Quanto è difficile che la tenerezza “contagi” la Giustizia! di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 26 maggio 2023 Volevo iniziare una riflessione sulla Giornata di Studi “La tenerezza e la Giustizia” con le tante cose belle che sono successe, a partire da un pubblico numerosissimo accorso sfidando il maltempo e presente fino alla fine, nonostante le fatiche di sette ore di galera. E ancora, gli interventi di esperti di grande competenza introdotti dalle testimonianze delle persone detenute, e poi il coraggio, perché di questo si tratta, di inserire il tema della tenerezza proprio a fianco della Giustizia, in un momento in cui a credere in una giustizia tenera, mite, rispettosa degli esseri umani, anche di quelli che hanno fatto cose orribili, forse non siamo in tantissimi. Però il carcere, che per un giorno ha mostrato un volto gentile, a cui ha contribuito in gran parte una Polizia penitenziaria preparata, disponibile, ben organizzata e soprattutto coinvolta, il giorno dopo è tornato a essere quello che punisce con trasferimenti, rapporti disciplinari, denunce. È successo che nella mia introduzione alla Giornata di Studi avevo raccontato che mancava purtroppo uno dei miei “redattori”, Paolo, un ragazzo di venticinque anni con una storia disastrata, un padre in 41-bis da 21 anni, una madre in carcere per cinque anni e poi però assolta, una storia che avrebbe dovuto raccontare lui ma non poteva farlo perché era finito in isolamento per una aggressione, nata da un conflitto esploso malamente. Io vedo lucidamente i comportamenti sbagliati, violenti, per i quali spesso le persone detenute si giustificano con l’orgoglio di dover respingere delle offese, e la reazione di Paolo è stata violenta, ma vedo anche la difficoltà dell’istituzione a trovare strumenti nuovi per affrontare gli innumerevoli conflitti che stanno devastando le carceri. Sembrava però che ci stessimo arrivando, sembrava che si potesse affrontare il conflitto violento scoppiato nei giorni scorsi con la mediazione, che ovviamente non sostituisce la sanzione, ma si affianca con strumenti nuovi alla giustizia tradizionale, e a volerlo fare non eravamo solo noi volontari, ma anche il personale dell’area pedagogica, coinvolto proprio in questi mesi in un progetto di mediazione dei conflitti in carcere. E invece non è bastato, invece Paolo e altri detenuti sono stati trasferiti, ha prevalso la questione della sicurezza, non c’è stato il coraggio di investire su strade nuove come quella della mediazione. Eppure, non si può pensare che persone finite in carcere da ragazzi, con già delle storie pesanti, improvvisamente imbocchino la strada giusta e non sbandino più. No, questi percorsi sono difficili, sono fatti di fallimenti, di cadute, di ostacoli, di inciampi. E come nel gioco dell’oca, l’istituzione spesso impone di ritornare alla casella di partenza, e così rischia di far solo crescere la rabbia. Aggiungo che la bomba del conflitto con questi trasferimenti (perché altre persone sono state coinvolte e trasferite) non è stata affatto disinnescata: il fatto è che quando fra detenuti scoppia un conflitto, l’Istituzione spesso tende ad affrontarlo con trasferimenti e denunce. Riusciremo finalmente a spezzare questa catena del male? Mi viene anche da dire che le Istituzioni spesso sono intransigenti con i colpevoli, ma “morbide” quando si tratta di perdonare sé stesse. Un esempio? In questi giorni nelle carceri si stanno attuando le disposizioni della nuova circolare sui circuiti di media sicurezza, e succede che alcune sezioni passino da un regime aperto a un regime “semichiuso” senza che le persone detenute abbiano fatto nulla per meritarsi un simile trattamento. Cresce così la reazione aggressiva, l’insofferenza, la percezione di subire un’ingiustizia, e aumentano inesorabilmente i rapporti disciplinari: ma non si dovrebbe allora fare un colossale rapporto disciplinare a una amministrazione che punisce con una “regressione trattamentale” (si chiama così il peggioramento delle condizioni del proprio percorso rieducativo) anche chi non ha fatto assolutamente nulla per meritarsela? La Giornata di studi “La tenerezza e la Giustizia” è stata comunque un viaggio complicato e appassionato, anche dentro queste contraddizioni. Ecco quello che noi della redazione ci siamo portati a casa da quel viaggio: - In carcere la questione dell’individuare chi sono le vittime sta diventando particolarmente complessa. Una nostra amica mediatrice ci ha detto “questa volta ho sentito che il focus era tutto verso chi ha commesso reati e c’era meno la voce delle vittime”. Ci abbiamo riflettuto, e sì, se vogliamo parlare di giustizia riparativa in modo canonico, non c’erano tra gli intervenuti vittime che avevano subito un reato, ma noi riteniamo importante aver parlato di altre vittime, come le due madri che hanno i figli con un Disturbo Borderline di Personalità, finiti in carcere per mancanza di posti nelle REMS, ma anche come i due ragazzi detenuti sinti, che hanno raccontato cosa vuol dire vivere l’esclusione a partire proprio dalla scuola. - Il progetto con le scuole è stato descritto questa volta da tutti i diversi protagonisti, gli studenti, gli insegnanti, le persone detenute, che hanno spiegato che questo è un progetto che, per chi ha commesso reati e non può riparare davvero il passato, ti permette per lo meno di “riparare il futuro” di tanti ragazzi. A tutti consigliamo di riguardarsi l’intervento dello studente, che ha parlato di immedesimazione, e ha raccontato di aver sperimentato l’isolamento chiedendo a sua madre di chiuderlo in camera senza cellulare e senza social, e di sentirsi in dovere di chiedere scusa per non aver capito prima il dolore di quella condizione. - Il disagio dei ragazzi (non vogliamo parlare solo di minori, perché Enrico, per esempio, ha 21 anni ed è nel carcere per adulti, ma resta un ragazzo), dei giovanissimi italiani e stranieri finiti nelle galere per grandi, merita un approfondimento perché sta riempiendo le carceri, e in carcere un ragazzo rischia di accumulare, per le sue azioni irrazionali e a volte rabbiose, altri anni di pena, visto che la gestione dei problemi della sicurezza è sempre attenta a punire più che a considerare la persona. La voce dei ragazzi ci è arrivata con linguaggi nuovi, come il rap di Kento, presente in videoconferenza dal Salone del libro di Torino, “Parli dei detenuti ma non sai chi sono loro, dici non gli interessa né studio né lavoro, vogliono i soldi facili per arricchirsi subito ma questa realtà tu la conosci? ne dubito”. - Il massacro che opera tanta informazione sui temi della giustizia, che comporta, come ha sostenuto Vittorio Manes, grande esperto in materia, “effetti distorsivi sulla vicenda processuale ed effetti perversi sui diritti fondamentali delle persone coinvolte”. Forse la risposta forte che possiamo dare è quella sottolineata da Gad Lerner: “Io credo che questo sforzo di fare comunicare il dentro e il fuori sia l’antidoto alla giustizia crudele a cui tutti insieme dobbiamo lavorare”. - La faccia crudele della Giustizia: quella di certa antimafia che fa dell’intransigenza e del concetto, ricordato dal giornalista Alessandro Barbano, dell’irredimibilità di tutti i mafiosi i suoi cavalli di battaglia; quella dei processi basati su tante intercettazioni e dichiarazioni di pentiti e pochi riscontri; quella di cui ha parlato l’avvocato Catanzariti per la quale il difensore deve difendere i suoi clienti prima di tutto proprio dalla macchina stessa della Giustizia; quella che arriva ad anni di distanza dai fatti e punisce in modo inesorabile la persona nuova che sei diventato. Questa Giustizia si può contrastare solo, per dirla con le parole del cardinal Martini, se “un’altra storia inizia qui”. Sono le storie che hanno raccontato le persone detenute, senza cercarsi alibi né farsi sconti, ma sono anche le storie che in questi anni ci hanno narrato con generosità tante vittime che hanno accettato di venire in carcere, e le storie dei “magistrati dialoganti” che, come la presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa e il sostituto procuratore Stefano Musolino, accettano sempre il confronto e non hanno paura di “sporcarsi” con la galera. - La faccia che ci ha messo Lorenzo, quando ha capito che Mauro Pescio è uno che sa narrare quello che sembra “inenarrabile”, indicibile, inesprimibile, e ha deciso di raccontare a lui la sua storia, da quando è entrato in carcere da bambino per incontrare suo padre, a quando lui stesso è andato a sbattere contro le mura della galera, all’impatto con la sofferenza delle vittime incontrate nella redazione di Ristretti Orizzonti, all’uscita dal carcere con la salda volontà di diventare un mediatore: tutto raccontato nel podcast Io ero il milanese. - Un ringraziamento particolare va ad Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia Riparativa, un grande che sa mettersi su un piano di parità con tutti gli ALTRI, tutti coloro che hanno voglia di confrontarsi, di imparare, di scavare a fondo dentro di sé per conoscere un po’ meglio il bene e il male che c’è in ognuno di noi. Per finire, credo che in questo marasma che sono le carceri oggi bisogna rimettersi a studiare usando gli strumenti della giustizia riparativa, ma farlo con la volontà di cambiare anche la “giustizia tradizionale”, perché nessuno riesce a pensare al dolore delle vittime se viene “massacrato” dalla Giustizia esercitata da quelli che dovrebbero essere “i buoni” per definizione. Il rapporto del ministero: 81mila le misure cautelari nel 2022 di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 maggio 2023 È stata presentata questa settimana al Parlamento la relazione, predisposta dal ministero della Giustizia e prevista dalla legge 47 del 2015, sullo stato di “applicazione delle misure cautelari” relativa al 2022. Una premessa, prima di passare all’analisi in dettaglio dei dati, è d’obbligo. Innanzitutto non tutti gli uffici giudiziari hanno adempiuto agli obblighi di legge: l’80 percento di loro ha fornito i dati, per il rimanente 20 percento, un quinto del totale, si è provveduto mediante una “stima”. I provvedimenti conteggiati, poi, indipendentemente dall’anno di iscrizione del procedimento, non sono coincidenti con il numero delle persone “cautelate”, risultandone in genere superiore. Il motivo è dovuto al fatto che ad una stessa persona può essere stata applicata più di una misura cautelare nell’arco dell’anno, per fatti o procedimenti diversi. Ed è anche possibile che la misura iniziale sia stata sostituita nel tempo con altra più lieve o anche più gravosa. Le misure complessivamente oggetto di analisi sono undici. Si va da quelle più “lievi”, come il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto e/ o obbligo di dimora, a quelle invece maggiormente afflittive come gli arresti domiciliari, con o senza “braccialetto”, o la custodia cautelare in carcere. In totale, le misure irrogate sono state lo scorso anno circa 81mila. 44.518 le persone messe in custodia cautelare. Di queste 24.654 in carcere (oltre 500 in più rispetto al 2021). Diminuiscono i domiciliari senza braccialetto: nel 2022 sono stati 16.507 rispetto ai 18.036 del 2021. I domiciliari con braccialetto sono stati invece 3.357, rispetto ai 2.808 del 2021. In pratica, solo al 14 percento degli arresti domiciliari viene applicato lo strumento di controllo da remoto, con le immaginabili conseguenze per le forze di polizia chiamate a vigilare sul rispetto della misura. La relazione fornisce anche un dato circa gli esiti assolutori e di proscioglimento a vario titolo. Solo il 10 percento circa, ossia una misura su 10, è stata emessa in un procedimento che ha avuto come esito l’assoluzione o il proscioglimento. Un dato, per i motivi sopra esposti, da prendere con grande cautela. Bisognerebbe, infatti, riflettere riguardo le varie tipologie di provvedimenti emessi e la loro correlazione con la gravità della condotta. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se i procedimenti ove sia stata emessa una misura custodiale (carcere o arresti domiciliari) siano maggiormente suscettibili di terminare con una condanna rispetto ai procedimenti ove sia stata emessa una misura non custodiale, quindi di minore gravità. La relazione, comunque, contiene anche i dati circa le domande di riparazione per ingiusta detenzione. Nel 2022 su 1.180 domande ne sono state respinte più della meta, essendo quelle accolte 556, la maggior parte, 103, nel solo distretto di Reggio Calabria. Quanto ai pagamenti, lo Stato nel 2022 ha pagato 27.378.085 euro, di cui oltre 10 milioni, sempre nel distretto di Reggio Calabria. Va ricordato che l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è espressione dei principi di solidarietà sociale e dei valori di civiltà giuridica in virtù dei quali, in un ordinamento democratico, chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale ha diritto a una congrua riparazione per i danni morali e materiali subiti. Il problema è che molti ostacoli vi si frappongono. È sufficiente ricordare i tanti casi, da Raffaele Sollecito a Diego Olivieri che, pur assolti dopo anni trascorsi in custodia cautelare, non hanno ricevuto alcun indennizzo. “Finalmente da via Arenula hanno comunicato i dati”, ha affermato l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione Italia Viva, che ha voluto porre l’attenzione sul numero delle iniziative disciplinari da parte del ministero e della Procura generale della Cassazione per emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale con negligenza grave e inescusabile da parte dei magistrati: “Una sola, esito? Non doversi procedere”. La morte di due detenuti in sciopero della fame, Nordio: “Stiamo indagando” di Angela Stella L’Unità, 26 maggio 2023 Per i suicidi in carcere nessuna soluzione concreta all’orizzonte: è quanto emerso ieri durante il question time al Senato, quando il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto a due interrogazioni in materia di carcere e di intercettazioni. La prima, presentata dal Pd, verteva su due detenuti del carcere di Augusta (Siracusa) deceduti poche settimane fa in ospedale, a distanza di 15 giorni, dove erano ricoverati in gravi condizioni a seguito di uno sciopero della fame durato 60 giorni in un caso e 41 nell’altro. Inoltre, un terzo detenuto, sempre secondo quanto riportato dagli organi di stampa, avrebbe tentato il suicidio. Gli interroganti hanno chiesto di sapere: “Quali iniziative necessarie ed urgenti il Ministro in indirizzo intenda intraprendere affinché siano garantite ai detenuti della casa di reclusione di Augusta condizioni di vita massimamente dignitose e sicure; quali siano i dati relativi al decorso ospedaliero dei due detenuti deceduti a seguito dello sciopero della fame e quali siano state le tempistiche del ricovero dei medesimi; per quali motivi non sia stato comunicato all’ufficio del Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà l’andamento dello sciopero della fame dei detenuti”. Nordio ha inizialmente ribadito che “ogni suicidio in carcere è un fardello di dolore, non solo per noi al Ministero ma per tutti noi, per la nostra coscienza, per la nostra visione etica”. Ha spiegato che al momento sono “in corso degli accertamenti per capire quali siano state realmente le cause del decesso”, quindi i dettagli verranno forniti in un secondo momento. Comunque il primo digiunava ritenendo di essere detenuto ingiustamente, il secondo per “motivi di giustizia” legati alla sua procedura di estradizione. Invece sulla circostanza