Garantismo e abolizionismo, due facce di medaglie diverse di Massimo Donini L’Unità, 28 maggio 2023 La passione garantista non è per élite né per oligarchie, è un discorso di “unità” nazionale e di umanesimo della civiltà del diritto. Nell’idea abolizionista aleggia una certa dose di indistinta utopia. Una delle espressioni sotterranee, sempre più emergenti, della dialettica destra-sinistra, riguarda il rapporto fra garantismo e abolizionismo delle pene o del carcere. Prospettive molto diverse. Il garantismo, infatti, non ha contrassegnato le politiche della sinistra, ma semmai più quelle centriste, dell’ultimo trentennio. L’abolizionismo, invece, è affiorato solo in qualche stagione delle politiche di depenalizzazione. Per garantismo si intende, tradizionalmente, il rispetto delle garanzie processuali e sostanziali dell’indagato o accusato nei confronti dello Stato e dei suoi organi: di qui il rispetto di tutti i principi costituzionali in materia penale (riserva di legge, divieto di retroattività, sussidiarietà e offensività, responsabilità penale personale e colpevolezza, finalità rieducativa e umanità delle pene, divieto di sproporzione ecc.), e processuale penale (presunzione di innocenza con conseguente trattamento anche mediatico degli indagati; terzietà e imparzialità del giudice; diritto di difesa; “giusto processo”: durata ragionevole, parità delle anni, diritto al contraddittorio; ne bis in idem etc.). Principi che riguardano l’uso delle indagini, dei giudizi e delle pene, e sottendono altresì un atteggiamento culturale neutro rispetto a ideologie, posizioni politiche, sociali, economiche, religiose, nazionali, etniche etc. degli accusati. Il garantismo ha un volto giuridico- costituzionale cogente, non è né di destra, né di sinistra, e anzi vieta di usare i processi per “giustiziare” avversari politici, o per attuare e perpetuare odiose disuguaglianze. Esso si oppone al giustizialismo e all’ideologia punitivista che chiede la penalizzazione di tutto perché “se non è penale si può commettere”; esso si oppone inoltre all’uso del diritto penale come etica pubblica al posto delle giuste critiche morali o politiche dei comportamenti pubblici che devono essere possibili al di fuori dei processi; non ha passioni punitive, e non attribuisce a procure e giudici funzioni salvifiche della società, né chiede loro di accertare verità storiche collettive. Di questo garantismo hanno bisogno tutti, ma in particolare alcune componenti della “sinistra” e della “destra”, tradizionalmente attratte da maggiori spinte populiste, punitiviste e dall’uso dei processi penali per combattere avversari politici, fenomeni generali, o tipi d’autore pericolosi, trattati come “nemici”, oppure per eliminare avversari di classe. Questo tipo di garantismo diremmo classico o tradizionale ha ancora oggi un bisogno estremo di diffusione nelle menti e nelle prassi dei governanti e dei politici, della magistratura penale, nonché dell’opinione pubblica. Non è un tema di élite o per oligarchie. La passione garantista deve diventare un romanzo popolare perché ci riguarda tutti. Siamo tutti garantisti è la premessa del nostro dire e fare: è un discorso di “unità” nazionale e di umanesimo della civiltà del diritto. Peraltro, il garantismo è oggi triadico, deve contemplare anche i diritti delle vittime, mirando a forme di riconciliazione o di riparazione, riducendo non solo le sofferenze inutili, sproporzionate o ingiuste per gli autori, ma anche quelle delle persone offese. L’abolizionismo, invece, è una prospettiva del tutto distinta. Se il garantismo ci può unire, l’idea abolizionista può facilmente dividere in questo momento storico, essendo molto più radicale, se la si collega alla disuguaglianza della popolazione carceraria e dunque a politiche di incriminazione di tipi d’autore a rischio detenzione, che appaiono spesso inevitabilmente di classe negli esiti, anche se non nelle intenzioni. Per abolizionismo si possono peraltro intendere opzioni molto diverse: abolire il diritto penale e le pene, oppure abolire il carcere o le pene carcerarie, oppure aggredire tanta cultura e legislazione punitivista sino ad arrivare a una sorta di minimalismo penale, come lo slogan che dagli anni 80 del secolo scorso ha animato minoranze di sostenitori di un diritto penale minimo. Ognuno comprende che sotto queste alternative ci sono scenari diversissimi, per nulla tutti desiderabili o praticabili in blocco. Vi aleggia una certa dose di indistinta utopia. Il tema carcere, per esempio, diventa il ‘luogo’ attorno al quale si coalizzano tutti i malesseri verso una società repressiva-punitiva, sì da simboleggiare un bisogno di rivolta o di cambiamento per chi se ne faccia portatore. Si tratta di istanze “di moda” poco costruite in progetti concreti, sostenute da voci minoritarie non solo dell’opinione pubblica, ma anche degli addetti ai lavori. Viceversa, il garantismo, nel significato prima descritto, può dirsi sicuramente recepito nella coscienza collettiva odierna, anche in quella politica, in modo trasversale, ma è una conquista che deve ancora essere consolidata e rafforzata. Appare perciò confondente, sul piano della comunicazione, mescolare tematiche così distinte: una di garanzie giuridico-costituzionali, come tali cogenti e giustiziabili, e una di prospettive politiche di più libera discussione anche partitica, ma per nulla consolidate. Ci sono affinità tra queste distinzioni e l’idea di rifondare una cultura “di sinistra” partendo da Gramsci. Il martire del Tribunale speciale per la difesa dello Stato è l’autore delle “Lettere dal carcere”, testimonianza autobiografica di una vittima umanissima di un “delitto di Stato” contro la sua persona, ma è anche l’autore dei Quaderni del carcere, una monumentale raccolta dei taccuini coltissimi sui temi più diversi di cultura, letteratura, politica, filosofia, storia, religione, economia, etc. redatti grazie alla possibilità che un detenuto per delitti politici aveva di usufruire (con ridotte limitazioni) di una letteratura straordinaria e amplissima, mentre oggi giusto la Bibbia o poco più (almeno nella prassi) pare venga consegnato a chi è sottoposto al regime dell’ art. 41-bis. Orbene, eleggere Gramsci a simbolo dell’uso del diritto penale come braccio violento dello Stato per sopprimere, anziché proteggere, diritti fondamentali, può essere istruttivo: anche a livello internazionale il potere punitivo diviene spesso strumento di oppressione, anziché di protezione, dei diritti. Tuttavia, se si vuole rifondare la politica “della sinistra” richiamandosi a Gramsci, anche chi si può ritenere incompetente o esterno di fronte a un tale obiettivo, è indotto ad avvertire che questo è un tema che occorre inserire nella democrazia costituzionale contemporanea: si impongono nuove analisi culturali e politiche, una mappatura del sapere e dei suoi esponenti della quale i Quaderni offrono un metodo di analisi originalissimo, ma che non riflette l’attualità, né è inserito nel recinto dei diritti costituzionali come garanzie di tutti e di una società aperta. Grandi distanze ci separano da quegli anni, da quel secolo e da quella sinistra (anche allora divisa). Per esempio, l’idea di una egemonia culturale (di destra o di sinistra) degli intellettuali segue oggi percorsi ben differenti dal passato: i vincoli sovranazionali permanenti sulle politiche interne e le continue pronunce giurisdizionali di varie Corti pongono limiti di rilievo alle politiche nazionali; d’altro canto, gli appuntamenti elettorali permanenti e le diffusioni globali massmediatiche di saperi incontrollati rendono difficile costruire consensi di massa che siano di tipo non populista. Quando gli intellettuali non siano ridotti a meri interpreti (Z. Bauman, “La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti”, tr. it. Bollati Boringhieri, 2007), è comunque difficile che ritornino legislatori. Invece, oggi come nel passato, rispettare le garanzie costituzionali minime non significa disporre di un diritto necessariamente liberale, e tanto meno avere realizzato l’uguaglianza sociale, che schiude a programmi politici potenzialmente assai divisivi. Se una società è disuguale, riprodurrà facilmente questa situazione nella popolazione carceraria, anche se la dogmatica giuridica nasconde tale dato. Parimenti, è illusorio pensare che il rispetto dei principi di garanzia sopra ricordati produca di per sé un diritto penale liberale. Solo se si attuasse veramente l’ultima ratio ciò potrebbe accadere, producendosi meno pene e carcere, ma si tratta in tal caso del principio più “politico” di tutti, quello che neppure la Corte costituzionale riesce a rendere normalmente giustiziabile, perché richiede troppe scelte discrezionali. Se dunque ci si prefigge un obiettivo reale di maggior libertà dalle pene (criminali) e anche (prospettiva non identica) di maggiore uguaglianza sociale, sono