“La giustizia non è chiacchiera da bar ma stampa e politica creano allarmismo” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 maggio 2023 Parla Oliviero Mazza, ordinario di procedura penale alla Bicocca. I difensori Andrea Pieri e Gabriele Parrini, legali di Gianluca Paul Seung, il 35enne di Torre del Lago (Lucca) accusato di omicidio premeditato per l’aggressione mortale alla psichiatra Barbara Capovani, sono stati aggrediti verbalmente sui social da parte di molti hater che li hanno accusati di difendere l’uomo, facendo la solita assimilazione tra difensore e assistito. Ne parliamo con il professore avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Milano- Bicocca, da poco entrato a far parte della Commissione di studio per la riforma del processo penale, istituita dal ministro Carlo Nordio e che sostituisce il precedente tavolo tecnico. Professore, siamo alle solite? Purtroppo sì. Non si comprende che il difensore svolge un ruolo essenziale nel processo e per la giurisdizione che è quello di essere il garante dei diritti processuali dell’imputato. Invece viene identificato con il suo assistito e con la sua posizione. In questo specifico caso l’imputato ha il diritto di vedersi prosciolto proprio per mancanza di imputabilità. Il difensore non sta facendo altro che garantire il giusto processo al suo assistito. In Italia dobbiamo fare un salto culturale e comprendere che il difensore è un elemento imprescindibile della giustizia penale, il cui compito è quello di difendere i diritti processuali che spettano a chiunque. Secondo lei è davvero possibile questo salto culturale, considerata la vastità del fenomeno? A mio parere è possibile partendo dalla versione che i media danno della vicenda. La stampa deve farsi parte diligente e assumersi anche la responsabilità civile di rappresentare il ruolo del difensore per quello che è scritto nella Costituzione. Quest’ultima non parla espressamente di difensore, tuttavia la difesa è prevista dall’articolo 24 comma 2 (“La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, ndr). E non scordiamo il 111 che garantisce il giusto processo nel contraddittorio delle parti. I media devono essere in grado di spiegare che la funzione del difensore non è quella di garantire l’impunità del suo assistito o usare escamotage per ledere gli interessi delle vittime. Egli è il garante della legalità processuale, del rispetto dei diritti dell’imputato. Poi si può anche discutere della previsione di non condannare chi è incapace di intendere e volere, principio di civiltà giuridica che nessun Paese ha messo in discussione, ma con questo la figura del difensore non c’entra nulla perché garantisce l’esatta applicazione della legge nell’interesse del suo assistito. Lei crede che alla base ci sia anche l’equivoco per cui la verità processuale debba necessariamente corrispondere a quella storica? Sicuramente sì. E le dirò di più: l’opinione pubblica tende a credere che la verità processuale sia solo quella rappresentata dalla pubblica accusa. Al contrario, essa scaturisce dal confronto dialettico tra pubblico ministero e avvocato difensore, che poi verrà cristallizzato in una sentenza. Sono principi elementari ma nel nostro Paese purtroppo siamo all’anno zero della civiltà giuridica. Quindi occorre ricostruire anche un sistema di narrazione corretta di quello che è il processo penale in un Paese democratico. La deriva che abbiamo preso non mi preoccupa solo da giurista, ma anche come cittadino, di chi tiene ai valori di una sana democrazia. Professore, mi corregga se sbaglio: qualora fosse ritenuto non imputabile non andrebbe in carcere ma in altra struttura, privato dunque della libertà personale, dove potrebbe paradossalmente restare rinchiuso più anni rispetto a quelli comminati con una condanna all’ergastolo. Perché questo non basta ma si pretende il carcere? Perché si vuole creare l’allarme sociale, prodromico alle riforme sempre più restrittive e punitive. Non esiste da parte di una certa stampa la volontà di dare una visione equilibrata del fenomeno. Invece c’è l’interesse opposto: creare allarmismo. Lei imputa molta responsabilità alla stampa. E la politica forcaiola? Si tratta di un circuito vizioso: l’allarme sociale determinato da certa informazione giustizialista poi si va a riflettere nelle scelte del legislatore. E la politica, che deve giustificare le sue decisioni, può anche avere l’interesse ad innescare questo corto circuito. Quindi l’input potrebbe partire anche da alcune forze politiche. Molto spesso si parla di cultura della giurisdizione. Ha anche lei a volte la percezione che per qualcuno all’interno della magistratura l’avvocato non vi appartenga? Certamente. Esiste una concezione autosufficiente e autoreferenziale della giurisdizione per cui si ritiene che l’intervento del giudice e del magistrato requirente sia più che sufficiente per ottenere il risultato della giustizia. Invece la cultura del giusto processo è quella del contraddittorio. Senza la difesa non può esserci un processo. La magistratura ha questa tendenza a rappresentare la giurisdizione solo con gli interventi degli organi dello Stato ma non è così in nessun Paese liberale e democratico. Poi non dimentichiamo che c’è questa posizione asimmetrica dello Stato che accusa un individuo: quindi non possiamo fare a meno del soggetto che garantisce i diritti di chi viene accusato. Altrimenti quella asimmetria diventa schiacciante e intollerabile. Questo salto culturale non dovrebbe vedere uniti avvocatura e magistratura giudicante? In fondo quando un giudice derubrica o assolve viene aggredito come gli avvocati... Anche in questo caso sono d’accordo con lei. Ci sono delle resistenze da vincere soprattutto nella magistratura inquirente. Torniamo alla vecchia questione della netta separazione degli ordinamenti tra giudicanti e requirenti. Ma al di là di questo occorre che l’operazione culturale sia molto importante e che la magistratura, nel suo insieme, si impegni nel comunicare meglio all’esterno, disinnescando sul nascere quel corto circuito a cui facevamo riferimento. Lei condivide il fatto che alcuni avvocati presentino querela contro coloro che sui social li hanno aggrediti per la loro funzione? Tendenzialmente non credo nell’intervento repressivo su tutte le manifestazioni delle opinioni, anche quelle più becere e censurabili. Credo che sia fondamentale, anche attraverso l’uso dei social, porre un freno a quel processo social- mediatico, che non ha nemmeno il minimo filtro rappresentato dai professionisti dell’informazione. Occorre davvero fare un ragionamento a 360 gradi sulla possibilità di garantire un uso corretto di questa tribuna pubblica che sono i social media e al tempo stesso, però, non pensare solo ad interventi repressivi, perché credo che in ogni caso entrino in conflitto con i principi di libertà di una vera democrazia. Ancora una volta la vera soluzione è quella dell’approccio culturale, non solo repressivo, ma anche formativo. Al tempo stesso bisogna far sì che chi gestisce questi contenitori crei dei filtri che impediscano la celebrazione del processo social- mediatico, in quanto la giustizia è una questione troppo seria da esser trattata in modalità “chiacchiera da bar”. Le stragi di mafia sono tragedie ancora vive, ma è stato ignorato il dolore dei familiari di Giancarlo Caselli La Stampa, 29 maggio 2023 Se la mia scrittura si avvicinasse almeno un po’ a quella “netta, chirurgica, realistica” che Andrea Camilleri attribuisce (nel libro “Come la penso”) al giudice Dante Troisi, la nomina del presidente della nuova Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo, saprei forse descriverla con qualcosa di più rispetto alle semplici parole - incredulità e sconcerto - che la vicenda mi suggerisce. Lasciamo perdere la vecchia storia della “moglie di Cesare”. Lasciamo perdere la mancanza di esperienza specifica perché (a voler essere generosi) non si nasce “imparati”. Lasciamo perdere la presuntuosa sovrapposizione della nomina all’anniversario di Capaci. Lasciamo stare la strampalata tesi che la Commissione non avrebbe nessuna rilevanza. Prendiamo invece le forti critiche sollevate da una lettera dei familiari delle vittime, indignata quanto argomentata, pubblicata dal “Fatto”; cui sono seguite le proteste - in perfetta sintonia - di Salvatore Borsellino, Giovanni Impastato, Paolo Bolognesi (strage della stazione di Bologna), Manlio Milani (strage di piazza della Loggia a Brescia) e di Libera, l’Associazione di associazioni che coinvolge migliaia e migliaia di persone. Perché non tenere nel dovuto conto queste prese di posizione, che esprimono trepidazione e dolore per tragedie ancora vive nel ricordo, e nel contempo rimaste spesso senza risposte di verità e giustizia, significa di fatto dare prova di scarsa sensibilità e di indifferenza, come se qualcuno fosse anacronisticamente tentato di riesumare il cliché del “noi tireremo diritto”. Un’antimafia “penitenziale” che dia sofferenza ai familiari delle vittime sarebbe un ben strano ircocervo. Anche per una certa incoerenza col conclamato e lodevole proposito di ispirarsi alla memoria di Paolo Borsellino, posto il suo monito che la lotta alla mafia deve essere un movimento che “coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà” contrapponendosi anche alla “indifferenza”. La mia esperienza professionale mi ha portato a incrociare varie Commissioni parlamentari antimafia, ora positivamente ora no. Per esempio la Commissione Violante approvò (sostanzialmente alla unanimità) una Relazione sui rapporti tra mafia e politica che esprime valutazioni e giudizi di forza tale che mai si era sentita prima né mai sarà ripetuta dopo. Di speciale interesse la distinzione fra responsabilità penale e politica. La seconda “si caratterizza per un giudizio di incompatibilità fra una