L’ozio della branda. Chi non può imparare un lavoro in carcere è condannato due volte di Don David Maria Riboldi* Il Riformista, 25 maggio 2023 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Forse. Il pilastro numero uno della nostra Costituzione sembra non reggere all’urto della realtà dei penitenziari dello stivale, dove al 31 dicembre 2022 solo 2.608 persone su 56.196 avevano un lavoro, che non fosse fare “lo spesino” o “lo scopino” alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Lavori per la quotidianità della vita in carcere. Che è già un upgrade rispetto agli “anni di branda”, ossia del nulla fare, con cui si matura il rispetto degli altri nella propria sezione. Mi chiamo don David, sono un “prete di galera” e sono grato dell’opportunità di poter aprire su “Il Riformista” uno squarcio sul mondo del lavoro carcerario, che da subito catturò tante mie energie nel penitenziario di Busto Arsizio, di cui sono il cappellano dal novembre 2018. Nell’estate 2019 diedi avvio alla Cooperativa Sociale “La Valle di Ezechiele”, col desiderio di creare opportunità di inclusione lavorativa per persone detenute. Ad oggi le persone ristrette nella Casa Circondariale di Busto Arsizio sono 420. Il territorio varesino conta migliaia di imprese. I conti sono fatti. L’ozio della branda potrebbe non esistere. Il rinforzo della mentalità delittuosa, che vive di non lavoro sarebbe intaccato alla sua radice culturale. Il valore di una persona detenuta a lavoro non dipende meramente dalla retribuzione, dall’occupazione del tempo, dalla stanchezza (un elemento non secondario) o dall’empowerment che può derivare dagli apprezzamenti nello svolgere bene il proprio mestiere. Il valore terapeutico del lavoro nasce anzitutto dall’igiene relazionale che deriva dall’essere immessi in contesti sociali non criminosi, dove il dialogo quotidiano non annovera tra le normalità per arrivare a fine mese le parole “rapina” o “roba” e dove i regali di Natale per i bimbi sono frutto di rinunce e spiccia programmazione finanziaria in famiglia. Non di illeciti commessi per non sentirsi padri o madri di serie B. La Valle di Ezechiele ha aperto i battenti del proprio capannone nel novembre 2020. Il 25 ottobre 2021 è stata tenuta a battesimo dall’allora Ministra della Giustizia Marta Cartabia. A oggi sono venti le persone scarcerate dalla Magistratura competente, grazie ai nostri progetti di inclusione lavorativa. Nessuno di loro al momento risulta abbia commesso nuovi reati. I nostri progetti (ri)educativi realizzano una recidiva di reato dello 0%. Quindici persone hanno lavorato nelle nostre filiere produttive: processi di dematerializzazione digitale di archivi cartacei; assemblaggi; cesti di Natale con prodotti di economia carceraria; un calendario artistico, unico prodotto intramurario al momento. Cinque persone sono state introdotte in aziende nostre partner nella realizzazione dei cesti di Natale. Dalla collaborazione con il birrificio “The Wall” e Lorenzo Dabove è nata la “Prison Beer: la birra che detiene la bontà”. Un vero e proprio marchio brassicolo della cooperativa, generatore di nuove posizioni lavorative. Gian Paolo Gualaccini il 5 dicembre scorso, alla presentazione della ricerca del CNEL “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” affermò: “Se la recidiva per i detenuti non lavoratori, infatti, si aggira intorno al 70%, per coloro che invece in carcere hanno appreso un lavoro, imparando ad avere fiducia in sé stessi, la recidiva scende drasticamente intorno al 2%”. Ma allora dovremo chiederci e chiedere ai rappresentanti delle Istituzioni che ne è dei tre miliardi e mezzo consumati mediamente all’anno dalle nostre patrie galere, per generare “clienti abituali”. Il cinismo degli operatori all’uscita di alcune persone è drammaticamente sarcastico: “Quanto ci metterà questo a rientrare?”. La Valle di Ezechiele, come le tante iniziative private del Terzo Settore nei penitenziari d’Italia, realizza sicurezza. Più delle carceri. È un fatto. Bisognerà renderne ragione ai contribuenti. E magari crederci davvero che l’Italia è fondata, e ha da essere continuamente rifondata, sul lavoro *Cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio La giustizia secondo Nordio di Francesco Grignetti La Stampa, 25 maggio 2023 Accordo nella maggioranza, si sblocca la riforma dopo mesi di stallo. Sarà abrogato l’abuso d’ufficio, in arrivo la stretta sulle intercettazioni. Dopo mesi di stallo e di polemiche intestine, il destra-centro sblocca il pacchetto Nordio sulla giustizia. È stato necessario un ultimo confronto di due ore tra il Guardasigilli e Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia del Senato nonché plenipotenziaria della Lega su queste materie, presente anche il sottosegretario leghista Andrea Ostellari. Nordio e Bongiorno si sono trovati finalmente d’accordo sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. L’intesa è che sarà una riforma in due tempi: subito l’intervento chirurgico su questo reato e sul traffico di influenze; successivamente una riforma organica di tutti i reati contro la Pubblica amministrazione. Le due anime della maggioranza hanno trovato un accordo anche sulle intercettazioni, e di nuovo in due tempi: nel testo che il ministro della Giustizia porterà quanto prima al Consiglio dei ministri si stabilisce una protezione rafforzata della privacy delle persone finite sotto intercettazione (e quindi divieto draconiano nei confronti dei media per evitare che si pubblichino dati e parole di persone non indagate, ma finite ugualmente in intercettazioni), e a seguire una riforma più completa sullo strumento in sé, basandosi sul lavoro che la commissione Giustizia sta portando avanti. “Quando ci si accosta alle riforme per tutelare i diritti dei cittadini, in un processo che veda la parità tra accusa e difesa e il rispetto della riservatezza, pure protetto dalla Costituzione, il risultato non può che essere quello di una riforma liberale della giustizia, proprio quella che Berlusconi ha sempre voluto”, dice il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Nel pacchetto Nordio ci sarà anche molto di più: l’impossibilità peri pubblici ministeri di presentare appello quando un imputato sia assolto in primo grado; l’esame collegiale di tre magistrati e non più di un giudice singolo per decidere le misure cautelari come un arresto, la possibilità di un interrogatorio prima dell’emissione di un avviso di garanzia per molti reati minori. Di sicuro non i reati di mafia e terrorismo, di violenza sessuale, o per le rapine o quando ci siano diversi coindagati. “La Lega - sottolinea Giulia Bongiorno - è favorevole all’adozione di una serie di misure garantiste tra le quali trovano spazio anche quelle cautelari oggetto del referendum, quelle sull’appello e sulle intercettazioni. Via libera anche alle scelte sul reato di abuso di ufficio, alla luce dell’intenzione del ministro di rivisitare l’intera materia dei reati contro la Pubblica amministrazione”. Questa sua ultima frase va decriptata: il via libera della Lega è arrivato infatti dopo una serie infinita di riunioni perché tutti i giuristi dell’area di governo sono d’accordo sull’obiettivo di sgravare i sindaci dalla “paura della firma”, ma c’era il timore di mettere una toppa peggiore del buco. Ovvero, eliminando il reato di abuso d’ufficio come è oggi, la Lega argomentava che tutta una serie di fascicoli, piuttosto che essere archiviati, avrebbero comunque dato il via a indagini della magistratura e con ipotesi di reato ben più gravi. Timore non del tutto fugato, ma dovrebbe esserci presto una sistemazione più organica e perciò è stato accettata la depenalizzazione su cui il ministro Nordio si è tanto battuto. Sul resto del pacchetto c’era invece un sostanziale accordo. E anche Forza Italia è convinta, come sintetizza ancora Francesco Paolo Sisto: “Gli interventi sull’abuso d’ufficio, sul traffico di influenze, sull’informazione di garanzia, sulle misure cautelari e sul limite all’appello del pm alle sentenze di assoluzione sono i primi capitoli di un’opera riformatrice che porterà il Paese verso una giustizia sempre più giusta”. Difficile invece che passi la proposta di Enrico Costa, Terzo Polo, che spinge per una depenalizzazione del reato, senza abolirlo, ma prevedendo una ammenda. “Se la maggioranza vuole portarla avanti e firmarla per me va benissimo”, dice. Riforma giustizia, faccia a faccia Nordio-Bongiorno: via libera a cancellare l’abuso d’ufficio di Liana Milella La Repubblica, 25 maggio 2023 Due ore d’incontro al Senato tra il Guardasigilli e la responsabile Giustizia della Lega. Il ministro presenta il suo pacchetto: stretta sulla custodia cautelare e sulle intercettazioni. E si torna alla legge Pecorella che blocca l’appello del pm. Via l’abuso d’ufficio dal codice penale. Arriva l’assenso della Lega, ma con garanzia di una rivisitazione profonda dell’intero parterre dei reati contro la pubblica amministrazione e con un sostanziale allargamento del perimetro delle riforme. Stop all’appello del pubblico ministero, e torna anche la legge Pecorella. Stretta sulla custodia cautelare: ci vorranno tre giudici per dare il via libera e solo per i reati gravi. Colpo di maglio anche sulle intercettazioni, non saranno più trascritte le telefonate che coinvolgono una terza persona estranea all’inchiesta. Carlo Nordio in persona, dopo i ripetuti e insistenti annunci del suo vice ministro forzista Francesco Paolo Sisto, avvia la sua “via crucis” politica per conquistare il pieno appoggio dei partner della maggioranza sulle sue prossime riforme. Che dovrebbero - il condizionale è d’obbligo visto che se ne parla ormai da ben sette mesi - approdare a palazzo Chigi tra un paio di settimane. La prima tappa è quella più ostica, con la forza politica, la Lega, da cui finora sono venuti i maggiori distinguo. Soprattutto perché a decidere cosa si può e non si può fare è Giulia Bongiorno, non solo responsabile Giustizia del partito di Matteo Salvini, di cui è anche avvocato nel processo di Palermo sugli sbarchi dei migranti, nonché ascoltatissima consigliera nella materia giuridica, ma anche strategica presidente della commissione Giustizia del Senato, crocevia fondamentale per le future riforme del Guardasigilli. L’incontro tra Nordio e Bongiorno dura due ore, presente il sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari, e il ministro espone il suo piano, scendendo anche nel dettaglio delle soluzioni tecniche che intende intraprendere. Alla fine ecco nelle parole di Giulia Bongiorno alle agenzie la sostanza politica del confronto: “Oggi ho avuto una lunga e proficua riunione con il ministro Nordio. La Lega è favorevole all’adozione di una serie di misure garantiste tra le quali trovano spazio anche quelle cautelari oggetto del referendum, quelle sull’appello e sulle intercettazioni. Via libera anche alle scelte sul reato di abuso di ufficio, alla luce dell’intenzione del ministro di rivisitare l’intera materia dei reati contro la pubblica amministrazione”. Dunque Bongiorno, che ripetutamente aveva espresso anche pubblicamente, e qui su Repubblica, le sue perplessità sull’idea di cancellare l’abuso d’ufficio, accetta che si vada alla sua soppressione, ma solo sulla base della “promessa” di Nordio di affrontare l’intero pacchetto dei reati contro la corruzione. A partire dal traffico di influenze. Partita certo non facile, dopo l’ultimo e più importante intervento fatto dall’ex Guardasigilli Paola Severino nel 2012. I timori di Bongiorno - senza l’abuso d’ufficio il cittadino comune resterà scoperto rispetto ad eventuali soprusi degli amministratori pubblici, e il rischio che i magistrati contestino reati più gravi in assenza dell’abuso d’ufficio - sarebbero stati fugati alla luce della promessa di un intervento più ampio, che va oltre il singolo reato. Ovviamente, proprio sull’abuso d’ufficio, ecco l’immediata reazione favorevole del responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, autore del primo disegno di legge per abolirlo, che reagisce così: “Metto a disposizione delle forze di maggioranza la mia proposta e ovviamente sono molto soddisfatto che il ministro della Giustizia, ma non solo lui, venga sulle mie posizioni”. Ma la riforma Nordio va ben oltre l’abuso d’ufficio. Come ormai ha annunciato da mesi, il ministro ed ex pm ha messo a punto i testi per cambiare le regole della custodia cautelare e delle intercettazioni. In entrambi i casi siamo di fronte - stando a quanto trapela - a un intervento complesso e massiccio. Prima di emettere una misura cautelare per reati che non siano gravissimi, il pm dovrà necessariamente interrogare la persona coinvolta. E il sì all’arresto non arriverà più da un solo gip, il giudice per le indagini preliminari, ma da un collegio di tre giudici. Già prevedibili, da parte delle toghe e dell’Anm, le difficoltà operative che comporterà una simile scelta, per la scarsità di magistrati, e soprattutto sui tempi del processo, visto che il Pnrr chiede che acceleri e non certo che rallenti. E qui bisogna ricordare che proprio l’Anm andrà l’11 giugno a un’assemblea generale, convocata sull’azione disciplinare che Nordio ha intrapreso contro i giudici di Milano per il caso Uss, che potrebbe portare già di per sé a uno sciopero. E siamo al processo d’appello, per cui Nordio torna alla legge di Gaetano Pecorella del 2006 - avvocato berlusconiano e all’epoca presidente della commissione Giustizia della Camera - che stabiliva la cancellazione dell’appello per il pm che perde il processo. Legge subito cassata dalla Corte costituzionale. E infine le intercettazioni. Un altro “nemico” di Carlo Nordio. Che vuole imporre l’obbligo di non trascrivere quelle che coinvolgono una terza persona coinvolta nella conversazione. Proprio la Bongiorno ha impegnato la sua commissione in un ampio approfondimento sul tema, con decine di audizioni e una duplice visita ai server operativi nelle procure di Roma e Milano. E delle intercettazioni inoltre lei è un’esperta “politica”, visto che già 15 anni fa ha bloccato il tentativo di Berlusconi di azzerarne la portata. “Nordio sbaglia: è tempo di applicare le riforme, non di rimetterci mano” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 25 maggio 2023 Walter Verini (Pd): “Maggioranza arrogante, grave eleggere Colosimo”. “È la destra a creare fratture. No ad altre riforme penali, basta la Cartabia” Senatore Verini, fin quando proseguirà la strategia dell’Aventino? Nessun Aventino. Pd, M5S e Avs ci siamo allontanati al momento del voto sulla presidenza della commissione Antimafia perché profondamente colpiti dalla totale insensibilità e arroganza di questa destra. La quale nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci ha dato uno schiaffo a tante persone, familiari e associazioni di vittime di mafie e terrorismo che avevano chiesto che Colosimo non venisse eletta per le sue occasioni di frequentazione con il terrorista stragista nero Ciavardini. Di fronte a questa arroganza e insensibilità abbiamo lasciato l’Aula. Noi non pratichiamo politiche aventiniane. Eppure in commissione Giustizia è andata avanti per mesi la questione Delmastro, con la minaccia di uscita in caso di sua presenza, che poi si è concretizzata... Nelle commissioni Giustizia noi abbiamo lasciato i lavori quando il sottosegretario Delmastro è ricomparso, dopo oltre due mesi in cui ha avuto la decenza di non presentarsi per le sue gravissime violazioni istituzionali durante la vicenda Cospito. Aspettiamo ancora le sue scuse per aver detto