Giornata conclusiva del progetto “A scuola di libertà” Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2023 Lunedì 5 giugno, ore 10-12.30, in videoconferenza. Giornata conclusiva del progetto “A scuola di libertà. Carcere e scuole: Educazione alla legalità” (organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti in collaborazione con la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, la Casa di reclusione di Padova, il Comune di Padova). Giornata con la partecipazione dell’autore del podcast “Io ero il milanese” Mauro Pescio, del rapper e insegnante di rap nelle carceri minorili Francesco/Kento e dello scrittore Eraldo Affinati. Interverrà dal carcere la redazione di Ristretti Orizzonti. Mauro Pescio: attore, autore radiofonico, podcaster. Dal 2012 ha cominciato a raccogliere storie vere di persone per la radio e per il palco. Per RaiPlay Sound ha scritto e realizzato il podcast Io ero il milanese. Francesco/Kento, rapper militante che da circa 12 anni tiene laboratori di scrittura rap all’interno di diversi istituti penali per minorenni, è anche autore del libro Barre, dove racconta questa esperienza. Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, autore, fra l’altro, di “Campo del sangue”, “La città dei ragazzi”, “Elogio del ripetente”, “Italiani anche noi”, “Il Vangelo degli angeli. “Oggi - sostiene Affinati - tendiamo a rimuovere il fallimento: alla prima difficoltà desistiamo, mentre in realtà l’adolescenza dovrebbe essere per sua natura la stagione in cui ci mettiamo alla prova. Non bisognerebbe drammatizzare l’esito negativo”. Premieranno i vincitori del Concorso di scrittura collegato al progetto l’assessora alle politiche sociali del Comune di Padova, Margherita Colonnello, il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo e le magistrate di Sorveglianza. Iscriviti in anticipo per questa riunione: https://us02web.zoom.us/meeting/register/tZUofuivqjkoH9WcxfaaMsP3YJELeb-ju_VI Dopo l’iscrizione, riceverai un’email di conferma con le informazioni necessarie per entrare nella riunione. Le carceri, un “pianeta dimenticato” di Fulvio Fulvi Avvenire, 24 maggio 2023 I penitenziari scoppiano. Per il numero dei detenuti e la sorveglianza insufficiente. Così le condizioni di vita sono diventate insopportabili e sfociano in ribellioni, violenze, suicidi. Cosa succede nel sistema penitenziario del nostro Paese? E quali sono le emergenze a cui la politica, le istituzioni e la società civile devono farsi carico? Ecco cinque domande, e altrettante riposte, per capire meglio questo “pianeta dimenticato”. Qual è il tasso di occupazione nelle 192 carceri italiane? Secondo un rapporto del Cpt (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti), nel 2022 la popolazione carceraria ammontava al 114% della capacità ufficiale delle strutture. In base ai dati del ministero della Giustizia, al 31 gennaio del 2023 i detenuti presenti erano 56.127 (di cui solo 40.355 condannati in via definitiva) su una capienza massima di 51.403 posti, mentre 1.074 si trovavano in quella data in stato di semilibertà. Nel 39% delle Case Circondariali le celle non rispettano il parametro minimo dei 3 metri quadrati di superficie calpestabile (Osservatorio Antigone) e spesso vengono condivise anche da 5-6 persone. Come rimedio il ministro Guardasigilli Carlo Nordio ha annunciato la chiusura delle vecchie carceri (quelle in cui gli ambienti risultano inadeguati) e l’utilizzo di strutture edilizie compatibili, come le caserme dismesse. Ma si tratta di progetti a lungo termine, prima sarà necessaria una riforma complessiva del sistema penitenziario. Per il Garante dei detenuti, Mauro Palma, il sovraffollamento può essere contrastato anche con un maggiore ricorso alle misure alternative: “Circa 23 mila detenuti stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore a 3 anni: potrebbero quindi accedere a detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, semi libertà”. Papa Francesco ha sollecitato i capi di Stato e di governo ad approvare un provvedimento di clemenza, un indulto, ma non ha avuto finora risposte. Qual è il rapporto detenuti-agenti di polizia penitenziaria? L’organico in forza nelle carceri italiane è di circa 37mila agenti di custodia. Il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) ne prevede però l’utilizzo di 41.335. Il rapporto tra reclusi e addetti alla sorveglianza è di 1,67: ovvero un detenuto e mezzo per ogni poliziotto (in Francia è del 2,5 e in Spagna del 3,7). Tali figure professionali rappresentano l’89,36% del personale impiegato negli istituti di pena mentre gli educatori sono il 2,17% e il resto è costituito da amministrativi, sanitari e ausiliari. Il 15 marzo scorso il ministero della Giustizia ha indetto un concorso per l’assunzione di 1.713 allievi agenti in ruolo maschile e femminile. Ne mancherebbero ancora oltre tremila. Lo stipendio medio di un agente penitenziario è di 22.500 euro lordi all’anno (1.350 netti al mese). Perché avvengono tanti suicidi dietro le sbarre? Nel 2022 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 84, uno ogni cinque giorni. Mai così tanti. A finire nel vortice della morte provocata “per mano propria” sono soprattutto giovani che devono scontare pene irrisorie o che sono in attesa di processo, ma tra i suicidi ci sono anche migranti arrivati in Italia con un barcone attraverso il Mediterraneo (che non conoscono l’italiano e quindi in cella si trovano in estrema solitudine e isolamento sociale) o persone senza dimora che non hanno la possibilità di pagarsi un buon avvocato. Il risultato di queste condizioni “estreme” è la disperazione più totale. “Si suicidano perlopiù quelli che in galera non ci devono stare, soggetti dipendenti da alcol o droga, malati psichiatrici, insomma i più fragili” precisa Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp) che ricorda anche i quattro poliziotti che nel 2022 hanno seguito la stessa sorte. I controlli sono insufficienti a causa della carenza di personale. Dal 1° gennaio 2023 ad oggi i sucidi di “persone ristrette” in un carcere italiano sono stati 24, mentre 60 sono le morti per altre cause (che per la maggior parte risultano “non accertate”). Come vengono realizzati, all’interno delle carceri, i principi costituzionali (ex articolo 27) della funzione rieducativa della pena e del reinserimento sociale del detenuto? Quali sono le “buone pratiche” in atto? Le opportunità di lavoro esistono sono insufficienti. Solo il 30% dei detenuti ha un’occupazione e il 4,4% di loro ha un datore di lavoro esterno, nonostante la legge Smuraglia che consente alle aziende di usufruire di benefici e sgravi fiscali per la promozione di attività imprenditoriali in carcere. In media il 7,3% dei reclusi partecipa a corsi di formazione professionale e il 28% a corsi di carattere scolastico. Attività agricole vengono svolte nelle colonie presso le case di reclusione di Isili, Mamone Is Arenas in Sardegna e nell’isola di Gorgona (di fronte a Livorno), tenimenti agricoli sono presenti in 40 istituti penali. I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (la maggior parte) percepiscono una remunerazione pari ai 2/3 di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Sono circa 250 le attività svolte nei 192 carceri italiani, dall’assemblaggio e riparazione di componenti elettronici alla calzoleria, dalla digitalizzazione dei documenti cartacei alla falegnameria e alla lavorazione di tessuti. È stato dimostrato che con il lavoro il rischio di cadere in una recidiva cala drasticamente del 2% (contro il 70% della media). Tante le esperienze virtuose, tra cui quella del carcere della Dozza di Bologna, dove è stato allestito un Call center del patronato Acli gestito da detenuti regolarmente assunti e quella di Rebibbia, a Roma, dove il gruppo Sirti e Open Fiber hanno definito un programma di lavoro carcerario con l’assunzione di sette detenuti impiegati anche all’esterno. Non vanno dimenticate inoltre l’apertura di un nuovo servizio per il reinserimento dei detenuti a Milano Opera, che aiuta a formarsi e a costruirsi un percorso lavorativo utile quando si finisce di scontare la pena, e la rinomata pasticceria Giotto ai Due Palazzi di Padova .La struttura di Milano Bollate si distingue invece per la formazione scolastica e per aver creato una start up nel campo dell’energia digitale. Per iniziativa della locale diocesi, ad Andria, in Puglia, è nata nel 2019 “Senza sbarre”, dove si sfornano taralli: il progetto si svolge in una ex masseria adattata per permettere il lavoro dei detenuti nella più totale sicurezza. Come può, il detenuto, vivere la sua condizione in una dimensione più umana anche attraverso la pratica religiosa e l’assistenza spirituale? Secondo i dati del mistero della Giustizia aggiornati al 15 gennaio 2020 i ministri di culto (non solo cattolici) autorizzati ad accedere agli istituti penitenziari sono 1.505. In ogni carcere esiste una cappella o uno spazio riservato alla pratica religiosa dove i cappellani possono adempiere alla loro missione di culto e assistenza morale alla persona detenuta. “Il nostro è un lavoro di sostegno anche verso la stessa struttura carceraria, spesso in difficoltà - spiega don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari - siamo un punto di riferimento e di incontro e dialogo per tutti, e non solo per i cattolici o i cristiani. Sono 20mila i detenuti stranieri, una presenza che ha sconvolto nel tempo la nostra pastorale che è sempre più basata su un profondo ecumenismo. E non bisogna dimenticare - conclude don Grimaldi - che aldilà della pastorale all’interno della struttura molti di noi aiutano e collaborano con le Comunità di reinserimento che operano all’esterno, favoriscono l’integrazione sociale, accolgono i volontari, mantengono i contatti e sostengono le famiglie”. Quei detenuti di Augusta morti nel silenzio di Luigi Manconi La Repubblica, 24 maggio 2023 Sono passati oltre sessant’anni da quando il sociologo Erving Goffman pubblicò il libro “Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza”. E l’analisi condotta in quei quattro saggi che componevano il volume risulta tuttora assai valida. Goffman prende in esame i luoghi della società dove risiedono e convivono gruppi di persone per un significativo periodo di tempo. Gruppi costituiti da individui incapaci e non pericolosi o da individui che rappresentano un pericolo, sia pure non intenzionale, o da individui che rappresentano un pericolo intenzionale o da individui che svolgono un’attività funzionale continua o, infine, da individui che perseguono volontariamente il distacco dal mondo. Come si vede, una pluralità estremamente differenziata di luoghi: dagli ospizi per vecchi agli ospedali psichiatrici e al carcere, fino ai conventi e ai monasteri. Questa amplissima varietà di sedi, dove risulta discriminante la volontà o meno di risiedervi, ha un fondamentale tratto comune: tutti gli istituti, le strutture, le istituzioni in questione sono “chiuse”, ovvero tendono a esaurire al proprio interno l’intero ciclo di vita di coloro che vi si ritrovano. Questo contribuisce a spiegare come mai il sistema penitenziario - l’istituzione totale per eccellenza - possa rimanere tuttora completamente impermeabile allo sguardo esterno, inaccessibile e non conoscibile. Quanto è accaduto nelle scorse settimane nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, è esemplare. Due detenuti sono morti a seguito di uno sciopero della fame, in un caso durato 60 giorni e nell’altro 41. Uno dei due reclusi, con la sua azione, intendeva affermare la propria innocenza; l’altro, una persona di origine russa, chiedeva dal 2018 di essere trasferito nel proprio Paese per scontare lì la pena, come prevede la Convenzione di Strasburgo. L’aspetto davvero scandaloso di questa vicenda è che, di essa, si sia avuto notizia solo dopo la morte del secondo detenuto. Dunque, per mesi, un