della Medea di Euripide è solo uno “spunto”. Il figlicidio in Medea si inserisce in tutt’altro contesto, quello della lucida denuncia - già nel mondo di oltre due millenni fa - della disuguaglianza di genere combattuta da una donna “atipica”, che già aveva violato le convenzioni dell’epoca scegliendosi essa stessa il partner, affiancandolo - cosa inusuale - nelle imprese eroiche a costo di più omicidi, e che - vistasi tradita per le ambizioni politiche dell’uomo che sposa la figlia del re - viola ancora una volta la legge della soggezione femminile, vendicandosi contro l’uomo e togliendogli non solo la discendenza già esistente, ma anche la possibilità di avere altri figli e il regno (infatti porta a morte anche la rivale e il padre di lei). Poi, c’è anche la prospettiva positiva: Medea, che è una maga, ottiene rifugio altrove, promettendo a un altro re di procurargli discendenza in quanto conosce i farmaci adatti a favorire la procreazione. Insomma, Medea ci fa riflettere su temi diversi, pur sempre moderni. La Cedu si trova a dover affrontare molti casi di infanzia violata? Negli ultimi anni sono stati esaminati dei casi di violenza domestica che hanno comportato l’uccisione di bambini, di solito da parte di un padre violento. Uno dei casi più importanti si chiama Kurt c. Austria. Per il nostro Paese, si può ricordare la sentenza Landi c. Italia: una donna vittima di violenza domestica a opera del compagno convivente che, in un’escalation di condotte aggressive e maltrattanti, arriva a uccidere il figlio di un anno, dopo aver tentato di uccidere anche la compagna. Nei diversi casi esaminati si pongono due questioni principali: se lo Stato - informato della situazione dalle denunce - abbia fatto quanto necessario per prevenire l’escalation; se, una volta verificatosi un evento tragico, siano state fatte indagini e se la giustizia abbia fatto il suo corso. In un caso riguardante l’Italia, il nostro Paese è stato sanzionato per quest’ultimo aspetto, avendo lasciato prescrivere i reati per durata eccessiva dei processi. Con l’occasione, parlando di infanzia, vorrei ricordare che, a seguito di numerose sentenze della Corte, l’Italia è da un anno sotto sorveglianza rafforzata da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in quanto il sistema italiano non è sembrato avere efficaci strumenti per consentire il mantenimento di contatti tra i bambini e i genitori separati o divorziati (anche per comportamenti ostativi dell’altro genitore affidatario), o - nei casi di adozione non causata da abbandono “colpevole” - con i genitori biologici. Su tali temi mi sembra che possano incidere recenti riforme e mutamenti giurisprudenziali. Esistono in Italia strumenti giudiziari adeguati alla tutela dei diritti dei minori? Lo strumentario giuridico esistente è certamente adeguato. Il problema non riguarda gli strumenti, ma il loro utilizzo tempestivo e adeguato. In particolare, in alcuni casi si nota il ritardo da parte delle autorità italiane nell’”accorgersi” delle violenze; in altri la loro sottovalutazione, riducendosi spesso le violenze a questioni di conflittualità tra partner. Come si pone l’Italia rispetto all’Europa? Il Presidente Mattarella, nell’ambito di una sua recente visita presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, ha avuto parole di apprezzamento per il fatto che l’Europa talvolta richiami l’Italia agli obblighi che liberamente assume; ha anche detto però - ed è vero - che le carenze riguardano casi fortunatamente isolati in un sistema che ha - come già menzionato - uno strumentario di tutela adeguato, che si deve solo usare con efficacia. Lei sarebbe favorevole alla figura dell’avvocato del minore nelle cause di separazione? In Italia e in molti Paesi nelle cause di separazione e divorzio i figli non rivestono la posizione di parti del processo. Obblighi internazionali e norme comportamentali nazionali impongono ai giudici soltanto di sentire i minori per le decisioni che li riguardano, come l’affidamento. In altri casi, già in base alle attuali norme il giudice può nominare un curatore speciale ai minori che non siano adeguatamente rappresentati dai genitori. In aggiunta al curatore, una figura defensionale - in casi ben determinati, diversi da separazione e divorzio - ci potrebbe star bene. In alcuni Paesi tale ruolo è svolto da un avvocato dello Stato specializzato. “L’imitazione