altri i mezzi da attivare: politico-economici, in primo luogo, e poi di diritto civile, del lavoro, tributario, uso di sanzioni amministrative efficaci ma non oppressive, o esercizio di diritti scriminanti (che rendono addirittura leciti i fatti). Quanto agli strumenti punitivi in senso stretto, la stessa limitata decarcerizzazione vigente (d.lgs. 150 del 2022), favorita da molte pene sostitutive e dalle riforme sanzionatone appena attuate, è oggetto di malumori politici. Ecco perché, mentre il garantismo giuridico- costituzionale può produrre più facilmente consenso, un discorso che affronti il rapporto tra carcere e disuguaglianza, o qualche forma più forte di abolizionismo (riduzionismo, minimalismo, depenalizzazione, decarcerizzazione), dovrebbe andare ben oltre il limite dei ‘vincoli’ o dei paradigmi costituzionali penali classici, spingendosi verso interpretazioni massimaliste o più intense dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 cpv. Cost.) o dei diritti positivi. Il costituzionalismo penale resta dunque una condizione della democrazia, ma rischia di affidarsi ancora troppo ai controlli giurisdizionali in chiave carcerocentrica, finché non abbia fatto propri i programmi della giustizia sociale o del riduzionismo punitivo. Si tratterebbe allora di intenderlo come garantismo di tutti i diritti sociali, in un significato politico-costituzionale (così ora L. Ferrajoli, “La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale”, Laterza, 2021): e a questo punto il suo contenuto sarebbe diverso, andando ben oltre le dimensioni giuridico-costituzionali della società “punitiva”. Fare a meno del carcere si può. Venite a San Marino... di Giuseppe Morganti L’Unità, 28 maggio 2023 Il penitenziario della repubblica sammarinese è molto piccolo, poco frequentato. Ma quando siamo entrati l’abbiamo trovato addirittura... vuoto. Una società senza carcere è senza dubbio una società coraggiosa, capace di affrontare e vincere il timore della devianza sociale anche quando questa si esprime attraverso l’uso della violenza. Dell’oggettiva possibilità di ragionare sull’abolizione del sistema carcerario o per lo meno dell’adozione in prevalenza di misure alternative, si è discusso a San Marino nella tappa romagnola del “Viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino. Protagonisti della discussione i responsabili dei sistemi carcerari con la presenza del Segretario di Stato alla Giustizia della Repubblica di San Marino, la Camera penale di Rimini e i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Sede della discussione, dopo una visita ai “Caschi” di Rimini, una sala del Palazzo Pubblico di San Marino di fronte a giornalisti attenti a cogliere gli elementi di novità e le prospettive che si aprono alla luce dell’approvazione del nuovo regolamento penitenziario sammarinese entrato in vigore il 4 maggio scorso. Un passo in avanti del sistema sammarinese in termini di qualità della vita di chi è rinchiuso, ma che ancora non ha il coraggio di affidare a personale non militarizzato la custodia della struttura. La legge sancisce la regola per cui le misure alternative alla detenzione sono riservate a coloro che hanno subito condanne non superiori ai tre anni. In tale caso il condannato può essere affidato in prova ai servizi sociali con la possibilità per il Giudice delle Esecuzioni di affidare il compito di educatore giudiziario a un assistente sociale oppure a un cittadino che dimostri di essere all’altezza del compito. La positività di queste esperienze richiama la necessità di riflettere sulla loro estensione ad altre fattispecie di pena, affinché la misura alternativa diventi la regola e non l’eccezione. Nel frattempo vengono testati i risultati che sono soddisfacenti sia in termini di recidiva, di qualità della vita del condannato, di conseguenze che si riverberano sui familiari, ma anche, forse, soprattutto, di efficacia del sistema di controllo e di sostegno messo in campo dai servizi sociali. Il potenziamento delle strutture di accoglienza e la formazione del personale chiamato a svolgere questo delicato ruolo sono esigenze che possono rendere la società in grado di gestire casi sempre più complessi, fino ad annullare la necessità di avere un carcere. Nella Repubblica di San Marino il carcere è molto piccolo e fortunatamente poco frequentato. Il “Viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino ha un sottotitolo: “visitare i carcerati”. Nel carcere di Rimini li abbiamo trovati, anche troppi; in quello di San Marino non ce n’era neanche uno. Quindi, quando capita, i casi possono essere seguiti con attenzione e rappresentare una sorta di laboratorio sperimentale per testare modelli alternativi alla detenzione e far sì che non si procedesse nell’edificazione di una nuova struttura carceraria il cui progetto di massima anche se moderno, non superava le logiche di segregazione e privazione dei rapporti. A tal proposito la realtà sammarinese vive il paradosso per cui la scarsa frequentazione obbliga i carcerati a lunghi periodi di involontario isolamento. Una condizione, riservata agli imputati in carcerazione preventiva, che deve essere assolutamente superata affinché non venga usata dall’inquirente come strumento per estorcere confessioni. La spesa destinata al sistema carcerario dovrà, a poco a poco, riconvertirsi per il rafforzamento delle strutture sociali che sono chiamate a svolgere il difficile, duplice, compito di controllo sulle possibili recidive e di stimolo alle azioni di inserimento sociale. A sollecitare la riflessione intorno all’importante progetto di una San Marino senza carcere è intervenuta l’allora Ministra alla Giustizia, Marta Cartabia. 111° aprile 2022, in occasione dell’insediamento degli Eccellentissimi Capitani Reggenti, ha parlato dell’accordo siglato fra Italia e San Marino in materia di misure alternative alla detenzione e alle sanzioni sostitutive di pene detentive. “Il carcere - ha sostenuto Cartabia - spezza i legami affettivi e lavorativi e separa l’individuo dalla società. Non risponde pertanto al dettato costituzionale della riabilitazione, piuttosto acuisce spesso le contraddizioni”. L’accordo italo-sammarinese prevede tra l’altro che il condannato possa affrontare il periodo di riabilitazione nel proprio Paese di origine, affinché sia più immediato il percorso di reinserimento sociale. Grazie a queste riflessioni il passo verso l’abolizione del carcere nella Repubblica di San Marino potrebbe essere più vicino. Quando nella metà dell’800 i sammarinesi abolirono, primi al mondo, la pena di morte e la tortura, devono essere stati mossi dallo stesso pensiero “abolizionista” che oggi renderebbe la Repubblica più democratica e attenta ai diritti umani. Scaricabarile di Nordio sulla pelle della democrazia di Franco Corleone L’Unità, 28 maggio 2023 Sulla piattaforma digitale per la raccolta delle firme su referendum e leggi popolari il governo ha dimostrato un’arroganza senza limiti. Il 17 maggio durante il question time è andata in scena alla Camera dei deputati la manifestazione più clamorosa della crisi della democrazia e della arroganza senza limiti del Governo. Il ministro Nordio, sedicente liberale e garantista, era chiamato a rispondere a una domanda del deputato Riccardo Magi, segretario di +Europa volta a conoscere quali pretesi adeguamenti tecnologici siano richiesti dal ministero della Giustizia per attivare la piattaforma digitale per la raccolta delle firme per la sottoscrizione di richieste di referendum e di leggi di iniziativa popolare. Infatti il 17 marzo a una interrogazione urgente sullo stesso tema la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro aveva attribuito la responsabilità di un ulteriore ritardo di 4/5 mesi rispetto a quello già realizzato di più di un anno proprio al ministero della Giustizia Carlo Nordio, non consapevole della rilevanza politica della questione ha letto una nota risibile e umoristica predisposta dagli uffici del gabinetto, per comunicare “le novità, in sintesi” che possono essere riassunte così: ne parliamo tra dodici mesi, alla faccia della legge, del diritto e dei diritti dei cittadini. Senza pudore ha comunicato a un attonito Magi che il 5 maggio (Ei fu, siccome immobile...) era stato sottoscritto “un accordo senza oneri, tra il Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei ministri e il Dipartimento per la transizione digitale del Ministero della Giustizia per la definizione degli impegni e l’attuazione delle attività progettuali volte al completamento e alla successiva attivazione e al contestuale passaggio delle competenze relative alla gestione della piattaforma dalla Presidenza del Consiglio dei ministri al Ministero della Giustizia attraverso una apposita convenzione”. Questo gioco di scaricabarile si sostanzia nella costituzione di un gruppo di lavoro che magicamente nelle parole di Nordio si trasforma