che “i parlamentari del Pd hanno fatto l’inchino ai mafiosi”. Questa protervia non è un problema del Pd, è un problema del governo, di questa maggioranza e riguarda il funzionamento di organismi importanti. Ma al governo questo atteggiamento non sembra interessare, visto che va avanti per la sua strada: come se ne esce? Meloni e il suo governo hanno coperto gravissimi comportamenti di un sottosegretario e di un membro del Copasir come Donzelli, i quali hanno usato carte non divulgabili per manganellare le opposizioni. Al di là del rilievo penale, che a noi interessa relativamente e che ha avuto inizio sulla base di un esposto di altri parlamentari non del Pd, nella stessa richiesta di archiviazione della Procura si ammettono violazioni del segreto dal punto di vista amministrativo. Questo conferma la gravità di certi comportamenti - aggravati dai gravi insulti diffamatori contro il Pd - di chi li ha praticati e di chi li ha coperti in Parlamento, a partire dal ministro Nordio. La protesta in commissione Antimafia avrà altri capitoli? Non abbiamo partecipato alla grave elezione di Colosimo, ma siamo rientrati per votare come vicepresidente l’ex procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, che sarà un presidio solido di legalità e impegno antimafia. Vogliamo che la commissione funzioni e contribuisca a contrastare le mafie perché c’è molto lavoro da fare. Ci sono domande che chiedono ancora risposte e poi ci sono altre questioni stringenti. Ad esempio? Le mafie penetrano nell’economia reale e vogliono mettere mano negli appalti e nel Pnrr. C’è bisogno di una commissione Antimafia che vigili con i suoi strumenti e aiuti il lavoro che altre istituzioni e la magistratura compiono quotidianamente. Ci impegneremo in tutti i modi perché questo avvenga, anche a stretto contatto con tante associazioni e forze sociali. Ma questo è solo un esempio. C’è il tema della crescita dell’usura, del welfare criminale, del riciclaggio, della finanziaria azione e dell’ internazionalizzazione delle mafie... Lo stesso arresto di Messina Denaro apre pagine inquietanti, non le chiude. Chi ha protetto in tutti quegli anni il boss? Quali menti ‘ politiche’ hanno aiutato la mafia stragista? Quali legami tra terrorismo nero e mafie? Sono domande che la commissione Antimafia può aiutare a rilanciare, accendendo fari su queste. Aiutando la magistratura, non attaccandola. Ricordare le vittime delle mafie richiede coerenza tutti i giorni, non solo in occasione dei discorsi per gli anniversari. Pensa sia possibile ristabilire un dialogo costruttivo tra governo e opposizione, ad esempio sul Pnrr? Bisogna chiederlo al governo, che anche su questo sta tenendo un atteggiamento dannoso. Sembra brancolare nel buio. Dicevano di essere pronti a governare ma sono nel caos. Hanno demolito la governance del Pnrr e balbettano di rivisitare il piano ma non coinvolgono adeguatamente le opposizioni. Nelle questioni di interesse nazionale siamo disponibili a collaborare, ma il punto è che il governo è latitante anche sul Pnrr si dimostra chiuso, senza ammettere i propri limiti. Ora presenteranno - dicono - una relazione al Parlamento. Secondo me giocano col fuoco mettendo a rischio finanziamenti fondamentali per l’Italia. Ieri è stato annunciato il via libera a un pacchetto di misure sulla giustizia, dalla depenalizzazione dell’abuso d’ufficio alle intercettazioni. Come si muoverà il Pd? Nordio non fa bene il suo mestiere di ministro. Oggi sarebbe il tempo di applicare le riforme, non di rimetterci le mani, soprattutto agitando temi divisivi. E farlo accelerando le assunzioni di magistrati e personale amministrativo, stabilizzando gli addetti all’Ufficio per il Processo, accelerando digitalizzazioni e spendendo i tre miliardi di investimenti che i nostri governi hanno lasciato. Sulle carceri, poi, perché per tre volte hanno respinto in aula le nostre richieste di proroga della semilibertà ai detenuti che ne usufruivano a causa del covid? Nordio avrebbe potuto inoltre ripristinare la possibilità delle maggiori telefonate concesse durante il covid, e invece vediamo molte parole, interviste, proclami, ma una incoerenza quotidiana. E le altre riforme annunciate? Il filo conduttore sembra essere quello di un allentamento dell’azione contro i reati che riguardano la Pa e contro la corruzione. Sull’abuso ufficio, il tema è sbagliato. È un reato che come fattispecie è già stato svuotato. Per aiutare i sindaci e cancellare la “paura della firma” è necessario tutelare gli amministratori da responsabilità che non stanno in capo a loro, non depenalizzare l’abuso d’ufficio. In realtà, colpendo l’abuso d’ufficio, si indebolisce anche il reato spia che è propedeutico ai reati contro la Pa. Su questo il governo mostra segnali preoccupanti. Per quanto riguarda le intercettazioni, da circa due anni non si parla più di gogna mediatica, perché con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza e con la riforma Cartabia, la stretta è stata evidente. Oggi è un fenomeno marginale, tanto che lo stesso Nordio ha detto che “fino a tempo fa c’era l’ossessione delle gogne mediatiche, mentre oggi il pendolo è sbilanciato dalla parte opposta, quello del diritto all’informazione”. La gogna mediatica è un pretesto, oggi il tema è capire se si vuole ridurre le intercettazioni come strumento d’indagine. Ecco, questo sarebbe davvero pericoloso. Barbano: “Mi fa paura un pm che bolla come mafiose le mie critiche all’antimafia” di Errico Novi Il Dubbio, 25 maggio 2023 Il giornalista e autore de “L’inganno” replica, in una lunga intervista, al procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, che aveva additato come pericolose le obiezioni sulle misure di prevenzione. Emanuele Crescenti è un procuratore della Repubblica. Capace di vivere la propria funzione con un non trascurabile grado di eroismo: la esercita a Palmi, nel territorio a più alta concentrazione ‘ndranghetista del Paese. Ora, il procuratore Crescenti, come riferito dal Dubbio, ha duramente replicato, durante un convegno, a una vittima della in-giustizia antimafia come Pietro Cavallotti. Quindi ha apostrofato l’autore di un libro critico con il sistema antimafia come Alessandro Barbano. Riguardo al secondo, ha sostenuto che trarre da un caso singolo lo spunto per attaccare le misure di prevenzione è “mafioso”. E “L’inganno”, il libro “scandalo” di Barbano sugli “usi e soprusi dei professionisti del bene”, sulla barbarie consumata a danno degli innocenti grazie alle norme della “prevenzione”, di quei casi è strapieno. La reazione di un magistrato di fronte a queste verità - processuali, cioè accertate nei limiti dell’umano - è dunque di scorgere un “collaborazionismo” in chi ne fa derivare una critica al codice Antimafia. Vista la situazione, ci sembra giusto parlarne con te, Alessandro Barbano. A partire però da un altro fatto, concomitante col resoconto del conflitto dialettico fra l’avvocatura e il procuratore Crescenti. Sempre ieri, su un giornale come il Manifesto, noto per i titoli dalla folgorante genialità, si dava notizia dell’elezione di Colosimo al vertice della commissione Antimafia con il seguente epitaffio: “Capaci di tutto”. Vi si coglie l’anatema contro chi sconfessa il dogma antimafia, e sceglie per la Bicamerale una persona “colpevole” di essersi fatta fotografare con un condannato per eversione. C’è pure l’assimilazione fra chi “osa” tanto e chi sta con la mafia stragista. C’è insomma la linea rossa, sottile o meno, che separa il bene, e i suoi “professionisti” appunto, dal male.... Sì, in quel titolo ci sono molte cose. Ci vedo la teoria del doppio Stato, il complottismo come religione civile, come autobiografia della Nazione. E naturalmente ci vedo la censura moralistica di chi si sente autorizzato a dare patenti di idoneità e presentabilità rispetto all’assunzione di ruoli istituzionali. E soprattutto, direi, c’è una logica di potere: della serie, “l’Antimafia è roba nostra”. Cioè, l’Antimafia, la sua struttura, i suoi organismi, appartengono a un campo ben determinato. Non possono essere appannaggio di altri che a quel campo sono estranei. Ecco, ma qui siamo a una rivendicazione di inaccessibilità (per gli estranei) che rimanda alla mistica dell’antimafia. Ai suoi dogmi. E torniamo al procuratore Crescenti, che nel suo liquidare come “mafioso” il discorso critico sulle misure di prevenzione, sembra assumere la rigidità di chi preserva un dogma... Se critichi, se denunci la barbarie delle misure di prevenzione, se spieghi quanto siano incompatibili con lo Stato di diritto, sei un nemico. Non hai diritto di parola. La narrazione dell’antimafia non è contendibile, quindi non esistono vittime dell’antimafia, e se esistono sono sostanzialmente mafiosi, e non dovrebbero essere invitate a un tavolo in cui si parla di mafia, riservato solo ai rispettabili. Il procuratore Crescenti non contesta nel merito chi critica l’antimafia, gli addebita anzi una mafiosità. Ma lo dice solo incidentalmente a chi è autore del libro… Che sei tu… …lo dice soprattutto agli avvocati, che si sono intestati il diritto, la pretesa, l’impudente arbitrio di mettere in discussione il codice Antimafia. E questo sinceramente mi fa paura. Esattamente perché? Perché a definire mafioso il discorso che segnala le aberrazioni delle misure antimafia non sono io, che ho solo le parole come strumento: lo fa un magistrato che ha nelle mani armi pervasive, consegnate negli ultimi quarant’anni dalla politica alla magistratura. Armi che producono effetti collaterali. Mi fa paura in quanto destinatario dell’avviso, se posso chiamarlo così, ma anche come cittadino, perché il procuratore Crescenti rappresenta l’azione penale nel Mezzogiorno d’Italia, cioè l’istituzione che incarna la forza repressiva dello Stato. Il procuratore è anche un docente della Scuola superiore della magistratura: se trasferisce un simile approccio ai nuovi pm e ai nuovi giudici, c’è da temere che il dogmatismo dell’antimafia sia destinato a irrigidirsi anziché ad evolvere. Crescenti ha reagito con quelle frasi sulla “mafiosità” alle dure critiche sulle misure di prevenzione, ma ha anche razionalmente riconosciuto l’urgenza dei correttivi, li ha elencati. È come se la prima parte della replica riflettesse anche una sorpresa, uno spiazzamento nel verificare che la critica alle misure antimafia è assai più strutturata di quanto si possa immaginare... C’è sicuramente la sorpresa di cui parli. Ma a me sembra vi sia anche la difesa di un potere immane, connesso all’esercizio delle prerogative attribuite dal codice Antimafia alla magistratura. Mi spiego. Le norme su sequestri, confische e interdittive consentono di infliggere delle pene, al di là di come la Corte costituzionale ha qualificato, con un artificio sofistico, tali misure. Il codice Antimafia cioè consente di somministrare provvedimenti afflittivi senza provare la colpevolezza di chi li subisce. È un potere immane, appunto: si può infliggere una pena a un innocente. Siamo oltre la meccanica tipica dei regimi che, se mai, falsificano le prove della colpevolezza: siamo al potere del sovrano nelle monarchie assolute, al potere di dare la morte a chi è non cittadino ma suddito. Ecco, se non si ha idea di che strumento di distruzione di massa sia il codice Antimafia, della possibilità di confiscare beni agli innocenti, a chi è assolto in un processo, ai terzi ignari che abbiano acquisito quei beni lecitamente, se non ci si rende conto di quanto sia assoluto questo potere, non si comprende la sorpresa di chi si trova dinanzi all’ipotesi anche remota che tutto questo sia messo in discussione. Quel potere, va ricordato, non esiste in nessuna democrazia d’Europa. Eppure Crescenti si è anche detto d’accordo sulla necessità di correggere le misure di prevenzione con un “meccanismo probatorio serio”, con una “interdipendenza” fra tali provvedimenti e il processo penale vero e proprio... Mi chiedo: se tale disponibilità è concreta, perché nessuno ci ha mai pensato, in quarant’anni? Perché in questi anni, di fronte a ogni intervento sul codice Antimafia, a cominciare dalla riforma Orlando, proprio i magistrati hanno invece fatto pressione affinché questi poteri speciali fossero estesi ai reati contro la Pa, nonostante il parere contrario di tanti autorevolissimi giuristi? E perché, se la disponibilità a eliminare gli aspetti abnormi della legislazione antimafia è effettiva, quando poi si discute di riforme, la premessa è che “però, per i reati più gravi, non deve cambiare nulla”? Sediamoci domattina e stabiliamo che una misura di prevenzione non può essere adottata a fronte di una sentenza penale di assoluzione. Se l’antimafia è un sistema dogmatico, la sua liturgia riflette alla perfezione il dogmatismo e l’intransigenza tipici dei fondamentalismi... Ecco, siamo all’altro aspetto che considero decisivo: il metalinguaggio. Inquinato da una logica di polizia. È una forma di “fascismo inconsapevole”. Lo rappresenta perfettamente, secondo la logica che i giuristi definirebbero a contrariis, una sentenza illuminata con cui pochi giorni fa la Cassazione ha stabilito che il ricorso alle interdittive non può basarsi su una mera familiarità mafiosa del destinatario. È stato travolto l’automatismo per cui chi ha un nonno, uno zio o un padre mafioso debba rassegnarsi a subire l’interdittiva. Anche il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ha adottato, persino in anticipo rispetto alla Suprema corte, tale orientamento... Ecco, possiamo rallegrarcene, ma dobbiamo anche chiederci, da intellettuali, perché sia necessario affermare con una sentenza ciò che dovrebbe essere pacifico in uno Stato di diritto. Anche un bambino sa che non è giusto far pagare ai figli le colpe dei padri. Ma se le supreme giurisdizioni devono sancirlo con una sentenza è perché, per trent’anni, il procedimento di prevenzione ha risposto a una logica di polizia. E così è stato, a ben vedere, non solo per la prevenzione, ma anche per la giustizia sia cautelare sia ordinaria. E tutto è lecito perché una retorica moralista e dogmatica ha impedito qualsiasi esercizio critico... Un metalinguaggio divenuto, di fatto, in modo inavvertito, il racconto della Repubblica. Un linguaggio intuitivo: nei secoli, la civiltà ha modellato il diritto con una logica controintuitiva, cioè ha frapposto tra il fine e il mezzo dell’azione penale tutta una serie di paletti grazie ai quali la legge ha assecondato l’irripetibilità dei fatti umani, tutti l’uno diverso dall’altro. A parità di indizi puoi trovare un colpevole come un innocente... Esatto. Ma in questi ultimi quarant’anni si è affermata la logica contraria: un diritto intuitivo, reattivo, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Costruito su allusioni e suggestioni. Capace di informare lo stile dei giornali che scrivono e titolano “è stato assolto, ma secondo l’informativa della Dia, dieci anni prima era a cena con...”. E così hanno liquidato Colosimo come “unfit”... Lei ha spiegato di conoscere Ciavardini per aver sostenuto un’associazione impegnata nel reinserimento dei detenuti. Ma non poteva sfuggire a un altro assioma: l’irredimibilità del male. Sostenuto da chi con una mano brandisce la Costituzione e con l’altra finge di non sapere che, in base alla Costituzione, la pena deve tendere al recupero del condannato. Antimafia senza pace di Maria Berlinguer La Stampa, 25 maggio 2023 Monta la protesta dei parenti delle vittime sulla presidenza Colosimo. “Se convocati, non so se andremo”, dice il fratello di Peppe Impastato. “È un brutto passo indietro, un brutto segnale per chi ancora sta combattendo nei territori ogni giorno, c’erano tante persone competenti nella commissione come Cafiero De Raho o Scarpinato. Persone che hanno competenza e vengono da esperienze di un certo livello. Affidare la commissione Antimafia che è un organo istituzionale a Chiara Colosimo è una cosa che mi preoccupa moltissimo per il suo passato e per le sue frequentazioni con ex terroristi”. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, giornalista e militante politico, ucciso da Cosa nostra nel 78, è preoccupato per le sorti dell’Antimafia. A 24 ore dal blitz con il quale la maggioranza di destra ha imposto la fedelissima di Giorgia Meloni come presidente dell’Antimafia, sono ancora i parenti delle vittime a contestare la nomina dell’ex consigliera del Lazio per la sua amicizia con il terrorista nero Ciavardini. “Per noi familiari delle vittime è un problema, siamo molto imbarazzati. Non so se andremo se saremo convocati, se decideremo di farlo sarà per rispetto all’istituzione non certo per rispetto della Colosimo che non merita di rappresentare la commissione Antimafia. Questa commissione è stata in passato presieduta da persone che hanno anche rischiato la vita per la lotta contro la mafia”, aggiunge Impastato. “Sono stato tra i promotori della petizione contro la nomina di Colosimo e ora posso soltanto dire che ritengo questo un vulnus per le istituzioni: eleggere una persona con questi trascorsi in una commissione così importante è assurdo”, dice Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione Familiari vittime della strage di Bologna. “Abbiamo a che fare con terroristi e anche fascisti”, aggiunge l’ex parlamentare Pd, ricordando che la commissione dovrà indagare “sulle stragi in cui sono coinvolti fascisti: è possibile che non si faccia più nulla”. “Abbiamo scritto quella lettera al governo perché di Chiara Colosimo sono note le frequentazioni con il terrorista dei Nar Luigi Ciavardini e l’amicizia con la moglie”, premette Salvatore Borsellino che ieri, come Bolognesi, è stato chiamato al telefono dalle neo presidente dell’Antimafia. “Mi ha chiesto di incontrarla, mi ha addirittura proposto di venire lei a Palermo, abbiamo avuto uno scambio di idee. Per ora però non me la sento, aspetto i fatti”, dice il fratello di Paolo Borsellino. Una nota della Cgil denuncia come nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, “abbiamo assistito a una pagina nera della lotta alla mafia. L’elezione alla presidenza della commissione Antimafia di Chiara Colosimo è un’offesa a tutte le vittime delle stragi di mafia e ai loro parenti e le forze di polizia hanno bloccato per motivi di ordine pubblico il corteo degli studenti, del movimento delle agende rosse, dei sindacati e delle associazioni”. In difesa di Colosimo il ministro per i Rapporti con il Parlamento, FdI, Luca Ciriani. “Non ha scheletri nell’armadio, e non ha nemmeno l’età per poterli avere. Diamole il tempo di dimostrare di che pasta è fatta. Le polemiche sembrano del tutto infondate, pretestuose inventate”. E anche dalla parte della Lega c’è piena solidarietà di maggioranza. “Non ho capito le polemiche che ci sono state, io non valuterei una persona per una foto. Se ne fanno tante”, sostiene Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera. Chiara Colosimo: “La mia verità sugli ex Nar” di Francesco Olivo La Stampa, 25 maggio 2023 Intervista alla neopresidente dell’Antimafia: “Quelle foto? Ciavardini non è un amico”. In mezzo alla bufera Chiara Colosimo si trova tutto sommato a suo agio. Il primo giorno da presidente della Commissione Antimafia, la deputata di Fratelli d’Italia, legatissima a Giorgia Meloni, lo trascorre tracciando le linee del suo mandato e difendendosi dalle accuse dell’opposizione: “Ciavardini non è un amico”. Le polemiche del centrosinistra se le aspettava, “non mi aspettavo quelle dalle associazioni dei familiari delle vittime, di cui ho molto rispetto. Questo mi ferisce. Vorrei incontrarli presto. La narrazione che si è fatta è surreale. Sono nata nel 1986 e sto passando per la persona che non sono”. Chiara Colosimo, lei è amica dell’ex membro dei Nar Luigi Ciavardini? “No, non lo sono e spero di non ripeterlo ancora. Ho conosciuto Ciavardini nell’ambito di iniziative con l’associazione gestita da sua moglie (sorella di Nanni, terrorista nero morto in carcere e Marcello oggi alla Regione Lazio ndr.), nelle quali ovviamente c’era anche lui. Era il mio primo mandato da Consigliera regionale del Lazio, 2010-2013. Non ho problemi a dichiararlo. L’articolo 27 della Costituzione parla di funzione rieducativa della pena e di reinserimento dei detenuti”. La foto, però, scattata nel carcere di Rebibbia, lascia intendere una certa confidenza fra voi... “Sono rimasta sorpresa anche io e capisco che possa dare questa impressione, in effetti non è una posa istituzionale. Io davvero non ricordo con precisione in quale occasione sia stata scattata, saranno passati circa dieci anni. Io quella foto non ce l’ho, forse l’hanno fatta dopo una sfilata di un’associazione che fa abiti cuciti dalle detenute. In ogni caso sono certa che fosse una occasione pubblica”. Perché ha cancellato alcuni post sui suoi profili social che riguardavano proprio questi incontri? “Non mi pare di aver cancellato post, tuttavia non ho nulla da nascondere”. Farà dei gesti verso le associazioni che oggi la criticano? “Sì, ma lo farò in forma riservata. In ogni caso questa è casa loro e non hanno bisogno di inviti”. Il presidente delle vittime della strage di Bologna si augura che lei non vada alle celebrazioni del 2 agosto. Lei ci sarà? “Il presidente della Commissione Antimafia deve esserci e io vorrei esserci. È ovvio, però, che non farò alcun passo per provocare dolore ai familiari”. Il suo partito e in generale gli esponenti della destra hanno spesso messo in discussione la verità giudiziaria sulla strage di Bologna, lei conferma questi dubbi sulle sentenze? “Non ci sono idee pregiudiziali che possa permettermi nel mio ruolo, non possono esistere per il rispetto che porto alle vittime delle stragi. È con questo spirito che affronterò ogni tematica che mi verrà sottoposta, perché le risposte vanno date prima di tutto alle famiglie delle vittime”. Secondo alcuni il suo profilo non sarebbe adatto a un incarico così importante. “Sono abituata a questa critica. Sono entrata in Consiglio regionale a 23 anni e fui fermata dalla sicurezza che mi gridò: “A regazzì, ‘ndo vai?”, perché accanto a me entrava Rodolfo Gigli che aveva 73 anni. Risponderò alle accuse di inadeguatezza svolgendo al meglio questo ruolo”. Cosa vuole fare da presidente della Commissione Antimafia? “Io non credo che l’Antimafia sia una questione che vada trattata solo in sede giudiziaria. Il 2 giugno compio 37 anni e forse il mio ruolo potrà essere anche quello di parlare a quelle generazioni che rischiano di vedere la mafia come una cosa lontana nel tempo. La mafia ha cambiato volto e va detto a gran voce che esiste ancora e va combattuta tutti i giorni”. Cosa pensa dei membri della sua commissione indagati a vario titolo? “C’è differenza tra essere indagati e condannati. L’avviso di garanzia è a tutela del diritto di difesa. Non spetta a me giudicarli”. Giorgia Meloni ha spinto molto affinché lei venisse indicata presidente. “Non è il premier che indica il presidente delle commissioni, è una prerogativa del Parlamento e così è stato”. Ha sentito la premier in questi giorni? “Il presidente del Consiglio si occupa di dossier ancora più importanti di questo. Ma quando muoverò i primi passi condividerò con lei quello che vorremmo fare, perché so quanto tiene alla lotta contro tutte le mafie”. Cosa dice all’opposizione? “Che ora c’è da lavorare e non polemizzare. Tuttavia è la prima volta che una persona con un casellario giudiziario immacolato e battaglie come quella delle mascherine, come quella dei concorsi e contro la proroga per la discarica di Albano, diventa una persona che non può fare il presidente dell’Antimafia a causa di una foto. Molti esponenti di altri partiti politici hanno avuto frequentazioni con persone condannate per reati gravi, come quelli per cui è stato condannato Ciavardini e non ho visto tutto questo scandalo”. A chi si riferisce? “A differenza loro non cerco la polemica e non mi metterò a fare i nomi”. Bolognesi: “Colosimo mi ha chiamato, ma la sua nomina è assurda” di Lorenza Rapini La Stampa, 25 maggio 2023 Il presidente dell’Associazione Familiari vittime della strage di Bologna: “Dovrà indagare su stragi in cui sono coinvolti i fascisti”. “Sono stato tra i firmatari della petizione contro la nomina di Colosimo all’Antimafia e ora posso soltanto dire che ritengo questo un vulnus notevole per le istituzioni. Eleggere una persona con questi trascorsi in una commissione così importante è assurdo”. Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione Familiari vittime della strage di Bologna, ed ex deputato Pd, lo dice in modo netto e senza lasciare dubbio. Questa nomina, di una persona accusata di essere vicina all’ex terrorista Nar Luigi Ciavardini, condannato per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, non si doveva fare. “Abbiamo a che fare con terroristi e anche fascisti - prosegue - Come si fa a scegliere per il vertice dell’Antimafia non una persona capace e competente ma una persona semplicemente fedele. Dovrà indagare sulle stragi in cui sono coinvolti fascisti: è possibile che non si faccia più nulla”. Ma non c’è soltanto la nomina di Chiara Colosimo a preoccupare Bolognesi: “C’è La Russa, che dice che a via Rasella (azione partigiana in cui furono liquidati alcuni nazisti, episodio che poi diede origine alla tragica rappresaglia delle Fosse Ardeatine, ndr) sono stati uccisi componenti di una banda musicale. C’è la narrazione secondo cui l’Msi viene descritto come un sodalizio democratico, dimenticandosi che ha rischiato di essere messo fuorilegge perché era emanazione del partito fascista. Tornando a La Russa, c’è l’episodio della morte dell’agente di polizia Marino nel 1973 a Milano durante una manifestazione proprio con l’Msi (episodio per il quale l’attuale presidente del Senato fu poi prosciolto, ndr). E ancora Giorgia Meloni, che si vanta di avere nel suo Pantheon Almirante, ma dobbiamo ricordare bene che se parliamo di stragi, proprio Almirante sapeva in anticipo della strage dell’Italicus salvo poi parlare di depistaggi. Ecco, tutti questi elementi ci fanno capire che siamo davanti a un preoccupante tentativo di rileggere la storia, di dare una diversa narrazione alle nuove generazioni”. Di cancellare, riscrivere e riproporre in altro modo, stigmatizza Bolognesi. “Oggi ero al processo Cavallini (ex terrorista anche lui a giudizio per la strage di Bologna, ndr) e lui stesso ha detto una cosa incredibile: ha avvicinato la vicepresidente dell’associazione delle vittime della strage e ha sostenuto di essere lui l’ottantaseiesima vittima, proclamandosi innocente, mentre c’è una sentenza passata in giudicato che lo ha condannato”. Poi, ancora su Chiara Colosimo: “Mi ha telefonato ieri sera. Ha detto che conosce Ciavardini soltanto per via delle cooperative in cui lavora. Ma sono fascisti. Dico solo che in una loro manifestazione hanno chiamato un complesso rock che ha in repertorio una canzone a favore dell’ufficiale delle Ss Priebke. In ogni caso, sono fiducioso. Questo governo non può durare e non può durare nemmeno questo modo di comportarsi. Anche perché altrimenti sarà un disastro per l’Italia. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Anche se cercano di proporre loro un nuovo racconto della storia, della realtà, non ci riusciranno. Sono fascisti, ma i giovani si renderanno conto di chi hanno davanti”. Riforma Cartabia: sui reati a querela sì della Cassazione alla interlocuzione con le Procure di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2023 Con le sentenze n. 22641 e 22658 depositate oggi la Suprema corte accoglie il ricorso di due persone condannate per furto aggravato per difetto di delega nella querela e perché agli atti vi era una “mera denuncia”. La Cassazione torna sugli effetti della riforma Cartabia sui procedimenti per i reati per i quali è stata introdotta la procedibilità a querela. Con la sentenza n. 22641 depositata oggi, dopo aver ribadito che la novella in quanto condizione di maggior favore trova applicazione anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore, ha accolto il ricorso di un uomo accusato di furto aggravato mentre era in comunità per espiare una pena. La V Sezione penale interrogatasi sull’esistenza di una valida condizione di procedibilità, ha rilevato che la denunzia/querela agli atti non possedeva i requisiti necessari. Infatti, l’atto era stato firmato da un’operatrice della comunità delegata alla presentazione della denunzia dal legale rappresentante della Cooperativa sociale, proprietaria dell’autovettura, senza però che la sua firma fosse autenticata. La Suprema corte ricorda che “in luogo dell’avente diritto, la querela può essere presentata dal suo procuratore speciale, ma la procura speciale che legittima quest’ultimo deve essere rilasciata con le formalità suddette” (in questo senso, n. 33162 del 2018). E cioè quelle indicate dall’art. 337 cod. proc. pen. “formalità della querela” che, al comma 1, prevede che la dichiarazione di querela è proposta con le forme di cui all’art. 333, comma 2, cod. proc. pen. che, a sua volta, stabilisce che la denunzia può essere presentata oralmente o per iscritto personalmente o a mezzo di “procuratore speciale”. L’art. 337, comma 2, codice di rito prevede, inoltre, che la querela presentata oralmente può essere sottoscritta, oltre che dall’interessato personalmente, anche dal suo procuratore speciale. La norma di riferimento in tema di procura speciale è l’art. 122 cod. proc. pen. secondo cui “Quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata […]. Con la decisione n. 22658 di oggi, la Suprema corte con riferimento a una condanna per furto aggravato rispetto al quale sussisteva una “mera denuncia” non accompagnata da alcuna richiesta di punizione, ha accolto il ricorso dell’imputato. Per la V Sezione penale il “silenzio legislativo esclude uno stringente dovere di svolgere accertamenti, quanto alla sopravvenuta presentazione di una querela, accertamenti che peraltro possono solo indicativamente essere delineati, in assenza di un puntuale percorso normativo”. Ne consegue, argomenta la decisione, “che appare ragionevolmente sostenibile la sussistenza di un onere in capo alla pubblica accusa di introdurre atti sopravvenuti che, come detto, valgano a documentare la persistente procedibilità dell’azione penale esercitata”. “Tutto ciò - continua la Corte - non esclude che il giudice di legittimità, nel tentativo di porre rimedio alle carenze normative, attivi prassi finalizzate a impedire che ritardi, da parte delle Procure della Repubblica, nella trasmissione delle querele sopravvenute possano condurre ad epiloghi decisori di improcedibilità nonostante la sopraggiunta presentazione di istanze punitive. Ma, si ripete, si tratta di modelli organizzativi che, in assenza di puntuali indicazioni normative, rappresentano uno scrupolo istituzionale finalizzato all’avanzamento della tutela garantita dall’ordinamento alle persone offese con riguardo alla facoltà di sporgere querela”. E nel caso specifico “una interlocuzione con la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pescara ha consentito di accertare che non