degli adolescenti, in balia di una società che non li soccorre” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 maggio 2023 Parla la psicoterapeuta Maria Chiara Risoldi, autrice del romanzo “Di lotta e di cura” appena pubblicato. “Genitori che non sanno essere adulti, competitività, catastrofismo mediatico e la difficoltà dei giovani a riconoscersi in una comunità d’elezione sono segni di malessere sociale”. “La società pecca di omissione di soccorso nei confronti degli adolescenti”. Cita il giudice Gian Paolo Meucci, illuminato presidente del tribunale dei minori di Firenze dei primi anni del secolo scorso, Maria Chiara Risoldi, per tentare un’analisi profonda del disagio giovanile di oggi, prendendo spunto dal caso di cronaca di Abbiategrasso. Giornalista e a lungo psicoterapeuta, la settantenne Risoldi dal 2020 ha interrotto la professione per dedicarsi alla cura di suo marito malato, Antonio Laforgia, ex presidente della Regione Emilia Romagna morto due anni fa scegliendo la sedazione profonda. Da allora si è dedicata alla scrittura, dando alle stampe due mesi fa Di Lotta e di cura (Iacobelli editore), romanzo che intreccia la storia della Casa delle Donne di Bologna di cui l’autrice è stata tra le fondatrici 30 anni fa. Cammina leggera è invece il suo romanzo d’esordio per i tipi di Manni, ispirato al proprio percorso personale che intreccia psicoterapia e liberazione dalle costrizioni sociali. La scuola in generale non riesce a farsi carico dei problemi psicologici degli studenti. Cosa manca? È un problema che viene da lontano: anche quando nel 1967 andavo alle superiori, la scuola non era in grado di trattare i problemi dei giovani e tanto meno di aiutare le famiglie a farlo. Però un giudice bravissimo come Gian Paolo Meucci che, come molti nel suo ruolo, aveva una profonda formazione psicologica nell’approccio con i giovani, diceva che la società pecca di omissione di soccorso nei confronti degli adolescenti. Cosa vuol dire? Esistono servizi materni e infantili più o meno efficienti; dopo la riforma Basaglia abbiamo servizi per i grandi, anche questi più o meno funzionanti. Ma c’è un buco sugli adolescenti: non ci sono servizi pensati per loro. In Italia, poi, e solo noi, abbiamo anche una scuola assurda: le primarie e le medie inferiori non rispettano la biologia e la psicologia dell’età evolutiva. Ci vorrebbe una scuola primaria di sette o otto anni, e poi l’avvio di un altro iter scolastico. In sostanza, siamo incompetenti nella psicologia e nella pedagogia. In ogni caso, mancano sportelli psicologici per gli studenti... Non direi: nelle scuole, con molta approssimazione, lo sportello psicologico sarebbe stato già inserito. Quando andavo all’università c’era già. Lo psicologo però sarebbe obbligato ad avvisare i genitori, quando un minore chiede il suo aiuto. Nelle scuole medie può non farlo, ma nei casi gravi deve chiedere l’autorizzazione al magistrato perché in generale il minore può essere trattato da uno psicologo solo se entrambi i genitori firmano il consenso. Attualmente, non conosco nei dettagli la situazione delle suole italiane ma non credo che il problema sia lo psicologo nelle scuole, perché non possiamo psicologizzare tutto. Il problema è che la cultura politica è ancora ferma lì dove la fotografò il giudice Meucci: non ci sono adulti. Dove per adulti si intende persone che abbiano elaborato la propria storia, che abbiano consapevolezza di sé, che riescano a differenziarsi dai giovani, nella cultura e nei gusti, e che non diano perciò l’impressione di essere in competizione con loro. È così già da qualche tempo: i genitori di noi baby boomer erano diversi da noi, avevano i loro valori, le loro canzoni, i loro gusti, i loro vestiti. Dai quali noi volevamo differenziarci e porci in contrapposizione. Dove metterebbe la data del cambiamento? Una volta Niccolò Ammaniti disse che nel ‘68 abbiamo abbattuto tutto, le strutture, i limiti e le regole, senza però proporne altre. E abbiamo fatto così sparire le differenze generazionali. Che ruolo ha avuto il ventennio berlusconiano, nel quale abbiamo assistito ad un ribaltamento dei modelli di riferimento (citando Walter Siti, non più il proletariato che imita i gusti della borghesia, tipico dell’epoca di Pasolini, ma il contrario: il centro che imita la periferia)? Il ventennio berlusconiano in qualche modo ha interpretato bene