in mi piano di lavoro per realizzare “tutte le attività volte a implementare gli interventi necessari (quali?) a garantire la conformità della piattaforma alle disposizioni normative vigenti”. In un crescendo rossiniano il buon Nordio ha concluso trionfalmente: Una volta che le parti avranno attestato congiuntamente l’integrale adempimento delle attività previste dall’accordo sottoscritto nel maggio scorso, il 5 maggio scorso, la piattaforma sarà trasferita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri al nostro Ministero mediante sottoscrizione di apposita convenzione, e solo allora il Ministero della Giustizia sarà individuato quale gestore della piattaforma ai sensi del Dpcm del 9 settembre 2022. Dalla lettura di questa prosa che definire burocratica sarebbe un complimento, si arguisce che la Piattaforma referendum esiste ma essendo considerata una patata bollente viene passata da un dipartimento all’altro, tutti titolati ovviamente del riferimento al mitico digitale. Nella risposta Riccardo Magi, sconcertato e allibito, ha ridicolizzato la pretesa di un anno di tempo per rendere operativa una infrastruttura digitale pubblica, assai semplice e soprattutto violando i termini della legge n. 178, nata nel dicembre 2020 (modificata dal decreto legge del maggio 2021, n. 77) che istituiva un fondo apposito per la raccolta delle firme digitali tramite l’identificazione Spid. Oltretutto il Governo in precedenza aveva affermato che nel 2021 era stata realizzata “nei tempi previsti” una versione consona della piattaforma, completando il test di applicazione. E allora che cosa è successo? Sarebbe davvero riduttivo attribuire questo balletto a sciatteria o a menefreghismo. Siamo di fronte a un disegno politico, mediocre ma con cui fare i conti. Il Governo ha deciso di usare tutti i mezzi per boicottare la raccolta di firme per referendum su temi sensibili, di civiltà che si dovrebbero presentare entro fine settembre per votare l’anno prossimo, magari in contemporanea con le elezioni europee. L’obiettivo è chiaro, difendere il potere conquistato grazie a una legge truffa e perseguire il potere autocratico anche con riforme costituzionali, riducendo il parlamento a un orpello decorativo. Il prezzo sarà una sfiducia crescente nelle istituzioni da parte dei cittadini e dei giovani in particolare, espropriati della parola e delle decisioni. Non dimentichiamo che lo straordinario successo della raccolta di firme per il referendum sulla legalizzazione della canapa terrorizzò i sepolcri imbiancati e solo una decisione erronea nelle motivazioni giuridiche della Corte Costituzionale, presieduta da Giuliano Amato, il dottor sottile per antonomasia, bloccò la rivoluzione gentile e favorì la svolta di regime. Questa provocazione di Nordio è coerente con il sostegno a una serie di provvedimenti liberticidi, dal decreto antirave a quello antiscafisti, dalla esaltazione dello stato etico e totalitario nel caso Cospito al silenzio pavido di fronte agli annunci della persecuzione delle detenute madri fino alla cancellazione della potestà genitoriale, della modifica del reato di tortura, dell’aggravamento delle pene per i fatti di lieve entità per la detenzione di sostanze stupefacenti e perfino dello stravolgimento dell’art. 27 della Costituzione. È la conferma che per molti Parigi val bene una messa. Per rendere la situazione assolutamente pirandelliana si deve considerare che utilizzando la norma transitoria della legge messa in frigorifero, le firme si possono raccogliere utilizzando una piattaforma privata come è accaduto per il referendum bocciato e recentemente per una legge di iniziativa popolare contro le manovre di Calderoli sulla autonomia differenziata. Il meccanismo è riconosciuto e mette in luce ancora di più la strumentalità da azzeccagarbugli per bloccare la piattaforma pubblica e gratuita. Sperando che il movimento per i diritti non abbia i soldi per attivare gli strumenti di partecipazione popolare. Che succederà ora? Per prima cosa è stata promossa una diffida contro il Governo da parte dell’associazione Coscioni condivisa da altre organizzazioni tra cui La Società della Ragione e Forum Droghe. Non basta, andrà costruita una mobilitazione nonviolenta perché non si tratta di una baruffa goldoniana, ma della sorte della democrazia. Se l’azione penale si trasforma in una barzelletta di Franco Corleone L’Espresso, 28 maggio 2023 Quest’anno ricorre il settantacinquesimo anniversario della Costituzione e le celebrazioni del 25 aprile hanno assunto un sapore assai particolare, con la novità di una erede della storia del Movimento sociale italiano a capo del governo e addirittura con l’assunzione di una figura come Ignazio La Russa alla seconda carica dello Stato, quella di presidente del Senato. Proprio La Russa è stato autore di una affermazione stravagante circa la Costituzione, che non citerebbe l’antifascismo come carattere fondante della Repubblica (trascurando la XII Disposizione finale che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista). Per fortuna il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha tenuto a Cuneo il suo discorso più bello e appassionato con la citazione di Piero Calamandrei, autore della poesia rivolta al camerata Kesselring, comandante delle forze di occupazione naziste in Italia, con il monito finale: “Su queste strade se vorrai tornare/ ai nostri posti ci ritroverai/morti e vivi collo stesso impegno/popolo serrato intorno al monumento/che si chiama/ora e sempre/resistenza”. Incredibilmente ho scoperto che a Giulino di Mezzegra, il luogo della fucilazione di Benito Mussolini e dei gerarchi in fuga, vi è una lapide che ricorda il dittatore. Pare che ogni anno drappelli di reduci e nostalgici si rechino a commemorare il duce. Quest’anno hanno anche collocato dei fiori. La notte del 28 aprile, Cecco Bellosi ha pensato di onorare i partigiani della Cinquantaduesima Brigata Garibaldi - che fermarono il convoglio con i resti del regime - togliendo quei fiori. Di certo non ha voluto compiere una profanazione, ma solo cancellare l’omaggio a Mussolini, un insulto agli eroi partigiani. Quel giorno si era svolta come ogni anno una manifestazione dell’Anpi e la vicenda poteva chiudersi in un confronto tra memoria civile e spirito di rivincita. Invece, la mattina dell’11 maggio Cecco Bellosi - fondatore della comunità “Il Gabbiano” in Valtellina, nel paese dove visse padre Camillo De Piaz, amico fraterno di David Turoldo (tutti e due protagonisti della Resistenza a Milano, nella Corsia dei Servi) - ha ricevuto la visita di un nutrito gruppo di carabinieri e ha subito una perquisizione meticolosa in qualità di indagato, non per la sottrazione dei fiori, ma per l’accusa di danneggiamento aggravato della lapide o targa che sia. Il sostituto procuratore di Como, Simone Pizzotti, offre una prova di come il principio della obbligatorietà dell’azione penale possa trasformarsi in una barzelletta. Si potrebbe persino pensare che il carico di lavoro del tribunale e delle forze dell’ordine non sia particolarmente gravoso, se ci si può dedicare a fatti assolutamente irrilevanti. D’altra parte, la cosa non può essere archiviata con superficialità colpevole. Negli anni scorsi si è parlato a sproposito di Seconda Repubblica, ora invece la volontà di riscrivere la storia da parte dei vinti è forte. Basta rileggere Piero Gobetti per capire che saranno tanti - in prima fila gli opinionisti che invitano al confronto “non ideologico” e ad ammainare la bandiera dell’antifascismo - a correre in soccorso del vincitore di oggi. Il vento del Nord portava la libertà, si diceva allora. Non dimentichiamolo. “Dopo la strage dei Georgofili prevalse la forza della legalità” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 28 maggio 2023 Sono da poco scoccate le 16 quando il capo dello Stato Sergio Mattarella, dopo la mattina trascorsa a Barbiana per i 100 anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, arriva a Firenze per partecipare al Palazzo di Giustizia alla commemorazione dei 30 anni dalla strage di via dei Georgofili. Lo accolgono il sindaco di Firenze Dario Nardella, il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani e il prefetto Francesco Ferrandino. Nella notte, si è tenuta una fiaccolata nel luogo dove all’una e 4 minuti scoppiò l’autobomba, una Fiat Fiorino con 250 chili di tritolo, che causò una tremenda devastazione: 5 vittime, 48 feriti, 173 opere d’arte esposte agli Uffizi danneggiate e danni in un perimetro di 12 case nel centro cittadino. Trent’anni dopo, la magistratura fiorentina (da allora in prima linea nelle indagini) ha organizzato nell’auditorium del Palazzo di Giustizia un momento di riflessione su quei fatti e su quella stagione in cui la mafia fece sanguinare il Paese con attentati e autobombe. In mattinata, la premier Giorgia Meloni ha inviato un messaggio, anche a nome del governo, per