risulta essere stata presentata alcuna querela, a seguito dell’originaria denuncia”. Ne discende che la sentenza va annullata senza rinvio perché l’azione penale non può essere proseguita per difetto di querela. Viterbo. Pestaggi nel carcere, ecco perché pm e procuratore capo rischiano il processo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2023 Dovranno affrontante l’udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per rifiuto di atto d’ufficio. Secondo la procura di Perugia, il procuratore capo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce della procura di Viterbo avrebbero chiuso un occhio a seguito delle denunce e segnalazioni soprattutto da parte del garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa sui pestaggi avvenuti nel 2018 al carcere di Mammagialla. Su Il Dubbio abbiamo più volte ha riportato eventi tragici che si sarebbero verificati all’interno del carcere “duro” di Viterbo. Due storie su tutte. Quella di Hassan Sharaf, cittadino egiziano di 21 anni, che il 23 luglio del 2018 si è tolto la vita impiccandosi nella cella di isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, neanche due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Invece non ha retto la pressione di quel luogo. Il ragazzo, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia ha presentato un esposto sulla vicenda di Hassan, sottolineando che il ragazzo aveva riferito di avere “molta paura di morire”. L’altra vicenda emblematica è quella di Giuseppe De Felice che ha denunciato di essere stato massacrato di botte da dieci agenti con il volto coperto, che hanno utilizzato anche una mazza per picchiarlo. Portato in infermeria per qualche ora nessuna si è occupato di lui. Un racconto constatato ancora una volta dal Garante dei detenuti e dal consigliere regionale del Lazio di + Europa, Alessandro Capriccioli, e amplificato dalle parole della moglie del 31enne, che si è rivolta a Rita Bernardini del Partito Radicale. Racconto portato per la prima volta alla luce dalle pagine di questo giornale. Ma Giuseppe e Hassan erano solo la punta dell’iceberg di una violenza quotidiana e sistematica, secondo quanto emerge dalle numerose lettere arrivate nel 2018 ad Antigone. Tanto che il garante Stefano Anastasia non esitò a parlare del Mammagialla di Viterbo come di un carcere punito, in un Paese ‘dove il carcere punitivo non esiste’. A pensare che nel 2019, l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, in risposta a una interpellanza di Riccardo Magi di + Europa, rispose che la Procura stava compiendo accertamenti su tutti i casi elencati e ha sottolineato che l’allora ministro della Giustizia, dopo la pubblicazione dell’articolo de Il Dubbio sui presunti pestaggi, avrebbe subito attivato il Dap per effettuare l’ispezione necessaria previo il nulla osta dell’autorità giudiziaria. Ma essendoci una indagine in corso, ancora non era stato possibile. Da sottolineare che, per quanto riguarda il presunto pestaggio di Giuseppe De Felice, il pm di Viterbo Stefano D’Arma ha chiesto il rinvio a giudizio nel 2020. Ma ritorniamo alla notizia odierna. Tutto parte quando il Pubblico ministero Gennaro Iannarone ha emesso una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, entrambi accusati di un reato previsto dall’articolo 328 del codice penale italiano. I due imputati, rispettivamente Procuratore e della Repubblica e Sostituto presso la Procura della Repubblica di Viterbo, sono stati indagati a seguito di una denuncia presentata dal Garante regionale dei detenuti. L’accusa mossa nei confronti di Paolo Auriemma riguarda il suo ruolo di pubblico ufficiale in qualità di Procuratore della Repubblica di Viterbo. L’imputazione specifica che, l’11 agosto 2018, Auriemma avrebbe indebitamente rifiutato l’iscrizione nel registro delle notizie di reato riguardanti una segnalazione presentata dal Garante. Nonostante emergessero specifiche notizie di reato, Auriemma avrebbe registrato il caso come ‘ fatti non costituenti notizia di reato’ solo il 20 settembre 2021, omettendo di compiere le necessarie indagini sulle presunte violenze subite dai detenuti presso la Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo. Analogamente, Eliana Dolce, in qualità di Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Viterbo, è accusata dello stesso reato. Secondo l’accusa, Dolce avrebbe indebitamente rifiutato di iscrivere nel registro delle notizie di reato le informazioni provenienti dalla denuncia presentata dal Garante per i detenuti del Lazio. Nonostante le specifiche notizie di reato emerse dalla denuncia, Dolce avrebbe mantenuto il procedimento registrato come ‘ fatti non costituenti notizia di reato’ nel registro mod. 45 dall’ 11 agosto 2018 al 20 settembre 2021. Inoltre, Dolce è stata anche accusata di aver omesso di compiere le necessarie indagini sulle dichiarazioni dei detenuti riguardo alle presunte percosse e violenze subite, non presentando alcuna richiesta di archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Nel procedimento, la persona offesa risulta essere anche il ministero della Giustizia, il quale è stato citato per comparire con lo scopo di esercitare la facoltà di costituirsi parte civile per richiedere il risarcimento del danno. Le prove acquisite nel procedimento includono anche le comunicazioni di notizia di reato relative alla querela sporta dai famigliari di Hassan Sharaf, il ragazzo egiziano che presentò lividi di presunti pestaggi e che poi fu ritrovato suicida. Questa querela è stata presentata dall’avvocato di fiducia Michele Andreano del Foro di Roma e allegata agli atti del procedimento. Inoltre, come già detto, un altro elemento di prova rilevante è rappresentato dall’esposto presentato dal Garante delle persone private della libertà della regione Lazio. Tale esposto ha portato all’apertura del procedimento penale nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, in quanto riportava le dichiarazioni di diversi detenuti della Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo che avevano denunciato di aver subito percosse e violenze. L’esposto del Garante dei detenuti costituisce quindi una testimonianza fondamentale per la prosecuzione del procedimento. Ora i due imputati togati dovranno affrontare l’udienza preliminare fissata per il 29 giugno prossimo presso il Gip del Tribunale di Perugia. L’udienza preliminare rappresenta una fase fondamentale del processo penale, durante la quale il giudice valuterà le prove e gli argomenti presentati dalle parti coinvolte per decidere se rinviare il caso a giudizio o archiviarlo. Sarà quindi l’occasione in cui l’accusa e la difesa potranno esporre le proprie argomentazioni e fornire le prove a supporto delle rispettive posizioni. Torino. Cpr: cinque agenti e un medico indagati per sequestro di persona e omicidio colposo di Irene Famà e Giuseppe Legato La Stampa, 25 maggio 2023 Le accuse si riferiscono al suicidio del migrante Moussa che nel maggio 2021 si impiccò all’interno del centro. Picchiato brutalmente a Ventimiglia da tre manovali e poi finito al Cpr di Torino perché senza documenti. Preso a botte anche lì, nel Centro, da altri trattenuti, Moussa Balde, 23 anni, della Nuova Guinea, la notte tra il 22 e il 23 maggio 2021 si è impiccato nella sua stanza. Era in isolamento, nei cosiddetti locali dell’Ospedaletto. Spazi che c’è chi ha paragonato alle “vecchie sezioni di uno zoo”. Dove qualcuno ci ha passato anche duecento giorni. La morte di Moussa ha acceso un faro su quello che era il Centro di permanenza per il rimpatrio più grande del Nord d’Italia. Ora chiuso, temporaneamente, dopo le rivolte dello scorso febbraio. La lunga inchiesta della procura di Torino si chiude così: sei indagati, cinque agenti di polizia e un medico. Accusati a vario titolo di sequestro di persona e falso. E per la morte di Moussa di omicidio colposo. Oltre sedicimila pagine di verbali, documentazione, esposti che raccontano il Cpr di Torino. A iniziare dall’Ospedaletto, settore destinato all’isolamento sanitario, che, secondo i pm, sarebbe stato utilizzato “illegittimamente” per “ragioni di ordine e sicurezza pubblica”, per “periodi decisamente sproporzionati rispetto alle esigenze”. Giorni, settimane, mesi di “una limitazione della libertà di movimento già di per sé illegale”. Quattordici i casi di sequestro di persona contestati. Abdarrahman è rimasto in quei locali i per centosessantadue giorni. Anwer per centosei. Chi decideva lo spostamento all’Ospedaletto? Chi la permanenza? Questioni affrontate durante gli interrogatori a Palazzo di Giustizia. Sotto accusa, con contestazioni differenti, sono finiti Michele Sole, dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Torino e responsabile del servizio di vigilanza interna del Cpr, e gli agenti Francesco Gigante e Giuseppe Gentile. E ancora. Gli ispettori Antonino Di Benedetto e Fabio Fierro e il responsabile sanitario del Cpr, Fulvio Pitanti. Al centro dell’inchiesta l’intera struttura. Un “carcere - non carcere” dove finiscono gli stranieri trovati senza permesso di soggiorno che, così dice la legge, devono essere riportati nei loro Paesi d’origine. Il Cpr di Torino da tanti è stato definito “disumano”. E la consulenza affidata dalla procura al dottor Umberto Fiandra sottolinea una lunga serie di problemi. “L’ambulatorio, i locali attigui e l’Ospedaletto non sono idonei”, si legge nella perizia inserita negli atti d’indagine. I carabinieri del Nas, durante un sopralluogo, hanno trovato “farmaci scaduti, comprese le provette per la raccolta di campioni biologici”. Assenti, poi, tutta una serie di dotazioni previste da regolamento ministeriale: “I mulstix per l’esame delle urine, i test per il controllo salivare dell’Hiv, i test di gravidanza, il carrello per le emergenze”. E l’Ospedaletto, “dodici unità abitative, concepite per isolare le persone, prive di finestre. All’interno non vi sono porte che isolino i servizi igienici dal resto”. Il dottor Fiandra riflette: “Il confinamento all’interno di una struttura senza finestre, arredata in modo spartano con un cortile completamente delimitato da muri e sbarre anche sul soffitto, può influire negativamente sullo stato psicologico di chi vi è recluso”. Eppure gli incontri con gli psicologi erano sporadici. E nel Centro “non c’è un documento o un protocollo per il rischio di prevenzione del suicidio”. E il suicidio, al Centro di corso Brunelleschi a Torino, l’hanno tentato in diversi. Salerno. Il Garante dei detenuti Ciambriello: situazione emergenziale nelle carceri della provincia di Giuseppe Pecorelli Il Mattino, 25 maggio 2023 Samuele Ciambriello, garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, presenta stamane, nel teatro della parrocchia di San Demetrio, la relazione annuale 2022 sulla situazione dei detenuti nelle tre case circondariali di Salerno, Eboli e Vallo della Lucania. I dati: nel complesso sono 545 i ristretti e 219 gli agenti di polizia penitenziaria operativi, pochi rispetto alle necessità. Una popolazione carceraria elevata a cui peraltro non fa fronte un numero adeguato di educatori. Gravi preoccupazioni per la presenza di tanti detenuti con problemi di tossicodipendenza - sono centosettanta - o con diagnosi psichiatrica. “Andrebbero aiutati - spiega Ciambriello - non basta solo custodire, ma occorre includere”. “Tra poco - prosegue - parte la riforma Cartabia, ma se non c’è un aumento di figure sociali e di accudimento, la situazione la vedo drammatica”. Alla definizione di un quadro allarmante fa da contraltare l’imminente inizio di progetti in favore dei detenuti grazie a un investimento nazionale di due milioni e della Regione Campania di trecentomila euro per tutte le carceri del territorio di competenza. Saranno proposti ai detenuti laboratori da seguire sia all’interno delle strutture carcerarie sia all’esterno. Il consigliere e presidente della commissione bilancio della regione Campania, Franco Picarone, ha annunciato consistenti finanziamenti regionali per sostenere progetti di giustizia riparativa e di comunità e a favore dei detenuti senza fissa dimora. Alla presentazione della relazione, condotta in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla vita detentiva, erano presenti tra gli altri anche il procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Salerno Alfano Rocco, il vice procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Salerno Giovani Francesco Fiore e il delegato regionale dei cappellani penitenziari don Rosario Petrone. Piacenza. “Il tempo in carcere non sia sospeso ma ricomponga la frattura creata dal reato” ilpiacenza.it, 25 maggio 2023 Visita di Nessuno tocchi Caino alle Novate e convegno sulla genitorialità in carcere organizzato dall’Osservatorio Carcere dell’Emilia Romagna in collaborazione con la Camera Penale di Piacenza. Bernardini: “Non c’è sovraffollamento ma manca il personal “Le Novate si collocano ben al di sopra della metà classifica in senso positivo e questa posizione dipende in larga parte dalle capacità della direttrice Maria Gabriella Lusi la quale crede nell’individualizzazione del trattamento perché ogni persona è diversa, pensiero questo che i magistrati di sorveglianza dovrebbero tenere in maggior conto”. A dirlo Rita Bernardini ex parlamentare e presidente nazionale di Nessuno Tocchi Caino che nella mattinata del 24 maggio ha visitato la casa circondariale piacentina in un incontro organizzato dall’Osservatorio Carcere dell’Emilia Romagna in collaborazione con la Camera Penale di Piacenza. Nel pomeriggio invece all’Albergo Roma si è svolto un convegno sulla genitorialità in carcere. Le Novate - Bernardini ha snocciolato alcuni dati che riguardano l’istituto piacentino: “Non abbiamo trovato una situazione di sovraffollamento: ad oggi ci sono 348 detenuti su 416 posti, quasi tutti sono “comuni” tranne le 18 donne in regime di alta sicurezza “tre” e una donna in alta sicurezza “due”. Il 75% dei 348 è straniero, 284 stanno scontando pene definitive, 35 sono imputati, 8 appellanti e 18 ricorrenti in Cassazione, 114 sono senza fissa dimora, e i giovani adulti sono 20 (età tra i 18 e i 25) ma sono in aumento almeno le persone fino ai 30 anni. Ci sono infine 190 tossicodipendenti, 15 trattati con terapia sostitutiva”. Ci sono anche svariati aspetti positivi: “Abbiamo trovato vuote le celle di isolamento così come quelle di transito (dedicate agli arrestati) e 120 detenuti lavorano e si occupano di tutti i lavori domestici (cucina, pulizia, manutenzione), ci sono corsi di formazione, la gestione dell’orto e ora anche la trasformazione di prodotti agricoli come miele e marmellate. Molti detenuti sono estremamente poveri e la direzione ha previsto sussidi per piccole necessità come una telefonata”. E ancora: “Ovviamente c’è un presidio medico h24 con 9 medici e più di 20 infermieri e un Sert interno, anche se non ci sono le condizioni per uno spazio dedicato al servizio psichiatrico. All’interno operano quattro operatori su sei previsti, ma queste - dice - sono disfunzioni centrali che non dipendono dal carcere”. Il personale - Bernardini e l’associazione ciclicamente visitano le carceri italiane per “rendersi conto delle reali condizioni degli istituti”. I problemi delle Novate riguardano il personale, come da sempre detto dai sindacati della polizia penitenziaria: “I problemi ci sono sulla carenza di personale e in particolar modo nelle figure apicali, qui ci dovrebbero essere 3 funzionari e invece c’è solo una comandante, gli ispettori dovrebbero essere 28 e sono 12, i sovrintendenti dovrebbero essere 