persona che riveste funzioni politiche e quelle funzioni, sulla base di determinati fatti, rigorosamente accertati, che non necessariamente costituiscono reato, ma che tuttavia sono ritenuti tali da indurre a quel giudizio di incompatibilità. La responsabilità politica richiede precise sanzioni, rimesse all’impegno del Parlamento e delle forze politiche, e consistenti nella stigmatizzazione dell’operato e nei casi più gravi nell’allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate”. Principi che - se fossero sempre applicati con coraggio e rigore - aggredirebbero le radici stesse di quel male che Dalla Chiesa definiva il polipartito della mafia. Francesco Forgione fu autore di una Relazione specificamente mirata sulla ‘ndrangheta: pagine motivate con rigore sulla presenza della ‘ndrangheta al Nord e sul suo intreccio torbido con pezzi dell’amministrazione e della politica, realtà a quel tempo ancora ostinatamente negate con miope disinvoltura da fior di politici e commentatori. Rosy Bindi, dando una prova straordinaria di vicinanza e attenzione, riunì la Commissione in un bar di Torino sequestrato alla ‘ndrangheta dove venivano programmate le attività delinquenziali delle ‘ndrine. Per contro il presidente dell’antimafia Roberto Centaro arrivò al punto di sostenere pubblicamente, all’indomani della sentenza della Corte d’appello di Palermo nel processo Andreotti, che “il grande dibattito mediatico che si è sovrapposto e ha sostituito il processo”, ha portato “a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato (corsivo mio) dalle pronunce giurisdizionali”. In queste parole la verità non era per niente di casa. Tant’è che il presidente della sezione che aveva pronunciato la sentenza, poi confermata in Cassazione, che dichiarava Andreotti responsabile del reato di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo commesso fino all’estate 1980 (reato commesso, anche se prescritto), si sentì obbligato a prendere posizione con un duro comunicato Ansa - cosa a mia memoria mai successa - con il quale le fantasiose tesi del senatore Centaro venivano respinte con argomentazioni inattaccabili, mentre il disinvolto “innocentista” veniva invitato… a leggersi la sentenza. Tirando le fila, si vede bene che il presidente della Commissione antimafia, per essere adeguato e non deludere le migliori aspettative, deve avere caratteristiche che ne garantiscano la capacità di resistere alle ragioni di fazione che cercassero di insinuarsi nella sua attività. Con totale autonomia rispetto a chi volesse farle valere. Siracusa. Detenuto di 42 anni muore suicida di Francesco Mantia La Sicilia, 29 maggio 2023 Un nuovo dramma si è consumato nelle carceri siciliane. Nella casa circondariale di Siracusa un uomo di 42 anni, della provincia di Palermo, ha compiuto il gesto estremo mentre si trovava da solo in cella. L’episodio è avvenuto nel primo pomeriggio e ad accorgersi del fatto sono stati due detenuti, che con il dirigente sanitario, hanno tentato invano di rianimare la vittima con un massaggio cardiaco. Il detenuto era giunto da qualche giorno all’istituto di pena siracusano, trasferito dal carcere di Brucoli per trovare maggiore tranquillità. “Parlando con i suoi compagni di cella - spiega il Garante dei detenuti della casa circondariale, Giovanni Villari - non ci sarebbe stato alcun segno premonitore. Sembrava sereno e, poco prima di ritirarsi nella stanza, aveva anche fatto la spesa nello spaccio”. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta per questo nuovo caso di suicidio tra le sbarre che si aggiunge alla morte di due detenuti a seguito dello sciopero della fame che avevano inscenato nel carcere di Augusta e al tentativo di suicidio di un altro detenuto sempre nella Casa di reclusione megarese. Si tratta del terzo morto nel giro di trenta giorni negli istituti di pena della provincia aretusea. Intanto, per i due casi di Augusta, il ministro per la Giustizia, Carlo Nordio, ha annunciato doverose attività ispettive per verificare quanto avvenuto. Rispondendo a un’interrogazione del senatore Antonio Nicita, il Guardasigilli ha detto: “Non sono emersi deficit dei doveri a cui è tenuta l’amministrazione penitenziaria ma vi sarebbero pluralità di competenze”. Il siciliano Z.L.D. aveva inscenato uno sciopero della fame 27 febbraio ritenendo di essere detenuto ingiustamente ed è morto il 24 aprile dopo il ricovero in ospedale. Il ministro ha detto che accusava problematiche di natura psichiatrica tanto che il magistrato di sorveglianza aveva chiesto il trasferimento temporaneo al carcere di Barcellona ed era in attesa dì posto letto. Il cittadino russo P.B., aveva intrapreso la protesta dal 26 marzo per la mancata estradizione; il 2 maggio era stato ricoverato all’ospedale di Siracusa dove è deceduto il 9 maggio. “Sono in corso accertamenti ha detto il ministro della Giustizia - per stabilire le cause del decesso”. “Questi episodi - ha commentato Villari - rappresentano una sconfitta perché non ci accorgiamo del malanno interiore vissuto da alcuni detenuti”. Caserta. Il progetto sui detenuti dell’Asi sbarca all’Onu di Federico Di Bisceglie formiche.net, 29 maggio 2023 Da Caserta alle Nazioni Unite. Il progetto di integrazione lavorativa della popolazione detenuta diventa una “best practice”. Le visite delle delegazioni Onu e il riconoscimento del ministero della Giustizia. Conversazione con Raffaela Pignetti, presidente del consorzio Asi. Dal buio della reclusione alla luce del riscatto. Non esistono i miracoli, ma ci sono storie straordinarie che aiutano a dipingere una prospettiva di speranza. Se è vero che il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni in cui vive la popolazione detenuta, si può dire che quella di Caserta ha avuto fortuna. Si chiama “Mi Riscatto per il futuro”, ed è un progetto che consente di promuovere e realizzare un percorso di reinserimento sociale e inserimento nel mondo del lavoro dei soggetti detenuti, impiegandoli in attività di lavoro di pubblica utilità. Alla base di tutto c’è un protocollo d’intesa sottoscritto nel dicembre 2019 tra il consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale della provincia di Caserta, il dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria-ministero della Giustizia, il provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Ora il progetto è diventata una “best practice” europea, attenzionata all’Onu. L’artefice di questo piccolo squarcio di fiducia è Raffaela Pignetti, presidente del consorzio Asi. Presidente Pignetti, le Nazioni Unite stanno attenzionando il progetto prendendolo a modello. Ma riavvolgiamo il nastro, partendo dai numeri. Quanti detenuto ha coinvolto il progetto? Il progetto è in piena fase esecutiva, ha già visto il completamento di due cicli dei percorsi formativo-professionali presso gli Istituti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere, Carinola e Aversa; percorso cui è seguito l’avviamento dei progetti così come previsti nel Piano di Lavoro. Tra il 2020 e il 2021 è partita la prima fase. Sono stati avviati 56 detenuti ai corsi di formazione professionale teorica e pratica. A termine del ciclo formativo i detenuti che hanno ottenuto la certificazione hanno svolto lavori di pubblica utilità nelle aree industriali. Nel 2022 si è svolto il secondo ciclo formativo che ha coinvolto altri 45 detenuti. Da alcune settimane sono operative le nuove squadre di lavoro nelle aree industriali. Quali sono le attività che sono state messe in campo dai detenuti? Il programma dei lavori è stato stabilito dal tavolo tecnico di coordinamento e programmazione permanente, con i rappresentanti degli Enti sottoscrittori del protocollo e i dirigenti degli Istituti penitenziari coinvolti per l’attuazione dei programmi. Il consorzio Asi Caserta ha redatto le linee guida e il Piano Lavoro degli interventi e delle attività previste: manutenzione del verde e delle sedi stradali, valorizzazione dei territori ricadenti nell’area industriale della provincia di Caserta. Le aree di intervento sono gli agglomerati industriali di Marcianise-San Marco, Caserta, Ponteselice, Aversa Nord e Volturno Nord. La rieducazione coglie, peraltro, un principio costituzionale che spesso in Italia è calpestato... Sì, infatti questo è a ben guardare il senso profondo del nostro progetto. Per la verità si tratta di rispettare semplicemente ciò che sta scritto in Costituzione. Anche se, date le condizioni in cui versano gran parte delle carceri italiane, spesso non si ottemperano a questi principi. Come è arrivata l’attenzione dell’Onu? Abbiamo avuto due visite di delegazioni Onu: quella di Vienna e la seconda di Città del Messico, luogo nel quale abbiamo avviato un interessante progetto di per la realizzazione di pannelli fotovoltaici, beneficiando della collaborazione con Enel. L’Onu ha valutato il “modello Asi Caserta” come possibile best practice di sviluppo sostenibile, promozione della cultura della legalità e di cooperazione pubblico-privato esportabile a livello internazionale. Ecco, l’altro punto di forza è senz’altro la collaborazione proficua tra pubblico e privato. Qual è stato il percorso sotto questo profilo? C’è stato un grande sforzo in particolare da parte delle imprese casertane che, malgrado i pregiudizi, si sono dimostrate molto aperte nell’accogliere i detenuti e integrarli nelle attività lavorative. Il lavoro è stato, in una certa misura, anche di tipo culturale: abbiamo dimostrato agli imprenditori che la popolazione detenuta è potenzialmente una risorsa. A maggior ragione in un momento storico nel quale la manodopera scarseggia. Napoli. Detenuti a Pompei e Stabiae per progetti utili: “La cultura rieduca” ilcorrierino.com, 29 maggio 2023 Detenuti impegnati a Stabiae e Pompei per la manutenzione del verde e altri progetti di pubblica utilità. Il Parco di Pompei, pilota