La tenerezza e la giustizia di Carla Forcolin Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2023 Interessante e coinvolgente come sempre il convegno tenuto al “Due Palazzi” il 19 maggio. La spinta principale a parteciparvi mi è venuta dal progetto che sto conducendo con un finanziamento della Regione Veneto e in collaborazione con l’USSM, dal titolo “Arrampicare”. L’idea è quella di accompagnare i ragazzi in montagna, perché vi si cimentino. Perché si confrontino con la roccia, con la paura di salire in cima alle pareti, di scendere in corda doppia; perché imparino a sostenersi a vicenda nelle cordate, a partecipare disciplinatamente ad ogni uscita, ad usare bene corde e discensori … perché si divertano, si sentano importanti, ne traggano soddisfazione, aumenti la loro autostima, diventino amici, trovino una nuova passione sana per la vita. Dopo il convegno, vedendo i “miei” ragazzi in cima ad una montagna, che mi facevano il segnale di vittoria, mi sono quasi commossa. I racconti delle madri che parlavano di figli giovanissimi capaci di terribili atti di autolesionismo, mentre erano rinchiusi, mi tornavano alla mente. I giovani vanno recuperati in tutti i modi possibili. Per fortuna a qualche mente illuminata e poi a tutto il nostro sistema di giustizia è giunta l’idea che i giovanissimi non si recuperano rinchiudendoli in prigione. Almeno per loro, di solito, si cerca di allontanare la “vendetta” della società, di cui parlava Gad Lerner nel convegno, e di mettere in atto un percorso di presa di coscienza degli errori compiuti. Nel progetto che sto facendo, mi pare che il confronto tra la paura che si prova nel compiere un’impresa sportiva di cui poi si sarà fieri e quella provata in una rissa che ha portato con sé solo male, diventi palpabile. I ragazzi parlano di adrenalina buona e adrenalina cattiva, confrontando i diversi stati d’animo. Ma la cosa più importante è che, dopo un’impresa difficile di cui si va fieri, si ha voglia di fare per sé altre cose belle, di recuperare vecchi sogni, già messi nel cassetto. “Io volevo diventare un motociclista”, “Io un campione di calcio”, “Io volevo finire gli studi, non farmi espellere dalla scuola… E se recuperassi?”. “Ma che cosa hai combinato per finire in Messa alla prova” - chiedo talora - “Ho fatto una cosa brutta, e non la voglio fare più” gli occhi si abbassano, la cosa brutta non viene specificata, ma l’importante è che non sia più ripetuta, che l’esperienza della perdita della libertà assoluta, cosi intesa, si riveli utile. Ho l’impressione che spesso “le vittime” siano altri ragazzini, che tra gli aggressori e gli aggrediti ci sia la stessa provenienza di classe. Tutti vogliono soldi, e pochi di questi giovani provengono da ambienti dove i soldi si guadagnano con il duro lavoro. Ma un lavoro bello, che dia un guadagno sicuro, soldi “legali” (così dicono) è sempre in cima ai desideri e così ecco che la montagna diventa un facilitatore: dopo ascensioni e discese fatte per piacere, si scopre che c’è un lavoro che le utilizza, si può entrare nell’edilizia in sospensione. È un lavoro che attira e il CeVe è lì a formare i ragazzi. I corsi costano cari, ma questa volta paga il finanziamento regionale. Si fa il corso, si accendono speranze fondate di poter lavorare con soddisfazione. Gli occhi brillano. Il lavoro può salvare una vita dalla delinquenza, la montagna può dare gratificazione, gioia, pace. Guardo i ragazzi, i volti ancora quasi infantili. Non si può permettere che si perdano ancora prima di essere diventati uomini. La tenerezza che suscitano va coniugata con il senso di giustizia. La montagna non fa sconti a nessuno, ma si lascia conquistare da chi si allena tenacemente, provando e riprovando, mettendosi alla prova. Il caso del procuratore capo di Viterbo: un segnale importante contro i rischi di impunità di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2023 La procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per il collega procuratore capo di Viterbo per non aver dato seguito alle segnalazioni del garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia su presunte violenze avvenute nel carcere cittadino. Vedremo cosa accadrà il prossimo 29 giugno all’udienza preliminare. Un segnale importante, per combattere qualsiasi tentativo istituzionale di avallare l’impunità di chiunque abbia un ruolo ufficiale e si macchi di violenza contro le persone che è incaricato di custodire. I fatti sono questi: nel marzo del 2018, una delegazione dell’ufficio del garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio si reca in visita al carcere Mammagialla di Viterbo. Tra loro c’è l’avvocata Simona Filippi. Effettuano colloqui con varie persone detenute e constatano come alcune di esse riportino sul proprio corpo dei segni di violenza. I racconti sono tutti simili tra loro: pestaggi nei locali delle docce o in quelli degli agenti, luoghi sottratti alla registrazione delle videocamere interne. Ricordo ancora l’angoscia nello sguardo di Simona Filippi mentre mi racconta di un ragazzino che aveva incontrato durante la visita. Lo stavano portando in infermeria. Lei incrocia il suo sguardo e lui le fa capire di volerle parlare. Lei chiede agli agenti di condurlo per pochi minuti nella stanzetta dei colloqui. Loro fanno resistenza: bisogna andare in infermeria. Lei insiste: si tratta solo di pochi minuti. Il ragazzo entra nella stanzetta, chiudono la porta. È esile, con un viso da bambino. Ha 21 anni. Sa di avere solo pochi minuti e va subito al sodo. Si solleva la maglietta e mostra il corpo lacerato. Il suo nome è Hassan Sharaf. Racconta di essere stato brutalmente picchiato il giorno precedente. Racconta di sentire come un fischio costante, probabilmente ha un timpano rotto. Chiede aiuto, dice di aver paura di morire, che spesso i detenuti stranieri vengono picchiati. Poi finisce il tempo, deve tornare dagli agenti. Quella sarà la prima e l’ultima volta che Simona lo vedrà vivo. Nelle settimane successive Stefano Anastasia invia un esposto dettagliato al procuratore. Descrive circostanziatamente tutto quanto è stato raccontato dalle varie persone detenute con le quali hanno avuto modo di parlare. Descrive l’incontro con Hassan. Descrive i colloqui con gli altri detenuti. Ma il procuratore lo ignorerà. Passano di nuovo poche settimane. Ricordo la telefonata di Simona Filippi all’ufficio di Antigone nella quale ci informa che il ragazzo si è impiccato ed è morto. Era troppo terrorizzato per restare in quel carcere e aveva trovato da solo l’unico modo per andarsene. Non ci sarà riunione successiva nella quale non ci parli dei suoi sensi di colpa per non essere stata capace di salvarlo. Nonostante ciò, ad agosto il procuratore cestina la denuncia del garante. Incredibilmente, la cataloga tra gli eventi che non costituiscono notizia di reato. In seguito il procedimento verrà avocato dalla procura generale di Roma. La decisione della procura di Perugia lancia oggi un segnale importante a difesa dei più deboli. Hassan Sharaf era arrivato in Italia a 14 anni su un barcone. Si trovava in carcere per qualche grammo di hashish. Solo dopo la sua morte il garante regionale ha scoperto che il ragazzo avrebbe dovuto trovarsi in un carcere minorile, visto che stava scontando quattro mesi per un reato commesso da minorenne. Vite ai margini, come tante di quelle che riempiono le nostre galere. Vite che faticano a tutelarsi da sole e nei confronti delle quali la piccola quota disonesta e violenta degli operatori penitenziari ha potuto troppo spesso in passato contare su coperture e omertà. Oggi si parla di intervenire sulla legge che rende la tortura un crimine. A Santa Maria Capua Vetere è in corso il più grande processo per tortura d’Europa. Ricorderete le immagini video del feroce pestaggio ai danni di un intero reparto avvenuto durante il lockdown. Sono oltre cento gli imputati. Cambiare adesso la legge sulla tortura, con le capziose motivazioni ufficiali proposte dal governo, significa mettere in questione anche quel processo. E uccidere di nuovo i troppi Hassan Sharaf della nostra storia. *Coordinatrice di Antigone Nordio: “Intercettazioni, riforma radicale ma senza indebolirle” di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2023 La riforma delle intercettazioni si farà e “sarà radicale” - ma solo sul versante della divulgabilità, non su natura e limiti dello strumento investigativo e non sulla responsabilità dei cronisti - l’addio all’abuso d’ufficio è un tema condiviso in modo trasversale “anche se non tutti i sindaci possono dirlo”. E ancora “autonomia e indipendenza della magistratura restano un punto fermo” però non è più ammissibile che il pubblico ministero italiano sia “l’unico al mondo con un potere effettivo (di dirigere polizia giudiziaria e indagini, ndr) ma senza alcuna