qualcosa che negli Stati uniti era già realtà da qualche anno: la cosiddetta società narcisistica, ossia la politica spettacolo, il leader carismatico ecc. Berlusconi in maniera clamorosa ha rimesso in scena il corpo femminile come oggetto, cosa che da allora anche le donne cominciano a usare per ottenere un pezzetto di potere. Eppure, anche in uno scenario sociale così profondamente mutato nessuno si occupa degli adolescenti. L’”omissione di soccorso” diventa sempre più grave, perché questi finti adulti non sono cresciuti malgrado siano diventati genitori. Torniamo al fatto di cronaca, che inevitabilmente evoca le stragi americane nelle scuole. Posto che da un caso singolo non si possa trarre un vero spaccato sociale, secondo lei che ruolo ha giocato la pandemia negli adolescenti, in particolare riguardo la difficoltà di trovare una comunità d’elezione, così tanto mortificata dalle regole del lockdown rispetto alla famiglia d’origine? Attenzione a non fare della pandemia un alibi per non vedere la continuità dei problemi. La gestione della pandemia andrà studiata a fondo, perché essa ha portato al pettine alcuni nodi: i congiunti chi sono?, per esempio. Ma ci porta fuori strada, dare troppo valore a quei lockdown. Il ragazzo che esplode nel modo in cui abbiamo visto ad Abbiategrasso, lo fa anche a nome di altri. Il suo malessere in qualche modo rappresenta una malattia comune a molti. Che si fonda sulla paura del futuro. Da quanti anni leggiamo sui giornali le catastrofi che ci aspettano? C’è molta differenza con le generazioni che leggevano sui giornali il progresso possibile. Ci sono ventenni cresciuti leggendo che siamo vicino alla fine, per gli umani sul pianeta. E allora, abbandonati a se stessi, con nessuna speranza nel futuro, basta un brutto voto o una delusione d’amore per esplodere. Cosa si potrebbe fare per intercettare e curare questo malessere? Bisognerebbe che la politica, a livello quanto meno europeo, cominciasse a occuparsi della fatica del vivere. Senza certezze, misurandosi con una società delle performance, con genitori che competono con i propri figli, vivere oggi è faticosissimo. Soprattutto per un adolescente. In particolare, la politica dovrebbe studiare le neuroscienze, che nel frattempo hanno fatto passi da gigante e scoperte importantissime. Il neouroscienziato David Eagleman, sulla base di queste scoperte, sta portando avanti negli Usa una battaglia giuridica affinché venga riconosciuta la causa neurologica di molti raptus violenti dei giovani nelle scuole. Noi funzioniamo per imitazioni: se ricevo una gentilezza il circuito imitativo umano tende a riprodurre quel gesto. Se vediamo violenza, la imitiamo. In sostanza, il catastrofismo dei mezzi di comunicazione, attenti solo ad attrarre l’attenzione dei lettori, la cultura emergenzialista che ha contaminato anche la sinistra, e la violenza verbale dei nostri politici sono parte di questo malessere. Ricordiamocelo. Crepet: “Abbiategrasso non è un caso isolato, la scuola è diventata un bersaglio” di Nadia Ferrigo La Stampa, 30 maggio 2023 Dopo la professoressa di Rovigo colpita con una pistola ad aria compressa, uno studente di Abbiategrasso ha aggredito la sua prof con un coltello. “La scuola è fallita. Il ministro Valditara si può mettere tranquillo: il suo compito è quello del magistrato del tribunale di fallimento”. Le aggressioni, fisiche e verbali, a professoresse e professori sono ormai diventate parte della quotidianità nelle aule scolastiche di tutto il Paese. Dopo la professoressa di Rovigo, colpita con una pistola ad aria compressa, questa mattina uno studente di Abbiategrasso ha ferito la sua insegnante con un coltello. Cosa c’è che non va, nelle nostre classi e nei nostri giovani? Ne abbiamo parlato con lo psichiatra Paolo Crepet. “Siamo al secondo episodio in un anno, prima Rovigo e ora Abbiategrasso, di studenti che aggrediscono con un’arma i loro professori. Centinaia presi a botte. Quali sono le conseguenze di questi episodi? Nessuna, solo che centinaia di “avvocati” mono neurali sono dedicati alla difesa del bullo, del teppista, di chi fa ciò che non è tollerabile fare. Abbiamo un problema di educazione, non di disagio. Il disagio nasce dalla totale vacuità in cui crescono questi ragazzi. La scuola non deve essere una psicoterapia di massa. Appena ieri il ministro Valditara ha rassicurato i maturandi, l’esame