per cui l’ufficio del Garante dei detenuti abbia denunciato il fatto di non aver ricevuto alcuna segnalazione in merito al ricovero dei due detenuti, il Guardasigilli ha precisato che “questo è un aspetto più delicato - quando attuano lo sciopero della fame, non è attività obbligatoria e non è prevista la comunicazione dell’andamento delle centinaia di manifestazioni di protesta che, quotidianamente, i detenuti pongono in essere sul territorio nazionale, molte delle quali cessano entro breve termine. Purtroppo è un’attività difficile da monitorare perché spesso inizia e finisce in tempi molto brevi”. Tuttavia ha terminato Nordio: “Vi annuncio, è un punto d’onore, che allo scopo di ovviare alla problematica, a breve sarà operativa una precipua mailing list presso la cd. Sala Situazioni del DAP, così che anche l’ufficio del Garante nazionale sarà tempestivamente reso edotto, pressoché in tempo reale, dei fatti di particolare rilevanza che si verificheranno all’interno degli istituti penitenziari. Avrà pertanto contezza di tutti gli eventi critici rilevanti, così da agevolarne il miglior adempimento del proprio mandato istituzionale”. Infine, “quanto alla tematica dei suicidi, pur cennata nell’ampio quesito, sono a ribadire che, in generale, l’attenzione alla “sanità penitenziaria” è e sarà massima, non nascondendo però la complessità della problematica perché la titolarità in capo alle Regioni della competenza ad organizzare ed erogare i concreti servizi può creare e spesso crea un concorso di competenze”. Per quanto concerne il tema delle intercettazioni il Ministro è stato interrogato dal suo stesso partito, ossia Fratelli D’Italia, che ha chiesto “di sapere quali iniziative il Ministro in indirizzo abbia adottato o intenda adottare per monitorare e vigilare sulla corretta applicazione della normativa, che ha riformato la disciplina delle intercettazioni e se il Governo intenda intervenire al fine precipuo di garantire una maggiore riservatezza dei colloqui captati”. La risposta è stata più breve della precedente, priva di dettagli tecnici, e ripetitiva rispetto a quanto detto in più occasioni: in primis si interverrà “con un disegno di legge, una riforma, che riguardi essenzialmente la tutela dei terzi”. Poi con una “riforma del codice di procedura penale, una radicale - e sottolineo radicale - revisione del sistema delle intercettazioni che tuteli non soltanto la privacy ma anche la correttezza delle indagini e la strumentalizzazione con la diffusione attraverso la profusione pilotata di notizie che dovrebbero restare segrete”. Papa Francesco: “Ascoltare i detenuti in cerca di una nuova vita, la Chiesa esca dei pregiudizi” di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 26 maggio 2023 Scontare la pena può diventare per un detenuto occasione per “cominciare una vita nuova” e la comunità cristiana “è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza”. Lo ha sottolineato papa Francesco in un passaggio del discorso che ha rivolto ai referenti diocesani del cammino sinodale italiano, che ha incoraggiato a non avere paura del “disordine” innescato dalle discussioni in corso. L’incontro, allargato ai vescovi italiani, è il secondo con la conferenza episcopale italiana, dopo quello di lunedì, in occasione dell’assemblea generale della Cei che si conclude oggi con una conferenza stampa del cardinale presidente Matteo Zuppi. Il percorso sinodale italiano, avviato nel 2021 con un biennio di ascolto (la fase “narrativa”), entra ora in una fase più propositiva, “sapienziale”. Stanno emergendo, nel corso del dibattito, idee innovative, tese a dare ad esempio potestà deliberativa ai consigli pastorali o ad affidare ai laici, e in particolare alle donne, il ruolo di referenti parrocchiali, ma fioccano anche le resistenze e gli scetticismi, tra i vescovi, tra i sacerdoti e anche tra alcuni laici. Sinodo, “superare resistenze e preoccupazioni” - Il Papa ha esortato la Chiesa italiana a superare “resistenze e preoccupazioni” sul percorso sinodale, ha sottolineato l’importanza del coinvolgimento dei sacerdoti e dei laici e si è poi soffermato “sulle esperienze di emarginazione”. “Mi ha colpito”, ha raccontato, “la domanda del cappellano di un carcere italiano, che mi chiedeva come far sì che l’esperienza sinodale vissuta in una casa circondariale possa poi trovare un seguito di accoglienza nelle comunità”. La Chiesa, ha detto Francesco, deve essere “inquieta nelle inquietudini del nostro tempo. Siamo chiamati a raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarcene interrogare, a portarle davanti a Dio, a immergerle nella Pasqua di Cristo. Formare dei gruppi sinodali nelle carceri vuol dire mettersi in ascolto di un’umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione. Per un detenuto, scontare la pena può diventare occasione per fare esperienza del volto misericordioso di Dio, e così - ha rimarcato Bergoglio - cominciare una vita nuova. E la comunità cristiana è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio. Questo è un esempio di inquietudine buona, che voi mi avete dato; e potrei citarne tanti altri: esperienze di una Chiesa che accoglie le sfide del nostro tempo, che sa uscire verso tutti per annunciare la gioia del Vangelo”. Il “casino” argentino: lo fa lo Spirito - Francesco ha auspicato una Chiesa “aperta”, ha denunciato il rischio che nelle parrocchie, nelle comunità religiose e nelle curie si insinui “una sorta di neoclericalismo di difesa”, anche tra i laici, ed ha auspicato che nella Chiesa “possono trovare posto quanti ancora faticano a vedere riconosciuta la loro presenza, quanti non hanno voce, coloro le cui voci sono coperte se non zittite o ignorate, coloro che si sentono inadeguati, magari perché hanno percorsi di vita difficili o complessi. E tante volte sono scomunicati a priori”. “Dovremmo domandarci - ha detto - quanto facciamo spazio e quanto ascoltiamo realmente nelle nostre comunità le voci dei giovani, delle donne, dei poveri, di coloro che sono delusi, di chi nella vita è stato ferito, chi - ha sottolineato - è arrabbiato con la Chiesa. Fino a quando la loro presenza resterà una nota sporadica nel complesso della vita ecclesiale, la Chiesa non sarà sinodale, sarà una Chiesa di pochi”. Il Papa, inoltre, ha espresso l’auspicio che la Chiesa “continui a camminare”: “Una Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo - ha detto - faticherà a camminare nella storia, al passo dello Spirito, incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo”. Accomiatandosi dai vescovi e dai referenti sinodali, Francesco ha raccontato quanto gli era successo arrivando, quando un sacerdote, Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi che Bergoglio conosce dai tempi di Buenos Aires, lo ha salutato dicendogli: “Que Dios lo bendiga en este quilombo”, con un’espressione argentina che si potrebbe tradurre: “Che Dio la benedica in questo casino”. “Uno di voi”, ha detto Bergoglio suscitando le risate dei presenti, “ha usato un’espressione molto argentina che non oso ripetere perché è un po’... ma ha una bella traduzione italiana che forse lui dirà. Una cosa disordinata... pensate a cosa è successo la mattina di Pentecoste (quando, nella tradizione cristiana, lo Spirito scende sui discepoli di Gesù dopo la risurrezione, ndr.): quella mattina di Pentecoste era peggio! E chi ha provocato quel peggio? Lo Spirito! Che è bravo a fare disordine, a muovere, ma lo stesso Spirito ha poi fatto l’armonia. Non bisogna avere paura del disordine fatto dallo spirito, affidiamoci allo Spirito santo, lui fa il disordine ed è capace di fare armonia”. E lasciando l’aula Paolo VI, dove si è svolto l’incontro, Bergoglio, incrociando di nuovo don Dell’Olio, gli ha detto: “Ora tocca a te spiegare!”. Le opposizioni contro la ricetta Nordio: “Riforme rischiose” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 maggio 2023 Pd, M5S e Avs contro la riforma dell’abuso d’ufficio concordata dal Guardasigilli con la Lega: “Così si apre la strada a scelte arbitrarie”. Quali sono le reazioni all’accordo raggiunto ieri tra il ministro Carlo Nordio, il sottosegretario Andrea Ostellari, e la responsabile giustizia della Lega Giulia Bongiorno? Ricordiamo che si va verso l’abrogazione o depenalizzazione del reato dell’abuso di ufficio, la riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione e l’adozione di una serie di misure garantiste, tra le quali trovano spazio anche quelle cautelari oggetto del referendum giustizia giusta, quelle sull’appello e sulle intercettazioni. In questo momento la magistratura tace. Le toghe, prima di esprimersi, vogliono leggere i testi normativi. È chiaro comunque che ne parleranno all’assemblea dell’11 giugno convocata dall’Anm per decidere su una possibile astensione dopo che il Guardasigilli ha chiesto alla Procura generale di esercitare l’azione disciplinare contro i giudici della Corte d’Appello di Milano che hanno trattato la fase cautelare del procedimento per l’estradizione del cittadino russo Artem Uss. Per quanto concerne la politica, il giudizio è pressoché negativo. Per l’esponente del Partito democratico Anna Rossomando, vice presidente del Senato, si tratta di “proposte vecchie, superate e inefficaci. Infatti se le indiscrezioni saranno confermate, avremo passato mesi e mesi in annunci per arrivare, ad esempio, all’abolizione dell’abuso di ufficio in attesa di una fumosa riorganizzazione complessiva dei reati contro la Pa. E parliamo di un reato già ampiamente ridimensionato 3 anni fa, sulla cui abolizione il Procuratore nazionale antimafia Melillo ha usato parole molto chiare denunciandone i rischi. Discorso simile - aggiunge l’ex responsabile giustizia del Pd - sulle intercettazioni, su cui eravamo già intervenuti con il ministro Orlando, così come sulla gogna mediatica con la ministra Cartabia. Quindi invece di proporre strumenti e risorse per attuare le numerose garanzie approvate nella scorsa legislatura e incidere sui tempi dei processi, si cavalcano spot ideologici a discapito di una reale cultura delle garanzie e del miglioramento del servizio giustizia”, ha concluso la senatrice al nostro giornale. “La strada scelta da Nordio, Bongiorno e tutto il centrodestra, insieme ai sodali del fu Terzo polo, - per Valentina d’Orso, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione giustizia alla Camera - è non solo sbagliata, perché non è quella giusta per superare la “paura della firma”, ma anche assurda, perché porta l’Italia fuori dalle norme internazionali anticorruzione che abbiamo recepito e che sono un baluardo di civiltà. Questo emerge con chiarezza anche dalle audizioni in corso in commissione Giustizia della Camera”. Secondo la parlamentare, “diversi autorevoli esperti hanno confermato che il reato funziona bene, dopo la riforma del 2020 voluta dal governo Conte II, che ha definito meglio i confini e i termini di applicazione. Inoltre hanno messo in guardia rispetto al rischio di aprire la strada a un libero arbitrio di alcuni pubblici ufficiali a danno dei cittadini, senza alcuna garanzia di aumento dell’efficienza della Pa. Piuttosto, se realmente si volesse intervenire nell’interesse della Pa e della collettività, si dovrebbe pensare a rafforzare i controlli negli uffici pubblici, a interventi mirati nel Testo unico degli enti locali per meglio definire la separazione tra la responsabilità politica dei sindaci e quella amministrativa dei dirigenti e al rafforzamento degli organici della Pa sia in termini quantitativi che di competenze”, ha concluso d’Orso al Dubbio. Infine per l’onorevole Devis Dori, membro della Commissione giustizia in quota Alleanza Verdi e Sinistra, “mentre da noi si stanno svolgendo le audizioni sulla riforma dell’abuso d’ufficio, apprendiamo che la maggioranza avrebbe trovato l’accordo per collegare quella riforma ad altre iniziative che coinvolgono i reati contro la pubblica amministrazione. Ci preoccupa apprendere che l’intenzione della maggioranza sia quella di orientarsi per l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio che, tra l’altro, produrrebbe anche la paradossale riespansione di reati puniti più gravemente. Come Avs non siamo contrari ad alcuni aggiustamenti normativi se però gli stessi vanno nell’ottica di una maggiore tipizzazione delle fattispecie”. Sempre su questa tema, aggiunge Dori al Dubbio, “vanno corrette quelle storture che portano a mettere sulla graticola mediatica coloro che sono anche solo sospettati di aver commesso un illecito, in spregio al principio di presunzione di innocenza. Invece purtroppo vediamo come la c.d. “paura della firma”, che effettivamente è un problema oggettivo, viene utilizzata come strumento per arrivare alla depenalizzazione, quando sarebbe sufficiente circoscriverlo meglio. Come Avs non ci poniamo con alcuna preclusione ideologica, valuteremo di volta in volta, in base alle proposte che arriveranno. Certamente siamo contrari alla depenalizzazione dell’abuso d’ufficio e a limitare lo strumento delle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione”. Al contrario, “appoggeremo invece le proposte volte a limitare al massimo la carcerazione preventiva, anche considerato che, di fatto, la detenzione preventiva colpisce soprattutto le categorie già socialmente vulnerabili e contribuisce al sovraffollamento carcerario. Stiamo parlando di presunti innocenti, che non hanno ancora ricevuto una condanna definitiva, pertanto anche da un punto di vista costituzionale deve fungere da assoluta eccezione”. Da Togliatti a Saragat, il garantismo appartiene al Dna della sinistra di Aldo Varano Il Dubbio, 26 maggio 2023 È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran-populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro Paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal- liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti. Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre. La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira. Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti. La svolta giustizialista nel nostro Paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro “Io sono Giorgia”. Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere. I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome). Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana. Abuso d’ufficio, Melillo avvisa: la mafia infiltra i Comuni di Davide Varì Il Dubbio, 26 maggio 2023 Il procuratore nazionale antimafia in Commissione giustizia: con la riforma si rischia l’espansione di reati più gravi. “Il venir meno della possibilità di sanzionare condotte abusive rappresenterebbe un vulnus agli obblighi internazionali sottoscritti dall’ Italia in tema di corruzione con la convenzione di Strasburgo”. A lanciare l’allarme, in Commissione Giustizia alla Camera, è il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, audito nell’ambito dell’esame dei disegni di legge sull’abuso d’ufficio. Melillo ha sottolineato il pericolo di infiltrazioni mafiose, dal momento che i clan tendono a entrare sempre più in contatto con la Pa, ed eventuali modifiche o peggio la cancellazione del reato esporrebbe così il nostro Paese “al rischio di apparire fonte di indebolimento del sistema di incriminazione”, proprio mentre sono in arrivo le risorse del Pnrr. “Da procuratore nazionale antimafia - ha sottolineato Melillo - credo sia doveroso richiamare l’attenzione del dibattito pubblico sullo stato di profondo diffuso condizionamento criminale dei comportamenti della pubblica amministrazione. Basterebbe guardare allo stato delle amministrazioni sciolte in 30 anni per accertati condizionamenti della criminalità mafiosa per toccare la concretezza dei problemi dell’assenza di ogni filtro, controllo, prevenzione”, ha spiegato. Se è giusto lavorare per ridimensionare la paura della firma, il discorso “non può esaurirsi nell’aggravare la frammentazione e l’incoerenza del sistema dell’incriminazione”, ha osservato il procuratore. “I timori di invasione indebita della sfera di discrezionalità che deve essere riservata all’autorità amministrativa è un tema che avrebbe più credibilità se fosse accompagnato dalla rivendicazione dell’introduzione nel sistema di controlli interni alla pubblica amministrazione, in grado di tenere lontano il rischio dell’intervento giudiziario. È invece questo uno dei temi che resta fuori dal dibattito politico - ha evidenziato. Occorre riconoscere che i controlli nella pubblica amministrazione non esistono e quelli previsti dalla legge sono ridotti a mera cosmesi”. Ma non solo: il rischio è quello di una espansione “al ricorso alla leva incriminatoria del concorso in associazione mafiosa o concorso esterno”. E questo riguarda “non solo l’abuso di ufficio ma anche il traffico di influenze, i cui termini sono stati ricondotti nelle salde mani dei principi costituzionali di tassatività delle previsioni”. Dopo la riforma del governo Conte, le pronunce della Cassazione hanno “fugato ogni rischio di applicazioni incaute” delle norme che puniscono questi reati. “L’ 85% delle denunce viene archiviato” dai pm. E anche le condanne sono poche: nel 2021 sono state solo 18, mentre sono diminuite significativamente le denunce. Gli amministratori che lamentano “la paura della firma” sono quelli che governano, “quelli che invece passano all’opposizione sono spesso i promotori delle denunce che sollecitano l’intervento del giudice”. Intercettazioni, Nordio promette “Mai più abusi, verso una stretta” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 maggio 2023 Il ministro durante il Question time: “Ogni suicidio in carcere è un fardello di dolore, l’attenzione alla sanità penitenziaria è e sarà massima, ma la questione è problematica”. Chi sperava che dal Question time di ieri in Senato arrivassero proposte concrete su suicidi in carcere e intercettazioni rimarrà deluso, in quanto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nelle sue risposte alle interrogazioni è rimasto molto sul vago. Sui suicidi probabilmente perché non solo oggettivamente il tema è complesso ma forse anche perché non c’è tanta voglia da parte del Governo di investire sugli istituti di pena e sul sovraffollamento. In merito all’altro tema presumibilmente il guardasigilli non ha voluto anticipare la riforma che presto presenterà al Consiglio dei Ministri. Ma veniamo al dettaglio. Sulla questione intercettazioni ha semplicemente ricevuto un assist dai compagni di partito di Fratelli d’Italia che gli hanno chiesto di sapere quali iniziative “abbia adottato o intenda adottare per monitorare e vigilare sulla corretta applicazione della normativa, che ha riformato la disciplina delle intercettazioni e se il Governo intenda intervenire al fine precipuo di garantire una maggiore riservatezza dei colloqui captati, nel rispetto dell’articolo 15 della Costituzione”. La risposta è stata quella di sempre: il governo intende “procedere in due momenti: il primo a termine molto vicino con un ddl che riguardi essenzialmente la tutela dei terzi e della privacy. In un tempo successivo faremo una radicale revisione del sistema delle intercettazioni che tuteli anche la correttezza delle indagini e combatta la strumentalizzazione che viene fatta con la diffusione pilotata” di intercettazioni “che dovrebbero rimanere segrete”. Per quanto concerne i suicidi in carcere assolutamente nulla di concreto. Interrogato dal partito democratico sui “due detenuti del carcere di Augusta (Siracusa) deceduti poche settimane fa in ospedale, a distanza di 15 giorni, dove erano ricoverati in gravi condizioni a seguito di uno sciopero della fame durato 60 giorni in un caso e 41 nell’altro. Inoltre, un terzo detenuto, sempre secondo quanto riportato dagli organi di stampa, avrebbe tentato il suicidio”, il responsabile di via Arenula ha detto: “Ogni suicidio in carcere è un fardello di dolore, non solo per noi al ministero ma per tutti noi, per la nostra coscienza, per la nostra visione etica”, tuttavia “sono a ribadire che, in generale, l’attenzione alla “sanità penitenziaria” è e sarà massima, non nascondendo però la complessità della problematica perché la titolarità in capo alle Regioni della competenza ad organizzare ed erogare i concreti servizi può creare e spesso crea un concorso di competenze”. Quindi nessun accenno a possibili soluzioni come svuotamento degli istituti, misure alternative, miglioramento delle strutture o aumento delle attività trattamentali. Invece sulla circostanza per cui l’ufficio del Garante dei detenuti abbia denunciato il fatto di non aver ricevuto alcuna segnalazione in merito al ricovero dei due detenuti, il Guardasigilli ha precisato che “questo è un aspetto più delicato - quando attuano lo sciopero della fame, non è attività obbligatoria e non è prevista la comunicazione dell’andamento delle centinaia di manifestazioni di protesta che, quotidianamente, i detenuti pongono in essere sul territorio nazionale, molte delle quali cessano entro breve termine. Purtroppo è un’attività difficile da monitorare perché spesso inizia e finisce in tempi molto brevi”. Tuttavia, ha terminato Nordio, “vi annuncio, è un punto d’onore, che allo scopo di ovviare alla problematica, a breve sarà operativa una precipua mailing list presso la cd. Sala Situazioni del Dap, così che anche l’ufficio del Garante nazionale sarà tempestivamente reso edotto, pressoché in tempo reale, dei fatti di particolare rilevanza che si verificheranno all’interno degli istituti penitenziari. Avrà pertanto contezza di tutti gli eventi critici rilevanti, così da agevolarne il miglior adempimento del proprio mandato istituzionale”. Bongiorno: “Non ci sarà stretta sulle intercettazioni. Ma servono più garanzie” di Liana Milella La Repubblica, 26 maggio 2023 La presidente della commissione Giustizia del Senato: “Le nuove norme puntano ad evitare i processi ingiusti. Sulla corruzione no a scontri con l’Europa”. Presidente Bongiorno lei è la “spina nel fianco” per il Guardasigilli Nordio che è dovuto venire al Senato per convincerla ad eliminare l’abuso d’ufficio dalla riforma della giustizia. Cosa le ha promesso in cambio? “Lei è totalmente fuori strada. Tra noi c’è sintonia, e ricordo che, quando ancora non era ministro, Nordio ha condiviso con noi le ragioni del Sì agli ultimi referendum, tutti di matrice garantista. I confronti sono fisiologici, visto che io sono responsabile Giustizia di un partito della maggioranza”. Lei non voleva cancellare l’abuso d’ufficio... “Ho sempre detto che questo reato, nonostante le modifiche che si sono succedute, non ha dato buona prova. Il terrore della firma da parte di sindaci e amministratori locali è effettivo e costituisce un problema: una Pubblica amministrazione immobile e timorosa non potrà mai essere efficiente. Vi sono perciò due possibilità: o un’abrogazione o una nuova correzione. Se si dovesse optare per l’abrogazione, diventerebbe necessaria una riforma complessiva dei reati contro la Pa per evitare possibili vuoti di tutela o interpretazioni estensive di altri e più gravi reati”. È sicura che non si rischi un danno maggiore se Nordio rivede tutti i reati di corruzione e li attenua? “Non si è parlato di attenuare, ma di razionalizzare la tutela nel suo complesso. Sono cose molto diverse. Oggi ci sono sovrapposizioni di reati che disorientano gli operatori del diritto e i cittadini”. A Nordio lei ha fatto una giusta osservazione, se togliamo l’abuso d’ufficio ai pubblici amministratori verranno contestati reati più gravi... “Confermo che il rischio esiste, ecco perché è importante una riforma organica in chiave di ripensamento complessivo del sistema. Anche per colmare eventuali vuoti che dovessero emergere”. Melillo dice che non si può sopprimere l’abuso d’ufficio perché si andrebbe contro l’Europa... “Anche in quest’ottica, è necessario che la modifica complessiva dei reati contro la Pa si armonizzi con la normativa europea, in modo da potenziare la lotta alla corruzione con strumenti legislativi comuni. Considero l’eventuale abrogazione dell’articolo 323 del codice penale un punto di partenza, e non di arrivo”. La riforma della giustizia di Nordio promette interventi pesanti. A partire dalle intercettazioni. Anche qui legherete le mani dei pm? Non trascrivere le parole di una terza persona che finisce nella registrazione di fatto può toglie una prova... “La mia storia in Parlamento documenta che ho sempre lottato per evitare di cancellare le intercettazioni, che reputo indispensabili. Il ministro sta lavorando sul tema della riservatezza. La commissione che presiedo sta concludendo un’approfondita indagine conoscitiva a 360 gradi. Sono state già fatte 45 audizioni di esperti del settore, oltre a sopralluoghi presso alcuni tribunali. Le problematiche emerse sono tante. Di certo oggi la tecnologia corre, mentre le leggi sono lente. Alcune forme di captazione non hanno affatto una disciplina adeguata e questo, per la rilevanza degli interessi in gioco, non è accettabile”. La custodia cautelare. Davvero Nordio pensa di sostituire la figura del gip con tre giudici? E dove li trova? Le toghe dicono che è impossibile perché i giudici non bastano neppure adesso... “Il tema di alcuni eccessi nell’uso della custodia cautelare è da noi condiviso ed è anche stato oggetto dei referendum promossi dalla Lega”. Lei è un noto avvocato, come farà un pm ad ascoltare un possibile arrestato per sentire la sua versione? E per quali reati? E se poi scappa? “Non corriamo troppo. Per adesso posso dire che l’obiettivo condiviso è evitare un uso distorto della carcerazione preventiva, che spesso ha costituito indelebili stigmate per soggetti poi assolti nel merito a distanza di anni”. Togliere al pm la possibilità di fare il processo d’Appello in caso di assoluzione, cioè tornare alla bocciata dalla Consulta legge Pecorella. Non pensa che pure questa sia una misura contro le toghe e a danno dei cittadini? “No, penso invece alla sofferenza dei tanti innocenti coinvolti nei processi penali. Perché dilatarla anche dopo la prima assoluzione? E comunque ricordo a tutti che una sentenza di assoluzione anche se ribaltata in Appello lascia sempre il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato”. Pd sull’Aventino per Colosimo: che sbaglio la gogna per quell’episodio con Ciavardini di Tiziana Maiolo L’Unità, 26 maggio 2023 Chiara Colosimo è stata eletta alla presidenza della Commissione Bicamerale Antimafia. La premier Giorgia Meloni ha tenuto duro sul nome della candidata, senza lasciarla azzoppare dalla piccola gogna di un piccolo episodio di vicinanza a Luigi Ciavardini, ex terrorista dei Nar pluricondannato e oggi dedito al reinserimento di detenuti. Una prova di forza più di appartenenza politica che non di rivendicazione culturale sul significato e il ruolo della Commissione. Che dovrà essere diversa, in anni in cui è cambiato il mondo intero anche la stessa fisionomia delle mafie e del terrorismo. E ha sbagliato il Pd (e in seguito anche Avs) che con Walter Verini, che sarà capogruppo, si è accodato alla decisione di Giuseppe Conte di far allontanare dall’aula i rappresentanti del suo partito in segno di protesta per il mancato cambiamento della candidata. La quale non sarà misurata nelle proprie scelte sul tasso di antifascismo o antimafiosità, che del resto non avrà difficoltà a dimostrare ogni giorno. Ma da come, per esempio, si rapporterà a uno dei suoi due vice, il deputato Federico Cafiero de Raho, ex presidente nazionale “antimafia”, eletto nel Movimento cinque stelle. Hic Rhodus, hic salta, abbiamo scritto nei giorno scorsi, nel fare i nostri auguri di buon lavoro a Chiara Colosimo, di cui abbiamo difeso il diritto ad accedere a un ruolo così importante e così delicato. Perché avevamo inteso l’insidia di quella candidatura, proposta da un altro ex procuratore di peso come Giancarlo Caselli, che, se pur da alternativa sia diventata complementare, sarà imponente come una montagna. Considerata importante, prima di tutto, dai 13 deputati e senatori di opposizione che lo hanno votato, abbandonando quell’Aventino un po’ bislacco e rientrando furbescamente nell’aula. Così attirandosi anche l’epiteto di “inciucisti”, dal momento che il Pd ha anche portato a casa un segretario di presidenza (Anthony Barbagallo, affiancato da Antonio Iannone di FdI), da parte di Raffaella Paita di Italia Viva. I cui rappresentanti, insieme ai cugini di Azione, hanno potuto far bella figura votando una propria candidata, Dafne Musolino di “Sud chiama Nord”. Vien da chiedersi - ma il problema è se Giorgia Meloni, e Chiara Colosimo di conseguenza se lo porranno - se quella candidatura e quell’elezione del vicepresidente di minoranza siano state opportune. Come ci insegnano sempre quelli che la sanno lunga, il problema non è di incompatibilità, ma di inopportunità. Veramente non crea nessun imbarazzo il fatto che colui che nella sua veste di numero uno “dell’antimafia” nazionale ha dato indirizzi alle procure e alle inchieste di tutta Italia, oggi sieda in una commissione parlamentare che ha tra i propri compiti proprio quello di verificare in che modo quegli stessi procuratori applicano le leggi? Un’altra cosa che ci spiegano sempre quelli che la sanno lunga, è che se le toghe negli ultimi trent’anni hanno travalicato il proprio ruolo, che non è come alcuni di loro dicono quello del controllo di legalità ma quello di trovare i responsabili dei reati, la responsabilità è della politica, perché ha “lasciato un vuoto”. Il che è vero solo in parte. Perché solo i malfattori entrano nelle case altrui solo perché la porta non era blindata. Gli altri semmai almeno suonano il campanello. Fuor di metafora, si poteva trovare una soluzione politica, fin dal 1993. Invece di continuare a umiliare la debolezza oggettiva di alcuni partiti, e addirittura di insultare con l’invenzione della “trattativa” con la mafia. Ecco che siamo arrivati al punto. La storia di questi trent’anni. E il timore per il futuro che quell’occupazione abusiva continui e si estenda allo stesso mondo della politica, il Parlamento. Ci confortano due riflessioni. La prima, con l’ottimismo della volontà, è la speranza che Chiara Colosimo, proprio perché è giovane (anche se sappiamo che ha una lunga esperienza politica) e ieri ha compiuto il suo dovere, nel giorno dell’anniversario della bomba di Capaci, appellandosi al sacrificio di Falcone e anche a quello di Borsellino, abbia la forza di presentarsi come una lavagna ancora pulita, su cui ancora scrivere. Con l’animo sgombro di tutta la retorica che un certo mondo dell’”antimafia” ci ha propinato in questi anni. Prima di avere la tentazione di un’adesione passiva a quel mondo, si ricordi sempre di quel che hanno cercato di farle per un’innocua foto. Non c’era innocenza, in quella piccola gogna. Ora lei quel mondo lo ha in casa, al proprio fianco, con tutto il peso di un’esperienza che per forza di cose lei non può ancora avere. La seconda riflessione riguarda la speranza di poter contare, come a volte succede, su qualche singolo deputato o senatore, che sieda in commissione con l’animo sgombro. Altre lavagne pulite. L’altro