responsabilità”. Infine nella Costituzione dovrà trovare più spazio il liberalismo di De Nicola che 75 anni fu schiacciato dalle due visioni diversamente trascendenti di cattolici e marxisti. In un’ora di intervista pubblica nell’affollato palazzo della Regione, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sollecitato dal direttore dell’Ansa Luigi Contu, ha toccato molti dei temi più accesi - e da sempre divisivi - del terzo potere. Cominciando da un omaggio, non inedito peraltro, alla sua predecessora Marta Cartabia, grazie alla quale “siamo messi molto bene con il Pnrr” al netto di alcune previsioni diatoniche (per esempio i io milioni di fascicoli già smaltiti prima ancora di iniziare) e sulla cui scia “la digitalizzazione resta la precedenza assoluta” per migliorare tempi ed efficienza del pianeta giustizia. Un pianeta che però in Italia ha da sempre orbite tutte sue, che non la fanno tanto apprezzare in giro (“non solo dai miei omologhi europei, ma soprattutto dagli imprenditori che hanno difficoltà a investire qui perché la giustizia è lenta e il diritto incerto”) e che è ancora pervaso da quella “pigrizia mentale nel fare le riforme, una difficoltà genetica nella nostra mentalità giuridica nell’accettare il nuovo: anche se “si è sempre fatto cosi” non significa che si è fatto bene”. Però le riforme si faranno perché c’è una maggioranza “più ampia e coesa” rispetto al precedente parlamento: a breve termine i ritocchi urgenti, nel medio termine gli interventi “radicali”. Sulle intercettazioni “non sparate sul cronista, scrissi già 25 anni fa”, ma si punterà su chi vìola il segreto; sulle carriere della magistratura (“non vorrò mai vedere un Pm soggetto all’esecutivo, ma nemmeno come ora irresponsabile” delle sue azioni - e anche di quei 200 milioni/anno spesi per intercettare, con il 95% del registrato “totalmente inutile”) e magari anche sulla procedura penale del 1989 (“demolita dalle leggi successive e dalla Consulta”), ma forse non si toccherà il diritto sostanziale (Codice Rocco) che pure anziano “regge bene” quantomeno nell’impalcatura della imputabilità. E, tanto per non lasciare nulla di opaco, la sottolineatura su Montesquieu: i magistrati non possono fare “diritto creativo” né criticare il merito delle leggi (ma semmai gli aspetti tecnici di funzionamento”) mentre i politici “non devono criticare le sentenze”. Strage dei Georgofili, 30 anni senza giustizia di Giuseppe Legato La Stampa, 27 maggio 2023 Il 27 maggio 1993 l’esplosione. A Firenze c’è un’inchiesta ancora aperta: caccia ai mandanti occulti esterni alla mafia. All’inizio, poco dopo l’1,04 del 27 maggio 1993, quasi d’istinto, si pensò: “È una fuga di gas”. Troppo forte il botto, troppi danni, troppe vittime. E perché mai a Firenze, a due passi dagli Uffizi, sarebbe dovuto accadere qualcosa di diverso da questo? Da una sciagura? Da una tragica fatalità? Ma già all’alba, quando il sole cominciava a sorgere e le luci delle autobotti dei pompieri diventavano inutili, saltò fuori un cratere di un metro e mezzo che aprì la mente degli investigatori a un’altra drammatica pista: quella dell’attentato. Lo raccontava la voragine nella strada, un buco nella storia “nera” del nostro Paese causata da un carico di tritolo di 277 kg stipato - si scoprirà solo dopo - da Cosa Nostra dentro un Fiat Fiorino parcheggiato in zona. Qualcuno “di estrazione non mafiosa” ci aggiungerà il T4, esplosivo plastico militare. La Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, fu risparmiata dal fuoco ma si accartoccerà, frammenti dai vetri della Galleria degli Uffizi schizzarono via. Morirono Angela Fiume, 36 anni, la custode dell’Accademia dei Georgofili. Con lei il marito Fabrizio Nencioni, 39, ispettore dei vigili urbani e le figlie Nadia, 9 anni, e Caterina, 50 giorni appena. Perse la vita anche Dario Capolicchio, 22 anni, di Sarzana (La Spezia): studiava architettura a Firenze. Altre 48 persone restarono ferite. Gravissimi i danni al patrimonio artistico: colpiti anche alcuni ambienti della Galleria degli Uffizi e del Corridoio vasariano, il 25% delle opere d’arte presenti fu danneggiato. Saranno poi le indagini, coordinate dal procuratore capo Piero Luigi Vigna a cui seguiranno altri magistrati, ad accertare che la strage fu progettata e organizzata da Cosa Nostra per costringere lo Stato a scendere a patti sul carcere duro e sulla legge sui pentiti, nell’ambito di una campagna terroristica in continente che comprendeva anche l’attentato fallito a Maurizio Costanzo, le autobombe in via Palestro a Milano e alla basilica di San Giorgio al Velabro a Roma, fatti avvenuti sempre nel 1993. Senza dimenticare la tentata strage dei carabinieri allo stadio Olimpico. A Firenze, in procura (competente per territorio), c’è un’inchiesta ancora aperta a 30 anni dai fatti. Ed è caccia ai possibili mandanti cosiddetti esterni o occulti. La storia giudiziaria ha già detto che tra esecutori e mandanti di Cosa nostra sono stati condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. E l’arresto di quest’ultimo, avvenuto a Palermo lo scorso 16 gennaio per capirci, ha chiuso la stagione degli stragisti, ma non il mistero su quel tritolo che ha squarciato la notte di Firenze. L’hanno ribattezzata “Operazione Tramonto”: un tributo alla poesia di una delle vittime di quell’attentato. L’aveva scritta Nadia pochi giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va / il tramonto si avvicina, un momento stupendo / il sole sta andando via (a letto) / è già sera tutto è finito”. È ancora appesa nella sede del gruppo speciale dei carabinieri in un hangar nell’aeroporto militare di Boccadifalco. Luigi Dainelli, zio della bimba, da tempo chiede verità: “Il boss parli - disse a La Stampa quattro mesi fa -, vogliamo conoscere i nomi delle menti raffinatissime”. Ma in realtà già a partire dalla metà degli anni 90, su questo fronte, erano iniziate le indagini, accertamenti tuttora in corso e che hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati, tra gli altri, di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. I pm voglio indagare ancora “per capire se sia processualmente provabile una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione nell’esecuzione delle stragi. Una cosa è certa. Dopo l’ultima, tentata strage, allo stadio Olimpico, Berlusconi, a marzo del 1994, fu eletto presidente del Consiglio e la stagione delle bombe finì. È storia”. Nei giorni scorsi, il pm titolare delle indagini, Luca Tescaroli, ha spiegato come “sia un obbligo giuridico continuare a indagare”. Per la memoria innanzitutto “delle vittime innocenti” ma anche “per via del pericolo generato per la nostra democrazia” da quei fatti. Le inchieste sui mandanti occulti delle “stragi continentali”, tra cui quella di via dei Georgofili, in questo lungo arco di tempo, sono state archiviate per quattro volte. Ma recentemente ne è stata aperta una quinta. Misteri su misteri. Come le dichiarazioni nel processo “‘Ndrangheta stragista” di Giuseppe Graviano, uno dei condannati definitivi, seguite, negli ultimi tempi, dal suo ex fedelissimo, nonché favoreggiatore, Salvatore Baiardo, personaggio controverso che ben si adatta al torbido scenario di quegli anni. O come quegli strani contatti tra soggetti della destra estrema e i Corleonesi proprio nel frame temporale in cui in Sicilia si pensava di spostare l’attacco frontale allo Stato sui beni culturali: il punto più alto del pericolo per la nostra democrazia. Colloqui senza vetro al 41 bis: la Consulta rigetta, ma per i 14enni riconosce la discrezionalità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2023 La Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni sollevate, ma ha evidenziato che si possono autorizzare quelli per i ragazzi sopra i 12 anni e suggerisce alternative, senza sacrificare gli interessi del minore. La Consulta dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al divieto dei colloqui senza vetro divisorio al 41 bis anche per i minori fino a 14 anni. Ma nello stesso tempo, precisa che la magistratura di sorveglianza ha la possibilità, usando il potere di discrezionalità, di autorizzare tali colloqui senza vetro divisorio anche con minori sopra i dodici anni, purché vi siano motivazioni opportunamente motivate. In sostanza, l’utilizzo del vetro divisorio al 41 bis anche per i minori sopra i 12 anni non è imposto esplicitamente dalla legge, quindi tecnicamente è possibile anche derogare tale regola. Ecco perché la Consulta - con la sentenza numero 105 del 2023 - ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi di Spoleto tramite due ordinanze - una delle quali a seguito dell’istanza dell’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila - che aveva ritenuto illegittimo non consentire i colloqui senza vetro anche ai minori sino agli anni 14. In sostanza, esistendo