quest’anno sarà “una chiacchierata”. Ma perché, che senso ha? Con il 99 per cento dei promossi, il ministro Valditara sente ancora il bisogno di rassicurare? Il fallimento della scuola non è solo colpa sua, ma sua e dei tanti e delle tante che sono arrivati prima di lui. Certo lui non si distingue per discontinuità”. A che cosa ha rinunciato la scuola? “La scuola non deve istruire, ma educare, tirar fuori talento, capacità e aspirazioni. Pochi giorni fa abbiamo celebrato i cento anni della nascita di don Lorenzo Milani, uomo libero e meraviglioso. La sua scuola era un presidio contro la miseria, quella di oggi dovrebbe essere un presidio contro il privilegio. Perché i genitori di oggi rinunciano ad educare i propri figli non perché vanno in miniera, ma a giocare a padel”. Non sono però due episodi isolati che possono definire una generazione, non le pare? “Dire che sono casi singoli è una penosa bugia. Anche perché l’atto del singolo diventa virale, viene ripreso dai social. È il classico sasso in uno stagno. Non tutti prenderanno il fucile, ma a tutti sarà chiaro che la scuola è un bersaglio mobile, da prendere in giro”. Una richiesta- appello è arrivata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella da Alessandra De Fazio, presidente del consiglio degli studenti di Unife. “Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione o perfino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona per la performance” ha detto la studentessa. Cosa ne pensa? “I disturbi mentali sono comunicazione: se parlo di depressione, allora avrò moltissimi depressi. Trent’anni fa scrissi un libro sui suicidi giovanili. Da allora non sono mai aumentati, il numero è sempre lo stesso, troppo alto: sono due al giorno. Ma contarli non serve a niente. Come non serve a niente trasformare la scuola in un centro d’ascolto. Sentiamo in continuazione dire che gli studenti universitari sono stressati. Ma di cosa, vorrei sapere. Non ce la fanno più. Ma di che, di studiare? Quello devono fare, quello è il loro mestiere. Il problema è che molti gli danno pure retta. Così il rischio è di crescere migliaia di pirla, pronti ad andare a piagnucolare da schiere di psicoterapeuti che sono felici di avere un cliente in più. Ci sono ragazzi e ragazze e che invece stanno protestando per il diritto allo studio e alla casa, a me questa sembra la meglio gioventù”. Dove sbagliano genitori e insegnanti? “Se prima di andare a scuola mi fanno lo zainetto, se ho insomma dei genitori che da sempre fanno tutto per me, durante l’adolescenza alla prima frustrazione crollo. Tantissimi genitori vengono da me dicendo “non gli abbiamo mai fatto mancare niente”. L’unico risultato è che abbiamo abbassato la loro capacità di aggredire l’esistenza. Ora invece di fare i conti con la mala educazione, preferiamo dare la colpa alla pandemia. Mi scrivono molte persone, tra le mail ricevute negli ultimi tempi ricordo quella di una professoressa. Mi ha scritto che i suoi studenti, otto volte su dieci, quando devono compilare il campo data e ora le chiedono che giorno è. Il registro elettronico, la chat dei genitori, la possibilità di geolocalizzare i figli sono potentissimi strumenti di de responsabilizzazione. Ma poi cosa ci aspettiamo? Che a 25 anni vadano in Argentina in cerca di fortuna? Restano a casa, il loro futuro è mettere l’appartamento del nonno in affitto su booking, che per quello non servono competenze”. Come genitori stiamo sempre appiccicati a loro, ma allo stesso tempo li lasciamo soli? “Da una parte, togliamo. Li lasciamo nel vuoto pneumatico. Abbiamo buttato il napalm su buonsenso, formazione e merito. E al contrario con cosa si nutre la generazione dei giovani e pure quella dei loro genitori? Dell’influencer che insegna il corsivo e di quella che mostra le chiappe. Bisogna dire le cose come stanno, anche se non è sempre simpatico. Io non sono ministro, nessuno me l’ha chiesto e nessuno me lo chiederà mai. Ma a Valditara invece sì. Allora anche per lui è arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità”. Ammaniti: “Siamo al corto circuito tra una scuola sempre più fragile e una famiglia che giustifica tutto” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 30 maggio 2023 Lo psicoanalista sull’aggressione alla docente di Abbiategrasso: “L’incapacità dei nostri ragazzi di elaborare le sconfitte può sfociare nella violenza”. Un