vicepresidente della commissione, per esempio, Mauro D’Attis, deputato di Forza Italia, il partito che prima e più di ogni altro ha avuto nei diritti, le garanzie e le regole, la stella polare della propria attività politica. Su di lui, che è anche uomo del sud, e sul capogruppo dello stesso partito Pietro Pittalis, un avvocato sardo molto attivo nell’attività riformatrice, forse la presidente potrà contare. Ma anche, lo speriamo, su ogni altro deputato e senatore degli altri partiti, di maggioranza e di opposizione, che sappiano mostrarsi lontani dalla retorica vuota del dire “Paolo e Giovanni” per poi fare il contrario di quel che facevano loro. Se non sarà così, l’Antimafia parlamentare sarà la solita scatola vuota e utile solo a erogare denaro e consulenze ai soliti. Quelli che nel nome dell’”antimafia” erano i veri nemici di Falcone e Borsellino. Sardegna. Denuncia di Sdr: “Limiti a telefonate con figli minori per detenuti con reati ostativi” reportsardegna24.i, 26 maggio 2023 “Interdire a genitori detenuti, la cui condanna contempla un reato ostativo, la possibilità di fruire di colloqui telefonici anche quotidiani con i bambini e le bambine, si configura come una violazione dei diritti dei e delle minori a mantenere costanti contatti con i parenti più stretti. Crea inoltre una disparità di trattamento che inficia l’art. 3 della Costituzione”. Ne è convinta l’Associazione “Socialismo Diritti Riforme Odv”, presieduta da Paola Melis, che ha segnalato la grave discriminazione alla Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza Carla Garlatti e alla Garante regionale dell’Infanzia Carla Puligheddu. “L’aspetto problematico - osserva Maria Grazia Caligaris, referente per le carceri di Sdr Odv - è relativo al fatto che i genitori, pur con reato ostativo, non sono privati della responsabilità genitoriale, ma ciò nonostante i/le minori non possono fruire di colloqui telefonici aggiuntivi, sempre a carico della persona detenuta, rispetto a quelli consentiti (1 alla settimana di 10 minuti). Una limitazione che permane anche se bimbe/i sono soggetti fragili, con disabilità e/o ricoverati”. “In seguito alla cessazione della pandemia, periodo in cui le persone detenute e i familiari hanno potuto colloquiare più volte alla settimana attraverso il telefono e/o fruire di videochiamate per rimediare ai pericoli della diffusione del virus e per scongiurare i rischi suicidari, per le detenute e i detenuti sottoposti ad articoli ostativi non è più possibile ottenere deroghe. Bambine e bambini quindi devono accontentarsi di sentire la voce del papà e/o della mamma per 10 minuti a settimana e se sono due o tre spetta loro soltanto uno o due minuti a testa”. “Il dispositivo di legge (30/06/2020) é stato diffuso e reso ancora più esplicito da una Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (26/09/2022) che però nella parte predispositiva richiama una chiara cornice legislativa sul versante dei diritti (artt. 29/30/31 della Costituzione, art.8 della Convenzione Europea). Appare chiaro tuttavia che il dispositivo, limitando i diritti delle più giovani generazioni, lascia aperto un interrogativo sulla fondatezza di tutta una serie di articoli dell’ordinamento penitenziario che valorizzano i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, quali strumenti per l’esercizio del diritto delle persone private della libertà al mantenimento delle relazioni con i propri congiunti e per la risocializzazione”. “Condannare i bambini e le bambine, anche con serie fragilità, a rinunciare a un rapporto più intenso con i genitori, perché i reati degli adulti non sono compatibili con qualche telefonata aggiuntiva, sembra - conclude Caligaris - una punizione che si aggiunge al dramma. Non si può ignorare la condizione di disagio sociale, culturale, affettivo che caratterizza il più delle volte la vita delle più giovani generazioni con genitori privati della libertà ecco perché appare inconcepibile negare uno o due squilli di telefono. L’auspicio è che si valutino le conseguenze di queste scelte e di proceda nell’umanizzazione della pena nel rispetto delle prerogative di chi non ha commesso un reato e vuole solo poter sentire più spesso almeno una voce familiare”. Palermo. Allarme per i tentativi di suicidio al carcere Malaspina di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2023 La situazione presso l’Istituto Penale per Minorenni “Malaspina” di Palermo sta attualmente destando preoccupazione a causa dell’aumento degli episodi di autolesionismo, tentativi di suicidio e danneggiamenti registrati fin dall’inizio dell’anno. Il Garante dei detenuti della regione Sicilia, Santi Consolo, ha effettuato una visita all’istituto lunedì scorso, 22 maggio, per comprendere meglio le criticità in corso. Durante l’incontro con la direttrice dell’Ipm, Clara Pangaro, e il comandante, Francesco Cerami, sono stati forniti dati sui vari episodi verificatisi. I detenuti presenti nell’istituto al momento della visita erano 16, di cui 6 minori e 10 giovani adulti. Sono stati segnalati complessivamente 11 eventi critici, tra cui autolesionismo, aggressioni, gesti anticonservativi e danneggiamenti. È emerso che 9 detenuti erano coinvolti negli episodi, tra cui alcuni minorenni stranieri non accompagnati e detenuti maggiorenni italiani. La provenienza di questi detenuti spaziava da diverse regioni italiane, come Catania, Roma, Milano e Catanzaro. La presenza media dei detenuti è variata da 17 a gennaio e febbraio a 26 ad aprile. Si è anche constatato che alcuni detenuti presentavano evidenti problemi psicologici e psichiatrici, in particolare uno di loro era stato coinvolto in ben 4 episodi di autolesionismo. Tuttavia, a differenza di quanto si riscontra negli istituti per adulti, non vi erano carenze di personale nella Polizia Penitenziaria, che era in grado di svolgere tutte le proprie mansioni. Per quanto riguarda i servizi sanitari all’interno dell’istituto, era presente un medico per 3 ore al giorno, un infermiere 24 ore su 24 e una guardia medica attiva la sera. Tuttavia, la direttrice ha espresso preoccupazione per la possibile soppressione della guardia medica dopo la fine della pandemia, poiché si riteneva che il numero degli utenti non giustificasse più il suo mantenimento. Il servizio psicologico era garantito da un medico fornito dall’Asp (Azienda Sanitaria Provinciale) per 38 ore settimanali e da una psicologa del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asp per 13 ore settimanali. Il servizio psichiatrico, invece, veniva svolto su chiamata da un neuropsichiatra infantile del Dipartimento di Salute Mentale. Durante la visita, sono stati ispezionati gli ambienti dell’istituto, comprese le stanze di pernottamento. La maggior parte dei detenuti era impegnata in una partita di calcetto, ad eccezione di tre detenuti che si trovavano in stanza a causa di una rissa violenta verificatasi tra di loro. Uno dei detenuti era stato collocato in un reparto separato per motivi di sicurezza, e a lui erano stati aggiunti due fratelli Genovesi. Tuttavia, il Garante ha sottolineato che un comportamento corretto non può essere penalizzato con limitazioni delle attività trattamentali a causa degli atteggiamenti minacciosi e aggressivi degli altri detenuti. Mentre si attendeva il Consiglio di disciplina, nessuna sanzione era ancora stata applicata. Durante la visita, sono state esaminate anche altre stanze di pernottamento e gli spazi dedicati alle attività trattamentali. Tutti gli ambienti si presentavano ordinati e puliti, offrendo un ambiente relativamente adeguato per il trattamento dei detenuti. Il garante Consolo spiega che è importante evidenziare che i criteri di assegnazione dei detenuti negli istituti penitenziari minorili continuano a seguire la Legge 354/ 1975. Nonostante il limitato numero di detenuti in rapporto agli spazi disponibili per il trattamento, non è garantita la separazione dei minori dai giovani adulti al di sotto dei 25 anni. Questa situazione compromette seriamente i progressi del trattamento (come dimostrato dal caso del quattordicenne che ha minacciato il suicidio per poter condividere la stanza con un maggiorenne minore di 25 anni). In Sicilia, ci sono ben quattro Istituti Penitenziari Minorili su un totale di 17 presenti sul territorio nazionale. È auspicabile una diversa e più razionale organizzazione di questi istituti, considerando la necessità di adeguati spazi trattamentali e la separazione effettiva tra i diversi gruppi di detenuti. Va anche sottolineato che, forse, in Italia non si stanno osservando nemmeno le ‘ Regole dell’Avana’, stabilite con la Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu nel dicembre 1990. Queste regole, che stabiliscono i principi guida per i minori privati della libertà personale, includono la fondamentale separazione dei detenuti minori dagli adulti. La mancata separazione assume una gravità ancora maggiore quando la presenza di giovani adulti è numericamente superiore a quella dei minori. Il Garante regionale dei detenuti, Santi Consolo, ha preso atto di queste problematiche durante la visita all’Ipm Malaspina di Palermo. Ha riconosciuto l’elevato numero di eventi critici di autolesionismo, presunti tentativi di suicidio e danneggiamenti registrati nel corso dell’anno, che rappresentano dati allarmanti in relazione al numero di detenuti presenti nell’istituto. Consolo ha avuto un incontro con la direttrice dell’Istituto, dott.ssa Clara Pangaro, e il Comandante, dott. Francesco Cerami, per ottenere dati accurati sulle criticità avvenute. Durante l’incontro, il dott. Cerami ha fornito informazioni dettagliate sugli episodi critici, evidenziando che i soggetti coinvolti erano principalmente detenuti con problemi psicologici e comportamentali. Ha sottolineato che l’Istituto Penitenziario Minorile Malaspina dispone di uno staff ridotto e di risorse limitate per affrontare queste situazioni complesse. Il Garante ha espresso preoccupazione per la carenza di personale qualificato per gestire le emergenze psicologiche e ha evidenziato la necessità di adottare misure specifiche per la prevenzione del suicidio e l’assistenza psicologica adeguata ai detenuti. Ha suggerito che sarebbe opportuno coinvolgere professionisti esterni, come psicologi e psichiatri, per supportare il personale dell’istituto nel fornire una corretta assistenza. La direttrice, dott.ssa Clara Pangaro, ha concordato sulla necessità di migliorare le risorse umane e ha evidenziato la difficoltà di reperire personale specializzato nel contesto specifico dell’istituto minorile. Ha sottolineato che la formazione del personale esistente dovrebbe essere potenziata per consentire loro di affrontare in modo adeguato le situazioni di emergenza e fornire un sostegno efficace ai detenuti. Consolo, ha proposto di coinvolgere anche le famiglie dei minori detenuti nel percorso di trattamento, creando spazi per il dialogo e l’informazione reciproca. Ha suggerito che un maggiore coinvolgimento delle famiglie potrebbe contribuire a una migliore comprensione dei bisogni dei detenuti e a una maggiore efficacia delle azioni di recupero. Nel corso della visita, sono emerse anche alcune criticità relative alle condizioni igienico-sanitarie dell’istituto. Il dott. Consolo ha notato che alcuni locali erano in cattivo stato di conservazione e che l’igiene generale dell’ambiente lasciava a desiderare. Ha richiesto che vengano adottate misure immediate per migliorare l’igiene e la manutenzione dell’istituto al fine di garantire un ambiente sano e sicuro per i detenuti e il personale. Il Garante ha concluso la visita con la promessa di monitorare attentamente la situazione e di lavorare in collaborazione con le autorità competenti per affrontare le criticità individuate. Ha ribadito l’importanza di garantire il pieno rispetto dei diritti dei minori detenuti e di fornire loro un trattamento adeguato che favorisca il recupero e il reinserimento sociale. Livorno. Così il carcere di Gorgona è diventato l’isola dei diritti dei detenuti di Cristina Giudici linkiesta.it, 26 maggio 2023 Nonostante gli ostacoli burocratici e la mancanza di fondi, la colonia penale agricola dell’arcipelago toscano è un modello di inclusione e riabilitazione in una situazione di emergenza strutturale per i suicidi e i disturbi mentali. Ormai l’esperienza della Gorgona, soprannominata “l’isola dei diritti”, è un caso virtuoso da manuale per chi si occupa delle carceri italiane, dove la diffusione dei disturbi psicotici è diventata un’emergenza strutturale. La Casa di reclusione sull’ultima isola-carcere rimasta in Italia che è stata un luogo di sperimentazione visionaria, un sogno da non far morire all’alba, ora è diventata un rifugio anche metaforico dal dramma della detenzione negli istituti di pena dove oltre ai suicidi (ottantaquattro nel 2022, ventiquattro nei primi cinque mesi del 2023) dilaga il disturbo mentale. Un fenomeno vivisezionato dall’associazione Antigone: nel 2022 all’8,7 per cento dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6 per cento assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, mentre il 42,4 per cento assumeva sedativi o ipnotici. Un problema enorme non solo italiano perché l’Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme: un detenuto su tre in Europa ha disturbi mentali. E allora vale la pena di raccontare la storia, per quanto travagliata e complessa, della Gorgona dove campeggia un murales ristrutturato durante il campo di volontariato del Servizio civile internazionale coordinato da Marco Buraschi e Stefania Pizzolla su cui è stato scritto a lettere cubitali da volontari e detenuti il rinnegato articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nel libro che si intitola “Ne vale la pena - Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto (edizioni Nutrimenti)”, appena ristampato e riaggiornato a dieci anni di distanza, Carlo Mazzerbo, il direttore che ha creato il modello Gorgona, ha raccontato tutto quello che è stato (im)possibile fare nella colonia penale agricola (sulla carta una sezione distaccata della casa circondariale di Livorno) per farla diventare l’isola dei diritti, nonostante gli ostacoli della burocrazia penitenziaria e la mancanza di fondi, grazie a una comunità variegata cresciuta durante la sua direzione che è durata complessivamente quindici anni e dove i detenuti hanno chiesto la grazia per gli animali condannati al macello. Nell’isola più piccola dell’arcipelago toscano arrivano soprattutto persone a fine pena (oggi sono circa ottanta) che hanno scontato una lunga detenzione e presentano una richiesta motivata per aderire a un processo riabilitativo. E quella che era sembrata negli anni ‘90 una sorta di utopia - quando fare Tg galeotto o creare una band musicale con detenuti che alle spalle avevano reati gravi sembrava una sfida eccessiva - oggi viene riconosciuta come un modello dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le visite turistiche, lo scambio continuo fra fuori e dentro, fra l’isola e le istituzioni, le scuole, il terzo settore sulla terraferma rappresentano occasioni di abbattimento dei muri difficili da garantire altrove. Le visite turistiche, lo scambio continuo fra fuori e dentro, fra l’isola e le istituzioni, le scuole, il terzo settore sulla terraferma appaiono benefici più che mai difficili da garantire. “Negli istituti penali è sempre difficile trovare spazi, fondi e strumenti per affrontare il tema della salute mentale dei detenuti”, osserva Carlo Mazzerbo. “In Gorgona invece è stato possibile