la discrezionalità, per i giudici costituzionali non esiste un divieto assoluto e le circolari del Dap che regolano tali colloqui non sono “Contra lègem”. La Consulta ha chiarito come una disciplina che escluda completamente la possibilità di mantenere un contatto fisico durante i colloqui visivi con i familiari, incluso con quelli in età più giovane, sarebbe certamente in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione. Ma tale esclusione, sulla carta non esisterebbe. La Corte ha evidenziato che i colloqui con i familiari rappresentano un momento a rischio per l’obiettivo del regime detentivo differenziato, ovvero impedire i collegamenti tra i detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e i membri di tali organizzazioni che sono liberi. Pertanto, durante i colloqui, è legittimo adottare misure rigorose per impedire il passaggio di oggetti. Tuttavia, il legislatore non ha specificato le soluzioni tecniche pertinenti, limitandosi a richiedere che i locali destinati ai colloqui siano “attrezzati” per prevenire tale passaggio. La Consulta chiarisce che l’utilizzo del vetro divisorio, sebbene sia la soluzione più idonea per raggiungere l’obiettivo di legge, non è imposto esplicitamente dal testo della disposizione. Di conseguenza, non è illegittima la circolare dell’amministrazione penitenziaria che consente colloqui senza schermatura con i familiari minori di dodici anni. Nel contempo ci tiene a sottolineare che l’indicazione contenuta nella circolare non impone una scelta rigida che potrebbe non essere adeguata alle specifiche esigenze di ogni singolo caso. Entrando nello specifico, la sentenza della Consulta riporta che prima della trasposizione in legge delle misure restrittive del regime detentivo differenziato, l’amministrazione penitenziaria aveva riconosciuto la necessità di bilanciare gli interessi coinvolti, in particolare per quanto riguarda il divieto di passaggio di oggetti durante i colloqui. Già con una circolare del 1998, era stata consentita la fruizione dei colloqui senza vetro divisorio con i figli minori di sedici anni. Successivamente, con un’altra circolare del 1998, questa soglia di età è stata abbassata a dodici anni, e tale prassi è stata mantenuta nelle circolari successive, estendendo la deroga anche ai nipoti minori di dodici anni. Anche nell’ultimo atto amministrativo del 2017 che regola il regime detentivo differenziato, viene evidenziato il bilanciamento tra il diritto del detenuto di mantenere rapporti affettivi con i figli e nipoti e la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. La circolare prevede che i colloqui con i figli e nipoti minori di dodici anni possano avvenire senza vetro divisorio, con videoregistrazione e ascolto, ma mantenendo la presenza degli altri familiari dall’altra parte del vetro. È anche previsto un controllo con metal detector prima e dopo il colloquio, mentre la perquisizione manuale è consentita solo per ragioni di sicurezza comprovate. La Consulta afferma che il legislatore, nel codificare le disposizioni riguardanti i colloqui visivi dei detenuti, non ha specificato in dettaglio le soluzioni tecniche da adottare per impedire il passaggio di oggetti durante tali colloqui. La giurisprudenza di legittimità ha considerato legittima la previsione di consentire i colloqui senza vetro divisorio con i figli e nipoti minori di dodici anni, come indicato nella circolare del 2017. La sentenza chiarisce che l’utilizzo del vetro divisorio, sebbene possa essere efficace nel prevenire il passaggio di oggetti, non è obbligatorio secondo il testo normativo. Inoltre, considerando altri interessi costituzionali coinvolti nella disciplina dei colloqui tra detenuti e minori, si suggerisce che diverse soluzioni tecniche, come l’uso di telecamere di sorveglianza o la posizione strategica del personale di vigilanza, potrebbero essere altrettanto adeguate per raggiungere l’obiettivo della disposizione senza sacrificare l’interesse del detenuto o del minore. La sentenza, dichiarando non fondate le questioni sollevate dal magistrato di Sorveglianza, sostiene che, in presenza di una disposizione di legge che indica chiaramente l’obiettivo di impedire il passaggio di oggetti durante i colloqui, le soluzioni adottate devono essere adeguate alla situazione specifica affrontata dall’amministrazione penitenziaria. La circolare del Dap fornisce direttive uniformi che sollevano l’amministrazione dall’obbligo di motivare dettagliatamente ogni richiesta di colloquio senza vetro divisorio con familiari minori. Questa indicazione - sempre secondo la Consulta - non impedisce deroghe specifiche alla regola del vetro divisorio, neanche per i colloqui con minori sopra i dodici anni, ma allo stesso tempo non attribuisce una pretesa assoluta alla condivisione dello stesso spazio libero, neanche durante i colloqui con minori sotto i dodici anni. L’amministrazione penitenziaria o la magistratura di sorveglianza possono quindi autorizzare colloqui senza vetro divisorio anche con minori sopra i dodici anni, purché vi siano motivazioni valide, opportunamente motivate, che escludano la possibilità che i minori vengano strumentalizzati per scambiare informazioni, ordini o direttive. Eppure, il magistrato di Sorveglianza, nell’ordinanza ha sollevato esattamente la questione, perché, di fatto, rimane una misura discrezionale e quindi “eccezionale” quella che teoricamente potrebbe permettere anche i colloqui con i minori superiori a 12 anni senza vetro divisorio. Si chiede di riportare in maniera esplicita la soglia a 14 anni. Tale parametro si basa su diversi motivi, tra cui gli articoli 31 e 117 della Costituzione italiana e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio tra la sicurezza e i diritti in gioco, con una valutazione che tenga conto del superiore interesse del minore e dell’adolescente. D’altronde questo principio fondamentale, che dà la priorità ai diritti del minore, ha spinto la Corte costituzionale a intervenire in passato, ad esempio nel contesto penitenziario, per rimuovere automatismi che limitavano la piena realizzazione di tali diritti a causa della pericolosità sociale dei genitori coinvolti. Il momento del colloquio visivo è l’unico in cui il rapporto con il genitore può esprimersi, specialmente se il genitore è detenuto e ancora di più se si trova al 41 bis. In questo contesto, soprattutto quando il minore è ancora un bambino o si trova nelle fasi dello sviluppo, il contatto fisico con il genitore assume un ruolo centrale, non sostituibile da un dialogo che può essere ostacolato dal vetro o inefficace nel creare un rapporto umano già compromesso dalla situazione di detenzione. La questione sollevata richiamava l’attenzione sull’importanza di considerare l’interesse del minore nella determinazione delle politiche e delle disposizioni riguardanti i colloqui visivi con i detenuti. Detenuti al 41-bis, con i figli possibili colloqui anche senza il vetro divisorio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2023 Al 41 bis ammessi colloqui con i minori anche senza divisorio. Corte costituzionale: non è obbligatoria la scelta dello schermo fisso per impedire passaggi. Per la Corte costituzionale sentenza n. 105 del 2023 (redattore Nicolò Zanon) la norma non impone sempre l’impiego del vetro divisorio “a tutta altezza” durante i colloqui con i familiari minori d’età. In presenza di una disposizione di legge che indica con chiarezza l’obiettivo - impedire il passaggio di oggetti durante i colloqui tra i detenuti sottoposti al regime detentivo dell’articolo 41-bis e i loro familiari - le soluzioni per raggiungerlo vanno necessariamente adeguate alla situazione concreta, tenendo conto sia dei diritti del detenuto, sia di quelli del familiare minorenne. Lo ha stabilito la sentenza n. 105 del 2023 (redattore Nicolò Zanon), dichiarando non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto. Il giudice rimettente riteneva che l’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b), dell’ordinamento penitenziario imponesse che i colloqui del detenuto in regime differenziato, anche con i familiari minori d’età, avvengano sempre con l’impiego del vetro divisorio “a tutta altezza”. Per questo, dubitava che la disposizione violasse la Costituzione (in particolare l’articolo 27), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quella sui diritti del fanciullo. La sentenza chiarisce che è possibile, invece, fornire una interpretazione costituzionalmente orientata del testo di legge, che garantisca un trattamento penitenziario non contrastante con il senso di umanità, anche a tutela del preminente interesse dei minori. Infatti, una disciplina che escluda totalmente la possibilità di mantenere, durante i colloqui visivi, un contatto fisico con i familiari, finanche nei confronti di quelli