39 e sono 5. Su una pianta organica totale di 250 persone previste ce ne sono sole 213, c’è anche carenza di personale amministrativo”. Genitorialità - “Uno degli aspetti centrali dell’intervento pedagogico è quello di scommettere affinché il tempo carcere sia un tempo anche per ricostruire il sé e i rapporti con la famiglia o il proprio ruolo di figlio e questo è un approccio professionale rivolto a tutti i detenuti. Al tema genitorialità - ha spiegato la direttrice della Novate, Lusi - dedichiamo azioni specifiche: dal 2020 con l’associazione Verso Itaca, che interpreta il bisogno che questo carcere esprime, dedichiamo progetti ad hoc. Negli ultimi anni attraverso il lavoro del comitato locale per l’esecuzione penale per gli adulti che si riunisce in comune, destiniamo una parte delle risorse a questi percorsi di genitorialità”. “Si tratta - ha proseguito - di incontri di gruppo a cura di Verso Itaca che affiancata da genitori liberi incontra i papà in carcere, e lo fa condividendo lo strumento della scrittura narrativa”. “Oltre a questi i detenuti incontrano i figli in spazi idonei interni come ludoteca e in spazi esterni dove ci sono anche dei giochi, per quanto ritenga che l’incontro genitori-figli necessiti di un’esclusività anche per i tempi stretti: un’ora a settimana. Il fine è che il periodo carcere non sia un tempo sospeso ma che porti quel cambiamento che serve per ricomporre la frattura che il reato ha segnato tra lui e la società, la famiglia e se stesso. Su questo filone stiamo organizzando anche una partita di calcio con i papà e bambini”. “I detenuti spesso sono papà o mamme e questo è un aspetto che purtroppo non viene considerato abbastanza. Se ne parla spesso ma si fa fatica a riconoscere la figura del genitore accanto a quello di una persona detenuta”. Lo ha detto l’avvocato e referente dell’Osservatorio Carcere Emilia-Romagna, Romina Cattivelli introducendo i lavori del convegno: “Quando un genitore ha una misura restrittiva, che cosa pensano i loro figli che a loro volta si trovano sottoposti a questa restrizione? Accade che la misura non sia solo nei confronti di una persona ma di tutta la famiglia che di necessità si ritrova a subire senza responsabilità. Dove c’è un bambino c’è un padre, ma se questo si trova in carcere parliamo affettività e carcere, si tratta di un binomio impossibile?”. La nota della Camera Penale - La Camera Penale di Piacenza e il suo Osservatorio Carcere sono lieti della visita da parte dell’associazione nazionale Nessuno Tocchi Caino, alla Casa Circondariale delle Novate. Il tema del carcere è troppo spesso relegato alla marginalità della società, come se la stessa non debba occuparsene e fosse solo un fastidioso luogo dove circoscrivere, non solo i fallimenti personali, ma anche quelli sociali. Invece sono proprio le mura, da un lato l’epilogo di errori e scelte sbagliate delle persone, dall’altro il punto di ripartenza, la possibilità di riscatto. Senza l’impegno costante per la rieducazione - ma sarebbe preferibile dire per la risocializzazione delle persone che hanno commesso crimini - lo Stato, e quindi noi, si allontana dai principi costituzionali dello stato liberale. E’ autorevole uno Stato che scommette anche su questi cittadini, a volte perdendo ma talvolta riuscendo nel recupero delle persone; è invece autoritario e privo di prospettiva uno Stato che punisce per il solo fine di punire un crimine. E’ autorevole, nonché liberale, uno Stato che infligge sì una giusta pena al criminale, ma non gli toglie la dignità; è invece autoritario e ingiusto uno Stato che infligge una pena, trattando il detenuto in modo inumano e degradante. Umanità e dignità sono valori irriducibili di ogni uomo anche se colpevole. E’ compito precipuo delle istituzioni assicurare il pieno rispetto della persona del colpevole la quale è un fine in sé non strumentalizzabile in nome della prevenzione dei reati. Queste parole si leggono nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo redatto dall’Unione delle Camere penali italiane. Nella nostra realtà territoriale la Camera Penale si sforza di tenere viva l’attenzione sul tema carcere, lo fa visitando annualmente il carcere delle Novate, lo fa tenendo un costante contatto con la direzione dell’istituto penitenziario, lo fa monitorando la giustizia di sorveglianza, lo ha fatto anche recentemente partecipando all’organizzazione del convegno sullo spinoso tema del 41 bis. La Casa Circondariale di Piacenza non molti anni fa, fu uno degli istituti italiani, per le cui condizioni inadeguate l’Italia fu condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (la c.d. sentenza Torreggiani). Rispetto ad allora progressi sono stati fatti e le condizioni carcerarie sono sensibilmente migliorate. Tuttavia, la strada del miglioramento ha ancora un lungo pezzo da essere percorsa. Torino. Il lavoro come chiave del reinserimento sociale di ex detenuti e detenute di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 25 maggio 2023 In carcere, dicono, il tempo sembra non passare mai. Ma alla fine, il momento di varcare i cancelli e riprendere il proprio posto in un mondo che magari è nel frattempo molto cambiato, arriva per tutte e tutti. Il tema della funzione rieducativa del carcere, esplicitamente prevista dalla Costituzione, torna costantemente nel dibattito politico e culturale di questo Paese, scontrandosi con una situazione del sistema carcerario nazionale a dir poco critica. L’avviamento al lavoro, dentro i luoghi di pena ma soprattutto una volta tornati in libertà, è uno degli elementi fondamentali per evitare le ancora troppo numerose “recidive”, ovvero il tornare a delinquere, così come per favorire il rientro nel mondo “fuori” di persone le quali, talvolta rimaste in prigione per lunghi periodi, scontata la pena trovano difficoltà a ottenere un reinserimento che richiede in primo luogo un lavoro. Nelle diverse realtà carcerarie, in accordo con i direttori e direttrici, nonché con il Ministero della Giustizia e gli enti locali territoriali, operano molteplici associazioni e soggetti del Terzo Settore, che cercano di offrire servizi e opportunità a detenuti e detenute. Tra queste c’è la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, attiva in ambito penale da circa mezzo secolo, il cui direttore della formazione Martino Zucco-Chinà è stato oggi invitato ad una riunione congiunta delle commissioni Legalità e Lavoro, presiedute rispettivamente dai consiglieri Luca Pidello e Pierino Crema. nell’ultimo decennio, ha spiegato Zucco - Chinà, la Fondazione ha offerto formazione professionale a più di 5000 persone incarcerate in dodici penitenziari del Piemonte, il 40% delle quali sono state poi inserite in percorsi lavorativi presso varie aziende del territorio. A Torino, la Fondazione opera presso il carcere circondariale “Lorusso e Cutugno” e nell’istituto penale minorile “Ferrante Aporti”, erogando 4900 ore di corso che coinvolgono 160 detenuti (punto dolente è la sezione femminile del carcere, priva di spazi adeguati per queste attività). Vari gli ambiti di attività: in primo luogo, la formazione professionale nei settori manutenzione verde, ristorazione, edilizia, sartoria (ma quanto servirebbe, secondo la Fondazione, avere nelle carceri spazi e attrezzature per formare meccanici e operai specializzati, tanto richiesti dalle aziende piemontesi!). Ci sono poi, complementari alla formazione, i servizi di orientamento e inserimento lavorativo (ad esempio il progetto LEI, Lavoro Emancipazione inclusione, rivolto ogni anno a una cinquantina di donne in carcere) e infine l’innovazione sociale, ovvero lo sviluppo di metodologie e contesti adeguati a un contesto in continuo cambiamento. La Fondazione Casa di Carità, è stato spiegato, fa parte del consorzio nazionale OPEN, che raccoglie gli enti che si occupano di formazione e inserimento sociale di persone detenute o uscite dal carcere in Piemonte e in altre cinque regioni del Paese. La Spezia. Ripartire dopo il carcere: percorsi di inserimento fra formazione e lavoro La Nazione, 25 maggio 2023 Rinnovato il patto sociale con Mondo Nuovo, Caritas, Isforcoop e Comune “Verranno impegnati in attività utili nel mantenimento del decoro urbano”. Continuare a creare percorsi di accoglienza, orientamento, formazione e inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti del penitenziario della Spezia. Si rinnova il patto sociale che vede protagonisti Mondo Nuovo Caritas, Isforcoop, e Comune della Spezia per incentivare la formazione di percorsi di inclusione socio lavorativa e orientamento professionale. Un progetto che nel corso di questi anni ha coinvolto diverse categorie di destinatari, tra i quali detenuti ed ex detenuti che hanno potuto inserirsi nel mondo del lavoro, soprattutto nell’ambito della manutenzione delle aree verdi situate nel territorio comunale: inserimento nel mondo del lavoro che ha previsto anche una formazione specifica dei soggetti coinvolti e che ha portato buoni risultati dal punto di vista dei progetti individuali di inclusione. Lo scorso anno, il Comune ha avviato una collaborazione con Villa Andreino, avvalendosi delle attività di reinserimento lavorativo delle persone detenute sulla base di un programma articolato in interventi di cura e manutenzione degli spazi urbani, che ha previsto interventi in numerosi quartieri della città. “L’attenzione di questa amministrazione verso le fasce più deboli della popolazione continua a rimanere alta e uno degli obiettivi è quello di integrare e reinserire più persone possibili nel mondo del lavoro - afferma il sindaco della Spezia, Pierluigi Peracchini - Con questo progetto vogliamo impegnare cittadini che provengono da situazioni di disagio, come detenuti ed ex detenuti, in diverse attività di pubblico interesse che, oltre a formare nuovi professionisti, sono utili nel mantenimento del decoro urbano. Questa sinergia tra l’amministrazione, la Caritas, la Casa circondariale della Spezia e Isforcoop hanno portato negli anni ottimi risultati e li ringraziamo per prendere parte ancora una volta a questo progetto; dare fiducia e dignità a chi è stato più sfortunato è un modo per contribuire a creare una comunità più umana, solidale e vera”. “I percorsi avviati con Caritas, Isforcoop e la Casa Circondariale della Spezia - aggiunge l’assessore al Lavoro Patrizia Saccone - hanno dimostrato in questi anni di essere una risposta importante per la nostra comunità sia come occasione di reinserimento sociale di alcuni soggetti fragili sia come interventi di pubblica utilità per la manutenzione e il decoro della nostra città. Sono state recuperate e rese più sicure aree verdi in molti quartieri della città, dal Canaletto a Pegazzano, da Rebocco a Fossitermi. I detenuti hanno contribuito anche al recupero di aree inserite nel progetto La Spezia Forte, contribuendo al ripristino di alcune aree quali quelle adiacenti Porta Castellazzo ed il Parco Navarrini a Gaggiola”. Milano. Quando il carcere esce dalle sbarre di Sara E. Tourn riforma.it, 25 maggio 2023 Un progetto artistico con il carcere di Bollate approda domani 25 maggio alla libreria Claudiana di Milano affiancando una mostra a un concerto e un dibattito sulla città come spazio di rieducazione e confronto. “Portare fuori un po’ di quello che c’è dentro”: questo potrebbe essere il motto del progetto che collega il carcere di Bollate e la chiesa valdese di Milano. Il trait d’union è Paola Baldassini, artista e membro della chiesa e volontaria, da un paio d’anni, nella casa di reclusione: “Dopo avere insegnato al liceo artistico, ho pensato di utilizzare il “tempo ritrovato” con la pensione non solo per approfondire le mie ricerche, ma facendo del volontariato”, ci racconta. “Ho sempre creduto che il confronto con la propria creatività sia uno spazio di grande libertà e quindi poterlo proporre a persone che al momento sono private della loro libertà, mi è sembrato qualcosa di utile, di sostegno per loro”. Bollate è una casa di reclusione all’avanguardia, ci spiega Paola, con una ricca offerta di attività, anche lavorative: c’è un ristorante, dei call center, un vivaio, e da una decina d’anni si tengono laboratori artistici a cura dell’Accademia di Brera (che invia anche i tirocinanti del corso in Terapeutica artistica di Brera), a cui si è affiancata da 7-8 anni l’associazione “Le belle arti” formata da artisti ed ex docenti. Il quarto reparto, che raccoglie detenuti per reati molto diversi, che avrebbero vita difficile altrove (o per il reato commesso, o perché sono poliziotti o avvocati) è ancora più avanzato, ha degli spazi dove realizzare attività artistiche, non solo “ricreative” ma anche ai fini della preparazione agli esami di ammissione all’Accademia o all’idoneità alla maturità artistica. “L’ottica è quella di una riqualificazione del tempo, qualcosa che noi non riusciamo a immaginare. Tra le opere realizzate per la mostra, una è il quadrante di un orologio, con la frase di un detenuto, “in carcere il tempo non ha premura”, che esprime che cosa vuol dire passare un tempo tutto uguale dietro le sbarre. Riqualificarlo con attività di studio o di lavoro è fondamentale”, come lo è la “riqualificazione degli spazi comuni attraverso colori, immagini, facendo sì che chi ci vive e ci lavora li senta meno estranei”. L’idea alla base dell’iniziativa è stata, spiega Paola, “formare una coppia artista/detenuto che interagendo componesse un unico lavoro (immagine, scultura o quadro). Ognuno di noi ha lavorato con più persone. La parola che meglio esprime questa proposta, e tutta l’iniziativa che inizia il 25 maggio, è condivisione. Suonare a 4 mani è un’esperienza di condivisione indubbiamente, in modo analogo la realizzazione di un’opera comporta la condivisione di capacità, emozioni, esperienze, tempo, espressioni della propria creatività. E poi c’è la condivisione con chi ascolta o guarda”. Dal laboratorio artistico si è infatti pensato di realizzare una mostra: la proposta è stata accolta dal Concistoro della chiesa valdese che ha messo in campo un piccolo team formato, oltre che da Baldassini, da Floriana Bleynat (docente di arte in pensione) e Marta Buti (avvocata) dando origine a “Quando il carcere esce dalle sbarre”: all’esposizione delle opere (dal 25 maggio al 4 giugno negli orari di apertura della libreria Claudiana) sarà affiancato un concerto a quattro mani nel giorno dell’inaugurazione, domani giovedì 25 maggio alle 18 (Sala Claudiana, via Sforza 12/A), a un dibattito mercoledì 31 maggio alle 18, sempre in sala Claudiana). Questa mostra è la seconda occasione di “portare fuori” qualcosa del mondo del carcere, racconta Paola, segue la mostra realizzata a dicembre al Passante ferroviario della stazione Garibaldi, con 18 installazioni “in cui abbiamo parlato degli “spazi chiusi” delle nostre esistenze, non soltanto il carcere ma l’isolamento, la vecchiaia”. E continua: “Siamo convinti che il confronto sia un’opportunità di arricchimento reciproco: il carcere è una situazione pesante, anche per chi lo vive occasionalmente, è un mondo molto lontano dal nostro quotidiano, ma umanamente ricchissimo. È importante portare fuori dal carcere qualcosa di quel “dentro”, che tutti sappiamo che c’è, ma ci è comodo dimenticare. Il pensiero è “Io ne sono fuori, non c’entro”. Come società spesso abbiamo la sensazione che con il carcere “giustizia è stata fatta”, che abbiamo fatto il nostro dovere e basta così. E invece no: occorre cambiare prospettiva. C’è una frase di un detenuto che mi ha colpito tanto: un conto è essere una