fatto traumatico come lo sciopero della fame, con ciò che comporta di angoscia e sofferenza, è rimasto confinato all’interno delle mura del carcere, senza trovare modo di raggiungere l’opinione pubblica, di coinvolgere la classe politica, di suscitare un dibattito sul significato della pena e su come essa possa arrivare a negare in modo tanto crudele la finalità assegnatale dalla Carta Costituzionale. Il carcere in quanto istituzione totale ha chiuso dentro di sé, in maniera ermetica, il dramma individuale di quei due detenuti, l’ha occultato, negato, rimosso. E ha occultato, negato, rimosso il suo esito tragico: la morte di chi quell’azione di protesta aveva intrapreso. Sono passate due settimane da quando il Garante nazionale delle persone private della libertà ha reso noto quanto accaduto ad Augusta, senza che l’amministrazione penitenziaria emettesse un fiato. Ed è altamente probabile, quasi certo, che anche quanto qui vado scrivendo e quanto altri giornali riportano, sia destinato a non trovare alcuna risposta da parte delle autorità penitenziarie. A riprova del fatto che il carcere risulta tetragonicamente escluso dai principi primari e dalle regole fondamentali del sistema democratico. Oltre quei cancelli domina il silenzio del dispotismo. Un altro carcere deve essere possibile di Michela Di Biase* huffingtonpost.it, 24 maggio 2023 Vi racconto le mie visite a Regina Coeli. Là dentro l’aspetto rieducativo non esiste e la pesantezza del vivere riguarda tutti, anche i non detenuti. Ieri sono tornata al carcere di Regina Coeli, un carcere che sorge nel pieno centro della città di Roma, nel quartiere di Trastevere. Nulla della storica facciata, né le mura altissime che lo cingono, lasciano trapelare cosa il carcere sia. Chiarisco subito perché ho deciso di raccontare queste mie visite: è un diritto ma prima ancora un dovere di una parlamentare andare in carcere ed io intendo onorare entrambe le prerogative. Per dare conto di ciò che vedo, per tenere alta l’attenzione su questa realtà, sugli uomini e le donne che vi abitano: dai detenuti al personale carcerario, a quello sanitario, a coloro che nel carcere fanno volontariato. Regina Coeli è un carcere nato per ospitare i nuovi giunti, non un luogo dove scontare la pena definitiva. Il termine sovraffollamento è terribilmente pertinente: a fronte dei 615 posti oggi nel carcere ci sono circa mille detenuti. Condizione questa che pesa tanto anche sulla polizia penitenziaria che deve gestire situazioni estremamente complesse e di rischio. Del carcere una volta usciti ti rimane nella testa il rumore, dei grandi portoni di ferro che si chiudono alle tue spalle, delle grida dei detenuti del repartino (qui sono internati i detenuti con patologie psichiatriche e diciamolo, il regime carcerario non è compatibile con le condizione di salute di queste persone) delle urla da un piano all’altro delle sezioni per comunicare con altri detenuti. Ogni sezione ha problemi comuni alle altre, celle piccolissime, in alcune vi abitano fino a tre uomini che dormono su letti a castello alti anche due metri. In altre ci sono le gelosie alle finestre, delle lastre di ferro che non fanno passare né luce né aria. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato ed è del tutto chiaro che il sistema sanzionatorio non può esaurirsi in una mera privazione della libertà. Eppure entrando nel carcere si ha l’impressione che l’aspetto rieducativo sia del tutto marginale rispetto a quello punitivo. Gli studi liceali hanno riportato alla memoria Dante: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.” Ieri ho conosciuto padre Vittorio Trani, un francescano che da quarant’anni lavora in carcere per alleviare le sofferenze di questi uomini. Da quarant’anni , ogni giorno come se fosse il primo. Li ascolta, gli porta da mangiare, li conforta. Ecco della mia visita di ieri vorrei raccontare anche questo: che ci sono uomini come padre Vittorio che senza clamore, con misericordia si dedicano agli ultimi della terra e nel farlo sono da esempio per tutti noi. *Deputata Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista Bambini senza libertà di Nina Verdelli Vanity Fair, 24 maggio 2023 Accantonata la proposta del Pd di togliere dalle carceri tutti i figli piccoli che vivono con le madri detenute, siamo andati in un distaccamento Icam di San Vittore, a Milano, a vedere cosa significa un’infanzia senza libertà. Sua figlia le ha mai chiesto: Mamma, perché siamo qui? “No, Luce ha due anni e mezzo, è troppo piccola. Però sa bene che non siamo a casa. A volte prende un sacchetto, mette della roba dentro, poi va a bussare alla porta blindata e dice: “Apri, io e mamma a casa”. Difficile spiegare a Luce, Ariel, Kiran, Alfonso e Sferza che, per ora, la loro casa è quella: una palazzina su due piani, circondata da un giardino e recintata da muri alti e plexiglas, in via Macedonio Melloni, a Milano. Ancora più difficile spiegare che, a parte la possibilità di andare all’asilo, da quel cancello non si esce. Niente parco, niente pomeriggi con gli amici, zero passeggiate o feste di compleanno. Loro, i bambini dell’Icam di San Vittore (l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri), sono lì per restare. Fino a quando? Per legge anche fino a dieci anni. “Di solito, però, questo non succede. Dove non arriva la giurisprudenza, arriva l’intelligenza delle madri”, spiega Marianna Grimaldi, funzionario giuridico-pedagogico della struttura. “All’inizio delle elementari, i bambini manifestano esigenze che vanno al di là del rapporto esclusivo con la mamma: hanno bisogno di famiglia e di relazioni tra pari. Quando il genitore se ne rende conto, avvia il processo di separazione”. Tradotto, lei decide di tornare nel carcere vero e proprio e di mandare il figlio a casa, se c’è, o in comunità, se ad aspettarlo fuori non c’è nessuno. L’interregno tra la simbiosi e il distacco dura da tre a sei mesi: “Dopodiché, quando il bambino è pronto, va”. E la madre? “La madre sta male”, prosegue Grimaldi. “È capitato più volte che una donna, che magari fuori aveva 14 figli, di cui uno soltanto cresciuto qui dentro con lei, mi dicesse: “Sono stata mamma solo di questo bambino”. Perché, a parte studiare per la licenza elementare e media e a svolgere qualche lavoretto, qui si impara a essere madri”. Fuori dalla finestra con le inferriate, una ragazzina di 20 anni dai lunghi capelli neri sta dando il latte al suo neonato. Ma mica lo tiene in grembo: seduta a fianco al passeggino, con la mano destra rivolta all’indietro porge il biberon al figlio senza guardarlo, con la sinistra tira una boccata di sigaretta. “Ci stiamo lavorando”, commenta Grimaldi. “A mano a mano spieghiamo che il momento dell’allattamento è prezioso e che i bambini vanno tenuti in braccio. Insegniamo a preparare le pappe, a tenerli puliti, persino a giocare. Sono donne che non hanno mai giocato in vita loro”. Sono cinque in questo istituto milanese, 23 in tutto il Paese, con 26 minori al seguito. Bambini che avranno sì il privilegio di crescere con la mamma, ma a cui verrà negato tutto il resto: le loro prime parole saranno “apri”, “agente”, “fuori”; si sveglieranno con il rumore delle chiavi; vedranno i papà nelle poche ore riservate ai colloqui. Alcuni, soprattutto quelli costretti a vivere in una prigione vera e propria anziché in un Istituto a custodia attenuata, avranno più probabilità di manifestare disagi psichici. Negli ultimi mesi, la deputata del Pd Debora Serracchiani aveva lavorato a una proposta di legge perché le madri detenute potessero scontare la condanna in case-famiglia protette (oggi in Italia ne esistono due, una a Milano, una a Roma). Sul testo, però, sono intervenuti alcuni esponenti di Fratelli d’italia con emendamenti che andavano in tutt’altra direzione: carcere obbligatorio in caso di recidiva e niente differimento di pena per le donne incinte o con figli sotto i 12 mesi. Così, l’8 marzo, Serracchiani ha ritirato la firma, e di quei 26 bambini non ha parlato più nessuno. “Sbagliano entrambe le fazioni”, commenta Grimaldi. ““Mai più bambini in carcere” è uno slogan accattivante e toglierli dalle celle è sacrosanto, ma dobbiamo anche chiederci: poi, dove finiscono? A scuola ci vanno? La verità è che spesso diventano invisibili. La casa-famiglia non sempre è una via percorribile: siccome non impone l’obbligo di reclusione, a volte favorisce il fenomeno della “donna meteora”, dentro per due giorni e poi chissà dove”. Soluzioni? “Prendersi cura di tutti i figli dei detenuti, non solo quelli reclusi con le madri. E costruire più Icam come questo di Milano, dove gli agenti sono in borghese, i bambini tutelati e le madri possono anche permettersi il lusso di sognare un futuro diverso”. Quando chiediamo alla 20enne detenuta che cosa sogna una volta uscita da qui, nasconde il rossore delle gote nell’ebano dei capelli. Poi risponde che non ne ha idea. Sta aspettando di ricevere i domiciliari dal suo magistrato incaricato: “Alfonso ha sette mesi, è un mio diritto stare a casa, non so perché mi venga negato”. È giovane, è bella come la principessa Jasmine nel cartone Disney Aladdin, conosce le sottigliezze, se non altro, della legge che la riguarda. Potrebbe fare tutto, rischia di non fare niente. Davanti a sé ha lo specchio di quello che, occhio e croce, sarà la sua vita: dentro e fuori come le compagne di stanza più grandi e più sdentate, sei figli a testa di cui uno appresso, un numero imprecisato di condanne, una quantità imprecisata di disincanto. “Io vorrei fare l’attrice”, dice una delle due con lieve tono canzonatorio. “Ma non l’attrice sconosciuta, voglio lavorare con i famosi”. La seconda si fa seria: “Cosa vuole che faccia fuori da qui? Sono donna, sono rom, ho precedenti penali. Una come me non l’assume nessuno”. Altre speranze ha Marianna, mamma della piccola Luce che, di tanto in tanto, le chiede di tornare a casa: “Ho sempre lavorato nelle cucine, ricomincerò a farlo. Non ho un sogno per il dopo, ho solo un desiderio: passare più tempo possibile con gli altri tre figli”. 42 anni, italiana, bionda di mèche e azzurra di camicia perfettamente stirata, è madre di quattro e nonna di uno: mentre scontava la pena, la sua secondogenita di 17 anni resta incinta. “All’inizio l’ho sgridata: “Ma come, appena mi hanno rinchiusa, tu hai fatto come volevi?”. Mi dispiaceva perché stava studiando e ora è ferma, giustamente”. Marianna infila l’avverbio “giustamente” ogni due parole, come fosse un mantra da ripetere per iniettare un po’ di rettitudine in una vita che ha conosciuto lo sbando. Vive all’icam di Milano da nove mesi. Prima ne ha trascorsi altri sei, da sola, al carcere del Bassone di Como. “Quando mi sono trasferita qui con Luce, lei aveva poco più di un anno e mezzo. Chiamava mamma ogni donna che incontrava, persino sua sorella quando veniva a colloquio. L’avevo lasciata, giustamente mi cercava in tutte. Mi cercava sempre: si svegliava di notte urlando “Mamma!”