creare un rapporto terapeutico con gli animali che per un carcerato significano empatia, senso di responsabilità. Concetti innovativi per un sistema penitenziario che da sempre va avanti per inerzia, refrattario ai cambiamenti”. La chiusura del mattatoio porta sull’isola il progetto Isola Fenice e a uno studio grazie alla collaborazione con l’ateneo milanese della Bicocca e la Lav sugli effetti della cura degli animali sulle persone detenute. “Vengono individuati alcuni soggetti con criticità psicologiche legate alla gestione della rabbia, delle emozioni, della capacità di relazionarsi con gli altri”, si legge nel libro autobiografico scritto con il giornalista Gregorio Catalano, in cui Mazzerbo ripercorre in un diario di bordo quindici anni di sperimentazioni, successi e fallimenti prima di poterla ribattezzare l’isola dei diritti. Si tratta del primo studio scientifico del settore, un’eccellenza per la Gorgona e per l’amministrazione penitenziaria. La colonia penale agricola nel 2002 diventa una fattoria ma non solo. Sport, musica, pittura, teatro - che in un carcere chiuso hanno effetti più limitati nel tempo e diventano spesso oggetto di controversie sul tasso di recidiva dei reati dopo la scarcerazione - in Gorgona si coniugano a opere fattive, gestione delle risorse idriche, sviluppo agricolo e a un’inclusione che riesce a coinvolgere talvolta anche gli agenti penitenziari. Come è successo all’agente penitenziario Pierangelo Campolattano: sull’isola ha potuto dedicarsi alla passione della fotografia e ha ripreso la quotidianità dei detenuti che hanno superato il solco della diffidenza insita nel rapporto con le “guardie” e sono finiti su un calendario e poi in una mostra “Il carcere delle libertà”al polo culturale Bottini dell’Olio di Livorno, dove nel maggio dell’anno scorso sono state esposte le immagini scattate anche da duecento studenti di Livorno e degli stessi detenuti che hanno seguito un laboratorio di fotografia. Difficile mettere in fila la galleria di storie e avvenimenti che hanno fatto della Gorgona una piccola oasi di inclusione. Una storia complessa nata da una visione che si è scontrata con l’ottusità del sistema penitenziario, l’avversità dei “sorveglianti”, soprattutto delle generazioni precedenti che hanno cercato di boicottare in modo drastico una direzione che ha inverato o quasi il principio riabilitativo della pena. In mezzo ci sono stati due delitti, burrasche e tempeste. Una storia piena di luci ma anche di coni d’ombra, di lotte contro i mulini a vento e di cocenti sconfitte, avviata da Mazzerbo alla fine degli anni ‘80 dopo essere passato per le carceri siciliane per una scelta che a molti è sembrata avventata. Eppure dopo i primi tentativi, negli anni ‘90, di liberare il carcere da sé stesso, Mazzerbo ha trasformato la colonia penale in una sorta di mecca per i tanti forestieri - visitatori, ricercatori, volontari e chiunque avesse un’idea per forzare le sbarre delle carceri - ma anche in uno stereotipo dell’isola che non c’è, come l’hanno sempre chiamata i giornalisti. E invece oggi, nel magma del carcere che nessuno vede più, immerso nelle ferite sociali diventate delle piaghe da decubito, Mazzerbo ha potuto aggiornare il suo diario di bordo su un’isola emersa, quella dei diritti. Una scommessa vinta anche se difficile da clonare sulla terraferma. E infatti quando nell’estate scorsa ha concluso il mandato per andare in pensione, lasciando il testimone alla nuova direttrice, ha lanciato un monito giocoso ma basato sull’esperienza dei prezzi salati pagati per la sua sfida ultragarantista: “Tenete dritta la barra perché basta poco per naufragare”. Viterbo. Pestaggi in carcere, il Garante: “Rimasi sorpreso che l’esposto non avesse avuto esito” di Luca Telli Il Messaggero, 26 maggio 2023 Pagine di denunce e di racconti di pestaggi rimaste senza esito. Pagine di vita violenta avvenuta tra le mura del carcere di Viterbo lasciate senza risposta su una scrivania. “Sono rimasto sorpreso che le segnalazioni non avessero avuto al esito. Dopo aver presentato l’esposto non ho avuto nessun riscontro, nemmeno una telefonata per parlarne”. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, nel 2018 fu il primo a segnalare problemi nel penitenziario viterbesi. Gli stessi problemi che porteranno a giugno il procuratore capo Paolo Auriemma e la sostituto Eliana Dolce davanti al gup del Tribunale di Viterbo per rifiuto di atti d’ufficio. Il motivo è legato al “faldone” presentato dal garante, faldone che che la Procura di Viterbo non avrebbe vagliato, approfondito nella giusta misura, andando a indagare sui quei fatti segnalati. Ora il garante è tra le persone offese, insieme al ministero della Giustizia e ai familiari di Hassan Sharaf, nel procedimento aperto a Perugia. “Ho capito che il mio esposto non aveva avuto seguito quando l’anno scorso sono stato chiamato dalla procura di Perugia”. Tra le pagine dell’esposto che ha aperto tutta la vicenda giudiziaria si legge “a Viterbo alcuni detenuti, intervistati separatamente, hanno identificato specifici agenti e ispettori come autori di numerosi episodi di presunti maltrattamenti e in diversi casi le lesioni osservate e le prove mediche registrate erano compatibili con le accuse di maltrattamenti”. Tra i casi riportati due nomi spiccano su tutti e sono quelli di Hassan Sharaf e di Giuseppe De Felice. Quella di Sharaf, 21enne egiziano è una storia nota. Il giovane il 23 luglio del 2018 tentò il suicidio nella cella di isolamento dove si trovava da due ore. Il ragazzo morì pochi giorni dopo in ospedale. Ma prima di compiere quel gesto aveva incontrato il garante dicendogli: “Ho molta paura di morire”. Il ragazzo, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia nel picchiarlo il giorno prima. De Felice invece denunciò di essere stato massacrato di botte da dieci agenti con il volto coperto. Un racconto constatato ancora una volta dal garante. In quel dossier c’era questo e molto altro, oscurità e violenze su cui la procura non avrebbe fatto luce. “Devo ammettere - dice ancora Anastasia - che in questi anni regolarmente sono tornato nel carcere di Viterbo e non ho più avuto concretezza che episodi di quel genere si fossero verificati. Non ho più avuto segnalazioni. Certo, restano i vecchi problemi del sovraffollamento e della carenza di organico” Viterbo. Silenzio su detenuti pestati, l’avvocato dei magistrati indagati: “Equivoco processuale” di Natascia Grbic fanpage.it, 26 maggio 2023 Il procuratore capo Paolo Auriemma e la sostituta Eliana Dolce non avrebbero indagato nonostante le denunce dei detenuti sulle violenze e le percosse al Mammagialla di Viterbo. Per il legale si tratta di un equivoco processuale. Il procuratore capo Paolo Auriemma e la sostituta Eliana Dolce sarebbero indagati per un ‘equivoco processuale’. A sostenerlo, intervistato da Il Messaggero, è il legale dei due magistrati, Filippo Dinacci. Una questione tecnica che, secondo l’avvocato, ha creato un gigantesco malinteso. “Siamo in presenza di un equivoco processuale - ha dichiarato l’avvocato - che nasce dalla richiesta di archiviazione del Tribunale di Perugia e fondato su una presunta violazione dell’obbligo iscrizione nel registro delle notizie di reato. L’iscrizione nel registro è regolata da una norma complessa che la stessa riforma Cartabia ha dovuto cambiare”. Auriemma e Dolce sono accusati di rifiuto e omissioni di atti di ufficio. Secondo l’accusa non avrebbero dato seguito alle denunce di diversi detenuti che avevano segnalato violenze e pestaggi nel carcere Mammagialla di Viterbo. Tra queste, anche quelle di Hassan Sharaf, il ventenne morto suicida nel 2018 e che aveva denunciato numerosi pestaggi da parte della polizia penitenziaria. Cassino (Fr). Morto in cella, la famiglia di Mimmo D’Innocenzo protesta davanti al tribunale di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 26 maggio 2023 I familiari del trentenne romano trovato senza vita nel carcere di Cassino nell’aprile del 2017 non si arrendono alla richiesta di archiviazione delle indagini. È tornata a protestare davanti al tribunale di Cassino per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla morte del figlio Mimmo D’Innocenzo avvenuta nel carcere di Cassino nell’aprile del 2017. Il magistrato che si occupa della vicenda, il sostituto procuratore Francesca Fresh nei scorsi mesi ha chiesto l’archiviazione del caso e l’udienza di opposizione all’archiviazione avanzata dai familiari di Mimmo, trentuno anni romano, si terrà il prossimo 30 novembre dinanzi al gruppo di Cassino. La madre Alessandra, il padre, i familiari non si arrendono all’idea che la morte di Mimmo debba rimanere senza un colpevole. Per questo hanno nuovamente organizzato una protesta pacifica dinanzi al tribunale di piazza Labriola proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e cercare di arrivare a una verità. Per la morte di Mimmo D’Innocenzo sono indagati un medico, un’infermiera, e il detenuto che lo ha trovato morto in cella la mattina del 27 aprile. Secondo la famiglia non sono stati fatti tutti gli accertamenti necessari a scoprire la verità e soprattutto che possano chiarire una volta per tutte che abbia iniettato sostanza stupefacente nelle braccia di Mimmo qualche ora prima di morire. Cagliari. Ostellari visita il carcere minorile di Quartucciu: “Così non si può stare” ansa.it, 26 maggio 2023 “Qui si respira un clima che in altri istituti minorili non c’è, determinato dalla capacità di chi ci lavora e dalla disponibilità di ampi spazi lavorativi ed esterni”, ma non basta perché “la situazione dell’istituto penitenziario minorile di Quartucciu (Cagliari) è insostenibile per le condizioni della struttura”. Parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, arrivato in Sardegna su invito della garante regionale dei detenuti Irene Testa, che di recente aveva lanciato l’allarme sulla struttura “fatiscente”. Alla visita ha partecipato anche il presidente del Consiglio regionale e coordinatore della Lega nell’Isola, Michele Pais, partito dello stesso sottosegretario Ostellari. “L’aspetto negativo è la struttura - ha precisato il sottosegretario parlando con i cronisti al termine della visita - le sezioni e le celle non vanno bene, così non si può stare. Il dipartimento e la politica si devono interrogare su cosa fare”. Due le soluzioni: “O si investe qui in maniera seria rivalutando un istituto che ha grandi potenzialità perché è molto grande - ha chiarito - oppure si fa un investimento diverso in un’altra area e in un altro edificio, vedremo come. Io chiedo che il dipartimento di giustizia minorile si attivi subito per cercare un’alternativa che coinvolga questo tipo si soluzione finale”. Tra le due ipotesi “pensare a un intervento qui è anche una questione economica, io punterei a scegliere quella che mi dà più sicurezza nella realizzazione e che costa meno alla comunità. Già dalla prossima settimana chiederò che ci sia sul tavolo almeno un ventaglio di soluzioni possibili - ha annunciato Ostellari. Da troppo tempo qui non si è fatto nulla, abbiamo ereditato questa situazione. Ora invochiamo un tempo ragionevole almeno per decidere cosa fare”. “Noi abbiamo 60mila detenuti, altrettanti in misure alternative alla detenzione e un grosso numero di ‘liberi sospesi’: è un sistema che deve essere governato bene”. Lo ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari in visita questa mattina all’Istituto penitenziario minorile di Quartucciu (Cagliari), accompagnato dalla Garante dei detenuti della Regione Irene Testa e dal presidente del Consiglio regionale Michele Pais. Rispondendo ai cronisti termine della visita, sui problemi degli istituti penitenziari in Italia Ostellari ha precisato la posizione del governo su misure come indulto e amnistia: “Per incidere e avere un risultato migliore, anche in termini di numeri della popolazione carceraria, non servono provvedimenti svuota carceri o premiali quelli che sono stati utilizzati in questi anni. Perché svuotano il carcere oggi, ma lo riempiono nel giro di poco tempo, e magari contribuiscono a creare nuova ‘forza lavoro’ per la criminalità”. L’obiettivo dell’Esecutivo Meloni è diverso: “Noi facciamo un’operazione che forse è più difficile: investiamo sul lavoro in carcere, insegniamo qualcosa ai nostri detenuti non lasciandoli a guardare il soffitto, sapendo che il 98% di queste persone quando usciranno dal carcere, usciranno poi anche dal circuito criminale. Facendo così, a medio e lungo termine, avremo risultati positivi anche per la nostra comunità, altrimenti ci prenderemmo soltanto in giro”. Napoli. Le “stese” dei camorristi sono come il terrorismo, nessuna vittima è a caso di Roberto Saviano Corriere della Sera, 26 maggio 2023 La bimba ferita al bar dove la sua famiglia stava mangiando un gelato e le sparatorie per marcare il territorio: spesso di fronte a queste tragedie si dice: “Famiglia colpita accidentalmente”. Ma non c’è nulla di accidentale quando spari. La famiglia di Sant’Anastasia non era nel posto sbagliato al momento sbagliato. La famiglia di Sant’Anastasia era nel posto giusto al momento giusto. Chi era nel posto sbagliato al momento sbagliato, a commettere atti sbagliati, erano i ragazzi che hanno sparato. Bisogna ristabilire le logiche, le affermazioni, le parole scelte per descrivere l’orrore. Perché spesso di fronte a queste tragedie si dice: “Famiglia colpita accidentalmente”. Non c’è nulla di accidentale quando spari, bisognerebbe forse più precisamente dire: “Famiglia colpita durante la sparatoria, anche se non era l’obiettivo di quella sparatoria”. Ma poi ne siamo così convinti non fosse l’obiettivo della sparatoria? Certo, la famiglia non c’entra nulla con le dinamiche di camorra. Padre, madre e i due figli si trovano davanti al bar per mangiare un gelato quando dalla mitraglietta partono i colpi. Colpiscono la madre, Anna, all’addome (è ricoverata, ma non grave); il padre, Mario, ferito alla mano. Illeso il figlio più piccolo della coppia, di soli 6 anni. Assunta, invece, viene colpita da un proiettile allo zigomo e si trova ora in prognosi riservata all’ospedale Santobono di Napoli. Ma l’obiettivo delle stese è proprio questo: colpire a caso tutto, punto. Tutto, non tutti. Generalmente le stese puntano alle cose: auto, palazzi. Sono fatte per lasciare traccia, forare, scalfire pietre, infrangere vetri, sfondare saracinesche. Stesa, per chi non viene dalla mia terra, per chi nulla sa di queste storie, è una parola sconosciuta. Per stesa s’intende quando su moto e motorini due o più persone sparano all’impazzata. Si chiama stesa perché, quando accade, tutti si sdraiano. “Iamm a fa na stes”, significa proprio “andiamo a far stendere tutti” o per paura o perché buttati giù dai colpi. Arrivano in moto o in scooter armati di pistole ma anche di fucili d’assalto. Iniziano a sparare in aria e poi indirizzano i colpi verso finestre, palazzi, auto, negozi, magari vicini a clan rivali, oppure negozi del proprio quartiere. Chi non si stende muore. Ma durante le stese spesso non tutti si accorgono del pericolo. Nel settembre 2015, fu colpito un ragazzo di 17 anni, Gennaro Cesarano, in piazza San Vincenzo, nel Rione Sanità, dove abitava. Una paranza, cioè un gruppo di giovani camorristi, entra nel quartiere. Vuole dominare, e per farlo deve terrorizzare, e per terrorizzare deve sparare a caso. Un proiettile recide la giugulare del ragazzo. Pochi mesi dopo, il 31 dicembre, un’altra stesa. Sparano contro un palazzo. Un proiettile entra in un bar di piazza Calenda, a Forcella, e