persona che ha commesso un reato, un’altra è essere visto come un reato che cammina. Spesso non vediamo delle persone, con le loro storie, che hanno fatto degli errori, ma solo i loro reati… Condividere questi percorsi di vita mi fa molto bene, a volte ricevo (simbolicamente) dei gran ceffoni che mi riportano alla realtà, una realtà completamente diversa dalla mia, di persona privilegiata”. Con questa iniziativa e in particolare il dibattito si vuole presentare la città come spazio di rieducazione e di incontro, una riflessione sulle possibilità di dialogo tra il dentro e il fuori: ne parleranno la vicesindaca Anna Scavuzzo e il vicepresidente della Commissione carceri Alessandro Giungi, entrambi del Comune di Milano, moderati da Marta Buti. Racconta ancora Paola Baldassini: “C’è una cosa che mi ha impressionata, entrando nel carcere: tutto quello che viene da fuori, dalla mia faccia al sacchetto di biscotti che porto, assume (in quanto esterno) un valore particolare. Quando “arrivano gli esterni” è una festa, in questo loro quotidiano allucinante. Ma questo confronto aiuta loro e noi”. E c’è un’altra frase di un detenuto, Giacomo Spinelli, che Paola porta sempre con sé, scritta sulla rivista del carcere (Carte Bollate), che aveva definito l’esperienza del Passante della stazione Garibaldi “un piccolo passo avanti per riappropriarsi un po’ di fuori per chi sta dentro, ricomponendo forse la drammatica frammentazione degli spazi mentali alla quale ogni detenuto è quotidianamente sottoposto. In questo caso il carcere non cessa di essere un luogo di reclusione ma dialoga col mondo esterno, che rimane spazio interiore di tutti noi. Se la pratica artistica come strumento di evasione è cosa ben nota, l’interazione che essa riesce a creare tra un luogo chiuso e uno aperto è molto di più, perché per il recluso è una crescita improntata alla scoperta del sé e delle proprie capacità immaginative mentre chi è fuori può cercare quella sensazione di empatia che purtroppo spesso oggi sembra mancare”. Un’empatia che si è creata nel gruppo, ormai sempre più affiatato, smussate le difficoltà iniziali e approfondendo la conoscenza reciproca, che per questo progetto ha coinvolto una dozzina di detenuti e altrettanti esterni (compresi tre tirocinanti di Brera), e porterà ad altri progetti, come la decorazione della nuova biblioteca del terzo reparto. Milano. Pestaggio della trans: in quel filmato scene di tortura, da fascisti difendere gli abusi di Ilaria Cucchi La Stampa, 25 maggio 2023 Provo vergogna per le giustificazioni di quella violenza. Supplico la destra: basta legittimare la sopraffazione. È seduta sul marciapiede. Alza le mani. Ma “fa resistenza” dicono. “È in stato confusionale”, aggiungono. Gli agenti sono in quattro e la colpiscono ripetutamente mentre cerca di difendersi dal dolore delle manganellate, cui seguono lo spray al peperoncino e i calci. Tanti, troppi calci mentre lei è ferma, immobile e innocua. Stesa sull’asfalto senza costituire un pericolo per nessuno. Quel video dura troppo. Guardo le immagini inorridita. Mi vergogno per quanto stanno facendo quegli agenti che, così, infangano ancora una volta la divisa che portano. Le violenze vengono inflitte a intervalli. A freddo e senza una reazione della malcapitata. Provo tanta rabbia per quanto sono costretta a vedere. Ma, se possibile, mi indignano ancor di più le giustificazioni a difesa di un’operazione così criminale. “È un trans brasiliano”, si affrettano a dire le cosiddette fonti ufficiali. “Era in stato confusionale e aveva tentato di denudarsi davanti a una scuola”, continuano. Quindi? Io mi chiedo. Si deve trattare in questo modo “un malato psichiatrico transessuale brasiliano”? Va bene tutto questo? Non mi fido delle cosiddette versioni ufficiali della prima ora. Ho tanta esperienza in materia, ma non è questo il problema. Parlare di rispetto di diritti umani di fronte a quelle immagini suona terribilmente inadeguato. Persino stucchevole. La reazione di sdegno deve essere unanime. Non si tratta di criminalizzare il corpo dei vigili urbani di Milano o di tutte le altre città ma di difenderne il prestigio e l’onore. Tortura è il nome che dobbiamo dare a quanto è accaduto e documentato in quelle terribili immagini. Non conta nulla quanto possa essere accaduto prima ma solo quella terribile sequenza di colpi che vengono inflitti a freddo, senza, cioè, una reale colluttazione, alla vittima inerme e indifesa che li subisce tutti senza nemmeno rendersi conto del perché. Provo dolore per le prese di posizione dei colleghi della maggioranza. Voglio rivolgere loro un appello con tutto il cuore: abbandonate, vi prego, ogni tentazione di cedere alla propaganda ignorante, quella che parla alla pancia della gente. Rivedete le vostre posizioni, vi supplico. Riaffermate lo Stato di diritto perchè siete al governo. Siete il governo dell’Italia! Non legittimate la sopraffazione del potere sui diritti dei più deboli, dei diversi, degli ultimi. Vogliamo forse col Pnrr costruire una grande rupe Tarpea dalla quale gettare nel baratro tutti i cosiddetti “diversi”? Prima di parlare a vuoto guardatevi bene quelle immagini perché, se non ne saprete riconoscere il dolore dell’abuso di Stato, arrivando a giustificarle, legittimandole, allora, sì, potrete essere chiamati fascisti. Vi ho chiamati colleghi ma, forse, non lo siete. Io, in fin dei conti, sono solo una normale cittadina che ha avuto la sfortuna di fare tanta esperienza in merito. Non fatemi paura, vi prego. Genova. Un murales dipinto dai detenuti e una mostra aperta al pubblico su Keith Haring di Silvia Isola primocanale.it, 25 maggio 2023 C’è un po’ di emozione e tanto orgoglio per i detenuti che stanno prendendo parte al progetto: “Questa per noi è un’esperienza bellissima che ci fa anche rilassare un po’, ci fa sempre piacere quando abbiamo l’occasione di fare questi lavori”. Una mostra aperta al pubblico all’interno di un carcere e un murales dipinto dai detenuti sul muro di cinta. Sembrava una sfida impossibile quella lanciata da Teatro Necessario, la onlus che dal 2005 opera all’interno della casa circondariale di Genova Marassi portando in scena ogni anno uno spettacolo teatrale al di fuori del carcere assieme ai detenuti, alla direttrice Tullia Ardito. Eppure, oggi si può dire che il sogno è diventato realtà: fino al 29 maggio sono in mostra alcune opere di Keith Haring, in un allestimento aperto al pubblico due volte al giorno dalle ore 9 alle 12:00 e dalle ore 17:00 alle ore 20:00, previa prenotazione online (clicca qui). E intanto, mentre i visitatori possono ammirare alcuni quadri del famosissimo street artist statunitense all’interno del Teatro dell’Arca, i detenuti sono all’opera per realizzare un murales che prende ispirazione proprio da uno dei quadri di Haring e che cresce sempre più in fretta. E due detenuti, invece, fanno da Cicerone, spiegando al pubblico il progetto, la storia dell’artista e alcune curiosità sulle opere. “E’ stata un’idea un po’ folle: siamo stati contattati da questa organizzazione ELV Culture of Innovation di Milano, che ci ha proposto una mostra nel Teatro dell’Arca proprio perché si tratta di un artista così singolare, abituato a lavorare negli spazi di periferia, nelle metropolitane e quindi il carcere sembrava il luogo più adatto per esporre le sue opere”. A raccontare il progetto a Primocanale è Mirella Cannata, presidente dell’associazione Teatro Necessario. “Sembrava già impossibile così, anche perché dovevamo avvalerci dell’aiuto della polizia penitenziaria. Ma la direzione ci ha appoggiati e volevamo che però fosse anche una bella occasione per coinvolgere i detenuti: quattro di loro, coordinati dalla sezione decorativa di dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, stanno realizzando un murales ispirato proprio all’artista”. Spiccano gli omini colorati così riconoscibili nati dalla fantasia del pittore di fama internazionale, che sognava la sua arte come “arte per tutti” e che potrebbe dirsi felice di vedere prendere vita un’opera come questa all’interno di un carcere. Al centro del murale il teatro al posto della tv che solitamente è uno dei soggetti ricorrenti in Keith Haring. Questo per celebrare l’Arca, dove ogni anno non soltanto avvengono le prove dello spettacolo da portare in scena ad aprile in uno dei teatri cittadini, ma anche i laboratori di scenotecnica e da qualche anno anche una stagione teatrale vera e propria, con un cartellone aperto sia al pubblico esterno, sia ai detenuti. E proprio Naim ed Erat hanno preso parte a Riccardo III nel dietro le quinte e oggi, pennelli alla mano, stanno abbellendo il muro di cinta del penitenziario. C’è un po’ di emozione e tanto orgoglio, testimoniato anche dalle magliette indossate da tutti e realizzate dai detenuti dell’alta sicurezza, un altro laboratorio del terzo settore attivo da anni che offre opportunità anche per il futuro, per il “dopo” la detenzione. E poi comunque sono esperienze che “cambiano”, che lasciano un segno, ci raccontano i detenuti. Come il murales. “Quest’esperienza è unica a livello nazionale”, tiene a sottolineare la direttrice Tullia Ardito, a poco più di un anno dal suo arrivo a Marassi. “Ci è sembrato subito un progetto che potesse lasciare un ricordo tangibile nei detenuti, ma anche per la polizia penitenziaria e per la città”. “La prima reazione dei detenuti a questo murales? Grande stupore, ma sono molto contenti di partecipare, anche perché iniziative come queste permettono di mettere in contatto i detenuti con il mondo esterno e di far sentire loro meno la solitudine durante il periodo di detenzione. Scopo di questi laboratori è sempre quello di avvicinare nuovamente chi sta scontando una pena alla società. Anche perché la vita all’interno della casa circondariale è complessa e - nonostante sia passato un anno - per la direttrice le richieste per Roma restano le stesse: “Chiediamo risorse sia economiche sia anche in termini di personale”. Brescia. Dal carcere con l’arte per integrarsi di Federica Pacella Il Giorno, 25 maggio 2023 Integrare la realtà carceraria e la società civile attraverso l’arte. Compagnia Lyria, con la direzione artistica di Giulia Gussago (foto), lo fa da anni con il suo progetto Carcere Verziano che, per l’anno di Capitale Italiana della Cultura, diventa “StraOrdinarie visioni #dodici anni di carcere”, in collaborazione con il Ministero della Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia. Obiettivo è valorizzare il progetto che, ogni anno, propone laboratori di teatro, arte visive, musica, canto nel carcere bresciano, dando vita a produzioni video e azioni performative con la partecipazione di detenute, detenuti e liberi cittadini: un concreto contributo all’operazione di recupero del senso degli Istituti Penitenziari come luoghi che interagiscono con la collettività. StraOrdinarie visioni si sposta a palazzo Mo.ca, che ospita la manifestazione fino al 28 maggio. Ieri pomeriggio, all’InformaGiovani, si è svolto Volti e voci # 02, conversazione con Grazia Isoardi, direttore artistico dell’Associazione Voci Erranti, e Valeria Ottolenghi, critico teatrale e giornalista, entrambe esponenti del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, a cui Compagnia Lyria aderisce. Oggi, invece, dalle 9 alle 13 in Sala Danze, si svolgerà il convegno “Giustizia rigenerativa. I linguaggi dell’arte in carcere” organizzato insieme all’Ordine degli Avvocati di Brescia, e incentrato sulla molteplicità dei linguaggi artistici proposti all’interno degli istituti penitenziari, in particolare di Brescia e di Bergamo. Inoltre, fino al 28 maggio a Macof è visibile la mostra fotografica “Nell’ombra la luce. Nell’ombra vedere”, mostra fotografica di Daniele Gussago. I soggetti, detenuti e liberi cittadini, sono ritratti durante le attività creative promosse all’interno del carcere e gli spettacoli rappresentati in diversi spazi urbani. Rapporto Eurispes, un Paese diviso che guarda al futuro di Valentina Stella Il Dubbio, 25 maggio 2023 Sicurezza, economia, carcere, temi etici, politica: ecco la nuova fotografia della società italiana. Presentato ieri il 35esimo Rapporto Italia dell’Eurispes. Molti i temi affrontati. Carceri. Si fornisce una fotografia degli istituti penitenziari in Italia, per regione, con un Focus sull’accesso alla salute, usando come fonti il ministero della Giustizia e l’osservatorio Antigone. Al 28 febbraio 2023 si contano 56.319 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51285. Il tasso di sovraffollamento è vicino al 110%. La Lombardia ha i tassi di affollamento più alti della Penisola, superando il 150% di capienza massima in sei carceri sulle undici visitate da Antigone. Nel 90% dei casi non esiste un’articolazione per i detenuti con infermità mentali. La delittuosità in Italia negli anni della pandemia. Rispetto al 2021 l’aumento dei reati nel 2022 ha riguardato, in particolare, i furti (+17,3%), le estorsioni (+14,4%), le rapine (+14,2%), le violenze sessuali (+10,9%), la ricettazione (+7,4%), i danneggiamenti (+2,9%) e le lesioni dolose (+1,4%); risultano, invece, in diminuzione lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile (- 24,7%), l’usura (-15,8%), il contrabbando (-10,4%), gli incendi (- 3%) e i danneggiamenti seguiti da incendio (-2,3%). Nel 2022, inoltre, sono stati commessi 314 omicidi volontari rispetto ai 304 del 2021 (+ 3%). Nel 2022, risultano 650.714 segnalazioni riferite a persone denunciate in stato di libertà, delle quali 219.742 relative a stranieri e 29.547 a minori; le segnalazioni riferite a persone arrestate sono 143.188, delle quali 51.284 relative a stranieri e 4.176 a minori. Di interesse il dato relativo alle segnalazioni riferite ai minori denunciati e/o arrestati, che negli ultimi quattro anni ha fatto registrare un andamento tendenzialmente crescente: nel 2021 sono stati 30.405 (+15,7% rispetto al 2020) e 33.723 nel 2022 (+10,9% rispetto al 2021). Nell’ultimo anno sono stati registrati 314 omicidi, con 124 vittime donne, di cui 102 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Temi etici. Il 67,9% degli italiani è favorevole all’eutanasia (-7% rispetto al 2022), il 68,8% sostiene il testamento biologico (erano il 69,3% lo scorso anno). Rispetto alla possibilità di ricorrere al suicidio assistito gli italiani a favore rappresentano il 50% (erano il 41,9% nel 2022; 42,4% nel 2021; 45,4% nel 2020 e soltanto il 39,4% nel 2019). Il 58% degli italiani si dichiara a favore della fecondazione eterologa, in aumento rispetto al 2022 (56,9%); poco meno di 4 italiani su 10 si dichiarano invece a favore della maternità surrogata (39,5%). Per quanto riguarda la legalizzazione delle droghe leggere, meno della metà degli italiani si dichiara a favore (47,9%); un dato simile si rileva per la legalizzazione della prostituzione (45,7% dei cittadini favorevoli). La tutela giuridica alle coppie di fatto indipendentemente dal sesso vede favorevole il 64,1% degli italiani, mentre la possibilità di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso raccoglie il 59,2% delle indicazioni favorevoli e la tutela giuridica delle coppie di fatto trova d’accordo il 64,1% dei cittadini. Nel 2019 ad essere a favore dell’adozione dei bambini anche per le coppie omosessuali erano il 31,1% degli italiani, oggi sono il 50,4%. Fiducia nelle istituzioni. Secondo i dati raccolti, il Presidente della Repubblica raccoglie la fiducia espressa dalla maggior parte dei cittadini (52,2%). L’attuale Governo raccoglie un terzo (34,3%) dei fiduciosi. La Magistratura