. Per la verità, mi cerca ancora. La vedrà tra poco, appena torna dal nido”. Sì perché Luce e Ariel, le due più grandine, di giorno vanno all’asilo comunale a pochi passi dall’icam. Le educatrici le accompagnano e le riportano. Quando alle 16.30 varcano il cancello del cortile, Ariel si precipita verso una palla e inizia a giocare. Luce sembra voler fare esplodere la cintura del passeggino per saltare in braccio a sua madre, che la solleva e la bacia sulle guance e sui ricciolini. Poi, mentre le due bambine si rincorrono, Marianna prosegue: “A Como ho perso 18 chili. Giustamente, stavo troppo male per mangiare. Piangevo e basta. Stavo troppo male anche per guardare le foto dei miei figli. Non mi sarei mai aspettata di finire così. Ero molto delusa da me stessa”. Lo è ancora? “Non mi sono perdonata. Giustamente, non posso dimenticare il male che ho fatto ai miei figli. Però, stando qua, ho imparato ad amarmi e ad ascoltarmi: ora so che nella vita devo fare solo quello che sento. Non asseconderò mai più un uomo per paura di perderlo”. È finita dentro per amore? “Ecco. Mi sono fatta trascinare in un mondo che non era il mio. Io vivevo di famiglia e di lavoro. Poi ho sbagliato, perché non ho denunciato quello che sapevo. Ma di una cosa sono certa: nessuno mi fregherà un’altra volta”. A “fregarla”, è stato il compagno, padre di Luce, che ora sconta la pena a Opera con pressoché zero possibilità di venire a trovare la bambina: “Alla fine mi fa tenerezza, perché lui ama sua figlia. È un bravo papà”. E lei è una brava mamma? “Credo di sì. L’ho scoperto vedendo come mi hanno difesa i miei figli il giorno in cui sono stata arrestata. Io li avevo preparati, ma quella mattina mi hanno stupita. I carabinieri sono venuti a prendermi all’alba. Il maresciallo ha cacciato fuori le manette. La mia secondogenita l’ha guardato e gli ha detto: “Maresciallo, per piacere, non infili le manette alla mia mamma. La mia mamma non è una criminale”. Lui l’ha ascoltata e le ha rimesse in tasca. Poi mi ha presa sottobraccio, e mi ha portata via”. P.S. Conclusa l’intervista, prima di lasciare l’Icam, ci tratteniamo qualche minuto in cortile. Luce e Ariel sono così affamate di divertimento che è impossibile sottrarsi: giochiamo a palla, a nascondino, ad acchiapparella. Viene il momento dei saluti, Ariel non lo accetta. Si attacca a una gamba e ci supplica di non andare via. Acconsentiamo a un ultimo giro sullo scivolo. Poi, con gentilezza, le guardie fanno intendere che il tempo è scaduto. Mentre ci avviamo al cancello, Ariel ci corre incontro. Non è abbastanza veloce per passare dall’altra parte insieme a noi. Allora infila la sua manina tra le sbarre e gli occhi belli nei nostri: “Dammi un bacio”, dice. Poi scompare da dove era venuta. La riforma delle misure cautelari che vuole Nordio è insostenibile di Claudio Castelli* Il Messaggero, 24 maggio 2023 Da qualche settimana dichiarazioni e interviste dei vertici del ministero della Giustizia presentano come imminente la riforma, penale più volte annunciata dal guardasigilli Carlo Nordio. Rispondendo ad una interrogazione parlamentare, il vice ministro della giustizia Paolo Sisto ha parlato di “iniziative normative atte a garantire il principio di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione, rafforzando il controllo giurisdizionale” e anche il consigliere giuridico del ministro, Bartolomeo Romano, ha anticipato che il rafforzamento del controllo sulle misure cautelari avverrà con la previsione di un interrogatorio di garanzia che precede l’adozione della misura cautelare, ma soprattutto le misure cautelari non siano più adottate dal Gip, ma dal tribunale del riesame, in modo che la richiesta del pubblico ministero venga presa da un giudice collegiale. La proposta appare ancora indefinita e richiede un approfondimento per verificare la sua fattibilità che vada oltre le nobili ragioni di garanzia che sono state spese. Tra l’altro il fatto che il provvedimento sia ancora allo studio incoraggia ad esprimere osservazioni e critiche che potrebbero essere utili al legislatore. Da quanto si è potuto sinora cogliere la proposta sarebbe di affidare l’emissione di misure cautelari personali (non si capisce se tutte o solo quelle relative a custodia in carcere e arresti domiciliari) ad un organo collegiale, facendo diventare l’attuale tribunale del riesame organo non più di impugnazione, ma direttamente di emissione della misura, con l’eventuale ricorso contro il provvedimento che passerebbe alla corte di appello. L’interrogatorio dell’indagato avverrebbe prima dell’emissione della misura con l’eventuale applicazione della misura richiesta o meno afflittiva solo all’esito dell’interrogatorio. Questo inevitabilmente comporterebbe un invito a comparire per rendere interrogatorio, o più spesso un accompagnamento coattivo dello stesso (onde impedirne la fuga), davanti al tribunale completo di imputazione e di elementi a carico onde consentire una difesa sostanziale. In concreto a fronte della richiesta della Procura e di una delibazione confermativa del Tribunale collegiale, l’indagato comparirebbe davanti al collegio ove verrebbe sottoposto ad interrogatorio di garanzia, all’esito del quale la richiesta di misura verrebbe accolta, modificata o respinta. La fattibilità Tralasciando altri aspetti e limitandosi ad una valutazione di fattibilità va subito osservato come sia del tutto impossibile che questa attività venga svolta dai tribunali dei diversi circondari, trattandosi in larga parte di piccoli o medi tribunali, che non hanno un numero di magistrati sufficienti a impegnare un numero così significativo di magistrati in questa attività pur fondamentale, che determina ulteriori inevitabili massicce incompatibilità. E difatti sembra che la proposta parli di affidare questi compiti a quello che attualmente è il tribunale del riesame distrettuale. Ciò ha comunque risvolti ordinamentali e pratici, di cui è bene essere consapevoli. Vuol dire anzitutto proseguire nella politica in corso da tempo di prosciugare le materie trattate dai Tribunali circondariali, che vengono ad avere sempre meno competenze e meno specializzazione, a vantaggio di Tribunali distrettuali sempre più oberati, specializzati e importanti, con la negativa creazione sempre più di tribunali di serie A e di serie B. In secondo luogo vi sono indubbi problemi pratici. La persona “fermata” a Sondrio dovrà essere invitata a comparire o coattivamente accompagnata a Milano con una progressiva centralizzazione e trasferimenti sia per gli agenti di polizia giudiziaria che per i difensori. Non solo, ma inevitabilmente i provvedimenti con cui il tribunale del riesame disporrà l’interrogatorio si ridurranno inevitabilmente ad una delibazione della richiesta della procura, limitandosi a imputazione, elementi di prova e valutazione di fondatezza e non ad una compiuta ed esauriente motivazione (oggi si arriva a centinaia di pagine), sia perché si tratta di un provvedimento interlocutorio, sia per dare spazio alle ragioni della difesa, mentre il vero provvedimento verrà effettuato all’esito del, contraddittorio. Ciò indubbiamente restringe gli spazi della difesa sia per la sommarietà della contestazione, sia per i tempi contratti. E ciò va contro le garanzie dell’indagato quantomeno in tutti i casi in cui bisognerà procedere all’accompagnamento: immaginiamo la persona portata davanti al tribunale e invitata a rendere interrogatorio senza alcun preavviso e senza potersi predisporre alcuna difesa. Un cenno particolare va poi riservato all’appello, in quanto la proposta nei fatti sposta il riesame presso corti di appello già enormemente oberate che dovrebbero distaccare diverse unità (a volte decine) a svolgere tale attività. Proposta oggi del tutto irrealistica e che porterebbe le Corti ad un totale dissesto. Il rischio, tra l’altro, è che l’introduzione di un sistema così macchinoso e costoso induca ad ampliare il ricorso al fermo di indiziato di delitto da parte della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. Al di là delle intenzioni e delle apparenze il pericolo concretissimo è quello di un’eterogenesi dei fini, diminuendo anziché potenziando le garanzie della persona soggetta alle indagini Infine il meccanismo pensato è del tutto inattuabile per le richieste di misure cumulative. Certo si potrebbe limitare ai processi che non riguardano la criminalità organizzata, ma non risolverebbe tutti i casi (non pochi) di reati associativi che non rientrano nelle ipotesi della criminalità organizzata. Ed inoltre accentuerebbe ancor di più il doppio binario con trattamenti del tutto differenziati tra processi “ordinari” e di criminalità organizzata. Due considerazioni si impongono comunque: l’Italia con il Pnrr si è preso un impegno ambiziosissimo di riduzione di tempi e pendenze da far tremare i polsi e i riscontri che emergono dai dati ministeriali sul settore penale non sono per ora soddisfacenti. Sarà possibile raggiungerli solo con determinazione e impegno e mantenendo per un congruo lasso di tempo una stabilità normativa e organizzativa. Un’altra rivoluzione dopo l’enorme sforzò posto in atto ed in corso per l’attuazione dei decreti legislativi Cartabia vuol dire semplicemente abbandonare gli obiettivi del Pnrr. Ogni politica legislativa, che ovviamente spetta al parlamento, deve comunque fare i conti con l’impatto complessivo che avrebbe sul sistema giudiziario e con l’impegno di risorse che implica. Continuare a far finta di avere risorse infinite e far ricadere su altri l’esito di riforme poco ponderate porta solo a proporre riforme finte o con fortissime controindicazioni. Si tratta di un metodo di legiferare ormai consolidato, ma non per questo meno pericoloso e da abbandonare al più presto. *Presidente della corte d’appello di Brescia La riforma Cartabia penalizza i poveri: escludere la perseguibilità d’ufficio incontra solo il favore delle élite di Astolfo Di Amato L’Unità, 24 maggio 2023 Un intervento deflattivo diretto alla riduzione del carico giudiziario. Questa è la prospettiva che ha spinto il legislatore ad ampliare il novero dei reati perseguibili a querela di parte. È, così, avvenuto che la Riforma Cartabia abbia escluso la perseguibilità di ufficio per alcuni reati: il furto, il sequestro di persona, la violenza privata. Nella stessa prospettiva, poi, ha richiesto la punibilità a querela anche per alcune fattispecie, che, in presenza di talune aggravanti erano prima perseguibili di ufficio: la minaccia, la truffa, la frode informatica, la violazione di domicilio. La considerazione di fondo degli autori della riforma è che si sarebbe in presenza di reati che toccano beni attinenti all’individuo o al suo patrimonio, che non coinvolgono l’interesse collettivo e la cui punibilità, quindi, può essere affidata alla scelta discrezionale del cittadino che ha subito l’offesa. Quest’ultimo, quindi, se vuole la punizione del colpevole deve presentare una apposita querela e, a pena di inammissibilità, deve in essa eleggere il proprio domicilio. Deve, poi, seguire con attenzione il processo, perché se non si presenta in udienza senza giustificato motivo la querela si intende rimessa. Proprio in questi giorni, su iniziativa del ministro Nordio, è stata approvato un intervento correttivo che ha, tuttavia, lasciato inalterato l’impianto generale: è possibile, anche in attesa della querela, l’arresto in flagranza, ma l’autore del reato deve essere scarcerato se la querela non interviene nelle ventiquattro ore successive; è stata ripristinata la procedibilità di ufficio quando il fatto sia realizzato da un soggetto appartenente alla criminalità organizzata, per evitare che la facoltà di presentare la querela sia vanificata dal potere di intimidazione di queste persone. Dietro la scelta legislativa di ampliare il novero dei reati punibili a querela, vi è la convinzione diffusa che si sia in presenza, nella maggior parte dei casi, di reati bagatellari, come tali caratterizzati da una minima lesività e, di conseguenza, da una minore rilevanza sociale. Ma è davvero così? Potrebbe esserlo dal punto di vista delle élite intellettuali, politiche e professionali che hanno prima immaginato e poi varato la riforma. Ma certamente non lo è dal punto di vista della maggior parte dei cittadini, che subiscono quei reati. Si pensi all’impiegato al quale in metropolitana viene “sfilato” lo stipendio o alla famiglia alla quale vengono portate via i preziosi, che hanno accompagnato la sua storia. Si aggiunga che, se si guarda alle statistiche, la maggior parte di questi reati sono commessi proprio nei quartieri popolari o sui mezzi di trasporto usati dalle masse. In quei quartieri sono spesso assenti gli strumenti più efficaci di tutela (porte blindate, sistemi di videosorveglianza, etc.). Così come più agevole è il furto con destrezza in un