ammazza. Il 24 marzo 2016, stessa cosa, un’altra stesa. Ma le paranze ammazzano anche quando non sparano, perché sfrecciano con gli scooter e travolgono chiunque intralci la loro corsa sfrenata. Nel giugno 2016, la stesa è opera del clan Lo Russo. Decide di punire Walter Mallo, del Rione Don Guanella, perché ha iniziato a rendersi autonomo: il gruppo di fuoco in moto cerca lui e i suoi uomini, ma quando non li trova, le mitragliette cominciano a sparare all’impazzata. Inizia a sparare sulle auto, sui palazzi, non è importante che appartengano a Mallo o ai suoi affiliati: l’obiettivo è terrorizzare tutti. Le moto corrono veloci e travolgono una donna di 64 anni, Giovanna Pajetta, che sta attraversando la strada. Negli audio ascoltati dagli inquirenti tramite le microspie, si sentono i killer farsi beffe di lei dopo averla investita. È tutto crudele, inumano, cieco, come il terrorismo. Ma le stese sono proprio questo: una forma di terrorismo messo in atto dalle organizzazioni criminali. Il primo atto di questa nuova fiera dell’orrore va in scena nel 2009, nel bellissimo quartiere di Pigna Secca. Viene ucciso un nomade rumeno, Petru Birladeanu, mentre suona la fisarmonica fuori dalla stazione di Montesanto. Era successo che due gruppi si erano inseguiti, sparando. Una delle due batterie di fuoco era entrata nel quartiere per sparare in aria, per farsi vedere, ma era stata intercettata da un altro gruppo pronto a fermare la stesa. Il fuoco incrociato colpisce Petru Birladeanu che cade morto mentre tutti scappano. La stesa nel bar di Sant’Anastasia sembra però avere una dinamica diversa, appare come una vendetta. Allontanati dal bar, due ragazzi di 19 e 17 anni si vendicano sparando a caso. Sparare a caso non significa sparare evitando di colpire persone, significa sparare letteralmente a caso. Il padre di uno dei due ragazzi armati, il minorenne, era stato ammazzato undici anni fa in un agguato di camorra. Ecco l’eredità che i camorristi lasciano ai figli: la morte. Oggi si comanda con le stese, che sono il mezzo più veloce e più diretto per far capire a un territorio chi bisogna temere, perché sia chiaro che tutti sono in pericolo se non c’è sottomissione a potere protettivo della camorra. I morti innocenti non sono danni collaterali dentro la dinamica del “si ammazzano tra di loro”. Sono parte della guerra. Per questa ragione il “si ammazzano tra loro” è un adagio falso: tutti siamo obiettivi quando l’unico risultato che cercano è il comando. Varese. “Carcere e lavoro”: convegno discute l’importanza rieducativa del lavoro dei detenuti varesenews.it, 26 maggio 2023 Il convegno del 29 maggio rappresenta il culmine del lavoro svolto da un gruppo dedicato a questa tematica, costituito con lo scopo di organizzare l’evento. Lunedì 29 maggio alle ore 8:45, il Centro Congressi delle Ville Ponti di Varese ospiterà un importante convegno dal titolo “Carcere e lavoro: Diritto, Rieducazione, Opportunità”. L’iniziativa è organizzata dalla Prefettura di Varese, in collaborazione con altri enti e uffici, come parte delle attività incentrate sulla tematica del lavoro dei detenuti all’interno e all’esterno dei luoghi di detenzione. Il convegno rappresenta il culmine del lavoro svolto da un gruppo dedicato a questa tematica, costituito con lo scopo di organizzare l’evento. Il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, interverrà nelle conclusioni. Inoltre, parteciperanno parlamentari e consiglieri regionali della provincia di Varese. Sarà possibile seguire il convegno anche in diretta streaming dal sito della Camera di commercio. Il programma prevede un’introduzione istituzionale alle ore 9:30 con interventi di diversi rappresentanti del territorio, tra cui Davide Galimberti, Sindaco di Varese; Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia; e Salvatore Pasquariello, Prefetto di Varese. Seguiranno testimonianze ed esperienze da parte di diversi attori coinvolti in queste tematiche, tra cui Don David Maria Riboldi, Cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio, e rappresentanti delle Case Circondariali di Busto Arsizio e di Varese. Gli interventi introduttivi toccheranno i quadri normativi generale e del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), seguiti da un dibattito su funzioni e proposte degli enti e uffici competenti. Infine, le conclusioni saranno affidate a Maria Milano, Provveditore Regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Teresa Mazzotta, Dirigente dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna di Milano, e ai parlamentari On. Stefano Candiani e On. Maria Chiara Gadda, oltre al già citato Sottosegretario Delmastro. Il convegno si concluderà con una degustazione di prodotti di economia carceraria, offerti dalla cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”, con sede presso la Casa circondariale di Busto Arsizio. L’iniziativa rappresenta un’importante occasione di riflessione e dibattito sulla centralità del lavoro come strumento di rieducazione e reintegrazione sociale dei detenuti, in linea con i principi di diritto e opportunità che dovrebbero ispirare il sistema penitenziario. Torino. Al Salone del Libro due incontri per riflettere sul carcere di Marina Lomunno La Voce e Il Tempo, 26 maggio 2023 “Alt farsi riconoscere: ti condanniamo a 5 minuti di carcere”: il Salone del libro 2023 sarà ricordato anche per uno stand - quello allestito dal quotidiano il “Dubbio” e dal Consiglio nazionale forense - dove molti visitatori hanno potuto provare cosa significa vivere, sebbene per una manciata di secondi, nello spazio angusto di una cella ricostruita fedelmente. Perché, come scrisse Piero Calamandrei, tra i fondatori del Partito d’Azione e poi eletto all’Assemblea Costituente, “bisogna aver visto il carcere da recluso”. Molti gli appuntamenti al Salone dedicati ai temi della detenzione: oltre alla cella de “Il Dubbio” che ha ricordato ai galeotti per 5 minuti - sorpresi di non trovare dentro neppure un libro - che, come ha sancito anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, la gran parte delle carceri italiane per sovraffollamento ed edilizia penitenziaria obsoleta non sono dignitose. Spia di questo malessere, l’aumento dei suicidi tra i ristretti ma anche tra gli agenti penitenziari, vittime di questo stato di degrado. Se n’è parlato con un particolare attenzione all’aumento di giovani nelle carceri per adulti ma anche negli Istituti minorili in due incontri molto partecipati: il primo “Adolescenti e giovani adulti nel carcere contemporaneo”, promosso da Bruno Mellano e Ylenia Serra rispettivamente garanti dei detenuti e dell’infanzia e adolescenza della Regione, che ha preso spunto dalla ricerca “Giovani dentro e fuori” a cura di Monica Cristiana Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino e Cecilia Blengino della Clinica legale dell’Università di Torino. Tra i relatori Elena Lombardi Vallauri, neo direttore del carcere torinese “Lorusso e Cutugno” e Simona Vernaglione, direttrice dell’Istituto penale minorile (Ipm) “Ferrante Aporti di Torino”. Al 30 giugno 2022 (dati del ministero della Giustizia) in Piemonte erano 42 i detenuti nella fascia 18-20 e 218 in quella 21-24 per un totale di 260 reclusi su una popolazione detenuta di 4015 unità. In Regione i giovani adulti ristretti corrispondevano al 6,5% del totale, dato lievemente superiore a quello nazionale (5,8%). Maglia nera al carcere torinese che al 20 gennaio 2022 ospitava circa il 53% dei 18-24enni ristretti in Piemonte. Una situazione che non è migliorata negli ultimi mesi, come ha confermato Elena Lombardi Vallauri, già direttore dei penitenziari di Alessandria, Asti e al “Ferrante Aporti” e che deve fare riflettere tutta l’amministrazione carceraria su come sta cambiando l’utenza delle patrie galere che sempre di più devono tenere conto che i giovani adulti - per la maggior parte stranieri - “hanno bisogno di trovare dietro le sbarre opportunità di avviamento lavoro, scuola, formazione professionale, iniziative culturali, collegamenti con il mondo ‘fuori’ per abbattere i pregiudizi e dare fiducia ai detenuti”. In questo senso, come ha ribadito la direttrice del “Ferrante” si cerca di lavorare anche con i minori: attualmente l’Ipm di Torino è al “completo” con 47 giovani per la maggior parte stranieri non accompagnati che hanno bisogno innanzi tutto di capire “dove sono finiti”. Lo spaesamento, il non rendersi conto del reato commesso (in aumento gli arresti di minori - ha precisato Simona Vernaglione “che stanno scontando pene per reati contro il patrimonio aggravati per episodi di violenza, reati contro la persona con episodi di rabbia anche di gruppo ingiustificata e senza consapevolezza di ciò che si è commesso”). Temi che sono ritornati nell’affollatissimo incontro promosso nello stand del Comune di Torino su “La realtà degli istituti minorili: il mondo reale e quello raccontato dalla serie ‘Mare Fuori’” a cui, oltre alla direttrice del “Ferrante”, è intervenuto Nicola Galasso (“Pirucchio” nella fortunata serie televisiva italiana prodotta da Rai Fiction e Picomedia che narra le vicende dell’Ipm di Napoli, liberamente ispirato al carcere di Nisida e che ha avuto il merito di portare sul grande schermo, come hanno ricordato gli sceneggiatori Maurizio Careddu e Cristiana Farina, il dramma della detenzione minorile). “Positiva l’attenzione al carcere da sempre reietto anche nei media” ha commentato Simona Vernaglione “ma attenzione a rappresentare la detenzione minorile come una sorta di vita di comunità fra amici: il carcere è privazione della libertà perché si è commesso un reato, spesso grave, e il tempo della pena deve essere, secondo il dettato costituzionale, un tempo dedicato alla rieducazione perché non si torni ‘fuori’ come si è finiti ‘dentro’”. Torino. Oltre 7mila euro grazie all’appello de “La Voce e Il Tempo” per i ragazzi detenuti di Marina Lomunno La Voce e Il Tempo, 26 maggio 2023 Sono oltre 7 mila euro in sole due settimane le donazioni arrivate all’Associazione di volontariato “Aporti Aperte” che opera nell’Istituto penale minorile (Ipm) “Ferrante Aporti”. Dopo l’appello lanciato ai nostri lettori, in occasione della visita dell’Arcivescovo Repole all’Ipm, dal presidente Pasquale Ippolito si è innescata una gara di solidarietà che ha stupito l’associazione. “Abbiamo chiesto aiuto per allestire una sala per la ricreazione con un calcio balilla e giochi da tavolo e nel giro di pochi giorni con i contributi arrivati abbiamo acquistato due calciobalilla e con il materiale arrivato abbiamo allestito uno spazio dove i ragazzi possono trascorrere in serenità il tempo libero: sabato abbiamo iniziato le attività ricreative con i volontari dell’associazione sospese per la pandemia e proseguiremo nei prossimi mesi. D’estate, quando le attività formative sono concluse i ragazzi hanno bisogno di occupare il tempo in modo sano e, grazie ai giochi e a quello che potremo acquistare cercheremo di intrattenerli in amicizia e in modo costruttivo”. Ippolito aveva anche invitato i lettori a donare vestiti e prodotti per l’igiene personale che il carcere non fornisce: per i ragazzi soli (la maggior parte sono stranieri non accompagnati) le famiglie non possono provvedere agli effetti personali. E così grazie alla Caritas, alla azienda di cosmetici Reynaldi, alla cooperativa Astra, a un gruppo di genitori di Rivoli, parrocchie, sacerdoti, i chierici salesiani che prestano servizio con i ragazzi al ‘Ferrante’ e tanti lettori che preferiscono rimanere anonimi oltre ai giochi sono arrivati indumenti, scarpe, borsoni, prodotti per l’igiene e molto altro. “Non ci aspettavamo davvero una gara di solidarietà così imponente e la sensibilità di tanti lettori. Desideriamo davvero ringraziare tutti anche da parte dei ragazzi”. Ora che grazie all’appello del nostro giornale la sala ricreazione è stata allestita, i fondi rimasti verranno utilizzati per le necessità dei ragazzi che non hanno famiglia, per acquistare materiale didattico: prossimo obiettivo l’allestimento di una sala prove “dove poter offrire ai ragazzi attività musicali”, conclude Pasquale Ippolito che è anche responsabile della formazione professionale di Inforcoop nell’Ipm torinese, “stiamo cercando un locale libero nell’Ipm che diventerà una sala musica”. Per informazioni sull’associazione: scrivere a aporti.aperte@gmail.com - tel. 335.6325109. L’Italia dell’uguaglianza e quella della differenza di Gianmario Gazzi huffingtonpost.it, 26 maggio 2023 Errori ne sono stati fatti già tanti, negli anni passati, e a pagarne le conseguenze sono state persone e realtà che soffrono da sempre. Impariamo come non allargare il divario tra protetti ed esclusi. Ascoltateci. La tragedia dell’Emilia Romagna mette tutti noi di fronte all’urgenza di intervenire nei territori per la salvaguardia ambientale e delle vite umane. Che il nostro Paese sia preparato alle emergenze, quasi fosse la costante, è a tutti noto. Ciò che possiamo però osservare è come, in tempi ordinari, il sistema Italia non funzioni o peggio funzioni così male da ampliare le diseguaglianze, i rischi di esclusione o peggio il discrimine tra essere vivi o meno. Le alluvioni di questo assurdo maggio, così come tante altre tragedie degli ultimi anni, ci mostrano come a fronte di risorse stanziate - spesso ingenti - non vi sia la capacità di spesa e di progettazione anche nelle regioni storicamente meglio organizzate e più forti economicamente. Ciò non capita soltanto nella gestione dei territori, ma riguarda costantemente servizi sociali, salute, asili nido, scuola e infrastrutture necessarie a garantire l’applicazione del dettato costituzionale. L’esperienza di molti di noi, professionisti e singoli cittadini, conferma quanto sia ancora lontana l’eguaglianza e l’accesso ai propri diritti a seconda di dove si nasce o si risiede. Che questi temi siano oggetto di discussione politica, giuridica e sociologica non è una novità. Abbiamo visto ministeri per la semplificazione, decreti e norme approvati in tempi di crisi che si ponevano proprio l’obiettivo di aiutare a creare le condizioni per ridurre il gap tra regioni e comuni differenti. La domanda, quindi, è perché ancora oggi dobbiamo assistere a tanta differenza, ingiustizia, esclusione? Ovviamente non è una risposta semplice, ma alcuni spunti, alla luce dell’esperienza di noi assistenti sociali, li possiamo condividere. Il primo evidentemente è di natura giuridica e amministrativa. La complessità delle norme, la loro sovrapposizione, pone i territori in condizioni di incertezza. Blocca i processi di rafforzamento dei servizi, ferma per decenni cantieri e infrastrutture. Lo abbiamo visto nella realizzazione, per esempio, del livello essenziale che ci riguarda direttamente. Pur essendoci le risorse si è dovuti intervenire a favore dei territori più fragili con deroghe specifiche perché i loro bilanci non permettevano ulteriori assunzioni, in pratica c’erano i soldi, ma non si potevano usare. Proprio per questo, il secondo punto è correlato al primo: la capacità amministrativa e dirigenziale degli enti locali e territoriali. Molti dei ritardi e delle differenze non sono esito di volontà o di scelte, ma della mancanza - acuita dai tagli dell’austerity - di strutture amministrative adeguate e di classi dirigenziali certe della loro azione. Tutti noi sappiamo come il rischio di doversi imbattere in esposti, ricorsi, processi o indagini sia molto frequente, anche quando si cerca di realizzare ciò che tutti attendono dalla propria amministrazione. In questo quadro di incertezza