della Convenzione per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità presso i siti archeologici, sottoscritta nel 2021 con il Tribunale di Torre Annunziata. A due anni dalla sottoscrizione, il bilancio dell’esperienza per il Parco, il Tribunale e l’Uiepe è più che positivo. Sinora sono venticinque gli imputati inseriti in attività di pubblica utilità. Ciò si è reso possibile grazie all’istituto della ‘messa alla prova’ (art. 168 bis c.p.), che consente a chi abbia commesso reati di limitata gravità di sospendere il procedimento penale e di “mettersi alla prova” - appunto - svolgendo una prestazione non retribuita di pubblica utilità, al termine della quale, se l’esito è positivo, il reato viene estinto. La convenzione - la prima stipulata in Italia da un Parco archeologico, su iniziativa dell’allora Direttore del Parco, Massimo Osanna e del Presidente del Tribunale di Torre Annunziata Ernesto Aghina; vi hanno poi fatto séguito altre sottoscrizioni in altrettanti siti culturali - dura cinque anni ed è rinnovabile. Essa permette l’acquisizione di prestazioni lavorative funzionali ad un utile pubblico in un contesto di peculiare valenza culturale: circostanza che dovrebbe auspicabilmente accentuare la finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. persone accolte al Parco sono state assegnate ad attività di vario genere, nei diversi uffici (biblioteca, personale, comunicazione e, in particolare, manutenzione del verde) e nei vari siti archeologici di competenza (Pompei, Stabia, Boscoreale, Oplontis). La procedura di attivazione dei lavori di pubblica utilità prevede una richiesta formale al Parco da parte degli avvocati per i loro assistiti, un colloquio conoscitivo per definire competenze, titolo di studio e attitudini in vista dell’assegnazione all’ufficio e al tutor di riferimento, l’attivazione delle assicurazioni INAIL e al termine delle attività una relazione di esito, relativa al lavoro svolto e alla condotta mantenuta. Il tutto in accordo con l’Uiepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) per la Campania che affianca e supporta il Parco nelle varie fasi. Coloro che hanno già terminato il percorso hanno altresì concluso positivamente anche il loro iter giudiziale. Pochissimi i casi di rigetto o sospensione delle candidature al Parco. “Questo progetto si sta confermando quale iniziativa di grande valore per la comunità. - dichiara il Direttore generale, Gabriel Zuchtriegel - Considerato il breve tempo di permanenza presso le nostre strutture, che prevede non più di 4 ore a settimana per 6 mesi o un anno al massimo, abbiamo riscontrato un grande coinvolgimento nelle attività proposte. In particolare, nei lavori all’interno dell’area archeologica, come nel caso della manutenzione del verde e dunque a più diretto contatto con il patrimonio culturale, c’è stato un riscontro particolarmente concreto sia nel contributo reso, che nella partecipazione. Questo ci fa piacere perché dimostra quanto la cultura, attraverso le istituzioni museali, può avere un ruolo importante nelle attività di rieducazione e riabilitazione sociale, ma anche semplicemente di avvicinamento al patrimonio culturale. “ “L’applicazione del lavoro di pubblica utilità quale sanzione sostitutiva della pena - dichiara il Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, Ernesto Aghina - costituisce una novità legislativa ormai affermatasi nel sistema processuale penale che coniuga alla riduzione del ricorso alla pena carceraria la possibilità per il condannato di responsabilizzarsi e risocializzarsi, garantendo al contempo alla collettività la percezione di un concreto “vantaggio” sociale. Prestare attività lavorativa all’interno dei siti archeologici del circondario consolida la tendenza di avvalersi dell’arte nella rieducazione carceraria, esportandola anche al di fuori degli istituti penitenziari. I siti archeologici interessati hanno indubbiamente una propria identità irripetibile e universale, ma essi sono anche e soprattutto riconoscibili ed identificabili nella loro valenza simbolica. Rieducare nella bellezza può costituire lo slogan per caratterizzare “i nuovi giorni di Pompei”. “La bellezza e gli oppressi”. L’esperienza della convenzione per i lavori di pubblica utilità tra il Tribunale di Torre Annunziata e il Parco archeologico di Pompei - dichiara il Direttore dell’Uiepe per la Campania, Claudia Nannola - anche simbolicamente ci evoca che sperare nella bellezza permette di sondare lo spazio del cambiamento possibile, allargando le prospettive sul reato, sulla pena e sul concetto stesso di fare giustizia e così dare uno sguardo più lungo e aperto sulla funzione del servizio pubblico. Ecco il punto di incontro tra mondi apparentemente lontani: la giustizia, per incrementare la sua capacità di dare un senso ai percorsi penali, deve interessare la comunità, in un’osmosi di reciproca utilità, in modo che la ricaduta di benessere possa estendersi a tutta la cittadinanza. D’altronde la stessa Carta Costituzionale impone di immaginare e sperare e quindi tendere, verso un mondo migliore.” Airola (Bn). I detenuti e il lavoro come fonte di speranza: convegno all’Ipm ottopagine.it, 29 maggio 2023 Organizzato da Rotary Club Valle Caudina, in programma domani all’Istituto penale minorile. “La dignità del lavoro per ridarti speranza”: è il titolo del convegno, organizzato dal Rotary Club Valle Caudina, in programma lunedì 29 maggio, alle 9.30, nel teatro di corte dell’Istituto penale minorile di Airola. Attenzione puntata sul rientro nella società attraverso percorsi formativi e lavorativi dentro e fuori le carceri, sui vantaggi della legge Smuraglia che promuove l’attività lavorativa dei detenuti con agevolazioni fiscali e contributive in favore di aziende e cooperative che impiegano persone detenute, sulle possibili connessioni con il mercato del lavoro e i piani di integrazione sociale. I saluti saranno affidati a Poalo Pizzo, presidente Commissione distrettuale ‘Seconda chance’, Gina Mazzariello, presidente Club valle caudina, Vincenzo Falzarano, sindaco di Airola, Marianna Adanti, direttrice dell’Ipm di Airola, Carmela Ianniello, direttrice Ussm Napoli, Luiciano Lucania, past governatore Distretto 2010, Angelo Di Rienzo, governatore designato, Antonio Brando, governatore nominato, Ugo Oliviero, governatore eletto Distretti 21’01, Alessandro Castagnaro, governatore Distretto 2101. Alfredo Ruosi, past president Rc Napoli Castel dell’Ovo presenterà il progetto distrettuale, le relazioni e le interazioni con il pubblico saranno curate da Rita M. a. Mastrullo, prorettore Università Federico II, Costantino Cordella, ricercatore di diritto del lavoro, e Silvana Clemente, consigliere della Corte di appello di Salerno. Conclusioni di Alessandro Castagnaro, governatore Distretto 2101, nel pomeriggio una visita guidata al Museo archeologico del Sannio Caudino. Lanciano (Ch). Premiazione del concorso “Lettere d’amore dal carcere” chietitoday.it, 29 maggio 2023 Il concorso ideato nel 2013 e avviato in maniera spontanea, con pochi mezzi a disposizione, ha suscitato grande interesse, tanto che nelle edizioni precedenti ha raccolto oltre 2.000 opere dagli istituti di pena di tutta Italia. Martedì 30 maggio, alle ore 10, al teatro Fenaroli di Lanciano, è in programma la cerimonia di premiazione della decima edizione del concorso Lettere d’amore dal carcere, riservato ai detenuti degli istituti di pena italiani. L’evento è organizzato dalla direzione della casa circondariale di Lanciano e dall’associazione culturale Nuova Gutemberg, con il patrocinio del Comune. L’iniziativa mira a valorizzare l’affettività dei detenuti, espressa ancora tramite le lettere cartacee, ormai residuale strumento di espressione e comunicazione nel terzo millennio, a invogliare i detenuti a fare una riflessione rispetto a “soggetti e oggetti d’amore” che li hanno coinvolti affettivamente, sentimentalmente, emotivamente, nel corso della loro esistenza e a suscitare turbolenze emotive soprattutto nell’ampio pubblico che intercetterà l’evento e/o il suo prodotto. Il concorso ideato nel 2013 e avviato in maniera spontanea, con pochi mezzi a disposizione, ha suscitato nei detenuti un grande interesse, tanto che nelle edizioni precedenti ha raccolto oltre 2.000 opere dagli istituti di pena di tutta Italia. Nel 2014, il concorso è stato insignito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano della medaglia per alto valore dell’iniziativa e il libro che ne è scaturito è stato presentato al Senato della Repubblica Italiana, all’università d’Annunzio e in tante manifestazioni e festival. I lavori sono stati valutati da una commissione sinergica di professionisti e i risultati verranno resi noti durante lo spettacolo del 30 maggio. Il premio prevede tre riconoscimenti in denaro, rispettivamente del valore di 300, 200 e 100 euro. La manifestazione condotta da Carmine Marino è stata ideata da Tonino Di Toro, ideatore e divulgatore del concorso, con il supporto di Mario Silla, direttore della casa circondariale di Lanciano. I temi delle lettere che verranno presentate sono ravvisabili nelle motivazioni che la giuria ha addotto per ognuna di esse; di interesse profondo è il tema del suicidio nelle carceri preso in considerazione dalla lettera terza classificata. Nel 2022, sono stati 84 i suicidi registrati in carcere: un problema di cui si è presa coscienza soprattutto grazie all’associazione nazionale “Sbarre di Zucchero”. La lettera prima classificata arriva dal carcere di Volterra, si intitola “Carissimo amore” ed è firmata da Zorba; la seconda è Daniela Falcone, detenuta del carcere di Reggio Calabria, intitolata “Angelo Mio”; terzo classificato Cosimo Taglio, recluso a Matera, con “Per chi la fa finita...”