è al 41% dei consensi, il Parlamento al 30%, i Presidenti di Regione al 34,8%. Si dicono fiduciosi nella Guardia di Finanza il 55% circa dei cittadini, il 52,8% ha fiducia nella Polizia di Stato, il 52,7% nell’Arma dei Carabinieri. Riforme istituzionali. Il 51,9% degli italiani vuole l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e caldeggia l’autonomia delle Regioni (56,1%). Per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica si dicono favorevoli poco meno della metà degli italiani (48,3%). Gli italiani e le questioni ambientali. Secondo il Rapporto Coop 2022, la prima preoccupazione degli italiani, oggi e per il futuro, è l’emergenza ambientale insieme alla crisi climatica (39% del campione intervistato). Verso il superamento della medicina difensiva. A cinque anni dall’entrata in vigore della legge Gelli, la norma sembra aver raggiunto alcuni degli obiettivi prefissati. il dato di maggiore rilevanza è che i medici non risultano essere personalmente coinvolti nel 70,3% dei casi, mentre lo sono nel 29,7%. Onlyfans. Il nuovo fenomeno del web arriva anche in Italia OnlyFans è un social spesso oggetto di critica da parte dei media poiché associato alla mercificazione della pornografia. Amatissimo negli Stati Uniti e più in generale nei paesi di lingua inglese, mentre deve ancora affermarsi nel resto del mondo, Italia compresa. Per l’Italia non sono disponibili statistiche ufficiali se non quelle pubblicate da Google trends, che mostrano l’interesse suscitato da Onlyfans anche nel nostro Paese A partire dal 2020. Fino a quell’anno le ricerche del sito o di informazioni su di esso erano praticamente nulle; a partire dal marzo del lockdown l’interesse ha iniziato costantemente a crescere, raggiungendo il picco proprio nei primi mesi del 2023, differentemente da quanto accaduto in altri Paesi dove il maggior interesse si è registrato nel pieno della pandemia. Le dichiarazioni del Presidente Eurispes Gian Maria Fava. “Il Governo oggi è chiamato a far funzionare l’Italia, non solo ad esercitare il diritto di guidare il Paese che gli è stato affidato con le elezioni: ha, insieme, il dovere di far funzionare un intero apparato. In questo quadro, più che abbandonarsi ad inutili polemiche, se si vogliono affrontare i veri problemi del Paese occorre recuperare un costruttivo confronto tra maggioranza e opposizione superando la logica del conflitto ad ogni costo. Insomma, occorre finalmente passare dal “contro” al “per”. Un orientamento che, a nostro avviso, richiede il “dovere di avere coraggio”. Tra questo “il coraggio di portare a termine una vera riforma della giustizia che riporti nelle Aule i diritti dell’imputato in termini di garanzie e di giusta durata del processo”. “L’Italia è un paese sicuro, basta con la demagogia sulle paure della gente” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 maggio 2023 Il dirigente della Polizia di Stato Stefano Delfini commenta l’indagine Eurispes sulla criminalità reale e percepita. Osservare e comprendere i fenomeni. Sono i capisaldi del Servizio analisi criminale presso la Direzione centrale della Polizia criminale, diretto da Stefano Delfini. Il dirigente della Polizia di Stato ha illustrato nei giorni scorsi l’indagine dal titolo “La criminalità tra realtà e percezione”, realizzata con Eurispes. “Il rapporto elaborato con Eurispes - dice al Dubbio Stefano Delfini - evidenzia come la criminalità e l’azione di contrasto messa in campo dalle forze di polizia sono percepiti dai cittadini e come questa percezione muta nel tempo per livello culturale, aree geografiche, sesso e fasce d’età. Focalizzare tutto ciò ci aiuterà nelle nostre quotidiane attività di analisi e di supporto all’autorità nazionale di pubblica sicurezza”. Delfini si sofferma su un aspetto ben preciso: la percezione della sicurezza. “Condiziona - afferma - i comportamenti dei cittadini e le forze di polizia devono poterne tener conto. Il rapporto evidenzia che viviamo in un paese sostanzialmente sicuro: negli ultimi anni i cittadini italiani percepiscono le città in cui vivono come più sicure rispetto al passato. L’indagine demoscopica ha evidenziato un decremento dei cittadini che valutano poco sicura la città-località in cui vivono, in favore di quanti la giudicano abbastanza sicura e aumentano, seppur di poco, anche gli intervistati che rispondono di vivere in un luogo molto sicuro”. Dottor Delfini, il rapporto realizzato con l’Eurispes, offre un quadro chiaro su quanto accade in Italia. È stata avviata una collaborazione che unisce competenze diverse? In primo luogo vorrei ricordare che il rapporto si inquadra nell’ambito di una collaborazione che è stata formalmente sancita con la stipula di un protocollo di intesa. L’accordo prevede lo scambio di conoscenze e di dati e ha il fine di analizzare fenomeni criminali anche nell’ottica di cogliere i segnali di cambiamenti della nostra società. In particolare, lo studio pone a confronto i dati della delittuosità riferiti agli ultimi anni e la percezione della sicurezza rilevata in un campione rappresentativo. Il rapporto offre quindi un quadro oggettivo in quanto si basa sui dati statisticamente rilevati relativi agli indici di delittuosità. In tal senso sono stati valorizzati gli elementi informativi contenuti nella banca dati delle Forze di polizia e tutto il patrimonio informativo in possesso del Servizio analisi criminale che cura quotidianamente l’aggiornamento di raccolte informative legate a specifici fenomeni criminali. Nello stesso tempo l’indagine campionaria, condotta attraverso la rilevazione presso un campione rappresentativo, fornisce il quadro della percezione della sicurezza nei cittadini. Da dove è partita la ricerca? È stato importante tenere in considerazione i cambiamenti in atto nella nostra società, perché fattori sociali e economici legati al cambiamento demografico incidono sulla percezione della sicurezza. Per integrare il nostro patrimonio informativo e poter effettuare un’attività di analisi criminale ad ampio spettro, crediamo nella necessità di confrontarci con il mondo delle associazioni maggiormente rappresentative, i cosiddetti organismi intermedi, si pensi a Confcommercio, Confartigianato e Abi, e con il mondo dello studio e della ricerca. Studio della realtà circostante e analisi dei fenomeni sono due pilastri del Servizio analisi criminale? Sono di sicuro le linee guida del Servizio analisi criminale, che rappresenta, nell’ambito del Dipartimento della Pubblica sicurezza, un polo per il coordinamento informativo anticrimine, nonché per l’analisi strategica interforze sui fenomeni criminali, quale indispensabile supporto per il ministro dell’Interno, Autorità nazionale della Pubblica sicurezza e per tutte le Forze di polizia. Inoltre, va evidenziata la composizione interforze del servizio: la sinergia tra il personale dei vari ruoli e qualifiche della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di finanza e della Polizia penitenziaria, ci permette di sintetizzare e realizzare la cooperazione tra le diverse Forze di polizia a livello nazionale. La funzione primaria del Servizio analisi criminale è quella di dare supporto al decisore, il ministro dell’Interno, per l’elaborazione di strategie di prevenzione e contrasto dei fenomeni criminali, radicati e emergenti, riscontrabili nel nostro paese, con il valore aggiunto che deriva dalla connotazione interforze. Il rapporto redatto con l’Eurispes pone al centro i fenomeni criminali connessi alla realtà e alla loro percezione. L’Italia è un paese sicuro o la si vuol fare passare per quello che non è? Dal rapporto emerge un paese sostanzialmente sicuro; furti e rapine sono in aumento ma i valori sono sempre inferiori o in linea rispetto a quelli del 2019, cioè rispetto a quelli del periodo prepandemico. Vi sono alcuni reati, come gli omicidi volontari, che per ovvi motivi non risentono del “numero oscuro”, in quanto difficilmente possono essere celati. Ebbene, i dati sugli omicidi volontari, confrontati a livello internazionale, ci consentono di affermare con certezza che il nostro paese è “statisticamente sicuro” ed è in questo senso uno dei paesi “statisticamente” più sicuri d’Europa e del mondo. Siamo quindi al di sotto del numero di reati registrati nel 2019, prima della pandemia. Come vanno le cose sul fronte tecnologico? Aumentano i reati informatici? Registriamo nel tempo un aumento dei reati informatici. Più del 60% delle truffe viene commesso avvalendosi di internet. Nell’utilizzo della rete, ed in particolare dei diversi social network, esistono poi rischi non sempre riconducibili a veri e propri reati, ma comunque non trascurabili perché potenzialmente lesivi della dignità e della riservatezza della persona. Gli atti persecutori e i maltrattamenti contro familiari e conviventi mostrano un significativo decremento nel 2022. Le violenze sessuali, invece, a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un andamento in costante incremento nel biennio successivo. A tal proposito sottolineo che monitoriamo con attenzione tutti i “reati spia” delle violenze di genere, stalking, violenze sessuali e maltrattamenti in famiglia. Valutiamo con grande attenzione anche il tema dei minori come vittime di reato ma anche come autori, singolarmente o in gruppo. Con riguardo alla percezione è interessante segnalare che dall’indagine emerge come il 61,5% dei cittadini afferma di vivere in una città-località che giudica sicura. Ordine pubblico, prima regola: criminalizzare il dissenso di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2023 Botte in piazza, arresti e processi a sindacalisti e ambientalisti, linea dura sulle case occupate: ormai è tendenza. Ora tocca a Pisani. Martedì il contenimento muscolare degli studenti che volevano raggiungere l’albero Falcone a Palermo. Sabato le denunce per violenza privata alle contestatrici della ministra Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino, per quanto dai filmati si direbbe che non c’era stata violenza né minaccia. Cosa succede? Il governo di destra-destra ha deciso di reprimere il dissenso, magari con il nuovo capo della polizia Vittorio Pisani, esperto di criminalità organizzata, che si è appena insediato al posto di Lamberto Giannini, legato al predecessore Franco Gabrielli e forse proprio per questo spedito anzitempo a fare il prefetto di Roma? La svolta, in realtà, è in corso da tempo. Se Pisani è davvero chiamato a dare un’ulteriore stretta non ha nemmeno avuto il tempo di farlo. Sono almeno un paio d’anni che parliamo sempre più spesso di botte agli studenti o ai no-vax o di accuse di associazione a delinquere ai sindacalisti del Si Cobas a Piacenza o di analoghe iniziative a Padova contro i ragazzi di Ultima Generazione che bloccano le strade, imbrattano monumenti o colorano fontane. A volte la magistratura mette un freno, come hanno fatto i giudici di Piacenza o quelli di Milano che, mesi fa, hanno negato la sorveglianza speciale proposta dalla questura di Pavia nei confronti di un attivista poco più che ventenne di Ultima Generazione, quando normalmente quel provvedimento colpisce delinquenti abituali. Spesso però i giudici contribuiscono al pugno di ferro, come con la sentenza di Cassazione che nel 2018 ha trasformato l’occupazione di edifici in reato permanente e dunque punibile anche a distanza di anni dalla cosiddetta “invasione” cui si riferisce la norma. Vedremo come andranno i processi agli attivisti di Ultima Generazione. Quelli per reati di piazza non si contano, anche quando non succede niente di davvero grave: a Sassari se ne prepara uno con decine di imputati, compreso il cantante che suonava, per una serie di manifestazioni in favore del detenuto anarchico Alfredo Cospito nei pressi del carcere di Bancali. Tutti ricordano che il 9 ottobre 2021 gli errori nella gestione dell’ordine pubblico a Roma favorirono l’assalto di fascisti e antivaccinisti alla sede della Cgil in Corso Italia. Appena nove giorni dopo il piazzale del porto di Trieste venne sgomberato con la forza e con gli idranti da fastidiosi manifestanti anti-green pass tutt’altro che fascisti, che bloccavano il traffico delle merci. Uno dei loro leader, il portuale Stefano Puzzer, venne poi allontanato per anni da Roma e da diverse altre città con il foglio di via, antico strumento di epoca fascista trasformato in Daspo urbano su iniziativa di un ministro dell’Interno Pd come Marco Minniti nel 2017, lo stesso che diede il via alle iniziative poliziesche e giudiziarie contro Ong impegnate nel soccorso ai migranti in mare, peraltro col contributo dell’attuale capo della polizia Pisani all’epoca allo Sco (il Servizio centrale operativo). E ancora, subito dopo l’assalto alla Cgil a Roma, a Torino e in altre città diverse manifestazioni studentesche, non sempre pacifiche ma neppure così minacciose, sono state stroncate a colpi di manganello, come a dimostrare di saper mostrare i muscoli. È successo di nuovo alla Sapienza di Roma, il 25 ottobre scorso, casualmente nel giorno in cui Giorgia Meloni pronunciava alla Camera il suo discorso di insediamento e gli studenti dei collettivi contestavano un convegno di giovani legati a FdI, il cui svolgimento era più che garantito dalle grate metalliche all’ingresso della facoltà di Scienze politiche. Pisani da ultimo era vicedirettore dell’Aisi (il servizio interno) e ha lavorato soprattutto nelle squadre mobili, è uno specialista della caccia ai mafiosi come diversi capi della polizia dagli anni 90 in poi. Il più noto è stato Gianni De Gennaro, che guidava la polizia ai tempi del sanguinoso G8 del 2001 a Genova, dove l’ordine pubblico fu gestito soprattutto da “mobilieri” e alcuni di loro furono poi condannati per l’assalto e le false molotov alla scuola Diaz. Solo dopo quei processi arrivarono Gabrielli (2016) che chiese scusa per Genova e poi Giannini (2021), entrambi provenienti dal mondo delle Digos e dell’antiterrorismo. Vedremo presto quale sarà il mandato politico di Pisani e cosa farà. L’Italia ascolti le proteste dei suoi ragazzi sulla crisi climatica di Paolo Giordano Corriere della Sera, 25 maggio 2023 Sono criticati ma portano un messaggio scientifico. Preferiamo che la verità non ci venga sbattuta in faccia. Se è vero che quasi il settanta per cento degli italiani è preoccupato per l’impatto dei cambiamenti climatici, e ne riconosce l’origine nelle attività umane, allora un passo avanti importante è stato fatto nella coscienza ambientale collettiva. La crisi climatica - che prima del 2018 (l’anno di Greta) non era un tema mainstream, e prima del 2015 (l’anno degli accordi di Parigi) non era quasi un tema - è finalmente diventata una preoccupazione maggioritaria. Di sicuro lo è adesso, nel pieno dello sgomento per l’alluvione in Emilia-Romagna. Accanto a questa consapevolezza diffusa, tuttavia, affiorano già nuove forme, se non proprio di negazionismo climatico, quanto meno di riduzionismo. Tra queste, la più comune è lo slittamento del discorso su altri piani: “Sì, certo, la crisi climatica esiste, ma l’alluvione dell’Emilia-Romagna è dovuta all’incuria nei confronti del territorio, alla mancata manutenzione”. Slittamenti simili avvengono di continuo, a livelli diversi, anche inconsci, per esempio nel linguaggio, battezzando il piano di aiuti “decreto maltempo”, così da riportare quanto accaduto nella zona più rassicurante delle calamità meteorologiche, delle situazioni eccezionali che si manifestano una volta ogni moltissimi anni, senza alcuna considerazione ulteriore sulla loro aumentata frequenza. I giovani e gli scienziati - In questa confusione di intenti, gli unici che portano avanti ciò che gli scienziati si sgolano a ripetere da tempo - “più eventi climatici estremi, sempre più estremi, e il tempo per agire è ormai poco” - sono i giovani attivisti e le giovani attiviste per il clima. Non sono tutti giovani a dire il vero, ma per la maggior parte sì, e questo, lungi dal renderli più simpatici, sembra unificare lo sdegno nei loro confronti. Una riprovazione bipartisan, una volta tanto. Quando si parla di loro, degli attivisti per il clima, lo si fa per lo più ridicolizzandone gli sforzi (“perché non andate a spalare il fango invece di versarvelo addosso?”) o arrivando perfino ad accusarli di essere fra le cause stesse del disastro ambientale. I commenti sugli account social di organizzazioni come Ultima Generazione ed Extinction Rebellion mostrano un astio che dovrebbe farci fermare a riflettere: perché tanta animosità? Con chi ce la stiamo prendendo veramente? A Roma - a Roma! - siamo d’un tratto diventati così sensibili per un po’ di fango versato a terra? Non sarà, invece, che ci stiamo infuriando contro qualcosa che sappiamo ma preferiamo non ci venga sbattuto in faccia così? I critici più indulgenti se la prendono con la forma: “Va bene, c’è la crisi climatica, ma non sono questi i modi!”