commemorare la tragica ricorrenza: “Nessun fiorentino, nessun italiano, potrà mai dimenticare la strage dei Georgofili - ha scritto -. Così come nessuno potrà mai cancellare dalla memoria quegli anni così difficili per la nostra nazione, segnati da altri sanguinosi attentati e stragi”. Fu, si legge ancora, “un feroce attacco allo Stato, una guerra dichiarata alla Repubblica per vendicarsi del carcere duro, una ferita gravissima inferta all’Italia e al suo patrimonio artistico e culturale”. Attraverso le sue parole, l’esecutivo intero ha rivolto “un pensiero commosso a tutti i familiari delle vittime”, rinnovando poi il ringraziamento “ai servitori dello Stato che, spesso nell’ombra e tra mille difficoltà, hanno lottato e lottano contro la mafia. E che con il loro instancabile lavoro avvicinano sempre di più il definitivo tramonto della criminalità organizzata”. Nel messaggio, la presidente del Consiglio ha ricordato la “lunga scia di tenore di fronte alla quale il nostro popolo seppe reagire, dimostrando la forza della legalità e la solidità delle istituzioni”. E messaggi di saluto sono arrivati anche dai presidenti del Senato Ignazio La Russa (si trattò, ha scritto, di “una scellerata violenza mafiosa”) e della Camera Lorenzo Fontana, che ha invitato a “difendere e coltivare sempre i valori della legalità e della giustizia”). Tutte le istituzioni hanno rivolto parole di sostegno e vicinanza a chi venne colpito direttamente da quegli atti efferati. Dal canto suo, l’Associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili, dopo tre sentenze di Cassazione, stima “che la verità giudiziaria penale è stata raggiunta al 90%”, ma che occorra “arrivare alla verità completa sui concorrenti morali, ovvero coloro che hanno suggerito, incoraggiato e rafforzato la volontà stragista di Cosa nostra nel 1993”. L’impegno della magistratura “è tuttora doverosamente in atto”, assicura il procuratore nazionale Antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, durante la cerimonia al Palazzo di Giustizia. A suo parere, è un “compito che il tempo trascorso ha reso ancora più doveroso e urgente”, bisogna restare “coi piedi per terra, ma senza fermarsi, anche grazie ai molti elementi acquisiti anche recentemente, lo impone la straordinaria gravità di quei delitti, che sono imprescrittibili”. Nel corso della cerimonia è intervenuta anche la presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra, osservando come l’inasprimento delle misure antimafia, a seguito della strage di Capaci, e la ricaduta delle stesse sul regime penitenziario, abbiano indotto la Consulta “a occuparsi anche di recente della condizione di quanti, detenuti per delitti connessi alla criminalità organizzata, avessero avviato un percorso di ravvedimento e reciso i legami con le organizzazioni”. Una strada che, conclude Sciama, non costituisce una “deviazione dal cammino originario”, che riconosce la conformità alla Costituzione di misure per contrastare la criminalità organizzata, quanto “piuttosto un cammino parallelo”. La svolta della mafia stragista e le verità nascoste dal potere di Francesco La Licata La Stampa, 28 maggio 2023 Dopo i “nemici” Falcone e Borsellino, a Firenze Riina adotta la strategia politico-terroristica. Tra agende scomparse, documenti persi e testimoni incerti, la giustizia resta senza risposte. Trent’anni senza verità e, dunque, senza giustizia. Sarebbe un titolo perfetto per l’incredibile intreccio che ha macchiato la storia degli ultimi decenni della nostra Repubblica. Una vicenda piena di ombre e misteri, ma anche popolata da fantasmi inafferrabili e da vittime innocenti che hanno lasciato parecchio sangue sul terreno. Ieri correva il trentesimo anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Una tappa, forse la più cruenta, di un più vasto percorso che ha tenuto in ostaggio il paese dentro una voragine alimentata dal terrore e dallo stragismo mafioso sostenuto da forze oscure non sempre estranee alle istituzioni ufficiali. E per l’ennesima volta ci ritroviamo alle prese con l’inadeguatezza che impedisce lo squarcio di luce che porti alla verità giudiziaria di tanti fatti e misfatti, lasciando la poco piacevole sensazione di una verità negata che fa da schermo ad un’altra verità inconfessabile. La strage di Firenze è solo una parte di questa storia maleodorante che prende piede dalla fine degli Anni Ottanta e non trova ancora soluzione, a giudicare da quanto accade. La notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 una tremenda carica di esplosivo mafioso sventra la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, uccidendo Fabrizio Nencioni, la moglie Angela Fiume, le loro figliolette Nadia (9 anni) e Caterina di appena 55 giorni. Muore anche lo studente Dario Capolicchio. L’Italia rimane tramortita da tanta violenza premeditata. Il terrorismo politico era stato debellato e pochi sospettavano la possibilità che un altro cancro così feroce si abbattesse sul paese. Eppure più di un’avvisaglia c’era stata: il 14 maggio il giornalista Maurizio Costanzo e la moglie, Maria De Filippi, erano scampati miracolosamente al tritolo mafioso piazzato nelle vicinanze del teatro Parioli dove il conduttore registrava il suo programma. Qualche sera prima aveva intervistato la nuora del boss Francesco Madonia, forzandola a prendere le distanze dalla famiglia del marito. E prima ancora aveva platealmente bruciato, dal palcoscenico del teatro, la maglietta con su scritto “Mafia”. Ecco perché, come per riflesso condizionato, gli osservatori più attenti indicarono senza esitazione la pista mafiosa per entrambi gli attentati. Non sfuggiva che si stava sviluppando, neppure tanto sottotraccia, una strategia di aggressione allo Stato da parte di una organizzazione criminale, Cosa nostra, che evidentemente “chiedeva qualcosa” alle forze politiche, dopo aver subìto l’onta (per la prima volta nella propria storia) di condanne esemplari per la “mattanza” inflitta alle istituzioni con la soppressione sistematica di tutti i servitori dello Stato che si opponevano a Cosa nostra e, soprattutto, con la plateale aggressione di maggio e luglio ‘92, quando due autobomba avevano disintegrato i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte. E tutto questo per “tamponare” i “danni” provocati a Cosa nostra dal maxiprocesso di Palermo che, contro ogni aspettativa di Totò Riina e del suo gruppo dirigente, aveva inchiodato all’ergastolo (con sentenza definitiva) l’interna direzione strategica dell’organizzazione. Nel 1993, dunque, era già ben chiaro e delineato che tra Cosa nostra e lo Stato fosse guerra aperta. Ma fino a quel momento la guerra si era svolta con “armi convenzionali” e la mafia aveva concentrato le sue attenzioni verso acclamati nemici storici come Falcone e Borsellino. A un certo punto, però, la guerra cambia e Totò Riina abbraccia la strategia politico-terroristica. Il pentito Gaspare Spatuzza dice proprio così: “Una organizzazione criminale viene trasformata in gruppo terroristico. Una scelta che rinnega la stessa storia di Cosa nostra, mai prima di quel momento propensa a coinvolgere nelle guerre i cittadini inermi”. Evidentemente una simile scelta non può che essere frutto di condivisioni con “altri elementi esterni a Cosa nostra” che dalla strategia terroristica intendevano trarre vantaggi di altro tipo. Le carte giudiziarie, pur non disponendo di prove certe, questa “sinergia” la descrivono e consegnano all’opinione pubblica un intreccio di “concorso” nella strategia mafiosa da parte di elementi o addirittura organizzazioni collocabili nella grigia galassia dei servizi di sicurezza e di alcuni “collaboratori irregolari”, gravitanti nel mondo della destra estrema, come Stefano Delle Chiaie o Paolo Bellini, il freelance “nero” (appena condannato per la strage di Bologna) che agganciò il mafioso Antonino Gioè suggerendo la strategia dell’attacco ai beni artistici dello Stato. Una strada, quella del contatto irregolare con Bellini, che lo porterà al suicidio (suicida o suicidato?) nel carcere di Rebibbia. E non sempre i dati certi hanno poi ottenuto risposte investigative tra agende, borse e documenti scomparsi. Per esempio si sa con certezza quando Riina lancia la campagna stragista richiamando in Sicilia la squadra che avrebbe dovuto uccidere Falcone a revolverate, a Roma. Il gruppo di fuoco era di prim’ordine e guidato da capi del calibro di Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. A un certo punto Riina li fa tornare a Palermo: “Si fa qui, in altro modo”. Cioè con l’esplosivo, trasformando l’omicidio di un nemico in un “affaire” politico. Chi, cosa è intervenuto per un simile, enorme cambio di strategia? Una risposta a questa domanda sarebbe un buon passo avanti verso qualche verità. Ma né Graviano (che pure qualche segno di irrequietezza l’ha dato) né Messina Denaro sembrano intenzionati a parlare. Già, il