in età più giovane, si porrebbe in contrasto con quanto disposto dall’articolo 27 della Costituzione. La Corte è peraltro consapevole che i colloqui con i familiari o con terze persone rappresentano uno dei momenti a più alto rischio per l’obbiettivo perseguito dal regime detentivo differenziato, cioè quello di impedire i collegamenti degli appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà. A questo scopo, quindi, è legittima, durante i colloqui, l’adozione di rigorose misure per impedire il passaggio di oggetti. Il legislatore, però, non ha specificato le pertinenti soluzioni tecniche, limitandosi a richiedere che i locali destinati ai colloqui siano “attrezzati” in modo da impedire tale passaggio. La sentenza, quindi, chiarisce che l’impiego del vetro divisorio, pur essendo la soluzione maggiormente idonea a raggiungere l’obbiettivo di legge, non è imposto dal testo della disposizione. Ne deriva, in particolare, che non è illegittima la circolare dell’amministrazione penitenziaria, la quale consente colloqui senza schermatura con i familiari in linea retta minori di dodici anni. La Corte precisa, inoltre, che l’indicazione contenuta nella circolare non impone, a sua volta, una scelta rigida, che potrebbe non risultare adeguata, per eccesso o per difetto, alle specifiche esigenze del caso singolo. Questa indicazione, da un lato, non può impedire una deroga puntuale, adeguatamente motivata, alla regola del vetro divisorio, anche per i colloqui con minori ultradodicenni; dall’altro lato, e all’inverso, non attribuisce una pretesa intangibile alla condivisione del medesimo spazio libero, nemmeno durante i colloqui con minori infradodicenni. Firenze. Il Csm e la Cei in visita a Sollicciano, prima tappa di un percorso di ascolto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2023 Il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli e una delegazione composta dai consiglieri laici e togati del Csm: Daniela Bianchini, Ernesto Carbone, Antonello Cosentino, Eligio Paolini, al vice Segretario Generale Gabriele Fiorentino e al Consigliere giuridico Fabio Antezza si sono recati in visita alla Casa circondariale di Sollicciano dove, insieme al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale, Matteo Maria Zuppi, hanno visitato le diverse articolazioni del carcere. La visita a Sollicciano con la Cei è la prima tappa del percorso d’ascolto del Csm, che proseguirà con altre visite agli istituti penitenziari italiani con esponenti di Istituzioni, avvocatura e associazioni della società civile. La prima visita del Csm in un Istituto penitenziario si è conclusa con un incontro con una delegazione di detenuti in Aula Zuppa, dove il vicepresidente Fabio Pinelli, dopo averne ascoltato le istanze ha spiegato loro che il Csm nell’ambito delle proprie competenze, cercherà di accendere un faro, dando sempre più attenzione al settore della magistratura di sorveglianza. Il vicepresidente Pinelli ha concluso citando le parole di Papa Francesco nel 2019 nel carcere di “Regina Coeli” sottolineando come alla magistratura di sorveglianza spetti il delicato compito della modulazione dell’esecuzione penale, di modo che la stessa pena possa risultare, in concreto, rieducativa; perché il carcere - come dice il Pontefice - è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità”. Torino. Il Cesp e la scuola in carcere al salone del libro di Anna Grazia Stammati* cobas-scuola.it, 27 maggio 2023 Carcere diffuso al Salone del Libro di Torino, nell’edizione 2023, la più frequentata di sempre, con 215.000 presenze (l’anno scorso erano state 164.000) come hanno reso noto nella conferenza stampa di chiusura gli organizzatori. Quasi 25mila studenti hanno partecipato al Salone, con numeri vicini a quelli precedenti la pandemia. Una edizione che ha registrato, come sempre, anche polemiche, una fra tutte la contestazione alla Ministra Roccella, della quale si è voluta, strumentalmente, addossare la colpa al direttore uscente Nicola Lagioa, il quale, prima dell’intervento di una deputata di FdI, che lo ha impedito, aveva invitato le parti a un democratico confronto. Il carcere, luogo separato per antonomasia, è stato rappresentato al Salone come un confine liminare, lo specchio attraverso il quale è necessario che l’intera società passi (l’immagine scelta dal Salone per quest’anno, è stata appunto quella di Alice che attraversa lo specchio). Così il Salone ha dedicato spazio al tema del carcere, grazie proprio al lavoro che il CESP e la Rete hanno svolto in questi cinque anni (così come ha dichiarato di fronte alle fondazioni presenti, una tra le persone più qualificate dello Staff del Salone, Mariagliulia Brizio) e tra questi si sono collocati i due appuntamenti curati dal Salone con il CESP e inseriti nella sezione “… e quel che Alice vi trovò”. Il primo si è concentrato, il 21 maggio, sul corpo dei detenuti, lo specchio da attraversare, la parte più invisibile del carcere, e sul concetto di giustizia e riparazione, con l’autore e ricercatore Stefano Anastasia, il politico Luigi Manconi e la docente Claudia Mazzucato, con una presenza di circa 160 persone e un folto pubblico rimasto fuori per mancanza di spazio; il secondo incontro, il 22 maggio, è stato dedicato al ragionamento sul tempo e sullo spazio della cultura negli istituti penitenziari, aspetti che dovrebbero rappresentare punti di connessione tra il mondo del carcere e la società (come ha sottolineato la giornalista Paola Caridi) e se ne è parlato con Mattia Esposito, Giorgio Flamini, Luisa Marquardt, Maria Teresa Pichetto, Franco Prina, Claudio Sarzotti, Evelina Santangelo, Sonia Specchia, Alessandra Tugnoli, Alessandro Zaccuri, introdotti da Anna Grazia Stammati e moderati da Paola Caridi, con oltre 100 presenti, tra cui una buona parte di pubblico esterno al carcere. Nel contesto del progetto si è svolto anche Adotta uno scrittore che ha messo al centro la lettura e il rapporto che si crea tra l’autore “adottato” e la classe di riferimento, con il quale sono state attraversate le porte di circa 14 istituti penitenziari e scuole carcerarie, la cui esperienza è stata riportata al Salone in due momenti conclusivi. Vari, dunque, gli appuntamenti sul carcere e in tutti si è registrata partecipazione e consenso, con un’unica nota negativa che ha riguardato lo spostamento dello spettacolo della Compagnia #SIneNOmine, Open and closed dreams a causa del cattivo tempo, che non ha visto una adeguata attenzione da parte del Salone nel comunicare lo spostamento in una zona poco frequentata del Lingotto, ma soprattutto in una sala del tutto inadeguata ad accogliere la bellissima esibizione dei detenuti ed ex detenuti della Casa di reclusione di Spoleto e attori esterni (Bilali Bilali, Mattia Esposito, Matteo Conti, Ludovica e Maria Virginia Aprile nei personaggi di Ermia ed Elena), diretti da Giorgio Flamini, hanno comunque messo in scena una potente esibizione, con testi nati dai loro sogni ad occhi aperti, ispirati dalle parole di Shakespeare, Caroll, Neruda, Poe, Pessoa, Freud e altri celebri scrittori, anticipando la produzione inserita nel programma del 66° Festival dei due Mondi di Spoleto dal titolo “Sogni di una notte di mezza Estate” in scena il 5 e il 6 luglio nella Casa di Reclusione di Spoleto. La Rete si è data appuntamento proprio al Festival dei Due Mondi di Spoleto, il 7 e l’8 luglio, con il seminario Utopie e distopie: un labile confine, inserito nel programma del Festival che si terrà presso la storica Rocca Albornoziana, l’imponente fortezza trasformata in carcere dal 1816 al 1982. *Presidente CESP La Spezia. Il carcere diventa un mondo libero. Tutti in scena contro il pregiudizio di Chiara Tenca La Nazione, 27 maggio 2023 Detenuti e studenti insieme nell’esperienza “Per Aspera ad Astra” sostenuta anche da Fondazione Carispezia. Il sipario non c’era. L’auditorium del Centro Giovanile Dialma Ruggiero della Spezia, dov’è andato in scena per la prima volta “Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada”, era stato allestito come uno spazio aperto. Attori e pubblico disposto a ferro di cavallo senza soluzione di continuità: chi era seduto poteva quasi sfiorare gli interpreti di questa pièce densa di significati, sentirne il respiro, catturarne sguardi, sudore ed emozioni. Sì, le emozioni: in primo piano durante la rappresentazione, esplose immediatamente alla sua fine. Questo esperimento non era figlio di un ordinario laboratorio teatrale, ma tramite l’arte ha fatto incontrare, sperimentare, rompere barriere e preconcetti mettendo insieme studenti e carcerati. Si tratta dei detenuti di Villa Andreino e degli allievi del laboratorio “No Recess! Niente intervallo”, con la direzione artistica di Scarti-Centro di produzione teatrale d’innovazione e la regia di Enrico Casale, nuovo capitolo dell’esperienza