mezzo di trasporto pubblico in un’ora di punta. In questa diversa prospettiva, il carattere bagatellare dei reati, come giustificazione della perseguibilità a querela, viene meno. Per l’impiegato, al quale viene “sfilato” lo stipendio, il danno non è per niente poco rilevante: sono venuti meno i mezzi di sussistenza per lui e la sua famiglia per l’intero mese. Così come è percepito come irreparabile il danno per la sottrazione dei preziosi di famiglia. Non è il reato ad essere bagatellare, ma è la gravità dell’offesa recata a questo tipo di vittime, che è stata considerata di scarsa rilevanza e, perciò, immeritevole di tutela. Per il Palazzo i dolori della gente comune hanno, evidentemente, poca importanza. Né, per contrastare queste considerazioni, sembra convincente l’osservazione che, comunque, è sempre possibile ottenere l’intervento dello Stato attraverso la querela. Questo per due motivi. In primo luogo, perché la presentazione della querela richiede, spesso, un minimo di conoscenze legali per poter mettere in evidenza gli elementi rilevanti del fatto affinché in esso sia ravvisabile un reato. Non tutti hanno queste conoscenze e, certamente, i meno abbienti hanno minori opportunità di ottenere assistenza professionale. Né si può immaginare che la possibilità, prevista dall’intervento voluto dal ministro Nordio, di presentare oralmente la querela possa ovviare al problema, a meno di non volere trasformare i Commissariati di Polizia o le Stazioni dei carabinieri, già oggi soverchiati di lavoro, in uffici di consulenza. In secondo luogo, perché il timore di una reazione può indurre a non presentare la querela anche quando l’autore non appartenga alla criminalità mafiosa. Infine, è inevitabile che le strutture statali dedicate alle indagini saranno meno motivate a perseguire reati, che il legislatore ha dichiarato essere poco rilevanti per la collettività. Se queste considerazioni sono corrette, le conseguenze negative di questa riforma appaiono devastanti. È come se lo Stato avesse estromesso, per alcuni aspetti, una parte della popolazione, quella meno protetta, da uno dei servizi fondamentali che è chiamato ad assolvere: quello della sicurezza. Attraverso la previsione della punibilità a querela di determinati reati, dunque, lo Stato ha smesso di presidiare determinate aree e fasce sociali. Già prima della riforma era chiaramente percepibile l’assenza dello Stato in molti quartieri delle grandi città: si pensi a quei quartieri, in cui chi deve ricoverarsi in ospedale rischia al ritorno di trovare la propria abitazione occupata e di non potervi rientrare mai più. Oggi, per chi abita in quei quartieri la sensazione di assenza dello Stato sarà ancora più intensa e drammatica. Una esigenza di riduzione dei carichi della giustizia penale è certamente esistente. Questo problema avrebbe potuto essere affrontato in due modi: riducendo il numero delle fattispecie di reato e, quindi, contrastando quel populismo panpenalista, che ha portato ad una moltiplicazione senza senso delle ipotesi di reato, che sono ormai divenute un numero sconfinato. Ma le pulsioni giustizialiste hanno impedito una soluzione di questo tipo. L’altra soluzione avrebbe potuto essere quella di abolire il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, in modo che potessero essere filtrate ed espunte tutte le vicende effettivamente bagatellari. Del resto, per tali vicende già oggi è prevista la non punibilità, ma all’esito di un giudizio, per la tenuità del fatto. Una soluzione del genere avrebbe urtato contro pregiudizi consolidati e, soprattutto, tolto a molti pubblici ministeri la foglia di fico della obbligatorietà dell’azione penale, con cui sono giustificate anche le inchieste demenziali. Si è preferito ridurre il carico penale sottraendo la tutela a quella parte di popolazione, che, siccome più debole, ne avrebbe avuto ancora più bisogno. Una soluzione nefasta, destinata a creare una frattura nel tessuto sociale e che già nel breve periodo darà frutti avvelenati. Errori giudiziari, in 31 anni coinvolti 30mila innocenti: lo Stato ha pagato 1 miliardo in risarcimenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2023 Nell’anno appena trascorso sono stati 547 i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari; cresce invece e di molto la spesa per indennizzi e risarcimenti che supera i 37mln. Il report di www.errorigiudiziari.com. I numeri sono allarmanti. Dal 1991 al 2022 i casi di errori giudiziari hanno coinvolto l’incredibile numero di 30mila persone. Divisi per anno fanno circa 961 cittadini sbattuti in carcere, in custodia cautelare, o addirittura condannati essendo però innocenti, come successivamente accertato. Un abominio che pesa anche sulle casse dello Stato che tra indennizzi e risarcimenti ha sborsato quasi un miliardo di euro (932.937.000 euro, poco meno di 30 milioni l’anno). Nell’anno appena trascorso sono stati 547 i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari (-25 rispetto al 2022); cresce invece e di molto la spesa per indennizzi e risarcimenti che supera i 37mln, segnando un +11 milioni e mezzo rispetto al 2021. Sono gli ultimi impressionanti numeri elaborati da www.errorigiudiziari.com, l’associazione che da oltre 25 anni approfondisce il fenomeno in Italia, grazie al lavoro meritorio di due giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Gli autori per prima cosa chiarisco la differenza tra le vittime di ingiusta detenzione, “coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte”, e chi subisce un vero e proprio errore giudiziario in senso stretto, “vale a dire quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione”. Tornando ai numeri del rapporto, nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, con una spesa complessiva per indennizzi liquidati pari a 27 milioni 378 mila euro. Per quanto riguarda gli errori giudiziari veri e propri dal 1991al 2022 il totale è di 222, con una media che sfiora i 7 l’anno. Mentre la spesa in risarcimenti è salita a 76.255.214 euro (pari a una media appena inferiore ai 2 milioni e 460 mila euro l’anno). Se invece consideriamo soltanto il 2022 gli errori giudiziari si fermano ad otto, uno in più rispetto all’anno scorso. Sale di molto la spesa che sfiora i 10milioni, 7 volte più alta dell’anno precedente. Sul quantum, spiegano gli autori, pesano però “i criteri di elaborazione dei risarcimenti che sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione”. L’Anm non ci sta: senza abuso d’ufficio l’Italia è “fuorilegge” di Simona Musco Il Dubbio, 24 maggio 2023 Il sindacato delle toghe difende l’articolo 323 del codice penale in Commissione. Santalucia: il pm potrebbe “utilizzare fattispecie più gravi”. Caiazza: “Crea problemi invece di risolverne, unica soluzione eliminarlo”. “Abolire o trasformare in illecito il reato di abuso d’ufficio rischia di porci in contrasto con le carte internazionali”. E ancora: in assenza di tale reato, il pm potrebbe “utilizzare fattispecie più gravi”, come la corruzione. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia è chiaro: l’abuso d’ufficio non si tocca. Anche perché dopo la riforma del 2020 e con la riforma Cartabia, che rende più efficace il filtro per il rinvio a giudizio, di problemi se ne vedono pochi. Prova ne è che solo due denunce su 10 arrivano a giudizio e in ogni caso sono molte le assoluzioni anche dopo un processo. Il numero uno del sindacato delle toghe lo ha detto in Commissione Giustizia, dove questa mattina è stato audito nell’ambito dell’esame delle quattro proposte di legge di modifica o abrogazione del reato. Proposte che il magistrato chiede, sostanzialmente, di cestinare, alla luce delle convenzioni internazionali, come quella Onu o la carta di Merida, che impongono obblighi di incriminazione. Dopo la riforma del 2020, che ha prodotto “una forte tipizzazione della fattispecie”, sulla cui base l’abuso di ufficio si connota per la violazione di una specifica regola di condotta che non lasci margini di discrezionalità, “è sostanzialmente venuto meno - e questo ce lo dicono i dati statistici - il pericolo”. E per lenire il timore degli amministratori di poter finire coinvolti in un procedimento penale, Santalucia cita la tanto vituperata riforma Cartabia, che restringe “fortemente il rischio che ci siano procedimenti messi su senza che poi si arrivi ad un processo”. La conseguenza, in caso di abrogazione o modifica, è infatti peggiore dell’attuale paura della firma, ovvero - così come sostenuto anche dalla presidente della Commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno (Lega) - di “costringere il pubblico ministero” a utilizzare “fattispecie più gravi”, come la turbativa d’asta, il falso o la corruzione, reati che, oltretutto, “autorizzano anche l’uso di strumenti investigativi più insidiosi”, come le intercettazioni telefoniche. Un concetto ribadito dal segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro, che ha fatto riferimento al “contesto generale di innegabile delicatezza in cui ci troviamo, connesso al Pnrr, con l’arrivo di ingenti risorse”, nel quale l’abuso d’ufficio “costituisce una possibilità di soglia di attenzione maggiore nei confronti dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. A sostenere le argomentazioni espresse dai due magistrati anche Roberto Garofoli, presidente di sezione del Consiglio di Stato, secondo cui è vero che le denunce sono tante, “tante volte seriali” o “pretestuose”, ma “sono in calo”. E sono tante anche “le denunce nei confronti dei magistrati” che non hanno archiviato. Ciò perché “le denunce sono gratuite, non costano”, ma “credo siano destinate a diminuire”. Solo nel 2021 è stato archiviato l’85% delle denunce, un elemento da valutare non in negativo, “perché attesta una capacità di filtro anche da parte della magistratura inquirente”. Inoltre, il numero di archiviazioni è alto anche per tutti gli altri reati - la percentuale è del 62% -, quindi se fosse solo il dato numerico ad essere decisivo sarebbero tanti gli ambiti in cui intervenire per il legislatore, un pericolo che non si può correre. “Le condanne sono poche - ha detto ancora Garofoli - per scelta del legislatore del 2020, che ha escluso la discrezionalità dal campo di applicazione dell’abuso d’ufficio e per un’applicazione rigorosa di quella scelta legislativa che la Cassazione ha fatto in questi due anni”. Una possibile conseguenza, secondo il consigliere di Stato, è che “questo consolidarsi di posizioni interpretative” possa attenuare “l’ansia di denuncia”, orientando “l’azione dei pubblici ministeri, tanto più che sono vincolati dalla Cartabia a chiedere l’archiviazione qualora manchino indizi per ottenere la condanna in sede successiva”. Non valido, secondo il consigliere di Stato, neanche l’argomento dell’imprecisione descrittiva dopo la riforma del 2020, “con una delle descrizioni legislative più tassative e puntuali”. E se il solo rischio di essere coinvolti in indagini è paralizzante per l’azione amministrativa, la responsabilità è “di una percezione tanto distorta quanto diffusa del procedimento penale”, che in ogni caso “vale per tutti i reati”, non solo per questo. Anche perché il vero problema per gli amministratori è “la sospensione dal mandato in ipotesi di condanna di primo grado”, che “però non trovo nelle vostre proposte”. Di parere totalmente opposto il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, secondo cui “è difficile immaginare soluzioni praticabili diverse” dall’abrogazione del reato. “Come tutti sappiamo il legislatore è già intervenuto per contenere la dimensione di norma in bianco di questo reato che ha causato non pochi problemi alla normale vita della pubblica amministrazione - ha sottolineato -, intervenendo soprattutto sull’elemento soggettivo e la tipizzazione delle norme. In realtà l’esperienza ci dimostra che i procedimenti servono più a creare problemi alla