nervosismo di Graviano che va preso con le molle, vista la capacità manipolatoria del soggetto. Il boss di Brancaccio ha concentrato le sue ammissioni in direzione di Silvio Berlusconi, raccontando di pregresse sinergie finanziarie tra la sua famiglia naturale e mafiosa e il cavaliere quando era soltanto un imprenditore milanese. Si parla di una ventina di miliardi di vecchie lire servite a foraggiare l’attività immobiliare di Berlusconi. Poi Graviano ha abbassato i toni, ma è arrivato l’ex gelataio Salvatore Baiardo, altro teste abbastanza ondivago che ha tirato in ballo addirittura l’esistenza di tre foto che ritrarrebbero il cavaliere di Arcore con Giuseppe Graviano e il generale Delfino, discusso agente segreto con un ruolo non limpido nella vicenda della cattura di Totò Riina. Il mistero delle foto è già costato il posto al conduttore Massimo Giletti, privato della trasmissione quando era prossimo a raccontare in TV tutta la vicenda. Eppure qualche conseguenza Graviano l’ha provocata: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (definitivamente condannato per concorso esterno) nuovamente indagati dalla Procura di Firenze, dopo essere entrati e usciti almeno due volte dalla vicenda delle stragi. Inutile sottolineare quanto difficile sia supportare con prove queste che gli avvocati degli imputati chiamano “suggestioni”. D’altra parte non c’è una sola inchiesta “complessa”, da Salvatore Giuliano in poi, che abbia riscosso un “premio verità”. Il potere difficilmente si fa processare e, quando deve, si fa processare e assolvere. Luca Tescaroli: “Per i pentiti servono più vantaggi, i boss preferiscono morire in cella” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 28 maggio 2023 Il pm delle nuove indagini: “Abbiamo il dovere di parlare contro l’omertà. Abuso d’ufficio? Con l’abolizione restano impuniti i reati peggiori”. “La mafia si basa sull’omertà prodotta dalla sua forza intimidatrice. L’omertà vive nel silenzio, che è il principale alleato della mafia. Il primo a capirlo fu Chinnici. Quindi noi magistrati abbiamo non il diritto, ma il dovere di intervenire per scongiurare il silenzio. Soprattutto in occasioni importanti come quella odierna”, dice Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze e coordinatore con Luca Turco delle nuove indagini sui mandanti esterni delle stragi del ‘93. Non si crea un’attesa spasmodica sull’esito delle inchieste? “Bisogna distinguere. Io non intendo riferirmi al contenuto delle indagini, su cui deve sussistere il massimo riserbo. Questo non significa che non si debba rendere conto dei risultati ottenuti. Io parlo delle sei sentenze già definitive, che hanno portato a 32 condanne per le stragi del ‘93-’94. I corleonesi piegarono lo Stato a suon di bombe per condizionare la politica legislativa di governo e parlamento”. Questa è una lettura storica? “Noi non facciamo gli storici. Si tratta di verità giudiziaria. L’obiettivo era incidere su 41 bis, norme sui collaboratori di giustizia, sequestri e confische di beni”. È ancora possibile andare oltre, dopo 30 anni? “Non è solo un obbligo giuridico, poiché le stragi non si prescrivono, ma anche un dovere morale nei confronti delle vittime inermi e innocenti”. Qual è la correlazione stragi- 41 bis? “Il 41 bis viene esteso ai mafiosi dopo la strage di Capaci del ‘92 e applicato la sera stessa di quella di via d’Amelio. Tanto questa misura era temuta, che le stragi del luglio ‘93 vengono eseguite subito dopo il primo rinnovo. Il 16 luglio il ministro della Giustizia decide di prorogare il 41 bis. Le notifiche ai 242 detenuti partono il 20 luglio e terminano il 27. La notte successiva si verificano le tre stragi simultanee a Roma e Milano. L’esplosivo era partito da Palermo per Roma il 20 luglio, per Milano l’indomani. C’è un nesso causa-effetto”. Il calcolo dei mafiosi si è rivelato errato. La loro strategia un boomerang. Le leggi antimafia sono rimaste, rafforzate… “Questo è il punto. Possibile che i mafiosi si siano comportati in modo così scellerato, contro il loro interesse? Oppure questa irrazionalità è solo apparente, perché cela interessi ulteriori ed esterni, perseguiti con le bombe?”. Perché dobbiamo ipotizzare un secondo fine? “È la modalità delle stragi del ‘93 a suggerirlo. Non uccidono un magistrato, un politico, le scorte. Uccidono persone sconosciute, di notte, in casa. Il messaggio è: tutti sono in pericolo, ovunque. Anche nel sonno. Come in guerra. Erano bombe per mettere in scacco la democrazia”. Il procuratore Melillo ha citato le rivendicazioni della Falange Armata… “Sono una prova ulteriore della matrice eversiva. Annunciavano che ci sarebbero state altre stragi, anche di giorno. Come quella allo stadio Olimpico di Roma, non realizzata per il mancato funzionamento del telecomando”. Perché non ci riprovarono? “È una domanda a cui finora le sentenze non hanno dato risposta. Fatto sta che la campagna stragista cessò”. È l’unica domanda senza risposta? “No. Ce ne sono altri, tra i quali perché volevano colpire i carabinieri, e in modo così devastante? Graviano aveva arricchito l’esplosivo con tondini di ferro”. Lei qualche ipotesi di risposta ce l’ha? “Il nostro ufficio è impegnato a fare quanto è possibile per appurare se ci furono convergenze di interessi da parte di soggetti esterni a cosa nostra, sia a livello ideativo sia a livello esecutivo. Uno scenario probabile. Il bicchiere della verità è quasi pieno. Stiamo cercando di capire se riusciamo a riempirlo”. I collaboratori di giustizia sono ancora importanti? “Le 37 condanne per la strage di Capaci, processo che io seguii a Caltanissetta, dipesero fondamentalmente da 8 collaboratori di giustizia. Le 32 condanne per le stragi del ‘93-’94 da 13 collaboratori. L’ultima collaborazione qualitativamente rilevante è quella di Gaspare Spatuzza nel2008. Da allora i boss hanno preferito morire in carcere, o sperare nella possibilità di fruire dei benefici penitenziari”. C’è una motivazione specifica? “La collaborazione va supportata in due modi: un efficiente servizio di protezione e una normativa che la incentivi. Il gap di trattamento tra pentiti e irriducibili si è ridotto. Ciò disincentiva le collaborazioni. Occorre una riflessione collettiva, posto che la valutazione finale spetta al legislatore”. Che cosa si potrebbe fare? “Servono ulteriori e tangibili vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato. Rimodulare il periodo decennale di necessaria detenzione prima di ottenere la libertà sarebbe uno strumento di sicura incentivazione, per collaborazioni importanti, attendibili e severamente controllate”. Lei è anche titolare di inchieste sulla pubblica amministrazione. Che pensa dell’abolizione del reato di abuso di ufficio? “Ci sono obblighi internazionali che impongono di punire condotte devianti della pubblica amministrazione. Per esempio i baroni che truccano i concorsi universitari. Li lasciamo impuniti? Naturalmente si tratta di scelte politiche che vanno rimesse al legislatore, ma a me sembrano condotte riprovevoli”. Il ministro Nordio sostiene che i magistrati non dovrebbero commentare le leggi in discussione. Altrimenti i politici commenteranno le sentenze… “Perché, scusi, non accade già?”. Brescia. Detenuto in cella di isolamento dopo atti autolesionistici muore per infarto di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 28 maggio 2023 Senza fissa dimora, è stato arrestato per questioni di droga. In carcere però ci è rimasto poco, solo tre giorni, nella giornata di ieri infatti è deceduto a causa di un malore fatale. Protagonista della vicenda un uomo di 40 anni di origine magrebina, affetto probabilmente da problemi psichiatrici. Nei tre giorni di permanenza a Canton Mombello l’uomo si è autoinflitto ripetutamente tagli alle braccia. Trasferito da una cella con altri detenuti a una cella in isolamento, nella giornata di ieri ha accusato un infarto ed è stato portato d’urgenza in infermeria. Disperati i tentativi di rianimarlo, purtroppo però il 40enne è deceduto. Non si tratterebbe di un gesto volontario, ma semplicemente di un tragico malore: la Procura di Brescia ha aperto - come da prassi per i decessi in carcere - un’inchiesta, disponendo l’autopsia sul cadavere. Pescara. Detenuto si dà fuoco per protesta, è ricoverato in condizioni gravissime di Fulvio Fulvi Avvenire, 28 maggio 2023 Detenuto tenta il suicidio dandosi fuoco. Momenti di grande tensione nella casa Circondariale San Donato di Pescara. Un detenuto di 40 anni, di origini marocchine, contestava un rapporto disciplinare e per questo aveva chiesto più volte di parlare con il comandante della polizia penitenziaria ma, mentre si recava nel reparto semiliberi del carcere, si è dato fuoco. Ora è ricoverato in condizioni gravissime nella divisione grandi ustionati dell’ospedale di Bari, e lotta tra la vita e la morte. L’episodio, avvenuto venerdì, è stato denunciato oggi (sabato 27 