di “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” ideato per utilizzare la cultura nell’ottica del reinserimento: un piano nazionale sostenuto da Acri e da 11 fondazioni di origine bancaria, tra cui la Fondazione Carispezia. Il titolo riflette la posizione fisica di due edifici che sorgono in via Fontevivo: scuola e casa circondariale, da cui provengono i 60 protagonisti dell’opera. “Hanno capito che quella era un’occasione unica e irripetibile per fare un lavoro artistico insieme”, sottolinea Casale, che ha definito questo un “lavoro gioioso, rispettoso delle regole e dei rapporti umani”. E sono proprio le parole dei protagonisti a testimoniare questo fattore. “Questa esperienza è stata totalizzante - spiega la studentessa Viola Ferro -: è stato come trovarsi a far parte di qualcosa che andava anche fuori dalla mia persona, mi ha dato molto da riflettere sulle potenzialità del teatro e quanto possa essere potente questo strumento. Ci siamo trovati in una nuova comunità, ho visto il carcere, prima per me un luogo estraneo e mi sono resa conto di come funziona”. Ed è un coro fra i detenuti. “Mi sono sentito veramente un artista, non più un detenuto; al termine avevo la sensazione di essere un professionista a tutti gli effetti, estremamente a mio agio nel ruolo che interpretavo. Stare con i ragazzi, dopo tutta la sofferenza provata negli ultimi anni, ha lasciato un segno che rimarrà per tutta la vita. Mi piacerebbe fare l’attore come professione. Nella mia solitudine è stato come incontrare una famiglia”, ha spiegato Osman Lugo Perez. “L’esperienza mi ha trasmesso un’emozione unica e inaspettata: è stato molto piacevole lo scambio generazionale, il confronto con i ragazzi; sembrava che avessimo lavorato insieme da sempre”, ha detto Christian Alberto Rotundo. Al debutto anche Alessandro Bertonasco. “Ho iniziato quasi per gioco, poi lavorando mi sono sentito veramente a mio agio ed ora che il percorso si è concluso ho come la sensazione che sia durato troppo poco. Ci siamo affezionati molto ai ragazzi, li abbiamo sentiti come figli ed è stato un onore lavorare insieme”. “Mi auguro vivamente ci possa essere un seguito. All’inizio nessuno di noi si rendeva conto della portata che questo evento così innovativo avrebbe raggiunto, tantomeno potevamo immaginare come la collaborazione spontanea con i nostri “dirimpettai” potesse arricchirci così tanto. In tutto il periodo di preparazione dello spettacolo, durante le prove, non mi sono mai sentito realmente in carcere: la magia del teatro è in grado di abbattere tutte le barriere. Ora vorrei pensare al prossimo spettacolo”. Francesco Felici mette il sigillo su un progetto. Riuscito. Cremona. “Orti nelle carceri”: 600 pianticelle di pomodoro da Coldiretti cremonasera.it, 27 maggio 2023 Seicento pianticelle di pomodoro cresceranno nella Casa Circondariale di Cremona, affidate alla cura dei detenuti, coordinati e diretti dai volontari della Società San Vincenzo de Paoli Odv di Cremona. Con gioia il direttore di Coldiretti Cremona Paola Bono ha consegnato stamattina le pianticelle a Grazia Trevisi, responsabile San Vincenzo, destinate al progetto “Orti nelle Carceri”. “Il progetto è attivo in carcere dal 2013. Attualmente sono 45 i detenuti che, coordinati dai nostri volontari, con il responsabile Giovanni Mitri, si prendono cura dell’orto. L’attività si concretizza nella preparazione del terreno, nella messa a dimora e cura delle piante, fino alla raccolta dei prodotti dell’orto - spiega Grazia Trevisi -. Attualmente coltiviamo insalate e pomodori, ma anche meloni, angurie, zucchine, orticole varie. I prodotti raccolti vengono poi consumati dai partecipanti all’iniziativa e dai loro compagni di cella. La parte restante va a beneficio della mensa comune delle carceri”. “Il progetto è stato accolto favorevolmente dalla direzione dell’Istituto penitenziario, in particolare come strumento di rieducazione, per l’aspetto correttivo che il lavoro orticolo comporta nel processo di riequilibrio e di responsabilizzazione delle persone - prosegue Trevisi -. Ma soprattutto questa attività è apprezzata dagli ospiti carcerati, perché consente loro di impiegare il tempo in maniera proficua, fuori dalle celle, all’aria aperta, di provare la soddisfazione di vedere i prodotti crescere, di sentirsi utili e positivi, dedicandosi ad un progetto con benefici futuri, se considerati come mezzo di riabilitazione e di reinserimento sociale. Tutti i partecipanti lavorano con grande impegno, con vera passione. Di anno in anno aumentano le richieste di partecipazione”. “Siamo felici di essere parte di questo progetto, così utile e significativo. Cogliamo l’occasione per ringraziare la Società San Vincenzo de Paoli, per averci coinvolti in questa iniziativa e per il prezioso impegno che svolge in aiuto alle persone più fragili della nostra comunità” sottolinea Paola Bono, direttore di Coldiretti Cremona. L’attenzione di Coldiretti Cremona alla realtà del carcere coinvolge anche la presenza del Patronato Epaca: gli operatori del Patronato sono periodicamente presenti per assicurare consulenza gratuita, rispetto alle necessità previdenziali e pensionistiche, alle persone che stanno scontando una pena. La mia verità su Falcone di Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 maggio 2023 Claudio Martelli racconta in un libro la storia inedita e dolorosa di Giovanni Falcone al tempo in cui non era ancora un mito. Claudio Martelli, allora vicesegretario del PSI, fu ministro della Giustizia dal febbraio 1991 al febbraio 1993. Fu lui a individuare in Giovanni Falcone l’uomo a cui affidare la Direzione Generale degli Affari Penali. In quel periodo Claudio Martelli e Giovanni Falcone lavorarono al progetto di una Superprocura Antimafia. Sulla storia e l’autentica persecuzione del magistrato antimafia, l’allora Guardasigilli ha pubblicato con La Nave di Teseo “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”. Il dialogo tra lei, Martelli e Falcone fu un dialogo eminentemente politico... “Politico nel senso che ci rendemmo conto di quale salto di qualità criminale avesse compiuto Cosa nostra, e ci rendemmo conto di come le istituzioni fino ad allora avessero sottovalutato il problema”. Il rapporto stretto tra Martelli e Falcone diede modo a molti di attaccare entrambi. Perché? “Avevo capito che il toro andava preso per le corna e individuato in Falcone il miglior interprete della lotta alla mafia. Per questo lo avevo voluto fortemente a capo degli Affari Penali del Ministero. Ed eravamo tutti e due bersagli di feroci attacchi. Ricordo a questo proposito le parole di Borsellino: “La magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, ha cominciato a far morire Falcone…” Si riferiva alla bocciatura da parte del Csm? “Non solo. Certo, la bocciatura del Csm pesò molto ma non è ascrivibile a quello l’aver esposto Falcone alla mano armata dei suoi assassini. Ne scrivo nel mio libro a pagina 107…” Ecco la pagina. “Dopo il verdetto in cui D’Ambrosio telefonò per comunicare l’esito del voto. Coraggio, andrà meglio la prossima volta, nomineremo te”. Parola alle quali Falcone replicò: “Non ci sarà una prossima volta. Hanno ingaggiato una battaglia”... “Sì, Falcone capì che se il suo avversario ufficiale era la mafia, quello ufficioso era seduto tra i banchi dei suoi colleghi”. Un mese dopo la morte di Falcone, Borsellino fa una conferenza stampa a Palermo e dice quella frase famosa sulla magistratura che ha bocciato Falcone al Csm. ‘Mi avete crocefisso, mi avete inchiodato come bersaglio. Avete eseguito la sentenza di morte che la mafia ha pronunciato da tempo. La può eseguire adesso perché sa che non mi vogliono neanche i miei’, mise agli atti”. Ed è andata così? “Quello che succede a Palazzo di giustizia, la mafia lo sa il minuto dopo. Appena avranno saputo, immagino abbiano brindato a Champagne. Avranno detto: adesso lo facciamo fuori. Era come un generale che tre settimane prima aveva vinto con il maxiprocesso, ottenendo la sentenza di condanna di tutta la cupola mafiosa, e da tutto il mondo viene riconosciuto come giudice antimafia numero uno. Si candida semplicemente per fare il capo dell’Ufficio Istruzione, perché Caponnetto si era dimesso, era stanco e andava sostituito. Falcone in realtà era già da un po’ capo dell’Ufficio istruzione. E quelli, non solo non ratificano questa situazione di fatto ma dopo che Falcone aveva ottenuto il suo successo storico, gli tolgono il comando dell’Ufficio istruzione. Affidandolo a un signore che si chiama Tonino Meli. Un giudice che non aveva mai fatto l’investigatore in vita sua, e apparteneva a quella corrente maggioritaria della magistratura - anche siciliana - che non voleva saperne delle idee di Falcone. E così si torna all’antico, ciascun Procuratore fa la sua indagine come vuole, non c’è