. “Dal chiuso di una cella - dicono i giudici - si può anche fuggire con la fantasia ogni volta che l’amore illude con la speranza. Soltanto questo sentimento riesce a lenire il dolore, scansare le paure, assecondare il desiderio di una nuova vita, dopo aver riconosciuto lo sbaglio commesso e accettata la sua espiazione. È questo stato di grazia che spinge ad angelicare la donna amata e a tramutare in positivo le negatività in uno scotto consapevole. Così, parole uguali si ritrovano nelle varie lettere a raccontare il tempo da trascorrere in prigione, a immaginare che oltre le grate ci sia un mondo senza recinti ove camminare liberi e tornare nelle case accolti sempre dall’amore di una madre che perdona e da una donna fortemente idealizzata. Con stupore, il linguaggio è appropriato e ci meraviglia per i guizzi arguti, tipici di una consuetudine alla lettura, così che a volte sembra di ritrovare gli incipit di una cultura scolastica. Sono dialoghi a una voce per non impazzire nel silenzio, sono sospensioni di chi è chiuso in una sorta di “bolla”, sono le confessioni degli errori commessi e il desiderio di poter tornare con un colpo di spugna a credere che sia possibile vivere di una semplicità appagante, chinando la testa a chiedere perdono. Ma è impossibile non domandarsi leggendo queste lettere: “Fuori chi c’è? La vita degli altri si fa carico ancora di chi è recluso? Forse non è più duro, per chi è libero, sopportare il peso del vissuto quotidiano a compiere gli obblighi verso ciò che era e non è più?”. Quest’anno nell’ambito della stessa manifestazione, verranno premiati i ragazzi delle scuole superiori di Lanciano che hanno partecipato al concorso: “Catturiamo le emozioni e liberiamo l’amore”. Torino. Detenuti si esibiscono al Salone del Libro nello spettacolo teatrale “Fahrenheit 45” primailcanavese.it, 29 maggio 2023 Quindici persone detenute ad Ivrea hanno portato in scena la replica dello spettacolo “Fahrenheit 451” che avevano già presentato al teatro Giacosa di Ivrea. Un momento di pura magia si è svolto nel cuore del Salone del Libro, quando quindici detenuti di Ivrea hanno presentato una replica commovente dello spettacolo teatrale “Fahrenheit 451”. Nonostante le difficoltà legate all’ambiente rumoroso e all’assenza di microfoni personali, gli attori sono riusciti a trasmettere con forza la potente volontà di redenzione che anima il gruppo di pompieri che bruciano i libri, come descritto nel celebre romanzo di Bradbury. Un lungo applauso ha premiato il loro straordinario impegno. Un’iniziativa resa possibile grazie all’impegno di diverse figure - Dietro a questa performance di sessanta minuti si celano gli sforzi congiunti del Consiglio Regionale, rappresentato dal consigliere Gianluca Gavazza e dal Garante Bruno Mellano, che hanno aperto questa preziosa finestra all’interno di un evento di risonanza internazionale. Un ruolo fondamentale è stato svolto anche dai volontari penitenziari, che hanno dato avvio al progetto in collaborazione con Ivrea Città del Libro e hanno affrontato con determinazione le sfide e i numerosi ostacoli che si sono presentati lungo il percorso. Un impegno condiviso per il cambiamento e l’inclusione - Non possiamo dimenticare l’impegno e la volontà dimostrati dall’amministrazione penitenziaria, a partire dal Provveditore Rita Russo fino al Direttore Antonella Giordano, al Comandante e a tutto il personale coinvolto, che ha assunto la responsabilità di spostare quindici detenuti in un contesto tanto impegnativo come il Salone del Libro. È doveroso menzionare anche lo sforzo dei quindici protagonisti che, giorno dopo giorno, si sono alzati e si sono dedicati alle prove in un ambiente che di solito non favorisce la volontà di cambiamento. Nonostante ciò, hanno dimostrato grande determinazione e responsabilità. Un momento emozionante che tocca il cuore di una famiglia - Al termine dello spettacolo, un’orgia di applausi e ringraziamenti ha accompagnato il ritorno dei detenuti nelle loro celle. In particolare, si ricorda l’abbraccio commovente tra un padre detenuto e la sua bambina, sotto gli sguardi degli altri papà presenti, che non hanno fatto fatica a guardare altrove. Arezzo. Un convegno sulla Giustizia Riparativa all’interno dell’Acli Life Festival arezzonotizie.it, 29 maggio 2023 Un convegno per approfondire le opportunità della Giustizia Riparativa come strumento di reinserimento e pacificazione. L’iniziativa è promossa dalle Acli di Arezzo che, insieme alla sezione di Arezzo dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, hanno organizzato per le 17.30 di giovedì 1 giugno un’occasione di informazione e approfondimento su un delicato tema giuridico con la presenza della dottoressa Chiara Valori, giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano. Questa giornata, inserita nel calendario della rassegna Acli Life Festival, sarà ospitata dalla Sala Rosa del Comune di Arezzo e sarà a partecipazione libera per l’intera cittadinanza. La volontà è di dar vita a un confronto per far luce sulle più recenti frontiere dell’approccio della Giustizia Riparativa che fa riferimento alla risoluzione dei reati attraverso la partecipazione attiva della vittima, dell’autore dello stesso reato e della società, con l’aiuto di una terza persona. Questo strumento implica la progettazione di azioni positive con un forte spessore etico e di interventi di reinserimento che vanno oltre all’idea di risarcimento e di compensazione del danno, per gettare le basi per un futuro agire responsabile. L’argomento sarà trattato dalla dottoressa Chiara Valori, esperta sul tema con lezioni tenute anche in ambito universitario. L’evento sarà ulteriormente arricchito dalle parole del dottor Riccardo Scandurra (direttore amministrativo dell’Area Esecuzione Penale del Tribunale di Pistoia) e dell’avvocato Amedeo Stoppa (presidente dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati di Arezzo), prevedendo anche la presenza dell’Uiepe - Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna di Firenze. “La rassegna Acli Life Festival - commenta Luigi Scatizzi, presidente delle Acli - sta riunendo relatori di spessore nazionale per approfondire varie tematiche di stretta attualità: dopo previdenza e geopolitica, ora sarà la volta della Giustizia Riparativa che configura una nuova frontiera come strumento per pacificazione, costruzione di nuove relazioni e reinserimento sociale”. Cremona. Carcere, insieme di corsa detenuti e podisti Uisp di Alberto Guarneri laprovincia.it, 29 maggio 2023 Lo sport come strumento di inclusione e di scambio tra realtà diverse. È con questo spirito che è andata in scena nel carcere di Cremona, la diciottesima edizione della corsa podistica ‘Vivicittà Porte Aperte’, iniziativa nata per creare un momento di inclusione attraverso lo sport per tutti. Ad organizzarla è l’Uisp Cremona, con la partecipazione del gruppo podistico Dlf e di alcuni rappresentanti del Duathlon e Triathlon cittadini. Sei i chilometri sui quali si è snodato il tracciato all’interno del carcere, che ha visto sfidarsi circa 80 detenuti, oltre ad una quindicina di studenti di una quinta del liceo scientifico Aselli, accompagnati dal docente Luigi Galli, che hanno condiviso la corsa con i rappresentanti dei gruppi podistici e con l’assessore allo Sport Luca Zanacchi. All’arrivo Anna Feroldi, presidente di Uisp Cremona, ha dato il via alle premiazioni dei primi dieci classificati, effettuate proprio dall’assessore Zanacchi in compagnia di Rossella Padula, direttrice della Casa circondariale. “La Vivicittà Porte Aperte - spiega Feroldi - è l’evento clou di una serie di iniziative che abbiamo portato all’interno della struttura. La risposta è stata molto positiva: c’è stata sana competizione tra i ragazzi, che hanno interagito tra loro anche al di là della dinamica sportiva. C’è una sorta di scambio che ritengo molto utile, due mondi diversi che si approcciano e che si scoprono vicendevolmente”. Oltre a Vivicittà, per i detenuti l’appuntamento con lo sport è a cadenza settimanale: “Una volta a settimana - continua il presidente Uisp - i ragazzi praticano diverse attività sotto la guida di un istruttore. Il prossimo appuntamento sarà il 17 giugno, per il torneo di calcio”. Allarme povertà educativa: solo il 15% dei ragazzi legge di Flavia Amabile La Stampa, 29 maggio 2023 Lo studio della Fondazione L’Albero della Vita Onlus: pochi visitano musei. “Così peggiorano le loro capacità emotive e relazionali”. La povertà educativa e culturale in Italia è cresciuta e condiziona anche la capacità delle studentesse e degli studenti di immaginare il proprio futuro. Lo confermano i dati della seconda “Ricerca sulla povertà educativa in Italia”, realizzato da Fondazione L’Albero della Vita Onlus (Fadv) con la supervisione scientifica dell’Università degli Studi di Palermo, che saranno presentati oggi. Secondo l’indagine di Fadv, che ha coinvolto 454 beneficiari del programma nazionale di contrasto alla povertà “Varcare la soglia”, attivo a Milano, Perugia, Genova, Napoli, Catanzaro e Palermo, il 76% di chi ha partecipato alla ricerca non svolge alcuna attività ludico-ricreativa, il 43% non possiede a casa libri adatti alla propria età e al proprio livello di conoscenza. Il 53% non è mai stato al cinema nell’ultimo anno e il 78% non ha partecipato a visite al patrimonio artistico, culturale e ambientale. A praticare sport è solo il 17% del campione, mentre a leggere solo il 15%. Sono dati allarmanti che registrano in media un peggioramento rispetto all’anno precedente, sottolinea lo studio. Se si prendono in considerazione le cifre ufficiali sulla dispersione scolastica, gli ultimi dati non fanno che confermare questo quadro. “Il livello di povertà assoluta dei minori in Italia, non è mai stato così alto da quando viene svolta questa rilevazione”, sottolinea Impossibile, l’ultimo rapporto sulla povertà educativa realizzato da Save the Children. Sono