maggio) dal segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), Donato Capece, il quale ha chiesto, ancora una volta al Dap, “di potenziare il contingente di personale in forza nell’istituto penale pescarese, di dotare gli agenti di idonei dispositivi di protezione individuale e di provvedere a una funzionale ristrutturazione dell’edificio”. Il responsabile sindacale delle guardie carcerarie aveva effettuato nei giorni scorsi un sopralluogo nel carcere abruzzese insieme alla vice-capo dell’Amministrazione penitenziaria. Lina Di Domenico, rilevando che” a fronte di una popolazione di ben 379 reclusi, il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria consta di sole107 unità, la maggior parte dei quali di rilevante età anagrafica. Tutto ciò comporta - ha specificato Capece - che spesso il personale impiegato giornalmente è molto inferiore a quello realmente occorrente. La struttura è assai vetusta e necessita di importanti interventi che possano renderla più confortevole e, attraverso una riorganizzazione dei locali, anche più funzionale”. Inoltre, conclude il segretario del Sappe, “il comandante di Reparto assegnato in istituto, anziché essere costantemente presente per guidare i propri uomini nella critica illustrata situazione di cui sopra, sarebbe stato posto in distacco presso il Provveditorato per svolgere mansioni prettamente amministrative e/o di archivio, secondo quello che ci è stato riferito nel corso della visita’’. Il recluso protagonista del grave gesto di protesta deve scontare una pena definitiva ed era stato ammesso al lavoro esterno. Dopo il ricovero nell’ospedale di Pescara è stato trasferito d’urgenza in eliambulanza nella struttura specializzata del capoluogo pugliese. Teramo. I detenuti studiano per diventare panettieri e giardinieri rete8.it, 28 maggio 2023 Nella casa circondariale di Teramo saranno avviati tre corsi di formazione professionale per 40 reclusi che sceglieranno di studiare per diventare panettieri o giardinieri. L’intervento rientra nell’ambito del progetto della Regione Abruzzo Por Fse Abruzzo 2014-2020 destinato al reinserimento lavorativo dei detenuti. Capofila dell’iniziativa è l’ente di formazione teramano Eventitalia. Il progetto è rivolto ai detenuti, internati e soggetti in esecuzione di misure alternative alla detenzione dell’istituto penitenziario di Castrogno ed è finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo dei destinatari attraverso percorsi di formazione della durata di sei mesi per il conseguimento delle qualifiche professionali di “operatore di panificio” e “manutentore del verde”. In particolare, sarà avviato un corso per panettieri destinato a 10 detenuti della sezione maschile, mentre saranno due i percorsi formativi per giardinieri rivolti a 15 detenute della sezione femminile e a 15 detenuti della sezione maschile dell’istituto penitenziario di Castrogno. All’interno della struttura sono in corso di allestimento aule dedicate alle attività di scolarizzazione e di laboratorio. La casa circondariale di Teramo attualmente accoglie circa 400 detenuti collocati in 4 sezioni maschili e una sola sezione femminile con circa 40 donne. All’esterno delle sezioni vi è lo spazio di collocazione dei detenuti semiliberi per una capienza fino a 10 detenuti. Una parte di essi sta scontando una condanna in via definitiva e proviene dai territori circostanti. Vi è, poi, un’unica sezione, formata in maggior parte da detenuti provenienti da fuori regione, dove sono collocati i condannati in alta sicurezza per reati di stampo associativo e mafioso. La Legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo e stabilisce che alla persona che sta scontando una condanna o l’internato sia assicurata un’occupazione lavorativa. Nel nuovo quadro normativo il lavoro svolto dalle persone detenute è sostanzialmente allineato a quello svolto dai cittadini liberi. In tutte le sezioni dell’istituto i detenuti che lavorano sono remunerati. Dunque, acquisire una qualifica professionale si trasforma in una doppia opportunità lavorativa e di guadagno da sfruttare sia all’esterno che all’interno del carcere. Insieme a Eventitalia, capofila dell’Associazione temporanea di scopo che realizzerà il progetto, sono coinvolti come partner: l’Istituto Mecenate; l’Associazione provinciale Casartigiani Teramo; Natura e Vita e la Coop. Sociale Pro.in (due aziende facente parte del comparto della manutenzione del verde); Le due colline (società agricola con sede a Città Sant’Angelo produttrice di olio e uva); il Panificio Panetta Romeo; l’impresa edile Di Giampaolo Srl; la Fondazione Caritas Onlus di Pescara e Penne; la Coop. Sociale SFL Prospettive e Humangest, società specializzata in selezione del personale. Partner esterno sarà invece l’Istituto “Di Poppa-Rozzi” di Teramo. “Entrare in un carcere per fare formazione è un’esperienza unica - dice in una nota Floriana D’Ugo, amministratrice dell’ente formativo Eventitalia. Sono questi i progetti che più ci rappresentano perché sostengono i più deboli e offrono loro l’opportunità di reinserimento nella società attraverso qualifiche professionali richieste dal mercato del lavoro. Siamo orgogliosi di poter realizzare questi percorsi formativi soprattutto per il coinvolgimento delle donne detenute e spero che questo sia solo l’inizio di una collaborazione duratura con la casa circondariale di Teramo”. Soddisfatta del progetto anche la nuova direttrice dell’Istituto penitenziario teramano Lucia Di Feliciantonio che sottolinea che grazie alla “tipologia della struttura, costruita negli anni di piombo, intorno al 1977 e messa in funzione nel 1986, è possibile offrire alla propria popolazione detenuta alcuni percorsi professionali con una buona possibilità organizzativa. Infatti, la presenza di un laboratorio di cucina e degli spazi verdi che la circondano sono condizioni ottimali per lo svolgimento delle ore di formazione”. Palermo. Carcere e riabilitazione, l’inclusione vista dai volontari focusicilia.it, 28 maggio 2023 Oggi il convegno su “Esecuzione della pena fra detenzione, diritti e inclusione” che permetterà di esplorare le dinamiche che si vivono all’interno delle mura carcerarie. Ribadito il ruolo di studio, integrazione ed espressività in ambito penitenziario. Con il convegno “Esecuzione della pena fra detenzione, diritti e inclusione” prosegue oggi a Palermo, dalle ore 16, la Settimana culturale della legalità e del cambiamento promossa dai volontari dell’associazione Un nuovo giorno, dell’Asvope e dell’Avulss di Sciacca in collaborazione con il Cesvop (Centro servizi volontariato Palermo). L’evento si svolge al Ridotto della sala De Seta dei Cantieri Culturali alla Zisa. L’incontro permetterà di esplorare le dinamiche che si vivono all’interno delle mura carcerarie. Senza percorsi che stimolino interesse e facciano esplorare al detenuto le proprie doti e potenzialità, il rischio è il rafforzarsi delle pulsioni alla devianza e al porsi ai margini della convivenza sociale. Per questo gli interventi previsti racconteranno come lo studio, l’integrazione, la tutela dei diritti e l’espressività contribuiscano a potenziare il trattamento penitenziario nei suoi obiettivi riabilitativi. Parteciperanno Paola Maggio, delegata dell’Università di Palermo al Polo universitario penitenziario; Serena Romano, associazione Cledu; Alessandra Sciurba, coordinatrice della clinica Legale Migrazioni e diritti dell’Università di Palermo; Francesco Brancato Pres. Ass. Don Giuseppe Puglisi APS SD Palermo; Fabio Venditti, regista e giornalista; Alba Bartoli, attrice e regista; Antonio Turco, coordinatore consulta “Persone private della libertà” del Forum Nazionale del Terzo settore; detenuti coinvolti in progetti e percorsi rieducativi. L’evento come l’intera settimana, ha ricevuto il gratuito patrocinio del Comune di Palermo e si svolge grazie alla collaborazione dell’AICS, dell’Euroform, del Consorzio “Umana Solidarietà”, del Pro Movimento Minotauro per i diritti dei carcerati psichiatrici, e dell’associazione Il Profeta. Salerno. L’arte entra in carcere con un progetto che vede coinvolti 14 detenuti Il Mattino, 28 maggio 2023 L’arte entra nel carcere di Fuorni. La cerimonia di inaugurazione per l’arazzo di Raffaello Sanzio questo pomeriggio alle 18. L’opera resterà esposta fino al primo ottobre 2023, realizzato su cartone risale alla prima metà del XVII secolo, e raffigurante Ananias et Saphira, è di proprietà del mecenate Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona. “La mostra - si legge nella nota - nasce dall’azione sinergica della direzione delle carceri, rappresentata da Rita Romano, del suo team di educatori penitenziari e counselor, del curatore Michele Citro, della Fondazione della Comunità Salernitana Ets, rappresentata dalla dott.ssa Antonia Autuori, che ha sostenuto l’iniziativa nell’ambito delle proprie attività di sviluppo socioculturale