la scelta di molti è quella di non cambiare e di non rischiare. Terzo e ultimo punto, quello che in realtà preoccupa di più, è il non voler affrontare un Titolo Quinto della Costituzione che palesa oggi tutti i suoi limiti e contraddizioni. Ancor più preoccupa l’idea che una maggiore differenziazione delle autonomie possa risolvere questa situazione. Lo dicono gli assistenti sociali da tempo alla luce di Welfare così differenziati e così diseguali da richiedere nelle nostre riunioni anche mezze giornate soltanto per comprendere come siano organizzati i servizi sociali i servizi socio sanitari nella provincia accanto. Lo dicono i dati Istat che la via di un’ulteriore differenziazione amplierà, evidentemente, le diseguaglianze tra cittadini. Lo ha detto una bozza smentita dell’Ufficio Studi del Senato. In ultimo lo ribadisce l’allarme della Commissione Europea. Sia chiaro, i 46.000 assistenti sociali sanno benissimo che c’è la necessità di adeguare servizi e politiche ai vari territori, ma non può essere che ciò vada a scapito delle persone più fragili. Non possiamo avere un sistema paese che presume bastino dei Leps per garantire diritti: e se quei livelli essenziali non sono garantiti? Vedete non c’è nulla di male nel definire un livello minimo di prestazioni o di organizzazione dei servizi, ma se guardiamo tutto quanto sinora detto risulta evidente che non vi è ancora una maturità e non ci sono le condizioni strutturali per pensare a delle autonomie differenziate che riescano a garantire quanto previsto dalla nostra Costituzione. Non è il tempo di mettere bandierine: l’abbiamo detto, l’abbiamo fatto. Non è tempo di spuntare caselle. Errori ne sono stati fatti già tanti, negli anni passati, e a pagarne le conseguenze sono state persone e realtà che soffrono da sempre. Preferiamo l’Italia dell’uguaglianza a quella della differenza. Ma sappiamo come non allargare il divario tra protetti ed esclusi. Ascoltateci. Lo Stato non alza le mani di Michele Serra La Repubblica, 26 maggio 2023 Su poliziotti e carabinieri la penso come Pasolini: sono figli del popolo e fanno un lavoro che molte persone più protette e privilegiate preferirebbero non fare. Proprio perché sono dalla loro parte mi preoccupa la cadenza quotidiana di video (gli ultimi due a Milano e Livorno) dai quali traspare, diciamo così, un’esuberanza repressiva che spaventa, anche perché è ai danni di persone che, nella scala sociale, non sono certo classificabili tra i più forti. Pasolini descrisse il conflitto di piazza tra proletari (i poliziotti) e figli di papà (gli studenti). Qui invece le botte arrivano addosso a derelitti e gente comune. Non che picchiare un commendatore o una contessa sia meno grave; lo Stato dovrebbe avere con tutti la stessa severità, ma per tutti lo stesso rispetto. È solo per dire che l’uso strumentale del Pasolini “pro-poliziotti”, tanto caro alla destra, va storicizzato; e non è certo spendibile nel caso si vedano persone in divisa che menano e scalciano transessuali, o ambulanti, o gente della strada. Al contrario, il timore è che la destra al governo (compresi, sia detto per amor di cronaca, un po’ di fascisti) sdogani oggettivamente i modi bruschi. Che giovanotti di cultura semplice, solo perché indossano una divisa, credano che “adesso” è finalmente lecito alzare le mani. Compito primario della destra di governo sarebbe chiarire a tutti che il confine tra lecito e illecito, in uno Stato di diritto, non varia a seconda che al Viminale ci sia la destra o la sinistra o quant’altri. Sono i criminali, in genere, a ritenere che il corpo delle persone sia violabile. E a disporne con violenza. Gli uomini dello Stato non devono e non possono farlo, chiunque abbia vinto le elezioni. Quando l’autorità fa paura di Paolo Di Paolo La Repubblica, 26 maggio 2023 I video di Milano e Livorno con le botte di vigili urbani e carabinieri mettono a rischio la fiducia nelle forze dell’ordine e lasciano un sospetto. “Nessuno potrà più riaprirmi il cuore. Ecco che cosa fa la violenza. Ecco che cos’è”. Nella sua vastissima esplorazione della violenza nella società, lo scrittore americano William Vollmann indaga cause e contesti, cerca di cogliere ragioni e sfumature, entra nel campo dell’odio e della rabbia che lo alimenta, la furia cieca che trova talvolta il combustibile in un piacere perverso e osceno, i dilemmi morali, le giustificazioni dell’individuo e della collettività che spesso finiscono per coincidere (la difesa), ma insiste soprattutto sui segni che lascia. Sui corpi - lividi, ferite, mutilazioni, cicatrici - e su qualcosa di più impalpabile: una psiche, un’interiorità. Ha chiaro un fatto: la violenza “monta e sacrifica quel che trova”; riconosce che resta opaca la sequenza di variabili che determina il suo esplodere. Perché in quel momento? Perché in quella specifica circostanza? Perché mercoledì e non domani? È accaduto. Avrebbe potuto non accadere? E ancora: che cosa è “davvero” accaduto? Il corpo della vittima non dice tutto: mostra i segni. Chi studia la violenza - ammette lo stesso Vollmann - rischia di fermarsi su cause e mezzi e di perdere di vista la vittima, il soggetto-vittima. Un giovane a Livorno pestato da due carabinieri. Poche ore dopo il caso di “Bruna”, la donna transgender presa a manganellate dalla polizia locale a Milano con una furia sproporzionata rispetto alla alterazione e alla (così nel linguaggio poliziesco-burocratico) “escandescenza” che lei stessa ammette. Quando dice che le fa male anche pensarci, dice una verità sottile e tragica che è fuori dalla portata di chi - come me, come la maggioranza fra noi - non è mai stato vittima di autentica violenza fisica. Non basta il più spericolato sforzo di immaginazione per approssimarsi alle sensazioni di un corpo che viene colpito con forza spropositata, un corpo inerme che alza le braccia e viene bastonato, preso a calci, a pugni. La sua dignità è calpestata, cancellata da una autorità che si manifesta truce, feroce, prepotente. Un’autorità che supera il limite sapendo di superarlo, e in qualche modo perverso forse godendone, incanalando nel gesto di sopraffazione una rabbia tossica e malata, che spesso viene da lontano. Ma se il caso Cucchi e il caso Floyd - un caso italiano e uno americano, tra gli eventi più sconvolgenti in epoca recente di abuso di autorità - possono insegnarci qualcosa, ci insegnano che esiste e non può essere contrattata e discussa una linea, un confine oltre cui, in uno stato di diritto, si precipita nell’inaccettabile. Un inaccettabile che coniuga un piano morale e un piano istituzionale-politico. Come posso fidarmi dell’autorità se l’autorità lede i diritti umani? Se l’autorità che per statuto è tenuta a difenderli si trova a violarli in modo così spaventoso, così estremo? Sarebbe quasi repellente pensare che in un certo clima politico possa allignare una propensione all’abuso della forza, se non addirittura giustificarlo e dargli una patente di impunità. Non c’è se né ma che tenga, c’è un degrado - per quanto circoscritto - dell’istituzione che tutela l’ordine e la sicurezza pubblica a cui occorre dire no nel modo più netto. L’autorità che intimidisce, che umilia, l’autorità che infligge dolore dove non c’è incontrovertibile necessità. L’autorità che cancella la dignità dell’altro. L’autorità che tortura, che offende i corpi. “Il corpo prova dolore, / deve mangiare e respirare e dormire, / ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue, / ha una buona scorta di denti e di unghie, / le ossa fragili, le giunture stirabili. / Nelle torture - scriveva la poetessa Wislawa Szymborska - di tutto ciò si tiene conto”. Calci in faccia a un ragazzo: ma che polizia è questa? di Luigi Manconi L’Unità, 26 maggio 2023 Caro Direttore, è evidente che, tra le centinaia di migliaia di appartenenti alle forze di polizia (comprese quelle municipali), coloro che abusano del proprio potere, violano leggi e regolamenti ed esercitano violenza, costituiscono appena una esigua minoranza. È evidente che la frequenza degli episodi di abuso di quel monopolio legittimo della forza, del quale le polizie sono titolari, è un dato che non tende a diminuire. Evidente che all’interno degli stessi corpi di polizia si perpetua un atteggiamento di connivenza, se non di vera e propria omertà, e in ogni caso di sottovalutazione di quegli stessi episodi di illegalità e di arbitrio. È evidente che una parte della classe politica, afflitta da un complesso di inferiorità nei confronti di alcuni apparati dello Stato, sembra incapace di qualsiasi autonomia di giudizio e di qualsiasi rapporto di indipendenza nei confronti di quegli stessi apparati. Esemplare di questo atteggiamento è stato il commento di incondizionata approvazione espressa dal partito di Fratelli d’Italia nei confronti dell’operato dei vigili urbani di Milano, in occasione del fermo della transessuale brasiliana. È evidente che tra le forze di polizia si manifesta un bisogno ineludibile di interventi di radicale riforma, in particolare su due questioni: quella della “educazione costituzionale e democratica” e quella della preparazione tecnica. Nel primo caso, si tratta di favorire un approccio diverso da quello oggi prevalente, che tende irresistibilmente a vedere un nemico nella persona che si vuole controllare e sottoporre a fermo. Non un cittadino che resta titolare di diritti e garanzie, ma un soggetto ostile da sopraffare. Non a caso, gli episodi di violenza di Milano e di Livorno hanno avuto come vittime due persone fragili: stranieri e senza fissa dimora. L’altro piano sul quale è indifferibile un intervento di riforma è quello della formazione e dell’addestramento tecnico. A Milano come a Livorno il ricorso a ‘muso sproporzionato della forza è derivato, chiaramente, dall’impreparazione e dallo stato di ansia, se così si può dire, degli operatori di polizia, incapaci di controllare una situazione indubbiamente difficile, ma non tale da richiedere l’esercizio di una quota così eccessiva di violenza. Il calcio in faccia viene inferto al giovane di Livorno mentre questi si trova a terra già immobilizzato e sembra rispondere più a una volontà di punizione che a una esigenza di sicurezza. È evidente che quanto fin qui detto è stato scritto e riscritto numerose volte, a seguito e a commento di vicende anche più atroci di quelle accadute in questi giorni. In qualche raro caso si sono registrate anche parole responsabili e severe da parte delle massime autorità che governano i corpi di polizia. In genere parole postume, pronunciate solo dopo che era stata accertata la verità sul piano giudiziario. Esemplare il caso dell’autocritica di una persona intelligente e seria come l’ex capo della polizia, Franco Gabrielli, che definì “una catastrofe” quanto avvenne nel corso del G8 di Genova del 2001. Ma lo disse, ecco il dato drammatico, 16 anni dopo i fatti. Ci sarà qualche galantuomo, in una sede politica o in una istituzionale, che avrà la forza di pronunciare oggi parole adeguate senza attendere nuove violenze e nuovi oltraggi allo stato di diritto? Il Partito Democratico dica basta alla guerra di Piero Sansonetti L’Unità, 26 maggio 2023 Sono cifre impressionanti quelle fornite da Oxfam. Sono vere, verificate. Raccontano di un mondo occidentale che dietro alla sua robusta democrazia e alla sua secolare civiltà nasconde un volto cinico e feroce. Anche un po’ assassino. E fa delle armi, della guerra, della compravendita di morte e fame, una delle sue attività non secondarie. 2.200 miliardi ogni anno non sono una cifra modesta. Sono la prova che una parte del mercato capitalistico funziona e si alimenta con questa attività sanguinosa. E gli assetti dell’Occidente - soprattutto dell’Occidente - soffrirebbero e subirebbero crisi economiche e terremoti ai vertici delle loro borghesie, se all’improvviso questa attività fosse soppressa. L’Italia ha un ruolo decisivo in questo mercato. Non solo non ne è estranea, ma è nel pacchetto dei paesi più impegnati. L’Italia è l’ottava potenza economica del mondo, ma è tra le prime sei nel commercio di armi nelle spese militari. Ora queste cifre ci suggeriscono una tripla riflessione. La prima riguarda le conseguenze di questa attività. La seconda il giudizio economico su questa attività. La terza il giudizio etico. Le conseguenze sono facili da contabilizzare. A parte i morti provocati direttamente dalle guerre, e dal terrorismo, ci sono i morti provocati dalle carestie e dall’aumento della povertà provocati dalle guerre. Volete sapere quanti sono? Sono 9.000 al giorno. Il giudizio economico è più complesso. Bisogna prendere atto del fatto che se improvvisamente si interrompessero le spese e le produzioni di armi, l’Italia ragionevolmente perderebbe circa il 3,5 per cento del suo Pil. Con conseguenze economiche durissime. Che vuol dire? Che la nostra placida economia si sorregge in modo non indifferente sula vendita di morte e fame in giro per il mondo. L’idea che le armi siano uno strumento di pace, di deterrenza, di equilibrio politico, ormai non è più spendibile. Le armi vengono prodotte per essere utilizzate. E l’industria delle armi ama e promuove le guerre, come l’industria delle bibite ama la sete, lo sport, la fatica. Anche il profitto non è sempre uguale. Infine c’è il giudizio etico. Esistono due possibilità, nel fare politica. Opporsi alle armi, e accettare le conseguenze di una moratoria. O preferire una realpolitik che considera armi e morte elementi indispensabili alla crescita della società. Allo sviluppo. Io credo che il Pd si trovi di fronte a questo bivio. La sinistra italiana è disponibile a una scelta di rottura, totalmente pacifista? O preferisce barcamenarsi? Usando argomentazioni politiche non sfavorevoli alle guerre che comunque contrastano con la nostra costituzione? Lo sguardo dei nostri giovani pacifisti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 26 maggio 2023 In passato lo spirito di fazione ha velato a lungo molti occhi, ma i ragazzi di oggi possono evitarsi l’errore. Chi è Vladimir Kara-Murza? Per verificare il nostro reale livello di attenzione sulla tragedia collettiva causata da Putin basterebbe un semplice test in famiglia o in ufficio. Ammettiamolo: anche tra chi ne ha letto o sentito qualcosa nei notiziari, pochi ricorderanno il nome di questo dissidente russo. Scorrendo Google troveremo quasi soltanto articoli dello scorso 17 aprile. Quello è il giorno della sua condanna smisurata, venticinque anni di colonia penale solo per avere detto al mondo la verità: che l’esercito di Mosca massacra sistematicamente i civili ucraini. Poi, il nulla: vuoto e silenzio. Di Kara-Murza, dalle nostre parti, non parla quasi nessuno, non uno striscione, uno slogan, una petizione. In un recente saggio sull’Ucraina, “La guerra nel cuore dell’Europa”, il sociologo Vincenzo Cesareo pone “il rischio dell’oblio” tra i pericoli che può addurci il conflitto: l’orrore si metabolizza, i mesi scorrono e anestetizzandoci aiutano il dittatore del Cremlino. Un grande passo per scongiurare questo pericolo sarebbe la caduta dei paraocchi tra i nostri pacifisti. Intendiamoci: la pace è il desiderio di tutti, solo un pazzo può dormire sonni tranquilli mentre scorre il sangue e volano missili nel cortile della nostra casa europea. Per una volta, inoltre, eviteremo anche il quasi ineludibile parallelo con gli anni Trenta del secolo scorso e con lo sciagurato appeasement anglo-francese che spianò la strada alle conquiste di Hitler. Temiamo, certo, che con un tiranno accusato di crimini di guerra (Putin, ove sconfitto, potrebbe