più di un milione e 300mila i bambini in una condizione di povertà assoluta, il 13,6% dei minorenni. Era meno del 5% dieci anni fa. Soltanto nel 2019 si è registrata una diminuzione della percentuale dei minori in povertà assoluta per l’effetto dell’introduzione del reddito di cittadinanza). Il numero invece di coloro che si trovano a rischio povertà ed esclusione sociale (ovvero che vivono in famiglie con un reddito inferiore al 60% del livello mediano nazionale, o con genitori che hanno un lavorano saltuario, o che non possono permettersi di soddisfare alcuni bisogni essenziali) è di 2 milioni 725 mila, ovvero più di un minore su quattro, una delle percentuali più alte in Europa. Secondo i dati citati agli inizi di maggio dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, la situazione è in miglioramento. La percentuale di popolazione in età tra i 18 e i 24 anni che ha al massimo ottenuto il titolo di secondaria di primo grado nel 1992 era al 37,5%. Nel 2021, era calata al 12%, secondo l’Eurostat, una cifra superiore solo al tasso di abbandoni di Spagna e Romania. Analizzando i dati italiani si nota una forte disparità tra regioni e uno svantaggio molto accentuato nel Mezzogiorno. In Sicilia si arriva al 21%. Sono le due Italie di cui ha parlato anche il ministro annunciando il lancio di Agenda Sud con progetti in 150 scuole. Il fenomeno però è molto più ampio come mostrano i dati che saranno presentati oggi. Come spiega Isabella Catapano, direttore generale di Fadv, “il 50% degli intervistati non sa esprimere felicità quando capita qualcosa di bello, o gioire appieno dei propri successi (65%). Anche quando si tratta di esprimere liberamente il proprio entusiasmo in occasione di feste e incontri con gli amici il 67% non si sente capace di farlo”. “Insomma la povertà educativa ha, come diretta conseguenza, una mancata attivazione delle capacità e del talento di bambini e ragazzi”, continua Catapano. “Addirittura al peggiorare delle condizioni di povertà peggiorano anche le capacità emotive e relazionali del bambino. Infatti, se a non saper esprimere felicità in media sono il 50% dei bambini, la percentuale cresce all’81% se si considerano le fasce più in difficoltà. Stessa cosa se si considera chi è in grado di gestire frustrazione e rabbia (76% vs 91%)”. “L’unico argine a questo fenomeno e l’unica agenzia educativa in grado di abilitare questi giovani, facendogli scoprire le proprie capacità, e quindi insegnandoli la capacità di immaginare e sognare la possibilità di emanciparsi dalla propria condizione è la scuola”, sottolinea Simona Frassone, presidente di ScuolAttiva, “ma la scuola da sola non può e non riesce a farsi carico del problema”, avverte. Senza cultura non c’è libertà e senza parole siamo in balia di tutti di Michela Marzano La Stampa, 29 maggio 2023 Un italiano su due non è in grado di trovare i termini giusti per esprimere ciò che prova, solo la scuola ha il potere di cambiare il destino dei giovani, come predicava don Milani. Le parole non servono solo per mettere ordine nel mondo, servono soprattutto per nominare il dolore o la gioia, la vergogna o la felicità. Ma nessuno nasce imparato, come diceva mia nonna, che non era andata oltre la quinta elementare, ma allora erano altri tempi, e poi a casa sua i libri c’erano, e di tanto in tanto andava al teatro, e i figli e le figlie li fece studiare. Forse perché era una donna intelligente, anzi, lo era senz’altro, e aveva capito che l’educazione è sinonimo di libertà. Non conosceva don Milani, ma ne ha intuitivamente applicato i principi. E come eredità, ai figli e ai nipoti, ha lasciato il bene più grande: la possibilità di apprendere, e quindi di sviluppare talenti e aspirazioni. A cento anni dalla nascita di don Milani - che dell’istruzione e della scuola aveva fatto il motore delle sue idee di giustizia e di uguaglianza - però, l’indagine condotta dalla Fondazione Albero della Vita mostra come, nel nostro Paese, la povertà educativa non arretri affatto. Non solo e non tanto perché si legge poco, si praticano pochi sport, e sono rare le persone che visitano il patrimonio culturale e ambientale, ma anche perché un italiano su due non è nemmeno in grado di trovare le parole giuste per esprimere ciò che prova quando gli accade qualcosa di bello. Senza parole siamo poveri. Senza parole siamo tristi. Senza parole siamo in balia di qualunque evento e di chiunque. “Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi è già favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ha”, ha detto l’altro ieri il presidente Mattarella a Barbiana, in occasione dell’apertura delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Milani. Ma come si fa a dare nuove opportunità a chi non ne ha se non si punta tutto sulla scuola? Come si può immaginare di contrastare le discriminazioni legate alla povertà culturale, che è poi veicolo di povertà completa, se l’educazione viene sistematicamente dimenticata anche quando i soldi ci sono - le risorse del PNRR sono così tante che pare non si sappia nemmeno come impiegarle - mentre la scuola perde pezzi, la scuola arranca, la scuola è vetusta, la scuola sta fallendo? Mancano le parole, oggi. Manca la capacità di discernere e di argomentare. Mancano le basi solide di quella cultura che, prima ancora di essere privilegio, rappresenta le fondamenta stesse dell’edificio dell’esistenza. Inutile allora stupirsi di fronte al dilagare dell’odio e degli insulti: quando non si hanno le parole per esprimere ciò che si prova, si urla; e la collera agita, oltre a mietere inutili vittime, corrode dall’interno. Leggere un libro non serve a recitare qualche dotta (e inutile) citazione; serve a viaggiare, esplorare, scoprire, immaginare, sognare, costruire. Entrare in un museo o visitare una mostra non serve a vantarsi o a discettare; serve ad aprire all’interno di sé stessi spazi infiniti di possibilità, proiettandosi verso il futuro consapevoli dei progetti che si possono portare avanti. Anche le frustrazioni e il dolore che si attraversano pesano meno quando si riesce a nominarli, creando ponti verso gli altri e verso le proprie zone d’ombra. Ma, lo ripeto, il punto di partenza è sempre e solo la scuola; e i maestri e le maestre che si incontrano; e i professori e le professoresse che hanno il potere di cambiare radicalmente il destino di una persona. Inutile persino preoccuparsi dei pericoli dell’intelligenza artificiale se poi si abbandonano tanti giovani alla propria povertà culturale, perché allora sì che si rischia grosso, sì che l’umano può sbriciolarsi. “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo”, scriveva don Milani. “Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. E aveva ragione, aveva perfettamente ragione. Perché il pane, la casa e il caldo sono conseguenze della cultura, ossia della capacità di pensare, di criticare, di argomentare e di parlare. Le parole sono tutto. Ciò che non viene nominato non esiste nemmeno. Don Milani, Roccella e quella lezione di civiltà di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 29 maggio 2023 Ricordando don Milani, maestro di democrazia, il presidente Mattarella ha dedicato poche e secche parole per indicare che egli “cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico. Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere qualcuno a tacere, tanto meno - vorrei aggiungere - un libro o la sua presentazione”. Impossibile non coglierne il nesso con la contestazione che un gruppetto ha scatenato per zittire la ministra Roccella, che nel Salone del Libro si accingeva a presentare il suo libro Una famiglia radicale. Gli slogan lanciati in quella occasione, nella loro rozzezza, non esprimono ed anzi umiliano gli elementi di verità che possono esser propri delle posizioni che si volevano sostenere e promuovere. Ma soprattutto colpisce il rifiuto di sentire gli argomenti altrui, così rinunciando al rafforzamento che alle proprie convinzioni potrebbe derivare dal confronto con la debolezza mostrata dalle idee dell’avversario. Per avvalersene bisogna ascoltarne gli argomenti, valutarli, pensarci su. Udirli, prima di tutto, “da persone che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al massimo delle loro possibilità”, come insegnò J.S. Mill nel suo classico e intramontabile On Liberty (1859): per non “rinunciare a quella parte della verità che viene incontro all’obiezione e la elimina”. Chi non lo fa, non solo nega agli avversari il diritto di esprimersi, ma priva se stesso di occasioni di approfondimento delle proprie ragioni o di aggiustamento, adattamento, conferma o abbandono. E non si considera la differenza che corre tra l’utilità di ciò che si fa e la responsabilità politica che ne deriva, e il diritto di critica che, specialmente quando si rivolge contro chi detiene il potere politico, è tutelato dallo scudo costituzionale che protegge da querele e richieste di danni. Tira una brutta aria, non da ora, ma soprattutto adesso in questo tempo di cambio di maggioranza politica dopo le recenti elezioni. Troppo spesso e da ogni parte si leggono espressioni offensive o irridenti verso gli avversari, invece che contrapposizione di idee e proposte. Ogni minima ed enfatizzata circostanza diviene occasione di attacchi ad alzo zero. Per la parte che riguarda l’opposizione, mancano altre idee e proposte? Migliori e più accoglibili da parte della pubblica opinione? Il rischio è che, anche quando queste ci sono e sono in altra sede sviluppate, l’attenzione ne sia allontanata e l’impatto politico e intellettuale ne sia appannato. Eppure le ragioni di allarme, che richiedono vigilanza e seria denuncia, sono numerose. Le ripetute, gravissime cose dette da La Russa, presidente del Senato, ne sono manifestazione e c’è da sperare che non finiscano messe da parte per il sopravvenire di altri episodi. E il