pubblica amministrazione che a risolverli e si risolvono quei procedimenti con percentuali di assoluzioni e proscioglimenti altissime”. Caiazza ha provato a sfatare un mito, ovvero che l’abrogazione secca equivarrebbe a una sorta di legittimazione di condotte abusive del pubblico ufficiale. “Non bisogna dimenticare mai che le condotte di abuso sono già severamente punite dalla legislazione - ha evidenziato -. Tutte le condotte contro la pubblica amministrazione si condensano in abusi. Quello di cui stiamo discutendo è una fattispecie residuale, cioè l’idea che la condotta abusiva non integra nessuno di quei reati, nemmeno il traffico di influenze” e che “comunque vada punita. E la risposta deve essere no, perché le condotte di mala amministrazione devono trovare la loro sanzione naturale in sede amministrativa”. Ovvero come previsto dalla proposta di Enrico Costa, che punta a trasformare il reato in illecito. Falcone, i boss e il 41 bis: un’emergenza mai finita di Giancarlo Caselli La Stampa, 24 maggio 2023 I successi del maxiprocesso, l’emarginazione e i veleni sull’Antimafia l’eredità di un magistrato scomodo a 31 anni dalla strage di Capaci. Il 23 maggio di 31 anni fa, a Capaci, polverizzando un lungo tratto di autostrada e mirando dritto al cuore dello Stato, Cosa nostra sterminava Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i ragazzi della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. La storia di Falcone è il paradigma di una tendenza del nostro Paese a disegnare la reputazione - anche delle persone migliori - con gli alti e i bassi di un otto volante, in ragione di polemiche scatenate ad arte e/o prive di reale consistenza. Falcone è stato sulla cresta dell’onda quando il capolavoro del “Maxi-processo” - squarciando la cortina di impunità e complicità fin lì dominante - dimostrò che Cosa nostra può essere contenuta e sconfitta. Fu però ripagato con una serie di “schiaffoni” che gli italiani della mia generazione stanno dimenticando mentre quasi tutti i giovani ne sanno poco o nulla. Il primo colpo fu il più doloroso. Dovendosi designare il nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo, con “motivazioni risibili” e “qualche giuda che si impegnò subito a prenderlo in giro” (parole di Paolo Borsellino), la maggioranza del Csm gli preferì un magistrato inesperto di mafia, semplicemente più anziano, decretando cosi la cancellazione di un metodo di lavoro che stava portando alla sconfitta della mafia. Intanto si sviluppava una furibonda campagna di delegittimazione nella quale Falcone veniva accusato di nefandezze assortite, tipo “maccartismo” o trasformazione della lotta alla mafia in un “grande spettacolo”, per fini politici di parte se non per potere personale. La sua “colpa” era anche di non essersi limitato a colpire l’ala militare di Cosa nostra, ma di aver osato indirizzare le indagini pure verso le complicità esterne (Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania...). Dopo una torbida stagione di dossier, corvi e veleni; dopo una penosa odissea di mortificazioni ed emarginazioni professionali (un vero e proprio mobbing); mentre “probi cittadini” scrivevano ai giornali protestando per il fastidio delle auto a sirene spiegate, invitando Falcone a togliere il disturbo relegandosi in qualche ghetto “fuori porta”; alla fine l’aria di Palermo si fece irrespirabile. Tutte le porte gli venivano sbattute in faccia e Falcone fu costretto ad “emigrare” al ministero della Giustizia di Roma. A un professore che lo aveva invitato a restare risponde (con una lettera rimasta a lungo inedita) di essere “convinto che il posto sia a Palermo”, ma spiega che ha scelto Roma per potervi “impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia” e che il suo “non è un abbandono”. Che difatti non vi fu per niente, posto che a Roma Falcone creò, sul versante organizzativo e su quello investigativo-giudiziario, un’antimafia moderna che ancora oggi funziona, nonostante il tentativo stragista di cancellarla col sangue. Il fatto è che neppure oggi l’ottovolante si è fermato. Sono molti (non tutti in buonafede) a sostenere che a più di trent’anni dalle stragi la situazione è cambiata, l’emergenza è finita, per cui occorre ripristinare lo stato di diritto stravolto dalla normativa antimafia. Ma stiamo parlando di una normativa imperniata sull’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, ideato da Falcone, varato subito dopo la sua morte, poi insabbiato, ripescato e approvato solo con l’uccisione di Borsellino. Si tratta dunque di una norma “targata” Falcone-Borsellino. Purtroppo anche intrisa del loro sangue. Ecco di nuovo l’ottovolante, nel senso che è irriverente e quasi oltraggioso (quali che siano le intenzioni) parlare di necessità di recuperare lo stato di diritto accampando tesi che sono frutto di mancanza di memoria e senso etico. Tesi, oltre tutto viziate da un limite culturale che da sempre ci affligge. Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando la mafia mette in atto strategie sanguinarie; trascurando i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie “attendiste”; dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento della politica, dell’economia e delle istituzioni che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale. Perciò quella della mafia, ammesso che possa definirsi emergenza, non è un’emergenza contingente, ma permanente. In ogni caso, la storia di Falcone ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di prendersela con i magistrati “scomodi” perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno, con “troppa” indipendenza. Un malvezzo (che non riguarda ovviamente le critiche, sempre legittime) di recente riciclato per i magistrati che con coraggio e coerenza hanno operato nel cosiddetto processo trattativa, spesso dileggiati persino con linguaggio fantozziano per aver voluto decifrare storie poco chiare che interessano anche la qualità della nostra democrazia. Gratteri “scippa” le celebrazioni a Falcone: gli studenti calabresi invitati a sostenere le inchieste del procuratore di Tiziana Maiolo L’Unità, 24 maggio 2023 Gli studenti dell’Università della Calabria invitati a dare “sostegno alle inchieste giudiziarie” del procuratore di Catanzaro. Se voleva essere ricordato come il successore di Giovanni Falcone, Nicola Gratteri ci è riuscito. E da vivo. Non per il successo delle sue inchieste, su cui almeno per un giorno si può stendere un velo pietoso, ma perché, proprio nell’anniversario della strage di Capaci, il procuratore di Catanzaro viene portato in giro come la madonna pellegrina (e con il suo ultimo libro) e come l’eroe della lotta alla mafia. Celebrazioni in terra di Calabria che assumono le vesti di una sorta di “concorso esterno” per sostenere il processo Rinascita Scott. È reduce da un pellegrinaggio in Puglia, il procuratore, che segue a quello in Lombardia e forse ad altri che ci sono sfuggiti. Sempre con il libro tra le mani, quasi un breviario. E ovunque osannato dai suoi seguaci. Nella città di Martina Franca per esempio il sindaco del Pd, che nel comunicato sull’evento esibisce la foto di un Gratteri con vent’anni di meno, ha bloccato nella giornata di ieri piazze e strade, deviando gran parte del traffico del centro cittadino, per il passaggio della processione gratteresca. “Sarà una giornata sicuramente indimenticabile per tutti noi”, hanno dichiarato il primo cittadino Gianfranco Palmisano e l’assessore alle attività culturali Carlo Dilonardo. Non si conosce l’opinione del collega alla viabilità, e soprattutto dei cittadini, mentre venivano chiuse al traffico una serie di strade e veniva posto divieto di sosta con rimozione a una serie di altre. Neanche stessero arrivando Capi di Stato. Ma se quello che abbiamo appena descritto pare folclore, quello che è stato annunciato per la giornata di oggi a Rende, nella prestigiosa Università di Rende, sulle colline di Arcavacata, dovrebbe preoccupare le massime istituzioni dello Stato e la stessa tenuta della democrazia. Le polemiche politiche a ogni anniversario del 23 maggio con l’uccisione di Giovanni Falcone, piuttosto che del 19 luglio con la morte di Paolo Borsellino, sono all’ordine del giorno. L’anno scorso sulla croce sono finiti il sindaco di Palermo Roberto Lagalla e il presidente della Regione Sicilia Renato Schifani perché non erano andati nelle piazze a gridare di non essere amici di Dell’Utri e di Cuffaro. E la stessa Maria Falcone era stata in seguito criticata per aver finalmente accettato di collaborare, con la sua Fondazione, con il sindaco di Palermo. La Calabria pare lontana dalle polemiche, lì solo celebrazioni. E all’interno dell’Università della sua università più prestigiosa e di un corso di “Pedagogia dell’antimafia” è stata organizzata una giornata di studio con la presenza di due personaggi molto famosi. Al mattino si confronterà con i trecento studenti previsti Luigi De Magistris. Non come leader politico, e neanche come ex sindaco di Napoli piuttosto che come candidato sconfitto delle elezioni regionali. Ma come ex pm della Dda calabrese. Sorprendente. Servono commenti sull’esperienza giudiziaria del dottor De Magistris in Calabria, su come è cominciata e su come è finita? Non servono. Ma se questo è l’antipasto, il piatto forte è quello del pomeriggio. Per l’arrivo del procuratore Gratteri non occorrerà bloccare piazze e strade, visto che lui è super-scortato e passa ovunque con la forza di un carro armato. Al suo fianco, la presenza costante dello studioso che scrive con lui sul fenomeno della ‘ndrangheta, dimostra che si tratti anche oggi dell’ennesima presentazione dell’ultimo libro. Ma l’anniversario di Capaci c’è, e la presentazione dell’incontro ha l’aspetto della lectio magistralis anche se non formalmente. Parlano gli esperti, gli studenti ascoltano. Chissà se, visto che non siamo a un corso di giurisprudenza ma di pedagogia, qualcuno illustrerà ai trecento ragazzi i fondamenti dello Stato di diritto e le regole del processo. Chissà, perché la presenza del Rinascita Scott che si sta celebrando a ottanta chilometri di distanza, nell’aula bunker di Lamezia, si fa sentire, eccome. Tanto che dalla stessa università viene esplicitato il duplice scopo dell’incontro. Da un lato il nobilissimo intento di coltivare la memoria anche come strumento pedagogico e per la formazione critica del pensiero. Il che dovrebbe portare come conseguenza, e secondo scopo del momento d’incontro con due pubblici ministeri, la capacità di coltivare il dubbio. Questo dovrebbe essere il “la” da offrire ai giovani. Questo il bravo pm dovrebbe porgere agli studenti, anche per allargare il pensiero alla logica, il concetto di “ipotesi” da contrapporre a quello di “sintesi”. L’ipotesi dell’accusa nel processo, la dialettica con la difesa e la sintesi della sentenza. Che cosa succede invece? Succede che, prima di tutto, si dà per scontato proprio quel che quest’anno si cerca di superare a Palermo e che determinò il sostanziale fallimento delle commemorazioni del 23 maggio 2022. E cioè che ci sia un allentamento nella lotta alle mafie, solo perché ci sono, sul piano nazionale e in Sicilia anche regionale, governi di centrodestra. E quindi, deducono i bravi docenti di Arcavacata, occorre “stimolare dal basso processi virtuosi di resistenza civile e riscatto sociale che devono passare (anche) dall’esplicito sostegno alle inchieste giudiziarie in corso condotte dalle Procure antimafia calabresi, a partire proprio dal Distretto di Catanzaro e dall’azione antimafia di Nicola Gratteri”. Ecco buttati al vento, in un colpo solo, insieme a Montesquieu e l’intero Illuminismo e i padri costituenti, anche il pensiero dello stesso Giovanni Falcone. Che sarà ricordato nella sua Sicilia e a Palermo in modo, speriamo più degno e più sobrio, con ottanta baby-sindaci e un coro di ragazzi con vigili del fuoco e forze dell’ordine. Davanti