corto circuito. Tra adolescenza, narcisismo, perdita di autorevolezza della scuola, giovanissimi che non riescono ad accettare le frustrazioni e famiglie troppo “assolutorie” verso i propri figli. C’è tutto questo, suggerisce Massimo Ammaniti, uno dei più famosi psichiatri italiani, insieme al malessere di una generazione uscita con le ossa rotte dalla pandemia, dietro all’aggressione dello studente di Abbiategrasso che ha ferito con un coltello la sua prof di Italiano. “Un segnale inquietante che sarebbe colpevole sottovalutare. Qualcosa di grave sta accadendo tra i ragazzi, il mondo degli adulti deve rendersene conto”. Vietato voltare la testa, i segnali sono troppi. Professor Ammaniti, gli episodi di violenza contro i professori si moltiplicano. Quale scenario ci troviamo di fronte? “Si tratta di un gesto che non va minimizzato ma da inserire in un contesto più ampio. Dopo la pandemia la depressione e gli stati ansiosi tra gli adolescenti sono esplosi. A questo bisogna aggiungere la perdita di autorevolezza della scuola e famiglie che di fronte agli insuccessi dei figli colpevolizzano i professori”. Qui però parliano di un giovane che è andato a scuola con un coltello e una pistola finta, per “punire” la professoressa che forse l’avrebbe rimandato. Un salto di qualità nella violenza? “Sì, se guardiamo alla nostra storia. No, per fortuna, se immaginiamo situazioni di tipo americano. Il ragazzo prima di ferire l’insegnante ha fatto uscire dalla classe i suoi coetanei, questo ci dice che non voleva colpire per colpire ma aveva un bersaglio ben preciso, un piano premeditato, frutto probabilmente di elucubrazioni di tipo paranoico”. Ci spieghi professore... “Il ragazzo era già stato bocciato e adesso rischiava un debito. Nell’adolescenza può accadere che il piano della realtà venga stravolto dalle proprie emozioni. E nella sua testa la professoressa è diventata la colpevole della sua infelicità”. Lei citava anche una caduta di autorevolezza dell’istituzione scuola... “Né i giovani né le loro famiglie riconoscono più una funzione educativa alla scuola, i docenti vengono costantemente attaccati, il loro ruolo sociale, a cominciare dagli stipendi, è sempre più fragile. Quanti genitori aggrediscono gli insegnanti se i figli prendono un brutto voto? In un contesto tanto svilito può dunque accadere che si sviluppi un gesto estremo”. C’è un problema legato alla capacità di gestire le frustrazioni? “I nostri ragazzi sono pochi, spesso figli unici, abituati ad essere al centro delle attenzioni familiari, con modelli educativi dove tutto viene giustificato. Questo produce un forte narcisismo che li porta a non saper elaborare le sconfitte e a reagire con la violenza. Come in questo caso”. Il ministro Valditara vorrebbe psicologi in tutte le scuole... “Magari. Però non basta. È fondamentale che i prof vengano preparati a gestire la complessità delle nuove generazioni. Altrimenti la distanza con i ragazzi diventerà sempre più profonda”. Stati Uniti. Democrazia VS Guantanamo, uno a zero: il carcere super-duro non ha funzionato di Valerio Fioravanti L’Unità, 30 maggio 2023 Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Usa, oltre a invadere l’Afghanistan, hanno dato per qualche mese carta bianca alla Cia, e poi, senza fretta, hanno ceduto all’esigenza di dare comunque un inquadramento giuridico alla lotta contro Al-Qaida, creando il campo di Guantanamo. Oggi uno degli ideatori di questa innovazione, Ted Olson, Avvocato Generale dello Stato sotto l’amministrazione Bush, dichiara: “Guantanamo non funziona”. Nel frattempo Guantanamo è costata al contribuente circa 7 miliardi di dollari, più di 1 milione di dollari al mese per ogni singolo “terrorista” internato. Dopo 20 anni, nessun processo è stato celebrato, e salvo 8 uomini trasferiti sulla terraferma e processati in una corte federale con imputazioni minori, tutti gli altri sono rimasti in “carcerazione preventiva” per tutto questo tempo. Oggi, dopo che il 20 aprile è stato “scarcerato” un algerino, a Guantanamo sono rimasti 30 uomini, 16 dei quali dovrebbero essere rilasciati, ma i paesi d’origine non vogliono riprenderli. Anche perché sono gli stessi paesi che li hanno consegnati, e forse preferiscono non tornare sull’argomento. Tutti sanno che Guantanamo è una base della marina statunitense che si trova, stranamente, a Cuba. Nel 1903 gli USA aiutarono