più un coordinamento. E quelle Procure che non avevano abbastanza magistrati, Termini Imerese, Gela, se con Falcone erano spinte a concentrare tutto su Palermo, adesso riprendevano ciascuna la propria attività. Magari andando a rilento, con il rischio di perdere pezzi lungo la strada”. Perché concentrare e non decentrare, per un fatto di mezzi, di uomini? “Anche per una idea generale, una visione di Cosa nostra diversa. Qualcuno pensava che Cosa nostra fosse un pulviscolo di mandamenti che si potevano affrontare uno per uno. Falcone capì che era una unica organizzazione globale e che c’era bisogno di un’unica centrale di contrasto alla mafia. L’interpretazione che ne ha dato Giovanni Falcone era di una organizzazione unitaria, gerarchica e militarizzata”. Perché invece voi due vi siete trovati così vicini, così uniti? “Ero straconvinto, così come Falcone, della grande sottovalutazione della mafia, frutto di una filosofia sbagliata, rinunciataria, rassegnata. Non bisogna rinunciare mai, neanche davanti alle più grandi battaglie. Quando arrivai io al Ministero, l’aria era ferma. “Non bisogna esagerare con la repressione e la mafia non esagererà con la violenza”, si diceva. Io pensavo il contrario, che bisognava riorganizzare tutto e puntare sulla figura di Falcone che si era dimostrato un investigatore formidabile”. Lei e Craxi eravate consonanti, su Falcone? “Sì, su tutto e su Falcone sicuramente. Il Psi voleva candidare Falcone alle elezioni della primavera 1992. L’idea nacque in Sicilia, dai nostri compagni siciliani. E la voce iniziò a circolare. Falcone venne da me un po’ turbato, a chiedermene conto. Gli dissi che io lo volevo Procuratore nazionale antimafia, non deputato. Nel suo ruolo avrebbe inferto alla mafia i colpi decisivi che seppe assestare, da parlamentare no. E ci trovammo anche su quello d’accordo”. La polemica dell’epoca anticipava quella sulla Trattativa che ha interessato, per dirne uno, il generale Mario Mori... “Lo avevo già scritto dieci anni fa nel mio libro Ricordati di Vivere. L’ipotesi della Tratattiva Stato-mafia ha consentito a persone come Travaglio di costruire una fortuna sul niente. Hanno creato un format su una speculazione suggestiva che non ha né capo, né coda. Se si intende il fatto che qualche ufficiale dei Carabinieri ha trattato con qualche emissario della controparte, certo. Lo ha spiegato Mori, sono accorgimenti che gli investigatori usano con i confidenti, facendo balenare qualche vantaggio e ottenendo in cambio delle informazioni importanti per le indagini”. In quegli anni nacque il 41 bis, non sarebbe tempo di fargli un tagliando? “Assolutamente sì. Il 41bis nacque come norma transitoria per sottolineare un passaggio importante della lotta alla mafia. La linea dura, a contrasto delle bombe e della strategia stragista di Cosa nostra. Quando divenne legge ci fu molta polemica, soprattutto da parte del Pci e di alcuni giuristi progressisti tra i quali ricordo Cesare Salvi e Luciano Violante. Si gridò alla soppressione della libertà. Dissi che doveva servire nell’emergenza ed essere rivisto nel tempo. Come molte misure temporanee, divenne definitiva. E con chi? Durante l’ultimo governo Berlusconi, per mano dell’allora Guardasigilli, Angelino Alfano”. È tempo di rivederla, quindi? “Direi proprio di sì. Perché la lotta alla mafia la stiamo vincendo noi. Grazie al sacrificio di uomini come Giovanni Falcone, magistrato che dovette combattere contro una parte della magistratura”. Anita finisce in carcere al posto del fratello ma tra le sbarre scopre la vera libertà di Viola Ardone La Stampa, 27 maggio 2023 Venezia, anni 20: una ragazza intelligente e determinata si sacrifica per salvare il fratellastro ladro. Nelle celle della Giudecca incontra una coetanea e progetta con lei un futuro senza la “tirannia” dei maschi. “Resta con me, sorella”. Un titolo che è un settenario di speranza, un’invocazione, una preghiera laica. Il desiderio che s’inveri quel mito di “sorellanza”, di solidarietà femminile spesso evocato e molte volte tradito e disatteso nella realtà. Perché le donne non sono tutte sorelle, per il solo fatto di appartenere al genere femminile, come talvolta presuppongono gli uomini. Sono sorelle quelle che si scelgono, quelle che decidono di mettere in parallelo i propri destini, quelle che imparano ad amarsi e che non hanno bisogno di definire il loro amore in base a un canone imposto. Amiche, amanti, altro. Dopo “L’animale femmina” e “Insegnami la tempesta”, Emanuela Canepa torna a esplorare l’animo umano. Stavo per aggiungere l’aggettivo “femminile” ma mi sono emendata, perché chi mette una lente sopra al cuore “per farlo vedere alla gente”, come diceva Aldo Palazzeschi a proposito del mestiere del poeta, non ha un campo d’indagine differente a seconda del genere a cui si accosta. Il cuore non ha un genere. Il cuore batte. Questa volta Canepa ci porta indietro nel tempo, siamo negli anni Venti, tra Padova e Venezia. Lo scandaglio del passato recente, del nostro Novecento, è ultimamente un territorio molto frequentato in letteratura. Forse perché la distanza ormai giusta permette di mettere a meglio fuoco l’obiettivo della scrittura. O perché la cesura del Covid ha permesso di segnare un “prima” e un “dopo”. Ha infilato un segnalibro tra le pagine del tempo. Anita Calzavara, pur provenendo da una famiglia modesta, ha avuto modo di studiare, ed è brava nei calcoli. Tanto è vero che dopo la morte del padre a causa della febbre spagnola, ha trovato un impiego nell’amministrazione di un quotidiano. Lavora in un modo di uomini e sa che per sopravvivere ha bisogno di usare delle cautele. Non trovarsi da sola con uno di loro, soprattutto se è tardi, non lasciare l’ufficio per ultima la sera, nemmeno per ultimare un lavoro urgente, non esporsi al giudizio, non essere ricattabile per la propria vita privata. Essere donna a quei tempi, insomma, era un lavoro a tempo pieno. Forse lo è anche oggi, in modo differente. Ma a volte i guai arrivano anche se uno non se li va a cercare, come dice Lucia Mondella a conclusione della propria odissea, che in qualche modo racconta la stessa storia, una storia antica come il mondo, dalla mela dell’eden in poi: quella della disparità di genere. Lucia rifugge un molestatore altolocato. Anita subisce le prevaricazioni del fratellastro, Biagio, figlio di secondo letto di suo padre, che ha lasciato orfani lei e i suoi fratelli insieme alla seconda moglie. Anita non si perde d’animo e trova, dicevamo, un impiego, ma nello stesso posto lavora anche il debosciato fratello che progetta un furto ai danni del giornale. Anita se ne accorge e cerca di convincerlo a desistere, ma senza successo. Quando l’ammanco di cassa viene scoperto, è lei a prendersi la colpa e a finire in galera. Per quale motivo? Perché a quei tempi un uomo guadagnava di più di una donna e Biagio avrebbe provveduto alla famiglia meglio di lei. E perché forse, dopo l’arresto di Biagio anche lei sarebbe stata licenziata. O perché vive in un tempo in cui alle donne è stato insegnato a far buon viso, a sacrificarsi per un figlio, un marito, un fratello, una sorella ancora giovane che rischia di vedere sfumare il suo futuro. Oppure perché è forte. Ecco, Anita è un vaso di ferro in mezzo a vasi di terracotta, per rimanere dalle parti di Manzoni. Non gonfia i muscoli, non si ribella, non fa proclami, ma agisce la sua forza come se fosse una cosa normale. Arriva alla Giudecca, si fa l’isolamento e la galera. Entra nelle grazie delle sorveglianti perché è laboriosa e affidabile, e quando viene messa fuori le porte della vita le si spalancano di nuovo. Ma quale vita? Il matrimonio, i figli, vivere nello spazio circoscritto dei bisogni di un uomo, nelle regole striminzite della società? È vero che la prigione è un luogo chiuso, eppure le ha insegnato a stare larga, a scegliere per sé, a badarsi da sola. Anita non lo sa, ma stando rinchiusa ha perso la paura. Ora è una donna libera. Ha incontrato Noemi, una che come lei si è ritrovata dentro per aver messo un piede in fallo in un mondo che ti impone di rigare dritto, se sei una donna. Insieme a lei ha fatto un progetto che forse non realizzerà. Non è questo che importa, importa aver immaginato di poterlo fare. “Pensati libera”, ha detto la più nota femminista dei nostri tempi, o forse solo la più grande comunicatrice. Anita quando esce dal carcere si è cucita addosso quello stesso scialle e non ora riesce più a toglierselo. La libertà è come un tarlo che non ti lascia stare e che ti condanna alla solitudine, piuttosto che a una brutta compagnia. Eppure in questa solitudine noi siamo con te, Anita. Resta con noi, sorella! Don Milani, la lezione del merito per tutti di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 27 maggio 2023 Siamo in tempi in cui l’indifferenza alle diseguaglianze