all’aula-bunker, e pazienza per questa evocazione simbolica. Ma con la presenza pacifica, speriamo, di tutti i rappresentanti delle istituzioni comunque definiti e colorati. Maria Falcone, personaggio impegnativo, l’anno scorso aveva dato il peggio con gli appelli contro gli “impresentabili”. Ora per fortuna dà il meglio e inaugura un museo con il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, che sarà sul palco anche con il Presidente della Regione Renato Schifani. Sarà oggi la prima volta del procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia, cui va il merito dell’arresto di Matteo Messina Denaro. E speriamo che questo merito venga riconosciuto per quello che è, il frutto di una serie di indagini di tipo tradizionale, quelle di uomini come il generale Mori. E che non spunti qualche seguace delle teorie del complotto o di quell’ex sindaco che accusava Giovanni Falcone di tenere le carte nel cassetto. Quei tempi in Sicilia dovrebbero essere superati. Ora tocca anche alla Calabria fare un passo in avanti. “Attaccare le misure di prevenzione è mafioso”, il siluro del procuratore al libro di Barbano di Errico Novi Il Dubbio, 24 maggio 2023 Il procuratore di Palmi sul libro di Barbano: così si fa il gioco dei boss. È ancora difficile parlarsi. È ancora quasi impossibile discutere con serenità di misure di prevenzione, delle storture incistate nel codice Antimafia. Della barbarie che si realizza talvolta in virtù di quelle norme. Lo dimostra il dibattito, peraltro di altissimo livello, organizzato nello scorso fine settimana a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine degli avvocati di Patti. Al centro della contesa, “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano, meritoriamente assurto a caso editoriale-giudiziario degli ultimi mesi, con la sua potente denuncia degli “abusi” commessi dai “professionisti del bene”. La discussione è inserita nel più ampio programma della due giorni che l’avvocatura di Patti ha dedicato alle “Emergenze del sistema penale”. Vi partecipano una vittima degli abusi di cui parla Barbano, cioè Pietro Cavallotti, e un magistrato, il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti. Cavallotti non può che rievocare l’assurdità, la barbarie appunto delle vicende che hanno polverizzato le imprese della sua famiglia: “Mio padre e i suoi fratelli hanno visto il loro procedimento di prevenzione concludersi con una confisca nonostante l’assoluzione definitiva, nel processo penale, dall’accusa di 416 bis. Noi figli abbiamo visto aprire a nostro carico un ulteriore processo penale, con parallelo procedimento di prevenzione, per “trasferimento di esperienza lavorativa” da parte dei nostri genitori, siamo stati assolti e almeno noi abbiamo ottenuto anche l’annullamento dei sequestri. Peccato che siamo passati dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, visto che il primo ha potuto tralasciare, in virtù della legge, il pagamento di fornitori e tasse, anche se si è ben guardato dal congelare i propri compensi, in tutto 700mila euro. Una misura di prevenzione che toglie il patrimonio agli assolti non è giustizia: è barbarie. Dobbiamo combattere la mafia senza distruggere le persone che con la mafia non c’entrano niente”, ha concluso Cavallotti dopo la terrificante sintesi storiografica sulle ingiustizie avallate dal codice Antimafia. Di fronte a tanta forza narrativa, Crescenti, che pure ha riconosciuto ed enumerato storture e possibili rimedi della “prevenzione”, si è difeso in modo particolarmente “ruvido”. Primo: “Non leggo libri di chi ha subito processi”, avverte in riferimento a “L’inganno” che parla dello stesso Cavallotti e di altri casi analoghi, “così come non leggo un libro sulla malasanità scritto da chi è stato vittima di errore medico”. E già non è una mano tesa verso il dialogo. Poi: “Tra le Sezioni unite e lei, dottore Cavallotti, mi fido delle prime” , replica a proposito del passaggio in cui l’imprenditore aveva ricordato la controversa pronuncia sull’assenza di incompatibilità per il magistrato chiamato a giudicare i ricorsi avverso le misure di prevenzione da lui stesso emesse. E va bene. Ma poi Crescenti ha decisamente alzato il tiro quando ha aggiunto “guai a chiedere di eliminare le misure di prevenzione, perché così si fa il gioco della mafia” e soprattutto quando ha detto che è “mafiosità” indicare come “un problema dello Stato l’aggressione condotta attraverso le misure di prevenzione”. Ora, è chiaro che la discussione si è surriscaldata. Accorato e impietoso, seppure impeccabile nelle argomentazioni, è stato pure il tono di Cavallotti. Eppure la mafiosità evocata dinanzi a chi è stato vittima innocente delle misure antimafia pare insostenibile. Lo ha fatto notare, a Crescenti, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che non ha mancato di ricordare la “vergogna e la barbarie di amministratori giudiziari che non rispondono dei loro atti”. Il procuratore di Palmi l’ha a propria volta condivisa. Ma poi ha ribadito che è “mafioso prendere spunto da un caso per aggredire il sistema”. Lo scarto fra l’enfasi con cui l’antimafia (non Crescenti al quale va riconosciuto di non aver negato la necessità di una “maggiore interdipendenza fra processo penale e misure di prevenzione”) ha sempre proclamato l’intangibilità di quel sistema, da una parte, e le ingiustizie che d’altra parte quel sistema può generare, ecco, quello scarto provoca uno stridore così acuto che parlarsi è impossibile. E perciò, siamo dinanzi all’ennesima dimostrazione di quanto sia urgente rendere più coerenti con lo Stato di diritto le misure antimafia. Ne guadagnerebbe lo stesso spirito costruttivo di un confronto come quello dello scorso fine settimana. 41-bis: non viola il diritto al mantenimento dei legami familiari la rigida cadenza mensile dei colloqui di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2023 La finalità del regime di impedire illegittimi scambi di informazioni non può consentire il ravvicinamento degli incontri. Il regime del carcere duro prevede colloqui di persona o telefonici, ma a cadenza prestabilita che l’amministrazione penitenziaria può legittimamente fare ricorrere circa ogni 30 giorni. Ed è legittimo che il detenuto sottoposto al cosiddetto “41 bis” dell’ordinamento penitenziario si veda negare il ravvicinamento di tali incontri anche se la richiesta si fonda sulle difficoltà dei congiunti a recarsi al penitenziario o alla sede dove effettuare i colloqui. La Cassazione penale - con la sentenza n. 22298/2023 - accoglie il ricorso del ministero della Giustizia contro la decisione del magistrato di sorveglianza che acconsentiva al ravvicinamento dei colloqui ponendone uno a fine mese e quello successivo all’inizio del mese seguente. In realtà, come conferma la Cassazione, l’amministrazione penitenziaria oltre ad avere un potere organizzativo deve rispettare la finalità preminente del regime del carcere duro che è quella di scongiurare il rischio di passaggio di notizie e informazioni in occasione dei colloqui tra familiari e il parente ristretto. In particolare la Cassazione fa notare che il comma 2 quater dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario consentiva al Dap di fissare in circolare che la cadenza degli incontri sia pressoché mensile, rectius “ogni 30 giorni”. Secondo i giudici di legittimità la disposizione del regime del carcere duro sulla cadenza dei colloqui tra detenuti e familiari è fondamentalmente giustificata dalla necessità di isolare affiliati ad associazioni a delinquere individuate rispetto alla vita della consorteria cui appartenevano prima di essere ristretti in carcere. Ma soprattutto va ritenuto legittima la rigidità della cadenza mensile che il giudice di sorveglianza è tenuto a riaffermare senza possibilità di intravedere una lesione di un diritto soggettivo del detenuto. Infatti, una volta garantito il diritto soggettivo al mantenimento dei legami familiari attraverso degli incontri prefissati, l’amministrazione penitenziaria ha diritto a prevedere la tempistica di tali momenti. E la previsione di tale cadenza degrada in capo al detenuto a interesse legittimo raffrontata alle necessità organizzative dell’amministrazione penitenziaria e alle finalità dello specifico regime carcerario. Sicilia. Morti in carcere, l’allarme dei penalisti: “Cultura del silenzio” di Antonio Giordano livesicilia.it, 24 maggio 2023 Morti in carcere, è allarme rosso secondo la Camera Penale di Catania “Serafino Famà”, che in un documento diffuso questa mattina chiede un incontro urgente con il garante regionale dei detenuti. Per la Camera Penale catanese, “si devono risposte a madri, fratelli, figli, congiunti”. L’appello degli avvocati penalisti etnei arriva all’indomani dell’anno terribile per le morti in carcere, soprattutto per suicidio. Nel 2022 infatti, secondo i dati del sito Ristretti Orizzonti che si occupa di documentare il fenomeno, a fronte di un totale di 203 persone morte nelle strutture di reclusione italiane 84 sono state per suicidio. È il record assoluto dal 2000. Di queste, 9 persone si sono tolte la vita in un carcere siciliano. I dati sul 2023 indicano già un totale di 60 morti nelle carceri italiane, di cui 24 suicidi. Di questi, 4 sono morti in Sicilia, e 2 per sciopero della fame. Proprio ai due morti per sciopero della fame nel carcere di Augusta fa riferimento la Camera penale di Catania nel suo documento: “Nelle carceri siciliane sono morti alcuni reclusi - si legge - taluno di loro stava protestando con il civile mezzo dello sciopero della fame. È il grido dei dimenticati. Sale così vertiginosamente e proprio a partire dalla nostra terra la tragica percentuale di morti in carcere”. “Tutto ciò deve destare un allarme speciale - prosegue la nota - merita una adeguata attenzione ed esige risposte serie e ponderate da ogni prospettiva; dalla sede giudiziaria a quella amministrativa; dalla crisi infrastrutturale a tutto ciò che rappresenti, in casi come questi, lo Stato e la sua concezione. Uomini entrati in un penitenziario e licenziati perchè morti (a fronte di uno Stato che dovrebbe garantire loro la vita, la salute, il primato della legge ma anche quello della vera giustizia), propongono un tema caldo, forse meglio dire bruciante”. La “cultura del silenzio” - I penalisti catanesi denunciano una “deresponsabilizzazione diffusa” sul tema delle morti in carcere: “Si è appreso che il Garante Santi Cunsolo ha esaminato gli atti relativi agli ultimissimi tragici avvenimenti e si prefigge di portare avanti le indispensabili e opportune iniziative di sua competenza. La questione, tuttavia, non è risolvibile con astratti richiami alla ‘burocrazia’, alle distonie del ‘sistema’ e via dicendo. Tutto ciò è surreale, vago, e fa il paio con una sorta di deresponsabilizzazione diffusa, che non è più neppure possibile ipotizzare”. “La politica del tutti dentro non è la migliore possibile - si legge ancora nella nota - esistono molti casi in cui le misure alternative alla carcerazione (anche solo in sede cautelare) vengono disapplicate o ignorate pur di rivendicare la dura intransigenza di uno Stato non più credibile il quale ritiene che con la forza e nella forza si possa trovare il rimedio per i suoi troppi mali. Tutto ciò va denunziato e vanno assunte decisioni concrete ed immediate”. L’incontro con il Garante - La Camera Penale di Catania ha dunque chiesto un incontro urgente con il Garante dei detenuti della Regione di Sicilia. Lo scopo, conclude la nota, è di “fare il punto sulla situazione, proporre soluzioni svolgendo adeguate analisi in ordine a tutto ciò, analizzare condizioni e decisioni che possano avere determinato i fatti che qui ci occupano. Va ribadito energicamente che la vita del detenuto è esattamente identica, per valori, contenuti, prospettive e necessità di tutela, a quella di tutti gli altri uomini di questo