l’isola, allora colonia spagnola, a conquistare l’indipendenza, e ricevettero in cambio un piccolo porto naturale, dove nel 1494 era già sbarcato anche Cristoforo Colombo, in “concessione perpetua”, con un affitto di 20 dollari d’oro l’anno. Dal gennaio 2002, un’approssimativa struttura carceraria, volutamente scomoda, ha ospitato 780 uomini, nessuna donna. Uomini rapiti in varie parti del mondo, ritenuti terroristi o fiancheggiatori. La scelta militare ed extraterritoriale era stata fatta in parte per motivi di sicurezza (evitare attacchi del terrorismo islamico a carceri o tribunali sul suolo degli Stati Uniti), ma anche per mantenere una certa riservatezza sul processo, visto che nella vicenda ci sono molti aspetti delicati. Gli arresti sono stati tutti illegali, a queste illegalità hanno collaborato molte nazioni, sono stati illegali gli interrogatori “under duress” (sotto tortura), e sono state illegali tutte le estradizioni, mai formalizzate da nessun tribunale. Una corte militare avrebbe garantito poca stampa, niente pubblico, avvocati militari, niente giurie popolari… ma ai “terroristi” gli USA non volevano riconoscere lo status “militare”, altrimenti sarebbero protetti dalla famosa “Convenzione di Ginevra” sui prigionieri di guerra. Quindi è stato creato l’ibrido: un tribunale militare che processa civili. Giudice, giuria e accusa sono militari, ma gli avvocati della difesa sono “civili”. Come dicevamo, dopo più di 20 anni, nessuno dei “terroristi” di Guantanamo è stato processato. I 5 con le imputazioni più gravi, concorso diretto negli attentati dell’11 Settembre, sono stati rinviati a giudizio 10 anni fa, ma da allora il processo è fermo alle fasi pre-dibattimentali. Perché un manipolo di bravissimi avvocati d’ufficio, pagati con denaro federale, contesta ogni irregolarità. Come ha scritto il New York Times: “Grazie ad avvocati difensori molto combattivi il processo è praticamente in stallo, portando alle dimissioni dei vari giudici militari che di volta in volta sono stati nominati per presiederlo”. Sia detto per inciso, due di questi avvocati, Thomas H. Speedy Rice e Judy Clare Clarke, sono da sempre iscritti a Nessuno tocchi Caino, anzi, come si dice in inglese, Hands off Cain. La necessità di schermare i politici, e la Cia da una testimonianza in aula sta invalidando le pochissime prove che esisterebbero contro i “terroristi”, ossia le confessioni, spesso solo parziali, ottenute sotto tortura. La stessa amministrazione Biden, sbloccando un lungo impasse, ha fatto trapelare di essere contraria all’utilizzo di queste confessioni. Si creerebbe infatti un “precedente” giuridico che potrebbe in qualsiasi momento rivoltarsi contro lo stesso governo statunitense se mai un suo diplomatico, funzionario o militare venisse rapito all’estero e sottoposto a tortura. L’Amministrazione sta “trattando” su quei pochi prigionieri che proprio non vuole liberare: non saranno condannati a morte, e sconteranno la pena in un “normale” supercarcere federale, non in isolamento. La trattativa non si chiude perché gli imputati vorrebbero che a carico del governo venisse messa la terapia psicologica per i postumi delle torture subite, e il governo cerca un modo traverso per non dichiararsene responsabile. A parte questo, il carcere super-duro di Guantanamo non ha funzionato. La democrazia, seppure un po’ a fatica, quella sì. Francia. Parigi 2024 sarà olimpica e senza clochard di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 30 maggio 2023 È polemica sul trasferimento di persone “SDF” (senza domicilio fisso), in gran parte migranti, da Parigi in centri di accoglienza temporanea in provincia. Il governo francese sta organizzando il trasferimento di persone “SDF” (senza domicilio fisso), in gran parte migranti, da Parigi in centri di accoglienza temporanea in provincia per decongestionare la capitale e redistribuire il peso su tutto il territorio nazionale. Secondo l’opposizione di sinistra di tratta di un’operazione tra il cosmetico e l’affaristico, in vista della Coppa del mondo di rugby del prossimo autunno e soprattutto dei Giochi olimpici dell’estate 2024 a Parigi: l’obiettivo sarebbe ripulire l’immagine della capitale spostando i clochard lontano dalle telecamere, e liberare le camere di alberghi a basso costo. Il ministro dell’Alloggio, Olivier Klein, si difende dicendo che “nessuno prende a pretesto un