sistematico attacco alle istituzioni di garanzia, giudiziarie e non, con il rivolgimento in corso nella televisione pubblica ne è ulteriore esempio; da verificare e seguire quotidianamente, tanto grande è il suo effetto sulla formazione dell’opinione pubblica e dell’orientamento elettorale. Ma appunto la gravità e serietà dei motivi di denuncia e attenzione, offerti da chi ora esprime il governo e gestisce il vasto potere che gli appartiene, richiama anche chi si colloca all’opposizione alla necessità di non indebolire le proprie posizioni con il compiaciuto ricorso a parole e gesti offensivi, confondendoli con i necessari argomenti forti. E offrendo a chi è al potere il destro paradossale di presentarsi come vittima. Di clima si muore. L’appello di medici e scienziati italiani di Fabrizio Bianchi Il Domani, 29 maggio 2023 In occasione delle Giornate italiane mediche per l’ambiente (Gima) tenute a fine aprile, su iniziativa dall’Associazione medici per l’ambiente Italia (Isde) e dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (Aie) è stato lanciato un appello per accelerare azioni utili a ridurre l’inquinamento atmosferico e mitigare il cambiamento climatico. L’appello chiede alle autorità politiche di ascoltare la voce del mondo medico-scientifico preoccupato dell’acuirsi dei fenomeni di inquinamento e crisi climatica. L’appello chiede di prendere atto dei principali danni sanitari; di evitare nuove attività inerenti i combustibili fossili; di scartare soluzioni irrealistiche o illusorie. Sui temi dell’inquinamento, della crisi ecosistemica e del cambiamento climatico è da sottolineare l’impegno sempre più convinto e deciso delle organizzazioni scientifiche del comparto biomedico. In occasione delle Giornate italiane mediche per l’ambiente (Gima) tenute a fine aprile, su iniziativa dall’Associazione medici per l’ambiente Italia (Isde) e dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (Aie) è stato lanciato un appello per accelerare azioni utili a ridurre l’inquinamento atmosferico e mitigare il cambiamento climatico. Ad oggi hanno aderito la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), la Federazione delle società medico scientifiche italiane, la Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti, e numerose società medico-scientifiche oltre alle due promotrici (Società italiana di malattie infettive, di Medicina generale, di Nefrologia, di Neurologia, di Pneumologia, della Riproduzione Umana, di psico-neuro-endocrino-immunologia). L’appello chiede alle autorità politiche di ascoltare la voce del mondo medico-scientifico preoccupato dell’acuirsi dei fenomeni di inquinamento e crisi climatica, strettamente legati tra loro e che mostrano effetti ben visibili sulla salute, sia diretti sia indiretti, come la riduzione dell’efficacia delle terapie e il proliferare di condizioni più favorevoli allo sviluppo di malattie. Le prospettive - La presa di posizione parte dall’assunzione delle evidenze scientifiche maturate fino ad oggi e della consapevolezza che esistono azioni efficaci in grado di ridurre da subito malattie e mortalità legate all’inquinamento e alla crisi climatica, a proposito delle quali sono riconosciuti benefici e co-benefici. Per l’Organizzazione mondiale della sanità, l’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico rappresentano la minaccia più importante per la salute pubblica e il VI Rapporto dell’Ipcc (pubblicato il 20 marzo 2023) lancia l’ultimo campanello d’allarme per le drammatiche conseguenze a cui l’umanità andrà incontro non invertendo l’andamento crescente della temperatura media globale, con scenari gravi oltre 1,5 gradi (praticamente già raggiunti), gravissimi se si dovessero superare i 2 gradi o devastanti se si continuerà a correre verso i 3,5 gradi a fine secolo. Una sola salute - Certo a fronte della posizione condivisa dalla quasi totalità della comunità scientifica ci sono anche alcune voci negazioniste fuori dal coro, che d’altra parte esistono su tutto, e che talvolta vengono usate in modo strumentale o esagerato dai media fino ad assumere un ruolo palesemente sproporzionato; così come ci sono posizioni singolari e bizzarre, come quelle di chi definisce l’ambientalismo “noioso”, che magari è indicatore di una condizione fastidiosa causata da insistente disagio sulla tematica che si vorrebbe evitare ma che non è evitabile. Assumendosi invece la responsabilità deontologica e civile, le società scientifiche firmatarie hanno assunto l’approccio di “una sola salute” o “One health” basato sullo stretto collegamento e l’interdipendenza tra la salute degli esseri umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente in generale (compresi gli ecosistemi). Un modello di integrazione e collaborazione che mette al centro la prevenzione attiva delle cause delle malattie, oltre ed ancor prima delle azioni di resilienza e adattamento. Le richieste - L’appello chiede di prendere atto dei principali danni sanitari; di evitare nuove attività inerenti i combustibili fossili; di scartare soluzioni irrealistiche o illusorie; di promulgare una normativa che preveda l’addebito alle compagnie elettriche delle cosiddette “esternalità” (costi legati agli impatti sull’ambiente e sull’uomo, ora totalmente a carico della società civile); di accogliere le proposte europee relative al superamento degli autoveicoli inquinanti; di promuovere la transizione verso le energie rinnovabili e non verso il metano (anch’esso fossile e climalterante); di disincentivare la diffusione massiva del biometano e l’uso di biomasse; di promulgare una normativa che agevoli più speditamente ed efficacemente l’installazione di impianti per le fonti rinnovabili. Una buona base di impegno comune e un buon punto di partenza per svolgere con responsabilità e consapevolezza le attività di cura e promozione della salute verso i pazienti, che riguardano anche l’ambiente in cui viviamo e in cui vivranno le future generazioni, in sintonia con il codice deontologico dei medici curanti. Raggiunto l’accordo per la cooperazione giudiziaria sui più gravi crimini internazionali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 maggio 2023 Il 26 maggio a Lubiana, in Slovenia, è stato raggiunto l’accordo su un trattato in materia di cooperazione giudiziaria nei casi di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il testo è stato approvato per consenso al termine di due settimane di negoziati che hanno coinvolto delegazioni di oltre 70 stati, organizzazioni internazionali e gruppi della società civile. Rintuzzati in gran parte i tentativi d’indebolirlo, il trattato, la “Convenzione di Lubiana e dell’Aia sulla cooperazione internazionale in materia di indagini e procedimenti giudiziari sul genocidio, sui crimini contro l’umanità, sui crimini di guerra e su altri crimini internazionali”, conosciuto anche come Trattato sulla reciproca assistenza giudiziaria, descrive gli obblighi degli stati in materia di cooperazione giudiziaria ed estradizione nelle indagini su crimini di diritto internazionale. Il trattato riempie un vuoto nei rapporti tra diritto internazionale e giustizia internazionale chiarendo e sancendo i doveri e gli obblighi degli stati di assistersi vicendevolmente nei casi che riguardano crimini internazionali. È una sorta di “cassetta degli attrezzi” nella lotta contro l’impunità e rafforza il ruolo dei sistemi giudiziari nazionali nella punizione dei crimini oggetto della Convenzione. “In un mondo nel quale vi sono sempre più atrocità e tante vittime sono lasciate senza alcun rimedio giudiziario a disposizione, l’adozione di questa nuova Convenzione rappresenta uno storico passo avanti verso la giustizia”, ha dichiarato Fisseha Tekle di Amnesty International. Turchia. Sebahat Tuncel: “La mia vita da prigioniera politica di Erdogan” di Valentina Ruggiu La Stampa, 29 maggio 2023 Intervista esclusiva dal carcere alla politica curda e femminista in carcere dal 2016: ex deputa e co-presidente dell’Hdp è detenuta con l’accusa farsa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”. “Questo è il mio settimo anno di prigionia e il tempo che passerò qui dentro dipende solo dagli sviluppi politici. La giustizia in Turchia non esiste perché la legge viene piegata per opprimere i dissidenti”. Sono fogli scritti fitti quelli che Sebahat Tuncel, ex deputata curda del Partito democratorico dei popoli (Hdp), ci fa avere attraverso il suo avvocato dall’istituto penitenziario Sincar N.1 di Ankara in cui è rinchiusa. Curda, di sinistra, attivista per i diritti umani e civili, pioniera dei movimenti femministi turchi e curdi, questa pasionaria di 47 anni rappresenta tutto ciò che Recep Tayyp Erdogan e i suoi alleati di governo odiano. Un megafono per la voce degli oppressi e degli esclusi che Ankara prova a silenziare da decenni sempre con la stessa accusa: appartenenza a un’organizzazione terroristica, che nel linguaggio governativo significa affiliazione al Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Sbattuta per la prima volta in cella nel 2006, Tuncel ne è uscita nove mesi dopo da deputata. La prima a vincere un seggio dal carcere, ma anche la più giovane parlamentare della storia della Turchia. All’interno della Grande assemblea ha continuato a combattere per i diritti del suo popolo, quello curdo, delle donne e della comunità Lgbtq. E nella lista degli argomenti ‘sconvenienti’ bisogna aggiungere anche l’appello per il riconoscimento del genocidio armeno: tema ancora vietato in Turchia. Nel 2012 Tuncel è raggiunta da una seconda condanna, che non viene eseguita grazie all’immunità parlamentare. Un’immunità che non sarà più valida quando nel 2016, da co-presidente del Partito delle regioni democratiche, viene arrestata davanti al tribunale di Diyarbakir mentre manifesta contro l’arresto di alcuni deputati dell’Hdp. Le vengono inflitti 