pianeta”. Treviso. Cinquantenne si impicca in carcere: muore dopo quattro giorni di agonia di Marco Filippi La Tribuna, 24 maggio 2023 Giovedì si è costruito il cappio con due manici di borsa, approfittando dell’ora d’aria per restare da solo. Il decesso lunedì. Era entrato in carcere nel marzo scorso per scontare una pena definitiva per una serie di condanne per reati comuni. Da Santa Bona sarebbe uscito soltanto ad inizio 2025. Quello era diventato il suo orizzonte. Evidentemente un orizzonte troppo lontano per lui. E così giovedì pomeriggio ha approfittato dell’ora d’aria per rimanere solo e impiccarsi con un laccio artigianale della borsa della spesa. È morto in un letto d’ospedale lunedì sera, dopo quattro giorni di agonia. La tragedia - Un detenuto di 50 anni, italiano, residente in provincia di Treviso, è morto dopo 4 giorni di agonia, dopo essersi impiccato in cella. È successo tutto giovedì scorso. L’uomo ha approfittato dell’ora d’aria per rimanere solo e mettere in atto il proposito che evidentemente aveva pianificato da tempo. Con due lacci della borsa della spesa, s’è costruito artigianalmente un cappio con il quale, approfittando del fatto che i compagni di cella erano usciti, s’è impiccato. L’allarme - Sono stati i suoi stessi compagni di cella a lanciare l’allarme, dopo essere rientrati dall’ora d’aria. Purtroppo, però, ai medici della struttura carceraria le condizioni del detenuto sono apparse subito disperate. Sul posto sono poi intervenuti anche i soccorritori del 118 che hanno provveduto a trasportare il cinquantenne all’ospedale di Treviso, dove è stato ricoverato nel reparto di rianimazione. Dopo quattro lunghi giorni di agonia, il detenuto è morto lunedì sera. Sul caso, si aprirà sicuramente un’inchiesta interna al carcere e verranno sentiti testimoni e compagni. Quello che è certo è che l’uomo non aveva mai dato segni di insofferenza prima di giovedì. “Un detenuto modello, che non dava mai fastidio a nessuno e non aveva mai manifestato propositi suicidi”, dicono dal carcere. “Se ci fosse stato il minimo segno di insofferenza, avremmo subito agito per dargli un supporto psicologico”. L’indagine - Anche gli stessi compagni di cella, secondo quanto appreso, sono rimasti scossi dal gesto e dal fatto che mai avrebbero pensato ad un epilogo del genere. Tra l’altro, l’uomo avrebbe dovuto scontare in cella poco meno di due anni di carcere per un cumulo di pene per reati comuni. Non una pena lunghissima. Ma con ogni probabilità per lui, che non era sposato e non aveva figli, l’idea di passare mesi in carcere deve essere stata un’ossessione negativa che lo ha indotto a pianificare di farla finita. Del fatto sono stati informate le forze dell’ordine, ma non ci saranno inchieste penali a meno di sorprese. La dinamica della tragedia è così chiara che sembrano escluse qualsiasi responsabilità di terzi o interne alla struttura. Sassari. Il supercarcere è ora senza direttore: riaffiorano le criticità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2023 Il carcere di massima sicurezza di Sassari di Bancali, dove era detenuto anche Alfredo Cospito, è nuovamente alle prese con una situazione allarmante. Dopo la conclusione del mandato del direttore inviato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’istituto si ritrova privo di una guida, sollevando gravi preoccupazioni e critiche da parte del sindacato di Polizia Penitenziaria Uilpa. In questo contesto, la carenza di leadership nel carcere di Sassari mette nuovamente in luce una serie di problematiche. Il carcere di Sassari, che gestisce detenuti appartenenti al circuito 41 bis e detenuti ad alta e media sicurezza, si trova nell’incapacità di garantire una gestione adeguata senza un direttore stabile. Questa situazione, per il sindacato è solo l’ennesima dimostrazione di come l’amministrazione penitenziaria mostri una mancanza di competenza nel gestire le sfide specifiche della Sardegna penitenziaria. Il continuo cambio al vertice crea confusione e instabilità per il personale, che si trova costretto ad adattarsi a ordini di servizio in continuo cambiamento. Il sindacato sottolinea che un istituto penitenziario di tale complessità e con una tipologia di detenuti così particolare richiede una gestione lungimirante e professionale. Tuttavia, l’amministrazione non sembra riuscire a riconoscere l’importanza di tale sede di incarichi superiori. La mancanza di prospettive di carriera attraenti per il personale dirigenziale contribuisce a un vuoto di leadership e impedisce la crescita e il progresso dell’istituto. Nonostante - a detta del sindacato Uilpa - l’abbandono da parte dell’amministrazione e la carenza di organico, il personale di Polizia penitenziaria dimostra ancora una volta la propria forza, professionalità e senso del dovere. Nonostante le difficoltà e l’assenza di una guida stabile, essi lavorano instancabilmente per garantire la legalità all’interno del carcere di Sassari. Questa dedizione e competenza del personale penitenziario metterebbe in risalto la discrepanza tra i vertici dipartimentali e chi si trova in prima linea. È necessario un intervento urgente da parte dell’amministrazione penitenziaria per risolvere la situazione che sta vivendo il carcere di Sassari. Innanzitutto, è fondamentale individuare un nuovo direttore competente e motivato, in grado di affrontare le sfide specifiche dell’istituto e di fornire una guida stabile al personale. Oltre a garantire una figura di dirigenza adeguata, è necessario porre attenzione alla carenza organica che affligge l’intero sistema penitenziario italiano. La mancanza di personale, evidenziata dal sindacato, rappresenta un grave problema che compromette la sicurezza e il benessere all’interno delle strutture carcerarie. È indispensabile assumere nuovo personale e garantire condizioni di lavoro adeguate per attrarre e trattenere professionisti qualificati. Parallelamente, l’amministrazione penitenziaria dovrebbe promuovere una gestione lungimirante che riconosca l’importanza delle sedi di incarichi superiori come il carcere di Sassari. Offrire prospettive di carriera interessanti e opportunità di crescita professionale potrebbe stimolare i dirigenti e i comandanti ad assumere incarichi nelle sedi più complesse, come questa, favorendo così un ambiente di lavoro più stabile e competente. Inoltre, è essenziale garantire un confronto costante e costruttivo che può favorire la comprensione reciproca delle problematiche e contribuire a individuare soluzioni efficaci per affrontare le sfide presenti nel sistema penitenziario. Ma c’è bisogno di una attenzione rivolta al benessere dei detenuti. È fondamentale garantire un trattamento umano, rispettoso dei diritti fondamentali, e promuovere programmi di riabilitazione e reinserimento sociale efficaci. Un ambiente penitenziario sano e ben gestito non solo favorisce la sicurezza all’interno delle mura, ma contribuisce anche a ridurre la recidiva e a creare una società più sicura. Ma il carcere di Sassari, come Il Dubbio ha riportato più volte, ha un problema particolare per quanto riguarda il 41 bis. Il carcere, inaugurato nel 2015, è stato progettato per ospitare detenuti sottoposti a un regime detentivo speciale ex articolo 41-bis. Tuttavia, le condizioni del reparto dedicato a questo regime, come evidenziato nel passato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, sollevano serie preoccupazioni. L’architettura del reparto, caratterizzata da una progressiva diminuzione di luce e aria, oltre a problemi strutturali come l’allagamento durante le piogge intense, può avere un impatto negativo sul benessere delle persone detenute e del personale che opera all’interno di quest’area. Tale reparto dedicato al regime 41 bis presenta caratteristiche architettoniche che sollevano diverse criticità. Le cinque sezioni scendono in profondità, riducendo gradualmente l’accesso alla luce naturale e all’aria. Piccole finestre poste in alto sulla parete sono l’unica fonte di luce e ventilazione, e la mancanza di illuminazione naturale obbliga sia i detenuti che il personale a dipendere costantemente dalla luce artificiale. Questo tipo di progettazione, oltre a non essere coerente con la finalità del regime speciale, può compromettere il benessere psicofisico di coloro che vivono e lavorano in questo ambiente carcerario. Il Garante nazionale ha evidenziato altre problematiche presenti nel reparto dedicato al regime 41 bis del carcere Bancali di Sassari. Durante le piogge intense, questa parte del reparto era risultata spesso allagata, causando disagi per le persone detenute e per il personale. Tale situazione non solo crea condizioni di vita difficili, ma può anche influire negativamente sulla salute mentale e fisica di coloro che si trovano in questo ambiente carcerario. La progettazione discutibile del reparto 41 bis del carcere Bancali di Sassari solleva gravi interrogativi sul rispetto dei diritti delle persone detenute e sulla tutela del benessere del personale penitenziario. Le condizioni di deprivazione di luce e aria, insieme all’allagamento ricorrente, possono creare un ambiente ostile e opprimente, influenzando negativamente lo stato mentale e fisico di coloro che vi sono ristretti. Allo stesso tempo, anche il personale penitenziario che lavora in queste condizioni difficili può risentirne dal punto di vista psicologico e fisico, con ripercussioni sulla qualità del loro lavoro e sul trattamento dei detenuti. La tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute, inclusa la dignità e il benessere, deve essere prioritaria, anche quando si tratta di soggetti sottoposti a un regime detentivo speciale. Per affrontare le criticità strutturali, è importante valutare interventi che migliorino l’accesso alla luce naturale e all’aria fresca all’interno del reparto. L’installazione di sistemi di illuminazione adeguati e l’implementazione di soluzioni architettoniche che favoriscano la ventilazione potrebbero contribuire a creare un ambiente più salubre per le persone detenute. Così come, la regione Sardegna, non può diventare una isola penitenziaria. Come già osservato nei vari rapporti del Garante nazionale delle persone private della libertà, la Sardegna si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Ciò comporta il trasferimento sull’isola di un elevato numero di ristretti provenienti da altre regioni. A pensare che non ha mai avuto un garante regionale, ma finalmente - a febbraio scorso - il Presidente del consiglio regionale Pais ha nominato come garante, Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale e originaria di Sorgono. Viterbo. Nessuna inchiesta sui pestaggi in carcere, indagati il procuratore capo e la pm Il Messaggero, 24 maggio 2023 Chiusero gli occhi davanti ai pestaggi che avvenivano nel carcere di Viterbo, ora dovranno affrontare il Gip del Tribunale di Perugia. Il procuratore capo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce sono indagati per rifiuto di atti d’ufficio. L’accusa e la relativa richiesta di rinvio a giudizio arrivano dal procuratore Gennaro Iannarone che ha indagato sul caso. È l’8 giugno del 2018 il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia entra nel carcere di Viterbo. Incontra molti detenuti e ascolta i loro racconti. Molti di loro parlano di violenze e soprusi, mostrano i segni delle percosse su braccia e gambe. Il garante presenta un rapporto dettagliato, a cui però non segue nessun approfondimento da parte della magistratura viterbese, nonostante quel rapporto sul tavolo della Procura ci finisce eccome. Nemmeno due mesi dopo la visita nel carcere di Viterbo di Anastasia, un giovane detenuto di appena 20 anni tenta il suicidio dopo essere stato messo in isolamento. Hassan Sharaf, questo il nome del giovane, morirà una settimana dopo in ospedale. Il suicidio fa scalpore, non solo perché è l’ennesimo caso del genere nel penitenziario ma per le