evento sportivo per affrontare un problema umanitario”, e assicura che i trasferimenti si fanno da tempo. Ma è lo stesso ministro Klein che lo scorso 5 maggio in Parlamento metteva in relazione la coppa di rugby e l’Olimpiade con l’apertura di nuovi centri in provincia, sottolineando che nella capitale mancano da 3.000 a 4.000 posti letto, oggi occupati dai “senza domicilio fisso”. Altri tremila posti, destinati ad agenti della sicurezza, autisti e pompieri, verranno recuperati nelle residenze universitarie, a scapito degli studenti. Manuel Domergue, della Fondation Abbé Pierre, lamenta una “mancanza di trasparenza e una forma di precipitazione”. E dire che la questione dei clochard (migranti o meno) e delle promesse mancate si trascina in eterno. Nel 2006 l’allora candidato all’Eliseo Nicolas Sarkozy già assicurava che “entro due anni nessuno sarà più obbligato a dormire per strada”, e in occasione degli auguri di fine anno 2017 il presidente Emmanuel Macron ribadì l’impegno “a non avere più donne e uomini per strada”. Secondo i dati della Fondation Abbé Pierre, i “senza domicilio fisso” in Francia sono circa 330 mila, numero più che raddoppiato in 10 anni. Siria. La riabilitazione di Assad è completa ma senza garanzie sui diritti di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2023 Dopo la trionfale riammissione nella Lega araba, dalla quale era stata espulsa nel 2011, la Siria di Bashar el-Assad ha ottenuto un nuovo successo diplomatico: l’invito, inoltrato ufficialmente la scorsa settimana, a partecipare alla Cop-28 in programma alla fine dell’anno negli Emirati Arabi Uniti. Fa sorridere amaramente una delle “garanzie” chieste dalla Lega araba al presidente siriano: nessuna ritorsione verso i rifugiati che faranno rientro. Cosa che in realtà accade da tempo. L’obiettivo degli Stati che hanno accolto in questi anni i perseguitati politici siriani è di toglierseli dalle scatole: è quello che da tempo sta facendo il Libano (e che, peraltro, intendono fare alcuni stati europei), incurante del fatto che al ritorno in Siria li accoglieranno il carcere e la tortura. Oltre alla questione dei rifugiati e alla drammatica situazione che vivono gli sfollati nelle zone del nord-ovest della Siria colpite anche dal terremoto, ci sono altre questioni che non lasciano tranquilli dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Ne dà conto il Rapporto 2022-2023 di Amnesty International. Intanto, il conflitto non è terminato. Come denunciato anche dalla Commissione internazionale indipendente sulla Repubblica araba di Siria (la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite), il governo siriano, sostenuto dalle forze armate russe, ha lanciato attacchi indiscriminati e attacchi deliberati contro infrastrutture idrauliche, campi per sfollati, allevamenti avicoli e aree residenziali nel nord-ovest del paese. C’è poi il tema dell’impunità per le violazioni dei diritti umani commesse nello scorso decennio: il governo siriano ha continuato a sottoporre decine di migliaia di persone tra cui giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati e attivisti politici, a sparizione forzata, molti anche da più di 10 anni. A febbraio e aprile, le autorità hanno parzialmente fatto luce sulla sorte di 1.056 persone sottoposte a sparizione forzata dall’inizio del conflitto, aggiornando la documentazione del registro civile ed emettendo dei certificati di morte. Questi stabilivano la data del decesso, ma non fornivano particolari sulle circostanze in cui queste persone erano morte. Le autorità non hanno restituito i corpi dei deceduti alle loro famiglie. Ci sono stati poi alcuni provvedimenti sui diritti umani, dalla portata estremamente limitata. Il 30 aprile il presidente Assad ha emanato il decreto legislativo n. 7 che ha concesso un’amnistia generale per i reati di “terrorismo”, ad accezione di quelli che avevano provocato morti. Le autorità non hanno precisato il numero dei detenuti che hanno beneficiato del provvedimento, ma organizzazioni locali hanno calcolato almeno 150 scarcerazioni. Il 30 marzo è entrata in vigore la prima legge contro la tortura, che tuttavia non affronta l’impunità garantita ai militari e agli agenti della sicurezza e non prevede indennizzi per le vittime di tortura in vita o per le famiglie di quelle morte. Secondo la sopraccitata Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, nelle