del territorio ed è il pretesto per avviare un virtuoso progetto di arte sociale che coinvolgerà 7 detenuti e 7 detenute, adeguatamente selezionati e formati, personalità istituzionali locali e nazionali, storici e critici d’arte, direttori di musei, accademici italiani e stranieri di storia, diritto, filosofia morale, arte, architettura e design, rinomati professionisti e, poi, scuole, università, associazioni, fondazioni e musei”. “Il tutto- si legge ancora - con lo scopo di dimostrare che, nonostante i limiti e le restrizioni spaziali, il carcere può e deve essere un luogo di grandissima apertura mentale, spirituale e sociale”. L’evento sarà maggiormente valorizzato da una costante e massiccia comunicazione offline e online, 2 conferenze - una di inaugurazione, oggi (con ospiti il Procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli, i proprietari dell’arazzo e mecenati Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona e Lavinia Bilotti Ruggi d’Aragona, il direttore del Museo Diocesano di Gerace Giacomo Oliva ed il critico d’arte e curatore Andrea Guastella), ed una di approfondimento, mercoledì 7 Giugno (con ospiti la Presidente della Corte d’Appello di Salerno Iside Russo, il direttore della Galleria San Fedele di Milano Andrea Dall’Asta SJ, il Professore di Storia Moderna dell’Università di Bologna Vincenzo Lavenia, la Professoressa di Restauro Architettonico dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Marina D’Aprile, il Professore di Public Art e Performance della London Metropolitan University Jacek Ludwig Scarso, il designer di fama internazionale e Compasso d’Oro Alessandro Guerriero ed il saggista Giacomo D. Ghidelli). Sono possibili visite guidate aperte al pubblico una volta al mese. Cuneo. “Evasione letteraria” al carcere Cerialdo con Sebastiano Ramello lafedelta.it, 28 maggio 2023 In concomitanza con il salone internazionale del libro di Torino, la casa circondariale di Cuneo ha aperto le porte martedì 16 maggio ad un autore per offrire attraverso i suoi racconti un momento di “evasione letteraria” e di partecipazione alla vita della società esterna. Il compito quest’anno è stato affidato a Sebastiano Ramello, scrittore centallese, amante della scoperta e dei viaggi, con due libri (Echos edizioni) all’attivo: il primo dal titolo “La Maschera”, un thriller giallo internazionale basato su fatti di attualità, ambientato in diversi paesi del mondo, ed il secondo di recentissima pubblicazione dal titolo “In viaggio con Maneki”, una narrativa di viaggio in barca a vela nell’oceano atlantico alla scoperta delle isole Canarie. L’evento si è svolto alla presenza di una nutrita rappresentanza di detenuti e di alcuni volontari e docenti che svolgono la loro attività all’interno dell’Istituto. Un paio d’ore nelle quali il poliedrico Sebastiano Ramello, attraverso i suoi racconti di esperienze in giro per il mondo, ha saputo solleticare la fantasia della platea rispondendo alle domande più curiose che gli venivano rivolte e riscuotendo apprezzamenti da parte di tutti i presenti. Il direttore della Casa Circondariale di Cuneo Domenico Minervini desidera ringraziare coloro che hanno contribuito alla realizzazione dell’evento: “Un doveroso ringraziamento a Sebastiano Ramello per aver offerto la propria disponibilità consentendo di mantenere un collegamento costante con la società esterna affinché possano crearsi nuovi stimoli in chi vive la disavventura della detenzione, magari scoprendo nuove prospettive diverse da quelle che lo ha condotto all’interno di queste mura. Grazie all’impegno di tutti gli operatori, in particolare il personale di polizia penitenziaria che garantisce i necessari standard di sicurezza, i volontari e tutti coloro che hanno consentito la realizzazione. All’evento odierno ne seguiranno altri nell’ottica di un sempre rinnovato impegno a consolidare i ponti tra carcere e società”. Conclude Ramello: “È stata una delle più belle e interessanti presentazioni a cui mi hanno invitato, sicuramente una esperienza nuova e per me un piacere aver fatto parte di questo interessante progetto creato dal direttore dell’istituto e aver per qualche ora potuto portare i detenuti ad evadere con la mente e forse con i sogni”. Reggio Emilia. Liberi Art: “Sbagli, sofferenza e vita”. Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2023 Nell’ambito del progetto rieducativo Liberi Art, ideato da Anna Protopapa, docente volontaria degli Istituti Penali di Reggio Emilia, e realizzato con i detenuti della Casa Circondariale reggiana, dopo un lungo percorso di dialogo, confronto e riflessioni con gli stessi ristretti nel laboratorio artistico Liberi Art, nasce il progetto “ Sbagli, sofferenza e vita”, che consiste nella realizzazione di una serie di quadri, opere dedicate alla realtà del carcere: dalla consapevolezza dei propri errori, alla sofferenza per la separazione dagli affetti famigliari per la privazione della libertà personale, al dramma dei suicidi dietro le sbarre, e alla voglia di migliorarsi per cercare di vivere fuori dalle mura una vita nuova. Un’altra serie di quadri invece sono dedicate al Corpo di Polizia Penitenziaria e raffigurano diversi loghi del Corpo, oltre a un’opera dal titolo “Il male oscuro delle divise” per sensibilizzare anche la sofferenza e il fenomeno dei suicidi degli Agenti, e delle Forze dell’Ordine in generale. La prima opera di “Sbagli, sofferenza e vita”, che i detenuti hanno realizzato in mosaico, il logo del Gom “Gruppo Operativo Mobile” è stato donato personalmente dalla volontaria Anna Protopapa al Dott. Augusto Zaccariello, Primo Dirigente della Polizia Penitenziaria, Direttore della Scuola Allievi Polizia Penitenziaria di Parma e Direttore del Gom, alla presenza dei 12 Ispettori delle 12 Sezioni del 41 bis, presso la Sede Gom a Roma nella Scuola di Formazione e Aggiornamento Polizia Penitenziaria Giovanni Falcone il 23 Maggio scorso. In occasione dell’Anniversario della Strade di Capaci è stato donato anche un altro quadro raffigurante il volto del Giudice Giovanni Falcone realizzato dagli stessi ristretti partecipanti a Liberi Art. “Sbagli, sofferenza e vita” è il risultato positivo di un percorso, di crescita personale dei ristretti in primis di se stessi, e poi verso il prossimo che vivono il carcere nella condizione opposta alla loro. Un esito questo non “scontato” per chi vive la detenzione, ma possibile se nella rieducazione il primo insegnamento è la correzione e il rispetto reciproco, primo passo per il cambiamento, con questa riflessione conclude la volontaria Protopapa. Da Bruna a Tiziana, noi cittadini calpestati dalla violenza di Stato di Francesca Fagnani La Stampa, 28 maggio 2023 Cosa resta dopo, quando i riflettori si spengono su un fatto di cronaca, quando tv e giornali passano al servizio successivo? Il più delle volte i protagonisti della vicenda, le vittime dopo un’ubriacatura di attenzioni tornano un po’ storditi alla loro vita, sperando di migliorarla, disilludendosene poco dopo. A chi invece ha la responsabilità dei fatti accaduti basta stringere i denti, nella persuasione che appena la bolla mediatica si sgonfierà, il peggio sarà passato: “Dobbiamo aspettare, ha da passa’ ‘a nuttata”, come nella scena finale di Napoli milionaria. È spesso vero, ma non vale sempre, perché ci sono volte in cui i fatti di cronaca lasciano nel percepito collettivo qualcosa in più, un segno più profondo, un senso di sconforto più pungente. Quella che si chiude è stata una settimana importante sul fronte della legalità: mentre a Palermo si commemorava il trentunesimo anniversario della strage di Capaci, a Roma imperversava la polemica per l’elezione di Chiara Colosimo a presidente della commissione Antimafia, scelta che come è noto ha creato una violenta frattura con le associazioni dei familiari delle vittime, a cui non è stato dato alcun ascolto e peso, considerate alla stregua di mero ornamento da esibire giusto nelle varie celebrazioni annuali. Più in basso, molto più giù, per strada si sono verificati due episodi documentati da registrazioni video che hanno fatto il giro del web e che più di qualsiasi dibattito politico hanno coinvolto e scosso l’opinione pubblica; il primo è avvenuto a Milano, l’ignominiosa scena del pestaggio da parte di quattro agenti della Polizia locale di Milano di una donna trans brasiliana che in evidente stato di alterazione psicofisica e colpevole di schiamazzi è stata affrontata dagli uomini in divisa a suon di manganellate e spray urticante con cui è stata bloccata dopo un tentativo di fuga. Una violenza spropositata e ingiustificata rispetto alla condotta della donna, instabile e disarmata. Il sindaco Giuseppe Sala ha subito definito il fatto molto grave e la Procura ha aperto un fascicolo per lesioni aggravate dall’abuso della funzione pubblica, nelle stesse ore in cui il segretario del sindacato di Polizia locale Sulpl Davide