finire davanti al tribunale dell’Aia) non sia possibile dialogare: non foss’altro che perché è lui stesso a rifiutare qualsiasi serio sforzo diplomatico. E tuttavia i ragazzi di oltre cento scuole e quasi altrettante università affluiti in Umbria pochi giorni or sono al richiamo della Marcia per la pace, con la loro tensione “planetaria” verso tutti i teatri di conflitto, “dal Sudan alla Libia, da Gaza alla Siria”, non meritano certamente di essere bollati come appeaser novecenteschi o come utili idioti del dittatore russo. Hanno negli sguardi una speranza pulita: negarlo sarebbe ricadere in quello schematismo da realpolitik che immagina il mondo come un planisfero di Risiko, dove le potenze si muovono prescindendo da sentimenti, passioni, emozioni individuali e collettive. Ma allora è proprio a questi nostri ragazzi, ai giovani pacifisti italiani, che chiediamo d’alzare quegli sguardi, volgendoli anche oltre i confini della loro causa, ai tanti dissidenti (e pacifisti) russi dimenticati e sepolti nelle colonie penali che il caso Kara-Murza racconta: proprio come i loro padri e nonni non furono capaci di fare perché accecati dall’ideologia. Ci sono posti nel mondo dove contrastare le posizioni di un governo costa qualcosa di più d’una polemica mediatica sul “pensiero unico bellicista”. Uno di questi posti è la Russia. Da sempre. Qualche giorno fa sul Foglio, Luciano Capone citava Natan Sharansky, uno dei maggiori dissidenti nell’Unione Sovietica di Breznev, dieci anni di gulag sulle spalle. Sharansky, ancora oggi attivista per i diritti umani, ha spiegato che per far cadere Putin occorrono due condizioni: la prima è un forte dissenso politico, animato da chi è disposto a sacrificare per esso la propria vita; la seconda, che ci chiama in causa in via diretta, è la solidarietà del mondo libero e dei suoi cittadini. L’Italia, e segnatamente parte della sua sinistra storica, non ha una grande tradizione su questo punto, come dimostra l’incerta simpatia sollevata a suo tempo da un Nobel come Aleksandr Solzenicyn e il suo “Arcipelago Gulag”. A lungo lo spirito di fazione ha velato molti occhi, con il timore che il dissenso nell’Urss si traducesse in un imperdonabile vantaggio strategico per gli odiati Stati Uniti. Ma quello era un mondo a blocchi, i ragazzi di oggi possono evitarsi l’errore: cercando verità, ovunque essa sia. Ai giudici di regime che, condannandolo, gli chiedevano se fosse pentito, Kara-Murza, pacifista, storico e giornalista, ha risposto sferzante: “Non solo non mi pento di nulla, ma ne vado fiero. Sono i criminali che si devono pentire. Io invece mi trovo in prigione per le mie opinioni politiche, perché ho parlato contro la guerra in Ucraina. Ma so anche che verrà il giorno in cui le tenebre sul nostro Paese si disperderanno, in cui la guerra sarà chiamata guerra e l’usurpatore, usurpatore; e saranno detti criminali quelli che l’hanno fomentata e scatenata, e non quelli che hanno cercato di fermarla”. È un’apologia che, per forza e ribaltamento di ruoli, ne ricorda molto un’altra, datata ormai oltre mezzo secolo: quella di Alessandro Panagulis contro i giudici greci che lo condannavano a morte. Con una differenza non piccola: Alekos aveva attentato alla vita del golpista Papadopoulos, Kara-Murza ha usato contro Putin la sola violenza delle parole e della profezia: “La notte è più buia prima dell’alba”, ha detto, citando una frase molto ripetuta proprio tra i dissidenti sovietici. Accelerare l’avvento di quell’alba è compito di chi ha il privilegio della libertà. Anche, o forse soprattutto, di quei nostri ragazzi che si battono per la pace. L’agente antidroga di Catania costretto a comprare la cannabis terapeutica in nero di Paola Pottino La Repubblica, 26 maggio 2023 Un ex maresciallo della Guardia di finanza ha ottenuto il piano terapeutico dopo che per anni si è rivolto ai pusher di strada. Da maresciallo della Guardia di finanza che ha dedicato la vita alla lotta contro lo spaccio delle sostanze stupefacenti, a consumatore di cannabis. Il maresciallo in congedo Alfredo Ossino, 59 anni, di Catania, che per tanto tempo ha lavorato nei gruppi operativi antidroga di tutta Italia tra i quali a Roma e Napoli, a causa di un grave deficit funzionale della colonna vertebrale, dopo avere provato tanti rimedi curativi, risultati fallimentari, ha scoperto la cannabis come rimedio terapeutico. A soli 43 anni Alfredo Ossino, dopo diciotto mesi di aspettativa, viene congedato dalla guardia di finanza. “Lo Stato concede per le forze armate - spiega l’ex maresciallo - un periodo di aspettativa retribuita fino a un massimo di 730 giorni (due anni), per le patologie contratte “per causa di servizio”. Se la patologia, durante questo periodo, dimostra una notevole regressione, lo Stato potrebbe valutare la nuova possibile idoneità al servizio attivo ed evitare il precoce congedo”. Non è stato però il caso di Ossino, che nel 2007, visto il progredire della malattia, ha perso anche il lavoro. Fu allora che, stanco di soffrire decise di provare la terapia a base di cannabis medica, legale in Italia dal 2006 eppure ancora poco conosciuta dai medici restii a prescriverla come terapia. “Come hanno dimostrato le vicende di altri pazienti, tra tutti Walter De Benedetto - sostiene Ossino - in Italia è molto difficile rintracciare medici preparati e disposti alla prescrizione della cannabis medica”. Cosciente del fatto che il dolore e la vita non aspettano, il maresciallo della guardia di finanza in congedo decise quindi di affidarsi al mercato nero. Ma non aveva scelta: “I dolori non diminuivano e gli oppiacei prescritti per sette anni dai medici - racconta - mi avevano condannato a uno stato depressivo che mi aveva isolato da tutti. Trascorrevo le mie giornate a letto e sono arrivato a pesare 90 chili”. L’ex maresciallo, al pari di un qualsiasi altro consumatore di droghe, decise quindi di andare nelle piazze di spaccio di Catania. “Provavo un profondo senso di colpa e di vergogna perché se per una vita ho combattuto contro lo spaccio della droga, adesso mi trovavo ad essere un acquirente qualsiasi. Mettevo in tasca allo spacciatore 20 euro e andavo via con la dose tra le mani. Anche i miei familiari mi consideravano un degenerato”. Tutto questo dolore Ossino l’ha raccontato in: “Cannabis. La vera storia di un agente antidroga”. Finalmente a febbraio del 2021 l’ex maresciallo riuscì ad ottenere dal Servizio sanitario nazionale il piano terapeutico per l’assunzione di 70 grammi di cannabis. “Una delle farmacie autorizzate di Catania - racconta - però mi disse che il limite consentito era di 40 grammi, insufficiente per il mio fabbisogno. L’unica soluzione fu quella di rivolgermi all’Asp di Messina che mi garantiva la quantità necessaria e adesso, per potermi curare, sono costretto ad andare periodicamente all’ospedale di Taormina che dipende dall’azienda sanitaria messinese”. Le Ong: “L’Italia ha coordinato un respingimento in Libia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 maggio 2023 La guardia costiera respinge le accuse: istruzioni impartite da Tripoli. A bordo 27 persone. Mistero su un altro barcone con 500 migranti di cui si sono perse le tracce. Ventisette persone in fuga dalla Libia sono state riportate indietro con l’aiuto del mercantile P Long Beach nella giornata di ieri. Lo denunciano le Ong Sea-Watch e Mediterranea, secondo le quali a coordinare le operazioni è stata la guardia costiera italiana. A sostegno di questa tesi la prima organizzazione ha pubblicato un audio registrato dal suo aereo Sea-Bird in cui il comandante del mercantile afferma di essere in contatto soltanto con le autorità di Roma e non con quelle di Tripoli. La guardia costiera respinge le accuse: “Le unità mercantili coinvolte in questa attività di soccorso, sebbene inizialmente contattate dal centro di soccorso italiano, hanno successivamente ricevuto le istruzioni direttamente dall’autorità libica”. I migranti avevano chiesto aiuto al centralino Alarm Phone (Ap) nella notte tra martedì e mercoledì. Per molte ore sono rimasti in balia delle onde. Fino a che l’equipaggio della P Long Beach li ha presi a bordo per portarli nella città di Brega, nel golfo della Sirte. Un comportamento illegale dal momento che la Libia non è un porto sicuro. Nella giornata di ieri il capomissione di Mediterranea si era appellato al comandante della nave affinché invertisse la rotta ed evitasse di compiere un reato. Quando casi analoghi sono finiti davanti a un giudice italiano sono state emesse condanne. Intanto non è chiara la sorte di un altro barcone partito dalla Cirenacia con 500 persone. A lanciare l’Sos era stato sempre Ap, martedì mattina. Il mezzo si trovava nelle acque internazionali dell’area di ricerca e soccorso maltese. Le autorità di La Valletta, come al solito, hanno evitato di fornire informazioni. Sea-Bird non ha trovato tracce nelle vicinanze dell’ultima posizione comunicata dai migranti ad Ap, fatto che escluderebbe il naufragio. Se il barcone, che aveva riferito di trovarsi senza benzina, è stato rifocillato e ha ripreso la rotta o se al contrario è stato compiuto un altro respingimento illegale non è ancora chiaro. È andata sicuramente meglio alle 1.094 persone salvate dalla guardia costiera italiana tra martedì e mercoledì. Sono state portate al sicuro con le navi Diciotti, Dattilo, alcune motovedette e l’aiuto di Frontex. Profughi sbagliati al confine dimenticato dell’Europa di Sabato Angieri Il Manifesto, 26 maggio 2023 Parla “K”, uno degli attivisti che aiutano i migranti intrappolati tra Bielorussia e Polonia. In un parco di Varsavia, tra due bancarelle che vendono bandiere polacche e ucraine intrecciate incontriamo K, un attivista di Grupa Granica. Il collettivo si occupa di aiutare i migranti che attraversano il confine tra Bielorussia e Polonia che da due anni è teatro di una tragedia umanitaria silenziosa. Il “confine dimenticato” lo chiama K, perché a nessuno sembra interessare della sorte di questi profughi che quotidianamente rischiano la vita per entrare in Europa. Nel luglio 2022 il premier polacco, Mateusz Morawiecki, appartenente al partito di estrema destra Diritto e Giustizia, e gli alti funzionari della sicurezza nazionale hanno tenuto una pomposa conferenza stampa presso il confine per annunciare il completamento del “muro”. 186 chilometri di grate d’acciaio alte fino a 6 metri che, nelle intenzioni del governo di Varsavia, avrebbero dovuto “fermare l’invasione utilizzata dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, come arma per destabilizzare l’Ue”. Poco prima di incontrare K, Grupa Granica ha annunciato il ritrovamento del 45mo cadavere dall’inizio della crisi. Quante persone al giorno provano ad attraversare il confine? Ho dei numeri ma non sono precisi perché la metodologia per stabilirli non è semplice, però a quanto ci risulta ogni settimana sono circa in 200 che riescono a passare. Di sicuro è una cifra sottostimata perché non riusciamo a entrare in contatto con tutti quelli che arrivano. Potrebbe anche essere che le nostre informazioni riguardano la metà degli ingressi reali, è impossibile dirlo. A partire da quando? Dipende dalle stagioni, d’inverno il rischio di morire assiderati è altissimo. Quindi la maggior parte degli ingressi si verificano tra aprile e maggio. La crisi al confine tra Polonia e Bielorussia è iniziata nel 2021, ad agosto. Tu come hai reagito quando hai visto le immagini di tutte quelle persone che si ammassavano al confine... Ho iniziato a far parte di Grupa Granica a settembre, circa un mese dopo che si erano verificati i primi incidenti alla frontiera. Vedevamo in tv tutte queste persone arrivare e non c’era nessuno lì ad aiutarle. Le guardie di frontiera le respingevano indietro in continuazione e la zona di frontiera bielorussa è un’area molto selvaggia, le foreste sono talmente fitte che in alcuni tratti non si vede a pochi metri. D’inverno si gela. All’inizio partecipavo alle raccolte di vestiti, acqua e beni di prima necessità qui a Varsavia. Il materiale raccolto veniva poi inviato sul campo, nei villaggi nei pressi della frontiera. In un secondo momento ho deciso di unirmi direttamente a chi lavorava sul campo e di andare io stesso nei boschi per portare queste provviste ai migranti. E cosa fanno queste persone dopo aver passato il confine? In buona sostanza non possono chiedere l’asilo in Polonia perché la nostra legislazione è molto proibitiva sotto quest’aspetto. Quindi la maggior parte di loro prova a continuare verso la Germania e a passare il confine lì. I controlli sono aumentati lungo il confine con gli anni? Al contrario, all’inizio era più sorvegliato, perché non c’era il muro. Il governo aveva fatto passare delle leggi d’emergenza che in pratica rendevano queste aree delle zone ad accesso limitato nelle quali soltanto i residenti potevano passare o delle persone che avevano delle motivazioni provate. Non era il massimo della legalità però per il governo in quel momento ha funzionato. In pratica hanno tagliato una striscia di territorio di circa 2 km a partire dalla frontiera e dentro quest’area hanno impedito l’accesso gli attivisti. Ai giornalisti e a chiunque volesse andare sul posto a vedere cosa stava succedendo o a dare una mano. In alcuni tratti, come nella Foresta di Bia?owieza il bosco è talmente denso che tutta l’area diventa praticamente inaccessibile. In questa buffer zone c’erano pattugliamenti costanti. Poi è arrivato anche l’esercito. Come li aiutate praticamente? Li aiutiamo in Polonia, quando arrivano nei boschi, portando loro beni di prima necessità, cellulari e sim perché capita spesso che le guardie di frontiera gli rompono il telefono o gli rubano le sim per evitare che possano tornare indietro o che possano contattare gli altri migranti Quali guardie? Quelle polacche o quelle bielorusse? Accade anche sul territorio polacco. Abbiamo testimonianze di respingimenti brutali, violenza da parte della polizia polacca. Abbiamo molte testimonianze di migranti che raccontano delle guardie di frontiera, della polizia o dell’esercito che usano spray urticanti. Li fermano e poi usano lo spray, forse per non fargli vedere cosa faranno poi. A quanto ci risulta è una cosa comune, succede alla maggioranza delle persone quando vengono prese. Possiamo definirlo un contesto di ordinaria violenza? Al momento credo sia esattamente violenza ordinaria e credo che sia addirittura peggiorata progressivamente rispetto a due estati fa. I primi tempi registravamo delle violenze ma mi sembra che oggi siano “normalizzate”. E poi c’è la differenza enorme nell’accoglienza tra i rifugiati ucraini e queste altre persone... È una follia. È come se vivessimo in due mondi differenti. Da un lato ci siamo noi in piedi nei boschi di notte con le luci frontali rosse che cerchiamo di aiutare queste persone a riempire i documenti per le richieste al governo polacco e dall’altro ci sono i nuovi centri per i rifugiati ucraini nella città di Varsavia. Io non vedo la differenza tra questi due tipi di persone, ma invece è proprio come se fossimo su due pianeti diversi. Ed è una consapevolezza che a volte ti fa sentire come se fossi pazzo. Provi a tenere l’attenzione più alta possibile, a cercare consensi ma alla fine sei sempre in una giungla, in piedi a riempire documenti di fretta. Cosa pensi della reazione europea a questa crisi? Terribile. Uno dei miei primi pensieri politici sulla situazione è stato “dov’è l’Unione europea?”. Perché delle persone possono torturare altre persone in Europa e nessuno reagisce?