prigioni si è proseguito a torturare i detenuti attraverso varie tecniche come “scosse elettriche, bruciature di parti del corpo e l’essere infilati dentro a uno pneumatico d’auto (dulab) e sospesi da terra per uno o entrambi gli arti per periodi prolungati (shabeh), pratica cui spesso si accompagnavano dure percosse inflitte con vari strumenti, come bastoni e cavi”. Infine, ad aprile, in seguito alle crescenti critiche verso le politiche socioeconomiche del governo, è stata approvata una nuova legislazione sui reati informatici che ha stabilito aspre condanne e sanzioni amministrative contro chiunque critichi online le autorità o la costituzione. Gli artt. 24 e 25 criminalizzano la “calunnia elettronica”, intesa come condivisione tra due persone, anche attraverso comunicazioni private, di informazioni calunniose o umilianti nei confronti di altri individui. Gli artt. 27, 28 e 29 prevedono pene dai tre ai 15 anni di carcere per la pubblicazione online di un contenuto che “mira o invita a cambiare illegalmente la costituzione”, “nuoce al prestigio dello Stato” e “indebolisce la posizione finanziaria dello stato”. *Portavoce di Amnesty International Italia Uganda. Pena di morte e carcere per i gay: la nuova legge che “protegge la santità della famiglia” di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2023 Carcere fino a 20 anni per chiunque - individuo o organizzazione - “promuova consapevolmente l’omosessualità”. Pena di morte per chi è accusato di “omosessualità aggravata”, cioè chi ha rapporti omosessuali con minori di 18 anni e disabili o quando uno dei due partner è positivo all’Hiv o sotto minaccia. Il reato di “tentata omosessualità aggravata” viene invece sanzionato con la detenzione fino a 14 anni. L’Uganda sceglie la linea durissima contro l’omosessualità e vara una delle leggi più draconiane al mondo contro gli Lgbtiqa+, prevedendo non solo il carcere, ma in alcuni casi anche l’ergastolo e la pena di morte. Una stretta, quella decisa dalla nuova legge firmata dal presidente Yoweri Museveni, che Joe Biden ha bollato come “una tragica violazione dei diritti umani universali”, chiedendone la revoca con una velata minaccia di sanzioni. E contro cui è insorta la comunità internazionale con l’Unione europea che ha deplorato la decisione di Museveni: “La legge introduce pene severe, tra cui la pena di morte, a cui l’Ue si oppone in ogni circostanza” ed “è contraria al diritto internazionale dei diritti umani e agli obblighi assunti dall’Uganda ai sensi della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli”, ha tuonato l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell. Il testo della norma, approdato in Parlamento in marzo era stato approvato quasi all’unanimità il 2 maggio con leggere modifiche che però non avevano riguardato la pena di morte, che da anni non è applicata nel Paese, inflitta in caso “omosessualità aggravata”. Già a marzo la legge era stata stata descritta come “un testo discriminatorio, probabilmente il peggiore del suo genere al mondo”, dal capo dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Unhchr), Volker Türk, che oggi ha rinnovato la propria condanna. Confermando una messa in guardia già venuta da Washington, Biden ha chiesto ai servizi della Casa Bianca di valutare le ripercussioni della legge “su tutti gli aspetti della cooperazione” fra Usa e Uganda. Dal canto suo Amnesty International ha parlato di “un giorno terribilmente buio per i diritti delle persone Lgbtqia+ e per l’Uganda” a causa di questa “legge profondamente repressiva che, oltre a rappresentare “un grave attacco ai diritti umani e alla Costituzione dell’Uganda, nonché agli accordi regionali e internazionali per i diritti umani (…) non farà altro che legalizzare la discriminazione, l’odio e i pregiudizi contro gli ugandesi Lgbtqia+ e i loro sostenitori”. La legge sembra avere di un ampio sostegno popolare in Uganda o almeno c’è stata poca opposizione nel Paese dove l’omofobia è diffusa come nel resto dell’Africa orientale e Museveni governa con il pugno di ferro dal 1986. E oggi la speaker del Parlamento di Kampala, Anita Annet Among, ha salutato la norma come un successo: “Abbiamo risposto alle grida del nostro popolo, alla sua preoccupazione. Abbiamo legiferato - ha scritto su Twitter - per proteggere la santità della famiglia”. *Portavoce di Amnesty International Italia