15 anni di pena in un carcere di massima sicurezza, quelli di tipo F, e da detenuta ora sta affrontando un nuovo processo partito nel 2021. Insieme ad altre 108 persone è imputata nel caso Kobane, montato su fatti accaduti nel 2014, quando in Turchia si sollevarono proteste contro l’inerzia del Governo davanti alla caduta della città curdo siariana di Kobane per mano dell’Isis. Tra i chiamati alla sbarra anche Selahattin Demirta?, incarcerato nel 2016, che con Tuncel convidide anche la carica di ex presidente dell’Hdp. Attraverso la sue parole prova a spiegarci la vita in carcere da prigioniero politico, il senso delle sue battaglie e il futuro della politica curda in Turchia. Prima di tutto, come sta? “Grazie per averci dato l’opportunità di far sentire la nostra voce in queste difficili condizioni. Come sto? Non so come rispondere a questa domanda. Dire che ‘sto bene’ non sarebbe veritiero date le condizioni in cui viviamo dentro e fuori dal carcere. Posso dire che sto bene di salute. Per farvi capire meglio mi limito a raccontarvi alcuni fatti da cui potete trarre da soli le vostre conclusioni. Per capire com’è la democrazia turca, basta guardarla: in questo paese la minima richiesta di diritti giustifica la detenzione. È per questo che migliaia di politici, attivisti, giornalisti ed esponenti del movimento curdo e delle donne sono tenuti ingiustamente e illegalmente come ‘ostaggi’ nelle carceri. E la politica anti-curda portata avanti dal Governo continua anche in prigione. Ad esempio quando il rilascio di centinaia di curdi viene rinviato o annullato con falsi pretesti, nonostante abbiano scontato gli anni di pena originariamente inflitti”. Come la trattano in carcere da detenuta politica? “Ci sono disparità. Ai detenuti ‘normali’ viene concesso il diritto al videotelefono di 30 minuti, ai prigionieri e detenuti politici invece una telefonata di 10 minuti. Ancora, gli altri detenuti in determinate circostranze hanno il diritto a 30 minuti aggiuntivi di telefono, mentre ai detenuti politici questo diritto non è concesso. In generale la vita quotidiana nelle carceri turche è una continua guerra e richiede molta forza di volontà. Siamo sottoposti a isolamento, una pratica iniziata sull’isola di Imrali e diffusosi poi in tutte le carceri. Specialmente con il Covid 19, i prigionieri politici sono stati messi in isolamento mentre i detenuti giudiziari sono stati rilasciati. In alcuni casi è imposta anche la doppia manetta, ovvero due prigionieri ammanettati l’uno all’altro. Non c’è abbastanza personale sanitario, l’alimentazione non è buona e dobbiamo fare i conti con le telecamere puntate h24 su di noi, compreso quando andiamo al bagno. Due principi sono validi nelle carceri in Turchia. Primo, lo Stato ha sempre ragione. In secondo luogo, se i detenuti hanno ragione, si applica il primo principio. Obiettare alle pratiche dell’amministrazione penitenziaria comporta il rischio di sanzioni disciplinari come la privazione della visita, la sospensione da determinate attività e vessazioni giudiziarie. Ho provato a battermi contro le ingiustizie in carcere. Sono stata condannata a 1 anno e 3 mesi”. Le viene permesso di tenersi aggiornata sugli avvenimenti elettorali di questi giorni? “Purtroppo non è possibile seguire appieno il processo elettorale o gli sviluppi politici, sociali ed economici in carcere. Possiamo seguire ciò che sta accadendo solo attraverso canali televisivi e giornali consentiti dal carcere, ovvero quelli filogovernativi. I giornali e le riviste di opposizione non ci sono perché “minacciano la sicurezza pubblica”. Cerchiamo di ottenere informaizoni attraverso le chiamate che riceviamo durante la visita o nei 10 minuti di chiamata a settimana che abbiamo a disposizione”. Per quanto tempo dovrà rimanere in carcere? “Non so per quanto tempo rimarrò qui ancora. In Turchia l’indipendenza del potere giudiziario, come quello esecutivo e legislativo, è scomparsa e la politicizzazione della magistratura ha rimosso ogni prevedibilità dei casi. Il 90% delle cause intentate contro i politici curdi si basano su motivi politici. Allo stato attuale, il sistema giudiziario turco ha portato noi curdi fuori dal “normale” sistema legale. I turchi hanno il diritto di fare politica, organizzarsi e agire, ma quando a farlo sono i politici curdi, specialmente se sono donne e giovani, allora vengono accusati di “appartenere a un’organizzazione terroristica”. La libertà di pensiero, di espressione, i diritti umani fondamentali ei diritti costituzionali vengono usurpati. Ecco perché io ei nostri ex co-presidenti HDP, parlamentari e co-sindaci municipali siamo stati ingiustamente tenuti in ostaggio da 7 anni”. È in carcere dal 2016, dopo una protesta a sostegno dei deputati HDP arrestati. Ora anche il processo per il caso Kobane. Tornasse indietro rifarebbe tutto? “In carcere, le persone hanno molto tempo per pensare, per mettere in discussione le loro azioni e rendersi conto di ciò che hanno fatto o non sono riusciti a fare. Ripensandoci, lo rifarei. Sì, sono stato arrestato per solidarietà. Stiamo subendo un processo perché chiedevamo solidarietà per la popolazione curda di Kobanê, che in quel periodo stava resistendo alla brutalità dell’ISIS. Il pubblico ministero chiede 7 ergastoli aggravati, 2 ergastoli e 134 anni di pena”. Lei è diventata per la prima volta deputata nel 2007, ma la sua carriera politica è iniziata alla soglia dei 20 anni. Cosa l’ha spinta a impegnarsi politicamente? C’è stata una figura che l’ha ispirata? “Sono nata e cresciuta in una famiglia politicamente impegnata. Alcuni membri della mia famiglia sono stati detenuti e torturati durante il colpo di stato militare fascista del 12 settembre 1980. Inoltre sono cresciuta in un ambiente impregnato della tradizione curda, alevita e di sinistra, questo ha naturalmente giocato un ruolo fondamentale nel determinare come sarebbe stato il mio percorso. In particolare negli anni 90, la politica statale di negazione, distruzione e assimilazione nei confronti del popolo curdo, l’evacuazione di migliaia di villaggi e la migrazione forzata di milioni di curdi, mi ha portato a sviluppare una coscienza politica curda. In questo percorso mia zia, che studiava all’università di Istanbul, si è unita alla guerriglia, e la mia attenzione per le idee marxiste socialiste mi ha portata a prediligere la visione di una società senza classi e sfruttamento. Poi l’incontro con gli studi femministi e l’inizio del mio lavoro in una commissione dedicata in quartiere di Istanbul”. Se dovesse vincere l’opposizione, crede in una svolta per la questione curda? “Per risolvere il problema curdo, prima di tutto, dovrebbero essere analizzati bene gli ultimi 200 anni di storia politica ed economica del Medio Oriente e 100 anni di storia politica ed economica della Turchia. A meno che la politica di sterminio, negazione e assimilazione su cui si basa la Turchia dal 1924 non cambi completamente, una soluzione al problema curdo non sembra possibile. L’approccio dell’opposizione (L’alleanza Nazionale guidata da Kilicdaroglu) al popolo curdo e al problema della libertà in Turchia è lontano dalla possibilità di trovare una soluzione. Le conquiste ottenute dai curdi in Turchia sono state pagate a caro prezzo e sono il risultato della lotta organizzata del popolo curdo. Se notate, la campagna elettorale in Turchia è stata centrata sui discorsi contro i curdi e sul nazionalismo. Tuttavia un cambio di potere, la democratizzazione, la garanzia dei diritti umani e delle libertà, la garanzia dell’indipendenza del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo e il rispetto degli accordi internazionali faranno respirare i popoli della Turchia. In un ambiente democratico sarà più facile dare voce ai problemi e portare il tema della questione curda all’ordine del giorno. Quando il governo cambierà, lotteremo per il raggiungimento di una soluzione con il dialogo e la negoziazione. Ma la svolta nel cambio di potere sarà il fascismo o la democrazia?”. Cosa ne pensa della scelta di HDP di condurre le elezioni sotto lo Yesil sol parti, il Partito della sinistra verde? Ci sono analisti che dopo il voto del 14 maggio hanno descritto questa scelta come una sorta di autogoal dal momento che non tutti i curdi sono di sinistra... “L’ingresso dell’HDP alle elezioni con il Partito della Sinistra Verde è stata una necessità più che una scelta. Una decisione presa a causa della minaccia di chiusura dell’HDP (ndr accusato dal Governo di legami con il Pkk) e dell’esclusione politica dei suoi membri. Dal momento che non ho letto le critiche di cui parli, non posso commentarle. Sono certa però che i comitati di partito stanno già valutando il motivo per cui lo Yesil Sol Parti non ha raggiunto l’obiettivo desiderato. Verrà fatta un’attenta autocritica e ci si presenterà in modo più organizzato e forte per le prossime elezioni locali (ci sono elezioni locali nel 2024). Non va dimenticato però che dal 2015 i curdi sono la forza principale che frena la politica turca contro la sistematica violenza di stato nei confronti dei curdi e dei loro sostenitori. Nonostante il fatto che decine di migliaia di politici siano in prigione, che vengano nominati da Ankara amministratori fiduciari nei loro comuni e che tutte le loro istituzioni organizzate siano chiuse, i curdi persistono nella loro lotta. Se così tante pressioni e violenze fossero applicate a un altro partito, non credo che riuscirebbe a sopravvivere. Per queste ragioni il successo del Partito della Sinistra Verde non può essere sottovalutato”. Cosa ne pensa della nuova alleanza di Kilicdaroglu con Özda?? Tra i punti concordati non c’è alcuna apertura verso la rimozione dei sindaci fiduciari nelle città dove sono stati collocati dal governo al posto di quelli curdi, democraticamente eletti. Secondo lei questa scelta di CHP influirà negativamente sul voto curdo all’opposizione? “Il fatto che K?l?