sociali ed il cattivismo sembrano più di moda, celati dalla celebrazione di una malintesa supremazia del merito, nell’accezione di sterile competitività. Proprio in questi tempi l’empatia, la cura e la pratica permanente di Don Milani per una scuola per tutti, ripropongono una strategia educativa inclusiva attuale, per cui solo in un ambito in cui si avanza tutti, il merito assume il suo vero spessore. “Su una parete della nostra scuola c’è una scritta grande, I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “mi importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista me ne frego”. È questa la filosofia di Don Lorenzo Milani. Il messaggio che ha lasciato è potente, di grande senso civico. Un messaggio forte per una vera democrazia che deve basarsi su libertà, partecipazione, crescita culturale di tutti, nessuno escluso. Quando ero piccolina avevo una grande insegnante, la Rozzera, mi pare si chiamasse, che ci faceva leggere le pagine di Lettera a una professoressa di Don Milani e i ragazzi della scuola di Barbiana. Quelle lezioni mi sono rimaste scolpite nel cuore. Una lezione di vita sull’attenzione agli ultimi. Don Milani voleva che crescesse la consapevolezza di sé nei più poveri, negli ultimi. Voleva che questi crescessero culturalmente, attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla scuola, per affermarsi nella società. Ma denunciava l’incapacità del sistema scolastico di farlo. “Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati, allora sostenete che Dio abbia fatto nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Eh sì, voi che non li capite, che non riuscite a interpretare i loro bisogni, voi che non sapete comprendere la loro situazione. Oggi come ieri. Voi che non avete un metodo per applicare l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza sostanziale e non ve ne importa di forgiarlo. Don Milani ha voluto sperimentarlo, e ci è riuscito brillantemente, raggiungendo risultati straordinari con i suoi ragazzi di Barbiana. Li ha resi protagonisti in un percorso di vero e proprio riscatto. E ha dedicato la vita agli ultimi e a farli crescere. Anche attraverso una didattica che parte dalla realtà, dal vissuto di ciascuno, trasformando l’esperienza scolastica in una vera e propria community solidale che cresce insieme. Per questo contestava i voti, le bocciature, perché sosteneva che obiettivo primario della scuola dovesse essere formare davvero, fornendo agli ultimi gli strumenti per essere consapevoli, motivati, competenti. La selezione fine a sé stessa con i suoi cattivi meccanismi, portava facilmente i figli dei poveri all’uscita definitiva dal sistema scolastico. Era un modo provocatorio di sottolineare l’importanza prioritaria dell’educare, prima del selezionare. È forte il suo pensiero pedagogico. Il ruolo del maestro con la M maiuscola, quasi un maestro di vita, è quello di trasmettere passione, amore per lo studio, la conoscenza, guidare nella valorizzazione dei percorsi e delle attitudini individuali. Un maestro vero, forte. Pierpaolo Pasolini lo applaudiva con entusiasmo. Tullio De Mauro ne esaltava i meriti. Tante cose sono cambiate da allora. La situazione è sicuramente migliorata. Ma durante il percorso scolastico continuiamo a perdere tanti, tanti bambini. Dispersione scolastica di bimbi e ragazzi poveri. E dobbiamo assolutamente occuparcene, come faceva Don Milani. Lo fanno molti insegnanti che combattono sul campo nelle situazioni più difficili. Se ne occupano organizzazioni no profit e associazioni per il benessere dei bambini. Ma abbiamo bisogno di vere e proprie azioni di sistema. Non di eroi. Più nidi che servono più ai figli dei poveri che a quelli dei ricchi e che mancano proprio nelle zone più povere. Più tempo pieno. Più formazione per gli insegnanti. Più scuole come comunità educanti. Più maestri e maestre che facciano crescere passione culturale, partecipazione, senso civico e di solidarietà. Come faceva Don Milani, maestro di democrazia. Il merito può arrivare solo dopo tutto ciò. I bulli aiuteranno le loro vittime e seguiranno percorsi rieducativi: nuova proposta di legge bipartisan La Repubblica, 27 maggio 2023 Il testo è stato approvato all’unanimità. Si prevede il coinvolgimento delle scuole, del tribunale per i minorenni e delle famiglie dei responsabili di atti di bullismo. Il giudice potrà disporre anche l’affido ai servizi sociali o il collocamento in comunità. Bulli che aiuteranno le proprie vittime e indirizzati a percorsi rieducativi con il possibile coinvolgimento della famiglia. È tra le misure più incisive contenute nella nuova proposta di legge (pdl) bipartisan per il contrasto a bullismo e cyberbullismo. Il testo nasce dalla sintesi delle proposte di legge di Devis Dori (Avs), Pietro Pittalis (Fi), e Ciro Maschio (Fdi). È stato approvato all’unanimità dalle Commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera dei Deputati ed è in attesa degli emendamenti delle Commissioni prima di approdare in Aula. Un tavolo al Ministero - Prevenire e rieducare sono i prinicipi cardine, dopo l’espunzione delle misure penali inserite nella prima stesura. Al tavolo tecnico, previsto dalla pdl presso il ministero dell’Istruzione, siederanno altri dicasteri competenti e numerosi soggetti (alcune Authority, “associazioni con comprovata esperienza nella promozione dei diritti dei minori e degli adolescenti e nelle tematiche di genere, operatori che forniscono servizi di social networking e altri operatori della rete internet, una rappresentanza delle associazioni studentesche e dei genitori”) per mettere a punto in sessanta giorni un piano di prevenzione con un codice di autoregolamentazione dei social. L’azione di contrasto nelle scuole - Gli istituiti scolastici saranno chiamati a dotarsi di propri programmi. Dopo essere venuto a conoscenza di episodi di bullismo, il preside dovrà informare “tempestivamente i genitori dei minori coinvolti” e “promuove adeguate iniziative di carattere educativo nei riguardi dei minori coinvolti in percorsi di mediazione scolastica”. Il tribunale per i minorenni - In caso non abbiano successo questi provvedimenti, il dirigente scolastico allerterà le autorità competenti, provocando l’intervento del tribunale per i minorenni. Il giudice potrà disporre “lo svolgimento di un progetto di intervento educativo con finalità rieducativa e riparativa sotto la direzione e il controllo dei servizi sociali”, coinvolgendo - se necessario - anche la famiglia. Il tribunale avrà il potere di valutare gli esiti del percorso, decidere la prosecuzione e perfino affidare il ragazzo ai servizi sociali o il collocarlo in una comunità, qualora emerga un problema dei genitori. L’allarme degli psichiatri: “In Italia 700 persone pericolose, con gravi disturbi mentali, circolano liberamente” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 27 maggio 2023 Gli Stati generali a Cagliari: “Situazione insostenibile, le Rems inadeguate a rispondere alle esigenze di questi pazienti”. A lanciare l’allarme adesso sono gli psichiatri italiani: ci sono 700 persone con gravi disturbi mentali, ad alta pericolosità sociale, libere in giro per l’Italia. È l’altra faccia della medaglia della chiusura degli Ospedali psichiatrici e della assoluta inadeguatezza del sistema di Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La fotografia resa oggi a Cagliari dagli Stati generali della psichiatria italiana, e dopo l’onda emozionale scatenata dall’uccisione della psichiatra Barbara Capovani aggredita da un ex paziente, è a tinte fosche: sono infatti oltre 700 le persone ad alta pericolosità sociale, autori di reato, a piede libero in Italia e altre 15 mila persone sono in libertà vigilata affidate ai dipartimenti di Salute Mentale. Causa del fenomeno, spiegano gli psichiatri, sono due fattori chiave: “Da un lato la pur benemerita Legge 81/2014 che ha disposto la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari sostituendoli con le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), dall’altro la mancata completa attuazione della legge stessa, che ha reso le Rems strutture senza risorse economiche e di personale sufficienti, senza posti letto, e ora inadeguate a provvedere al necessario ricovero di questi pazienti”. La situazione, avvertono, è diventata “insostenibile”: “La legge vieta la detenzione in carcere di pazienti oggetto di misure di sicurezza, facendo così ricadere la responsabilità della loro gestione sui Dsm. È quello che gli esperti definiscono una psichiatrizzazione dei reati, cioè la riattribuzione del mandato di custodia e controllo di persone socialmente pericolose alla psichiatria, ed una “criminalizzazione” delle strutture psichiatriche, ormai sature di autori di reato”. Occorre dunque agire, è la richiesta degli specialisti, “con programmi di cura