Vincini dichiarava all’Adnkronos che quei quattro agenti “andrebbero lodati per il loro intervento, perché hanno evitato che la situazione degenerasse davanti ai bambini” della scuola elementare limitrofa, circostanza non confermata né dal preside, né dai genitori, così come non esiste riscontro alla ricostruzione fornita sempre dal sindacato secondo cui sarebbero intervenuti perché Bruna, così si fa chiamare, stava mostrando le proprie parti intime davanti ai bambini. Mentire per coprire abusi, una prassi già vista in passato e che ha avuto conseguenze nefaste per tutti, soprattutto per i tanti, quasi tutti, che indossano la divisa con onore. Colpisce che i due esponenti della Lega milanese, Silvia Sardone e Alessandro Verri abbiano immediatamente abbracciato le ragioni degli agenti a prescindere, senza verifiche, come se la difesa della categoria fosse un fatto ideologico e di partito, senza capire che proteggere i violenti nuoce in primis alla credibilità delle stesse forze dell’ordine. L’altro fatto violento della settimana va in scena a Livorno, dove un carabiniere sferra senza senso un calcio in pieno volto a un ragazzo tunisino, già tra l’altro immobilizzato a terra dal collega; il ragazzo aveva appena rubato in un supermercato delle cuffie per il cellulare e del cibo per cani ed era fuggito colpendo il vigilante, poi l’intervento della pattuglia di zona: prima un militare lo blocca in terra, poi il secondo lo colpisce con la scarpa in faccia, tenendolo per il collo mentre il ragazzo continua a implorare “così no, così no”. Scene importate dall’America più profonda e brutale. Va detto che stavolta la reazione dei carabinieri è stata immediata e senza ambiguità: “Tale condotta non è assolutamente in linea con i valori dell’Arma” fa subito sapere il comandante “il comportamento del militare verrà giudicato immediatamente e con il massimo rigore”. Del resto la vicenda della morte di Stefano Cucchi è una ferita che brucia ancora troppo per non aver consentito di sviluppare gli anticorpi necessari a isolare invece di insabbiare abusi di questo tipo. Certo va detto che anche in questo caso la presenza di un video pubblicato da “Welcome to favelas” sui suoi canali social ha reso incontrovertibile l’evidenza dei fatti per come si sono svolti. Vittime fortunate, verrebbe provocatoriamente da dire a fronte di quelle che resteranno anonime e senza giustizia perché per sorte non sono state immortalate da nessun cellulare. A questi due fatti della settimana ne va aggiunto un terzo, molto diverso dai primi e che ha avuto scarsa visibilità mediatica. Stavolta siamo a Roma, a Tor Bella Monaca, dove vive Tiziana Ronzio che ha fondato insieme ad altri cittadini “Tor più bella” un’associazione che denuncia e contrasta il degrado sociale e strutturale della zona, il cui vero welfare tra le torri delle case popolari alte 15 piani resta lo spaccio di cocaina ed eroina. Tiziana premiata per il suo impegno nel 2019 dal Presidente Mattarella ha ricevuto negli anni intimidazioni e ritorsioni di ogni tipo dagli spacciatori della zona, uomini a disposizione del clan di camorra Moccia che da vent’anni ha importato nel quartiere con successo il modello Scampia. “Le medaglie sono belle” mi dice Tiziana “ma non servono a niente se poi dopo il semaforo della via dove vivo non ho più nessuno. Entro nel mio palazzo con le stesse persone che ho denunciato”. Pochi giorni fa è stato scarcerato Giuseppe Moccia, figura apicale dell’omonimo gruppo criminale, che ha pensato bene appena fuori dal carcere di presentarsi da Tiziana, per ben sei volte nello stesso giorno. Ogni volta che usciva di casa Tiziana se lo trovava di fronte con la sua auto. La guardava sfidante e se ne andava. Lo ha fatto anche mentre l’attivista parlava con i carabinieri, che ben conoscono la situazione a dimostrazione dell’assoluto e arrogante senso di impunità con cui certi soggetti si muovono nel quartiere. E pensare che poco prima il sindaco Roberto Gualtieri, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il prefetto Lamberto Giannini ricevevano i ragazzi della scuola nel teatro di Tor Bella Monaca, in occasione della giornata della legalità. Una ritualità vuota se poi chi ha il coraggio di denunciare viene lasciato solo a fronteggiare paura e ritorsioni. Perché mai gli altri cittadini dovrebbero trovare coraggio e voglia di seguire l’esempio di Tiziana se poi le istituzioni celebrano sì gli anniversari ma dimenticano di starle vicino anche solo esprimendole solidarietà? Denunciare in fondo non è un atto di fiducia che si chiede all’inerme cittadino in chi dovrebbe poi garantirne la protezione? Un episodio questo certo diverso da quelli precedentemente ricordati, ma che con questi ha un comune punto di caduta che investe direttamente la credibilità e l’autorevolezza delle istituzioni. Quando la dignità umana in generale, e a maggior ragione quella degli ultimi viene calpestata con manganelli e calci in faccia da chi dovrebbe invece far rispettare le regole con la forza delle leggi e non della violenza, sopraggiunge nei cittadini un senso di smarrimento. Attenzione quindi a non archiviare da un giorno all’altro queste storie, perché la loro violenza ci resta addosso come un livido di sfiducia o peggio di assuefazione. La vita, se possibile: Laura Santi aspetta da oltre 400 giorni una risposta per il suicidio assistito di Flavia Amabile La Stampa, 28 maggio 2023 La donna chiede di poter decidere della sua esistenza qualora le sue condizioni peggiorassero ancora. Nessuno si azzardi a rinchiudere Laura Santi in una categoria, la disabile, la depressa, la disperata, quella che non può più muoversi, quella che vuole morire. Se proprio si vuole usare una definizione, bisogna attingere agli ossimori, gli unici in grado di rendere l’idea di chi sia davvero questa donna di 48 anni che vive a Perugia con una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla che le sta sottraendo gesti, energie, libertà. Bastano cinque minuti di conversazione per capire che Laura Santi a è un vulcano anche quando è immobile, una voce potente capace di urlare anche quando è costretta a spegnersi. Il 20 aprile del 2022 ha presentato una “richiesta di verifica delle condizioni per poter accedere all’aiuto medico alla morte volontaria”. L’Ausl non si è premurata di risponderle, da oltre 400 giorni Laura Santi, aspetta l’autorizzazione a poter accedere al suicidio assistito. Attenzione, però, lei non intende affatto morire. Non ora. Adesso pensa alla sua nuova sedia a rotelle elettrica. L’ha battezzata Pinkie e per molto tempo l’ha temuta. “Averla vuol dire che le mie condizioni sono peggiorate”, ammette. Però il tempo è troppo prezioso per perderlo a recriminare. “Ora che l’ho avuta sono felice comunque di poter andare in giro senza essere spinta da nessuno”. E quindi programma la vacanza di quest’estate su per i sentieri delle Dolomiti con il marito Stefano Massoli, la persona che l’assiste 24 ore al giorno. Questa è Laura Santi, una donna che ha intenzione di assaporare ogni istante di vita finché il corpo glielo consentirà. Quando non sarà più possibile vorrebbe avere in tasca il documento che rappresenta l’ultima forma di libertà che la sua malattia le offre, il suicidio assistito. Non una concessione ma un diritto, spiega lei che è anche consigliera generale dell’associazione Luca Cascioni per la libertà di ricerca scientifica. La procedura avviata otre 400 giorni fa segue l’iter previsto dalla sentenza costituzionale 242 del 2019, Un iter lento, farraginoso, che richiede continue sollecitazioni. Dopo numerose diffide il 7 novembre a casa di Laura Santi è arrivata una commissione medica. I dottori hanno parlato a lungo con lei, l’hanno riempita di belle parole e ringraziamenti, hanno redatto un parere di 13 pagine “dal tono interlocutorio”, racconta Laura Santi. Da quel momento l’iter si è fermato per la mancanza del parere da parte del Comitato Etico e, per essere più precisi, per la mancanza del Comitato etico. “Quindi sto qui, congelata, in attesa. Continuo a fare la mia vita. Quando sto bene non ci penso. Quando la malattia morde con la sua ferocia vorrei sapere di avere il foglio di carta in un cassetto. Mi farebbe stare meglio avere la sicurezza di essere libera di andare avanti oppure no. Vorrei sapere che quella porta c’è, esiste, e se voglio, posso decidere di aprirla, quando voglio. Una consapevolezza che, sono convinta, farebbe vivere molto più serenamente la mia malattia e quella di tanti altri pazienti con patologie ancora più gravi. Per questo sto valutando la possibilità di procedere per vie legali”. È proprio la Corte Costituzionale ricorda Laura Santi - che ha voluto “che le scelte sul fine vita fossero verificate e rispettate, è quindi inaccettabile che le istituzioni continuino a non mettere in pratica quello che la Consulta ha indicato, lasciando noi malati in un’attesa senza fine”.