. Perché le interruzioni del traffico infastidiscono, le opere d’arte andrebbero venerate da distante senza sfiorarle, e non lasciar parlare in pubblico qualcuno è da prepotenti. Come se il dissenso, qualunque dissenso, avesse mai potuto esprimersi perfettamente “a modo” secondo i gusti dell’epoca corrente. È come se, fra l’altro, i manifestanti per il clima, dai Fridays for Future in avanti, non mostrassero un rispetto singolare per la buona educazione: dai primi scioperi silenziosi sotto la pioggia, alle vernici lavabili; dal carbone vegetale nella fontana, fino al fango, che è solo fango ed è versato su di sé, nemmeno addosso ad altri. Perfino la protesta delle tende, che ha ragioni diverse ma contigue, dovrebbe colpire per quanto è composta, invece provoca la reazione contraria. La manifestazione di Montparnasse - Comunque la si pensi sulla gravità delle singole azioni, nella critica delle azioni stesse si consuma ogni possibilità di riflettere sul messaggio che portano. Così, noi dimostriamo a quei ragazzi e quelle ragazze che non crediamo davvero a ciò che ci stanno dicendo. Non crediamo che la loro sia sul serio una lotta esistenziale, per la sopravvivenza, di fronte alla quale anche l’immortalità dell’arte rischia di non giovare più a nessuno. Noi affermiamo di crederci ma senza crederci davvero, come fanno spesso gli adulti. Quel quasi settanta per cento rilevato da Demopolis, in realtà, è un miraggio. C’è un altro elemento, più triste. Un mese e mezzo fa ero a Parigi durante una delle manifestazioni contro il governo. In particolare ero a Montparnasse quando i manifestanti hanno tentato di incendiare la Rotonde, il ristorante identificato come uno dei simboli del potere. La manifestazione era massiccia, carica di tensione, anche di violenza, come da noi non se ne vedono da parecchi anni. Ma ciò che mi ha stupito non è stato questo, bensì il fatto che i giovani che la guidavano fossero largamente sostenuti dalla popolazione adulta. In modo esplicito oppure no, ma sostenuti. Da noi: il contrario. Quando è accaduto? mi chiedo. Quando ci è successo di diventare un paese così ostile ai propri giovani? Quando ci siamo dimenticati che a vent’anni non si ha nessun potere, nessuno, né decisionale né mediatico, se non quello del proprio corpo? E che il massimo che si può fare, con quel corpo, è usarlo per ostruire? Quando ci siamo dimenticati che, in quell’ostruire, c’è anche un tentativo di costruire? Gli ecoterrorismi - Gli ecoterrorismi esistono, nessuno lo nega. Come esistono gli ecofascismi e anche, meno drammatici ma molto più comuni, gli ecoimmobilismi, con tutti i problemi che causano. Ma, almeno fino a prova contraria, non è ciò che stiamo vedendo. Per ora assistiamo per lo più ad azioni dimostrative, non violente, richieste di attenzione che forse sarebbe arrivato il momento di prendere in considerazione più seriamente di così, per quello che vogliono comunicare. Può darsi che in quella voce che tanto ci infastidisce riconosciamo non solo la voce in questo momento più vicina alla scienza, ma anche quella più vicina a una protesta, sommessa e scomoda, che esiste pure nella nostra co-scienza. Terroristi italiani rifugiati in Francia, Roma cerca di fermare il ricorso alla Cedu di Mario Di Vito Il Manifesto, 25 maggio 2023 Gli anni 70 non finiscono mai. Almeno in Italia, l’unico paese del mondo in cui ancora, a mezzo secolo di distanza, appare impossibile affrontare la stagione del terrorismo fuori dalle aule dei tribunali. Ieri mattina, con la sola astensione del gruppo dell’Alleanza Verdi Sinistra, la Camera ha approvato una mozione presentata da Tommaso Foti (FdI) che impegna il governo “ad adottare ogni iniziativa di competenza volta a fornire tutta la necessaria e dovuta assistenza ai parenti delle vittime dei reati commessi dai dieci terroristi italiani rifugiati in Francia, nella loro già annunciata intenzione di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo contro la decisione della Corte di cassazione francese”. La storia è quella dei dieci reduci degli anni 70 che in passato hanno trovato rifugio in Francia grazie alla dottrina Mitterrand e che, da un paio d’anni, l’Italia prova a riportare indietro per far loro scontare residui di pene comminate decenni fa. Tutti i ricorsi presentati davanti ai tribunali francesi, sin qui, sono stati respinti, malgrado le pressioni fatte in maniera anche molto esplicita dal presidente Emmanuel Macron in persona. I familiari delle vittime del terrorismo, comunque, cercando di scavalcare il parere della Cassazione di Parigi, hanno deciso di presentare ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con il governo italiano che ha sì benedetto l’iniziativa ma allo stesso tempo ha anche raffreddato gli animi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, commentando la sentenza della Cassazione dello scorso marzo, aveva messo già le mani avanti (“Esiste la possibilità della Cedu ma non è consentito un ricorso da parte degli organi statuali, occorre semmai un’iniziativa da parte delle persone interessate”) e anche la mozione di Foti si muove tra mille perifrasi a chiarire che, in ogni caso, questa mossa non rappresenta una nuova invasione di campo sulla giustizia francese. “Ferma restando l’intenzione di non voler interferire in questioni interne - si legge infatti nella mozione - si impegna il governo a sensibilizzare le autorità francesi affinché esplorino ogni possibile soluzione, compatibile con il loro ordinamento e con la normativa eurounitaria sulla cooperazione giudiziaria in materia penale, per rispondere alla legittima richiesta di giustizia dei parenti delle vittime dei dieci terroristi italiani”. Le prospettive, ad ogni buon conto, sono a dir poco incerte: le motivazioni delle sentenze francesi appaiono solide e sono basate proprio su due principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: il diritto a un equo processo (i dieci erano stati condannati in contumacia) e quello al rispetto della vita privata. Da quando sono arrivati in Francia, infatti, i rifugiati si sono integrati, hanno messo su famiglia, non hanno commesso più reati né hanno mai violato le condizioni poste dalla cosiddetta dottrina Mitterrand. Rivedere la loro posizione dietro richiesta di un governo sarebbe una violazione piuttosto grave dei diritti fondamentali. Pistole e fucili italiani per reprimere il dissenso dell’Egitto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 maggio 2023 Il rapporto di EgyptWide: dal 2013 al 2021 armi piccole e leggere dall’Italia presenti nelle piazze dei massacri e negli abusi in Sinai. Autorizzati all’esportazione 62 milioni di euro, 18 sono già arrivati a destinazione. Dura una manciata di minuti ma è chiarissimo: è il video che ieri ha aperto la conferenza stampa alla Camera dei Deputati con cui EgyptWide for Human Rights ha presentato il rapporto Made in Italy per reprimere in Egitto, con la partecipazione di Archivio Disarmo, Rete italiana Pace e Disarmo e Amnesty International. Pochi minuti che rendono concreti i contenuti del report, frutto di un lungo e tortuoso lavoro di documentazione sull’uso da parte della polizia egiziana di armi piccole e leggere italiane per sopprimere il dissenso in Egitto. Pistole, fucili e revolver presenti durante le peggiori violazioni dei diritti umani: sono tra le protagoniste del massacro di Rabaa al-Adawiya e al-Nahda, al Cairo, nell’agosto 2013 (un migliaio di sostenitori dei Fratelli musulmani ammazzati in poche ore) e sono le protagoniste in operazioni di sgombero di civili e di uccisioni di presunti miliziani nella Penisola del Sinai. Si potrebbe continuare. Nelle piazze quelle armi - qualche esempio, i fucili Benelli M3T Super 90, quelli Beretta 70/90 e Arx160 - sono imbracciate dagli agenti egiziani, nell’ambito di una più ampia cooperazione tra forze di sicurezza di Italia ed Egitto che la scorsa settimana al Cairo il ministro della Difesa Guido Crosetto ha esaltato e promesso di ampliare. Come non fosse enorme di suo: “La nostra ricerca - spiegava ieri Alice Franchini di EgyptWide - si basa su analisi incrociate dei rapporti annuali presentati dal governo italiano al parlamento, all’Unione europea e all’Arms Trade Treaty, quelli dell’Istat e dell’Organizzazione internazionale del Commercio. Dal 2013 al 2021 sono state autorizzate trenta licenze di export di armi piccole e leggere, per un totale di 62 milioni di euro di cui almeno 18 hanno già raggiunto l’Egitto. Parliamo di oltre 30mila revolver, 3.600 fucili e 470 fucili d’assalto”. E poi carabine, mitragliatrici, munizioni, tecnologie militari, software. Secondo il Rapporto, il primo boom si è registrato tra il 2013 e il 2014, ovvero nei mesi che corrono tra il golpe guidato dall’ex generale al-Sisi e la sua nomina a presidente: il valore dell’export italiano di armi è passato dai 17 milioni del 2013 ai 31,7 del 2014, quasi il doppio. Nel 2016 (anno dell’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni al Cairo) il valore più basso, sette milioni. Poi la risalita: 69 milioni nel 2019 e il record di 871 milioni nel 2020. “Perché il regime egiziano continua a comprare armi nonostante l’enorme crisi economica del paese?”. La domanda la pone Sayed Nasser di EgyptWide. Che si risponde: “Utilizza l’acquisto di armi per comprare il silenzio complice dei paesi europei, così come usa la carta dei rifugiati minacciando l’apertura dei confini”. Sullo sfondo sta la falsa narrazione dell’Egitto come fonte di stabilità nella regione, mentre conduce “una guerra a bassa intensità contro le opposizioni e il dissenso”, spiega Tina Marinari di Amnesty Italia. Anche ricorrendo al Made in Italy: “Le armi piccole e leggere sono state definite da Kofi Annan le vere armi di distruzione di massa - spiega Barbara Gallo di Archivio Disarmo - Sono responsabili del 90% delle uccisioni in tutti i conflitti scoppiati dopo la seconda guerra mondiale. Mancano dati trasparenti ma si stima un commercio di armi piccole e leggere di 8,5 miliardi di dollari l’anno. L’Onu stima girino per il mondo almeno un miliardo di pezzi. La maggior parte della produzione è localizzata in Occidente e la loro circolazione è maggiore nelle aree instabili”. L’Italia è uno dei paesi che ne produce di più (nel 2015 arrivò seconda nella classifica globale, dietro solo agli Stati uniti), anche grazie a una normativa piena di buchi, dice Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo: “La legge 185 del 1990, all’articolo 1 comma 9, esclude dal divieto di export i paesi con cui l’Italia ha accordi di cooperazione militare. Il parlamento ne ha approvati una settantina, extra Nato ed extra Ue, tra cui l’Egitto. Significa che lì l’esportazione è legale anche a fronte di violazioni dei diritti umani. Non si può nel caso egiziano parlare di violazione legale della legge, ma solo del suo spirito”. Il che preclude eventuali azioni giudiziarie. La richiesta finale: “Chiediamo al parlamento italiano di istituire una commissione d’inchiesta sull’utilizzo di armi italiane in Egitto - conclude Nasser - e chiediamo al governo italiano di congelare ogni forma di commercio di armi con l’Egitto fin a che la commissione non avrà verificato. E gli chiediamo di mettere in primo piano i diritti umani nel suo rapporto con il Cairo”. Crosetto, l’altro giorno, ad al-Sisi ha detto tutt’altro. Sudan. “Attacchi brutali contro le strutture sanitarie e il nostro personale” Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2023 La denuncia di Medici Senza Frontiere. Aggressioni al personale, saccheggi e occupazioni armate delle sue strutture mediche o di quelle supportate in Sudan, dove da un mese è scoppiata la guerra civile. Lo staff e i pazienti dell’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere subiscono ripetutamente l’azione violenta dei gruppi armati che sottraggono ormai quotidianamente medicinali, forniture mediche e veicoli. Il disprezzo dei principi umanitari e del diritto internazionale umanitario ostacola la capacità di MSF di fornire assistenza sanitaria alla popolazione, in un momento in cui c’è un disperato bisogno di aiuto. “In un magazzino a Khartoum i frigoriferi sono stati staccati e i farmaci sono stati gettati via. L’intera catena del freddo è andata in tilt: i medicinali non sono più utilizzabili per curare i pazienti. Siamo scossi e sconvolti da questi attacchi deplorevoli. Le persone sono in condizioni disperate, queste azioni violente rendono davvero difficile il lavoro degli operatori sanitari. Tutto questo è semplicemente assurdo” afferma Francesca Arcidiacono, capomissione di MSF in Sudan, che parla di “una violazione sistematica dei principi umanitari”. MSF, presente in dieci stati del Sudan, sta cercando di incrementare le sue attività da quando sono scoppiati gli intensi combattimenti tra l’esercito sudanese e le Forze di Supporto Rapido, ma incursioni, saccheggi e occupazioni armate delle sue strutture, che si sommano alle sfide amministrative e logistiche, rappresentano un ostacolo enorme all’attività dell’organizzazione. Sin dall’inizio del conflitto sono stati decine gli incidenti che hanno colpito le strutture, tra furti di gasolio, veicoli, farmaci, saccheggi e distruzioni: l’OMS al 22 maggio ha registrato ben 138 attacchi a strutture sanitarie. Quello che MSF chiede a tutte le parti in conflitto è di garantire la sicurezza del personale medico e delle strutture sanitarie, consentendo il passaggio sicuro delle ambulanze e di chi cerca assistenza, e facilitando l’accesso e la circolazione degli operatori delle organizzazioni umanitarie e delle forniture mediche, in un momento in cui il conflitto sta avendo un impatto terribile sulla popolazione, soprattutto per chi risiede a Khartoum, nel Darfur o in altre zone in cui i combattimenti sono particolarmente intensi. In queste aree ci sono persone con ferite da arma da fuoco, vittime di violenze sessuali, accoltellamenti ed esplosioni. Nonostante il 20 maggio sia stato annunciato un cessate il fuoco tra le parti in conflitto, questo tipo di intese, anche in precedenza, non sono state mai osservate: in questo contesto l’accesso agli aiuti umanitari e all’assistenza medica è fondamentale, ed è fondamentale che MSF possa continuare la sua attività.