differenziati, erogati in luoghi ad alta sicurezza. E serve la riqualificazione delle Rems, in cui sia presente la polizia penitenziaria, e l’adeguamento numerico del personale dei Dsm”. Proposte che saranno portate al tavolo sulla Salute mentale, costituito pochi giorni fa dal ministro Orazio Schillaci presso il ministero della Salute. “Episodi come quello accaduto a Barbara Capovani non devono più accadere. Per questo - afferma la presidente della Società italiana di psichiatria, Emi Bondi - serve assolutamente aumentare il finanziamento dei Dsm che, a fronte delle difficoltà attuali di personale e strutture tali da compromettere la gestione dei malati psichiatrici che non commettono reati, si trovano a dover gestire situazioni spesso estreme”. Giappone. Un rapporto documenta le violazioni dei diritti dei detenuti e delle regole del giusto processo La Repubblica, 27 maggio 2023 La denuncia di Human Rights Watch. Interrogatori senza avvocato e negazione della libertà su cauzione sono tra gli abusi che l’organizzazione illustra in un lungo dossier. Nel dossier “Japan’s Hostage Justice System”, Human Rights Watch documenta il trattamento abusivo riservato alle persone in custodia cautelare sospettate di aver commesso un crimine. Le autorità privano i detenuti del diritto al silenzio in mancanza di un avvocato, li interrogano senza l’assistenza di un legale, li costringono a confessare attraverso ripetuti arresti e negazione della libertà su cauzione e li trattengono per periodi prolungati sotto costante sorveglianza nelle stazioni di polizia. La presunzione di innocenza. Così come è formulato - spiega Kanae Doi, direttore della sezione giapponese di Human Rights Watch - il sistema penale nega alle persone arrestate il diritto alla presunzione di innocenza, ad avere un’udienza equa e in tempi brevi per ottenere la possibilità di essere liberati sotto cauzione e autorizza interrogatori senza l’assistenza di un legale. Queste pratiche abusive hanno provocato la distruzione di vite e famiglie, oltre a condanne ingiuste. Human Rights Watch ha condotto un’inchiesta in otto prefetture: Tochigi, Chiba, Tokyo, Kanagawa, Aichi, Kyoto, Osaka ed Ehime tra gennaio 2020 e febbraio 2023. I ricercatori hanno intervistato trenta persone che stavano affrontando o hanno affrontato delle accuse penali. L’organizzazione ha anche parlato con avvocati, accademici, giornalisti, pubblici ministeri e familiari dei sospetti. La giustizia penale. Il codice di procedura penale giapponese consente di trattenere i presunti rei fino a 23 giorni prima dell’incriminazione da parte di un giudice. Le autorità sfruttano questo periodo di detenzione per fare gli interrogatori, ma non rispettano le norme basilari del giusto processo perché sollecitano gli indagati a rispondere alle domande e a confessare i presunti reati anche quando invocano il diritto al silenzio o a essere assistiti da un avvocato. I sospettati sono detenuti in celle nelle stazioni di polizia sotto costante sorveglianza delle forze dell’ordine, spesso senza contatti con le famiglie. Il limite dei 23 giorni di detenzione prima della formulazione dei capi d’imputazione davanti al giudice in realtà viene raramente rispettato perché le autorità, quando è possibile, tendono a separare le singole accuse in modo da potere arrestare ripetutamente le persone, che così trascorrono un periodo di detenzione prima del processo molto più lungo dei 23 giorni fissati per legge. La libertà su cauzione. Le persone arrestate non sono autorizzate a richiedere la libertà su cauzione durante la detenzione preventiva. Anche quando il detenuto viene incriminato e finalmente autorizzato a chiederla, coloro che non hanno confessato o sono rimasti in silenzio durante gli interrogatori spesso hanno difficoltà a convincere un giudice ad approvare la loro richiesta di libertà su cauzione. La custodia cautelare può durare mesi o addirittura anni. Secondo l’organizzazione nel 2020 i giudici hanno approvato il 94,7 per cento delle richieste di detenzione preventiva dei pubblici ministeri e il tasso di condanne al processo è stato del 99,8 per cento. I diritti dei detenuti. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui il Giappone è parte, stabilisce che chiunque venga arrestato o detenuto sulla base di un’accusa penale deve essere subito portato in tribunale. Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ribadisce che 48 ore è di solito un tempo sufficiente per portare qualcuno davanti a un giudice e che qualsiasi ritardo deve essere assolutamente eccezionale e giustificato dalle circostanze. Inoltre, secondo il patto, come regola generale le persone non dovrebbero essere detenute prima del processo. Human Rights Watch e Innocence Project Japan, un’Organizzazione Non Governativa locale, avvieranno a giugno 2023 una campagna per sollecitare le istituzioni a riformare la giustizia penale per garantire i diritti delle persone arrestate e allinearle agli standard internazionali di presunzione d’innocenza e rispetto delle libertà individuali. Sri Lanka. Rifugiati in piazza sotto la sede Unhcr per “accelerare” i ricollocamenti di Melani Manel Perera La Repubblica, 27 maggio 2023 “Siamo esseri umani in un limbo non numeri”. Un gruppo di rifugiati affidato alle cure dell’Unhcr chiede di rilanciare, ma soprattutto velocizzare, “il processo di ricollocamento in una nazione terza”, per scongiurare ulteriori sofferenze. Per ribadire la richiesta, sono scesi in piazza il 23 maggio scorso di fronte alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nella capitale dello Sri Lanka, Colombo, per sensibilizzare le autorità locali e la comunità internazionale sulla loro sorte, da tempo sospesa come in un limbo. “Prendete una decisione il più in fretta possibile - recitava lo slogan impresso su un cartello - e non rimandateci indietro, incontro a morte certa”. In prima fila, i profughi pakistani. In prima fila, a guidare la protesta vi era un gruppo di profughi pakistani, da tempo ricollocati sull’isola e in attesa (sinora) vana di una sistemazione definitiva. Secondo le stime dell’attivista Ruki Fernando, ad oggi in Sri Lanka vi sono circa 800 rifugiati provenienti in maggioranza da Pakistan, Afghanistan, Rohingya dal Myanmar, oltre a gruppi originari dello Yemen, della Siria e dalla Nigeria. I più vivono a Negombo, oltre a Panadura, Dehiwela e Mount Lavinia. “Siamo esseri umani, non numeri”. I manifestanti hanno voluto ricordate che “i rifugiati sono esseri umani, non numeri. Garantiteci una sistemazione” come recitava una delle tante scritte impresse sui cartelloni. Un altro affermava che “Rimandandoci indietro, state violando il nostro diritto di vivere” e ancora “Non dividete i rifugiati in comunità diverse. Tutti siamo uguali e meritiamo dignità e rispetto”. Alcuni non hanno risparmiato attacchi diretti all’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, che “deve smetterla di lasciarci in attesa di una risposta” che non è mai arrivata negli anni. “Per l’Unhcr - afferma ad AsiaNews una manifestante proveniente dal Pakistan - non siamo una priorità, ma quanto possiamo aspettare? Sono già sette anni che siamo qui in Sri Lanka in attesa. Ne abbiamo abbastanza, vogliamo giustizia”. “Abbiamo bambini piccoli e nemmeno loro - aggiunge la donna - hanno un futuro. Non hanno scuole qui. Nemmeno io conosco il mio futuro. Chiediamo di accelerare il nostro ricollocamento”. Un’altra testimonianza. Una seconda donna, anch’essa pakistana, dice di trovarsi da 10 anni in Sri Lanka e non ha ancora prospettive certe sul suo futuro o una nazione in cui andare. “Qui non lavoriamo. I nostri figli non vanno a scuola e non hanno un’istruzione” denuncia, aggiungendo che il timore più grande è “una chiusura a breve dell’ufficio Unhcr” e “senza un loro sostegno, che ne sarà di noi?” si chiede disperata. Un altro ancora, sempre dal Pakistan, racconta del padre morto in questo tempo nell’attesa vana di andare in un’altra nazione, della madre che soffre di diabete e il figlio 14enne anch’esso soggetto a pressione alta, che sopravvive grazie a medicine assunte mattina e sera. “Per favore, mandaci - esclama l’uomo - in un Paese del terzo mondo. Qui non possiamo lavorare. Ed è molto difficile comprare generi alimentari. Il cibo, le medicine e l’affitto della casa sono molto alti. Non possiamo vivere qui”. Alcuni aspettano da anni. “Una delle richieste di queste persone - spiega l’attivista Ruki Fernando - è che la decisione sia presa il prima possibile. Alcuni aspettano da anni una sistemazione definitiva. Ciò significa che non sanno se otterranno asilo o meno”. Ad alimentare paure, timori e incertezza sul futuro, conclude, la notizia anticipata dagli stessi funzionari Unhcr di una possibile chiusura della sede Onu o, comunque, di un forte ridimensionamento del sostegno e degli aiuti.