çdaro?lu e il Partito Repubblicano (CHP) non siano riusciti a guadagnare voti significativi in Turchia, rimanendo nella fascia del 20-25%, è essenzialmente legato al suo mancato rinnovamento come partito fondatore della Repubblica. Il CHP, che è un partito socialdemocratico, non riesce a superare i suoi problemi strutturali dovuti alla crisi della socialdemocrazia a livello mondiale e alla crisi dello Stato-nazione rigido del kemalismo. Sebbene K?l?çdaro?lu e il CHP abbiano apportato alcuni cambiamenti, i problemi strutturali non sono stati toccati. La rigida mentalità dello Stato-nazione porta a sentimenti anti-curdi e anti-migranti e alla negazione del diritto alla vita per le identità diverse da quella turca. Pertanto, l’alleanza tra K?l?çdaro?lu e Özda? è un’alleanza nazionalista reazionaria. Il fatto che la prevaricazione della volontà del popolo curdo (cioè dei fiduciari) sia al centro di questa alleanza dimostra che K?l?çdaro?lu non ha alcuna pretesa di avere un’amministrazione democratica e libera come sostiene. Il movimento politico curdo sta prendendo una posizione politica contro Erdo?an e l’Alleanza Popolare, che sta cercando di istituzionalizzare il fascismo. Tuttavia, dopo le elezioni, combatterà e resisterà contro tutti i tipi di forze razziste, fasciste, nazionaliste e sessiste, nonché contro le forze che considerano il popolo curdo come una nullità, indipendentemente da chi sia”. In che modo la vittoria di Erdogan influenzerà il futuro del popolo curdo? “Se Erdogan dovesse vincere le elezioni come primo atto scriverà una nuova costituzione per istituzionalizzare il regime fascista. È probabile che la sua vittoria porti nel breve periodo a contestazioni e ribellioni sociali. I prossimi giorni saranno difficili per la Turchia. Sicuramente l’alleanza sessista, nazionalista, religiosa e militarista stabilita da Erdogan continuerà a essere anticurda. I membri della magistratura che sono politicizzati e nominati dal governo continueranno ad agire sulla base come hanno fatto fino a oggi. Ma sono certa che gli sviluppi nel mondo e nella regione del Medio Oriente costringeranno Erdogan a cambiare”. Che futuro sogna per la Turchia e per i curdi? “Credo che il mio popolo sarà libero. L’autogoverno, il nostro paradigma democratico, ecologico, libertario delle donne prenderà vita e i popoli della Turchia e del Medio Oriente costruiranno una vita uguale nei diritti, libera, democratica e pacifica. Sto combattendo per questo”. Divieto di leggere e scrivere nelle prigioni del Marocco di Riccardo Noury* agoravox.it, 29 maggio 2023 Almeno quattro giornalisti e due intellettuali, detenuti nelle carceri marocchine, non possono leggere né scrivere. Taoufik Bouachrine, giornalista di Akhbar el-Youm, uno degli ultimi giornali di opposizione del paese, sta scontando il quinto di 15 anni di carcere che gli sono stati comminati per aggressione sessuale. Fino a poco tempo fa, poteva scrivere un diario e studiare per conseguire un master in Giurisprudenza. All’inizio di maggio, è stato trasferito dalla prigione di Ain Borja a quella di Arjate e gli sono stati confiscati testi e manoscritti. Omar Radi, giornalista d’inchiesta molto critico nei confronti della situazione dei diritti umani, è stato condannato il 6 luglio 2021 a sei anni di carcere per stupro e spionaggio al termine di un processo-farsa. Gli è vietato scrivere e ricevere lettere dei familiari e degli amici. Anche lui non può studiare per un master. Soulaiman Raissouni, direttore di Akhbar el-Yaoum, condannato per aggressione sessuale, ha condiviso lo stesso carcere con Radi tra luglio 2020 e aprile 2022. Nonostante fossero entrambi in isolamento, i due prigionieri si erano messi d’accordo per scriversi a vicenda ogni domenica, con l’intenzione di pubblicare un libro intitolato “Le lettere della domenica”. La direzione del carcere li ha scoperto e ha sequestrato tutto il materiale. Quando Raissouni è stato trasferito nella prigione di Ain Borja, nel maggio 2022, gli è stato sequestrato un racconto che aveva iniziato a scrivere alla fine del 2021. Rida Benotmane, scrittore ed esponente dell’Associazione marocchina per la difesa dei diritti umani, è detenuto in cella d’isolamento nella prigione di Arjate dal settembre 2022. Gli è vietato possedere una penna. Una volta gli è stato sequestrato un libro perché conteneva la parola Kabul nel titolo. Mohamed Ziane, 80 anni, avvocato ed ex ministro per i diritti umani, è in carcere dal 21 novembre 2022. È stato condannato a tre anni di carcere per 11 reati, tra cui offesa a pubblico ufficiale e aggressione sessuale. Gli è vietato leggere i quotidiani e non può scrivere al suo avvocato. *Portavoce di Amnesty International Italia Nigeria. Le sfide del nuovo governo sui diritti umani La Repubblica, 29 maggio 2023 Proteggere i civili, rispettare la libertà di stampa e occuparsi della previdenza sociale. Il dossier di Human Rights Watch: il neo Presidente Tinubu “deve rispettare le promesse elettorali di garantire giustizia sociale e contrastare la povertà”. Il neoeletto Presidente della Nigeria, Bola Ahmed Tinubu, dovrebbe garantire che i diritti umani siano al centro di tutte le politiche sia in patria che all’estero, scrive Human Rights Watch in un’analisi che delinea le priorità in materia di diritti umani per la nuova amministrazione. In patria rafforzando i diritti in cinque aree fondamentali, all’estero promuovendo la democrazia costituzionale, soprattutto nei paesi dell’Africa occidentale. Le cinque aree cruciali per i diritti umani. L’organizzazione analizza i cinque settori che meritano un’attenzione particolare del governo, perché maggiormente a rischio: la protezione dei civili nelle zone di conflitto; il rispetto della libertà di stampa e del diritto alla libera espressione; il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze mediante il rafforzamento di una politica volta alla giustizia sociale; la promozione e la protezione dei diritti degli sfollati interni; l’adozione di una politica estera focalizzata sul rispetto dei diritti umani. L’elezione di Tinubu. Dichiarato vincitore nelle votazioni presidenziali del febbraio 2023, il neo Presidente entra in carica lunedì 29 maggio per un mandato di quattro anni. Le elezioni sono state caratterizzate da molte irregolarità, tra cui episodi di violenza alle urne e impossibilità di caricare i risultati elettorali in tempo reale da parte dei vari seggi organizzati nel paese. Tra l’altro il suo insediamento domani avviene in un contesto di fermento in cui è in corso anche un accertamento sulla regolarità del voto presso la Corte d’Appello. Il manifesto elettorale di Tinubu. Durante la campagna elettorale, il neo Presidente ha più volte detto che la “sicurezza della vita e della proprietà” saranno al centro della sua azione politica. E ha specificato che questo obiettivo è raggiungibile solo migliorando le condizioni di vita dei nigeriani che vivono in povertà, indipendentemente dalla regione di appartenenza, dalla tribù e dalla religione. La povertà. La Nigeria non è riuscita a garantire i diritti economici e sociali per tutti i cittadini, compreso il diritto a un livello di vita dignitoso, scrive Human Rights Watch. Secondo il National Bureau of Statistics, circa 133 milioni di persone nel paese vivono in condizioni di povertà multidimensionale, ovvero non hanno accesso a diversi settori fondamentali come quello dei servizi igienico-sanitari, dell’assistenza sanitaria, al cibo e agli alloggi sicuri. Anche la disuguaglianza ha raggiunto livelli estremi poiché il divario tra ricchi e poveri continua a crescere a un ritmo allarmante. Inoltre il paese non ha un sistema di sicurezza sociale valido, che supporti le persone quando non hanno un reddito o affrontano crisi economiche gravi né dispone di strumenti di assistenza per la vecchiaia, la disoccupazione, le malattie, il parto o l’assistenza delle persone a carico. La violenza. Nel Nord-Ovest, bande di criminali che i nigeriani chiamano comunemente “banditi” compiono abitualmente omicidi, rapimenti, violenze sessuali e saccheggi su vasta scala. Nel Nord-Est, il conflitto tra il gruppo armato islamista Boko Haram, le sue fazioni separatiste, e le forze di sicurezza nigeriane ha ucciso circa 350 mila civili e creato una crisi umanitaria di dimensioni tali che oltre 2 milioni di persone sono sfollate all’interno della Nigeria e altre 280 mila tra Camerun, Ciad e Niger. Nel sud-est, i gruppi antigovernativi che a gran voce chiedono la secessione minacciano le persone di restare a casa, perché hanno l’obiettivo di chiudere tutti i luoghi pubblici, comprese le aziende e le scuole. Le violazioni dei diritti da parte della polizia. Le forze di sicurezza che dovrebbero contrastare l’insicurezza sociale in tutto il paese sono complici di gravi violazioni dei diritti umani tra cui arresti arbitrari, detenzioni illegali e uccisioni extragiudiziali. La polizia spesso usa anche una forza eccessiva per sopprimere il diritto dei cittadini alla protesta e le autorità non perseguono gli agenti responsabili degli abusi, in una sorta di tacita condivisione del loro operato. Gli abusi governativi. Fino a oggi nel paese si è registrato il tentativo costante da parte del governo di limitare la libertà di espressione e dei media. Lo dimostrano per esempio il blocco di Twitter per oltre sette mesi: il social è tornato accessibile a gennaio 2022. E ancora il tentativo di introdurre un disegno di legge sui social media volto a criminalizzare, tra l’altro, chiunque critichi le autorità, gli arresti e le detenzioni arbitrarie di giornalisti e le sanzioni alla stampa critica nei confronti del potere. Nella classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa, la Nigeria occupa il 123° posto su 169.