modalità con cui è avvenuto. Questa volta la Procura apre un’inchiesta per istigazione al suicidio, ma poco dopo arriva la richiesta di archiviazione. Per i magistrati viterbesi non c’è reato. L’archiviazione suscita sdegno e una ferrea difesa da parte degli avvocati della famiglia del giovane egiziano che in poco tengo ottengono la riapertura del caso e l’avocazione. La Procura generale infatti, letti gli atti dell’esposto presentato dagli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano, decide di togliere le indagini a Viterbo e di portarle avanti in autonomia. Parallelamente apre un procedimento sui magistrati viterbesi. La sintesi del lavoro è nella parola “rifiuto”. Auriemma e Dolce sono accusati di rifiuto di atti di indagini datate 8 giugno 2018, prima della morte di Hassan. Quando i detenuti mostrarono i segni dei pestaggi. Segni di un malessere palese nel carcere, a cui la Procura non diede seguito. “Auriemma - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - in qualità di procuratore indebitamente rifiutava l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, disponendo l’iscrizione nel registro dei non costituenti notizie di reato, nonostante emergessero specifiche notizie di reato quantomeno per lesioni e abuso dei mezzi di correzione”. La pm Eliana Dolce risponde dello stesso reato per non aver compiuto le necessarie indagini al fine di acquisire e verificare le dichiarazioni dei detenuti che avevano riferito al garante di aver subito violenze e percosse, mostrando i segni sul corpo”. L’udienza davanti al gip del Tribunale di Perugia è stata fissata per il prossimo 29 giugno. Roma. Il 30 maggio presentazione del XIX Rapporto di Antigone sulle carceri di Andrea Oleandri* antigone.it, 24 maggio 2023 “È vietata la tortura” è il titolo del XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione che sarà presentato a Roma il prossimo martedì 30 maggio, alle ore 10.00, presso la Federazione Nazionale Stampa Italiana (Corso Vittorio Emanuele II, 349). Nel 2022, l’anno con il più alto numero di suicidi mai registrato nelle carceri italiane, l’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone ha effettuato circa 100 visite in altrettanti istituti penitenziari. Un lavoro di monitoraggio capillare, dal Sud al Nord del paese, dalle carceri più grandi a quelle più piccole, che offre il quadro della situazione del sistema penitenziario italiano, delle sue problematiche e delle riforme necessarie. Dal sovraffollamento che ormai è un problema endemico, allo stato della sanità penitenziaria che in molti casi è al di sotto degli standard a causa dell’assenza di risorse e personale. Dal mancato riconoscimento del diritto all’affettività, con anche un ritorno al passato per quanto riguarda chiamate e videochiamate, fino ai presunti episodi di violenze e torture che hanno portato all’apertura di nuovi procedimenti. Il rapporto conterrà al suo interno numeri, dati, statistiche, approfondimenti e storie su questi e altri temi. Per accedere non è necessario accreditarsi ma, per ragioni organizzative, si chiede comunque di confermare la propria presenza scrivendo a oleandri@antigone.it e segreteria@antigone.it. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Cuneo. I primi vent’anni dei Garanti dei detenuti di Monica Arnaudo laguida.it, 24 maggio 2023 Ieri mattina, martedì 23 maggio, in Provincia si è parlato di passato e futuro della figura istituita per vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Ricorrono in queste settimane i 20 anni dalle prime istituzioni delle figure di garanzia dei detenuti. Se ne è parlato oggi (martedì 23 maggio) nella Sala Giolitti della Provincia. “Abbiamo pensato che questo anniversario potesse essere l’occasione giusta per fare un punto della situazione anche in termini critici, perché non è detto che il mondo sia cambiato da quando ci sono i garanti” ha detto Bruno Mellano, Garante della Regione Piemonte. Presenti all’incontro anche il presidente della Provincia Luca Robaldo e Stefano Anastasia, Garante della Regione Lazio, portavoce della Conferenza dei Garanti e presidente onorario di Antigone. “I Garanti territoriali sono nati un po’ per caso - ha ricordato Anastasia - all’inizio si pensava a una sperimentazione a livello locale, poi il percorso è continuato e oggi Comuni, Province e Regioni hanno un Garante e da poco è stato ne è stato istituito anche un a livello nazionale. Credo che questa esperienza a livello locale ci abbia fatto riscoprire il valore e l’importanza dei territori nella materia della esecuzione plenaria, io credo negli anni i Garanti territoriali non solo hanno mantenuto la loro ragione di esistenza ma l’hanno rafforzata”. Citando l’art. 27 comma 3 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) Anastasia ha sottolineato la responsabilità dei territori in materia penitenziari. “Non è un articolo che vincola e impegna la sola amministrazione penitenziaria come articolazione del Ministero della Giustizia - ha spiegato - ma se si vuole dare fede all’articolo 27, cioè attuare pene che non siano lesive della dignità della persona e che perseguano la finalità di recupero e reinserimento sociale, l’apporto degli enti territoriali è fondamentale. È una responsabilità della cittadinanza attiva, non solo ministeriale. Pensiamo al fornire ai detenuti assistenza sanitaria adeguata, rieducazione scolastica, formazione professionale e orientamento al lavoro, tutte materie di competenza degli enti territoriali. Quindi serve l’attivazione del territorio, altrimenti l’articolo 27 rimane lettera morta. La nostra responsabilità di Garanti territoriali è innanzitutto quella di stare dalla parte delle amministrazioni territoriali, sollecitarle a fare tutto ciò che è nella loro possibilità e nella loro responsabilità per concorrere a quello scopo che è dato dall’articolo 27 della Costituzione. Per questo l’esperienza dei Garanti territoriali è importante per il passato ma soprattutto per il futuro e andrebbe irrobustita”. Torino. Istruzione e carcere: per un futuro oltre lo stigma di Cinzia Raineri Djerbouh futura.news, 24 maggio 2023 “Quando si esce dalla struttura, il carcere non finisce. Continua: c’è lo stigma. La scuola deve accompagnare i propri studenti al di là del carcere, perché possano trovare una connotazione all’interno di quel mondo che li deve accogliere”, racconta Anna Grazia Stammati, presidente del Cesp dal palco della sala Rosa del Salone del Libro, dove si è tenuta la seconda giornata di “Il carcere e lo specchio”, l’evento organizzato dal Centro Studi Scuola Pubblica (Cesp) e dedicato alla riflessione sul tema delle pene e al diritto dei detenuti. L’articolo 27 stabilisce la natura rieducativa della pena detentiva. Il reinserimento dei detenuti, però, è una procedura molto complessa, che ha bisogno di un intervento multidimensionale. Sonia Specchia, segretaria generale della Cassa delle Ammende, sottolinea come la popolazione carceraria sia variegata: ci sono persone sieropositive, tossicodipendenti, con disabilità o con disagi psichici. Si tratta di problematiche che richiedono una risposta personalizzata, esattamente come quella fornita, ad esempio, dagli insegnanti di sostegno nelle scuole: “Il dentro è una proiezione del fuori e riflette ciò che viviamo nella realtà quotidiana - afferma Specchia - È fondamentale intervenire sul potenziamento della capacità istituzionale”. È fondamentale anche lavorare all’interno delle strutture per assicurare ai detenuti la possibilità di formarsi e di lavorare in funzione di una vita futura, al di fuori del carcere. “La biblioteca - prosegue Specchia - non serve solo a trascorrere il tempo all’interno dell’istituto penitenziario o ad assicurare alle persone un momento di evasione. Per i detenuti, dovrebbe diventare un’opportunità di apprendimento sia da un punto di vista scolastico e universitario, sia professionale, per consentire loro di avere uno sguardo volto al futuro”. La popolazione carceraria è costituita da 56 mila persone. Gli studenti universitari detenuti sono circa 1450, ovvero il 2,6% del totale. Franco Prina, coordinatore nazionale della Conferenza nazionale università poli penitenziari (Cnupp), sottolinea però che i detenuti ad avere un diploma o una laurea - e a poter accedere all’università - sono solo 8mila. Di conseguenza, il numero di studenti detenuti diventa un dato importante, che acquista un valore maggiore se si considera che 600 soggetti si trovano in strutture di media sicurezza, 537 in istituti ad alta sicurezza, 39 al 41bis e 5 in istituti penali minorili. Le iscrizioni riguardano ben 417 corsi di laurea, e due detenuti stanno conseguendo un dottorato. “Studiare significa dare un senso al tempo. Significa poter pensare, riflettere, crescere, acquisire strumenti per affrontare il mondo sia fuori, sia dentro carcere, come nel caso degli ergastolani ostativi. Vuol dire guardare diversamente il mondo e rappresentarsi agli occhi degli altri come qualcosa di diverso, e non solo come un detenuto”, spiega Prina. Pesaro. “La giustizia riparativa”, giovedì l’incontro con l’ex detenuto Lorenzo S. viverepesaro.it, 24 maggio 2023 “Riflettere sul modello di giustizia sanzionatoria, adottare un nuovo paradigma”. Questo l’obiettivo dell’appuntamento “La giustizia riparativa: i benefici per una nuova giustizia comunitaria” in programma giovedì 25 maggio, ore 17, nella sede del Municipio (sala consiliare, 2° piano, piazza del Popolo 1). “Affrontiamo questo tema con ospiti illustri, alla luce della “riforma Cartabia” che assegna agli enti locali la responsabilità di istituire e vigilare sul funzionamento dei Centri per la giustizia riparativa. Il convegno di giovedì, sarà un ottimo strumento di analisi e comprensione della materia e dei recenti aggiornamenti normativi, anche in vista del centro destinato a questa finalità, che il Comune di Pesaro, in collaborazione con la Prefettura, ha previsto di realizzare nel territorio” spiegano Marco Perugini, presidente del Consiglio comunale e Camilla Murgia, assessora alla Crescita e alla Gentilezza, promotori dell’iniziativa. “Sarà un pomeriggio aperto alla città e rivolto, in particolare, agli operatori del settore per coinvolgere la comunità in un percorso che guardi a nuove prospettive e metodologie di giustizia” aggiungono. Il programma prevede l’introduzione di Perugini e di Murgia; seguiranno gli interventi di Giuseppe Ceravolo, vice presidente Coop La Ginestra di Padova; Michela Manganelli, criminologa, mediatrice penale e consulente educativa; Alessio Infantino, dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Presente al pomeriggio anche Lorenzo Sciacca, protagonista del podcast Rai Play Sound e dell’omonimo libro (scritto da Mauro Pescio per Mondadori) “Io ero il milanese” in cui si racconta la storia di Lorenzo S. entrato in carcere per la prima volta a 10 giorni dalla nascita oggi mediatore penale, “un uomo nuovo consapevole delle sue scelte sbagliate” oggi coordinatore del Centro di Giustizia riparativa e mediazione di Padova. “Sarà una bella occasione per affrontare il valore della giustizia riparativa, una giustizia mite, di base volontaria che vuole contenere la violenza e conferire un ruolo importante alla vittima nel restituirle dignità e nel poter partecipare attivamente a un percorso di riparazione della frattura personale e sociale causata dagli errori commessi”, concludono Perugini e Murgia. Evento a ingresso libero e gratuito, posti limitati. Info: presidenza@comune.pesaro.pu.it Oristano. Le professioni del cinema, un corso per i detenuti nel carcere di Massama oristanonoi.it, 24 maggio 2023 Si chiama “Cinema per crescere” ed è un progetto che permetterà ai carcerati della casa di reclusione di Massama di scoprire le professioni legate al settore audiovisivo. Sarà presentato giovedì prossimo, 25 maggio, nel teatro del carcere di Massama, alle 10.30. Il progetto è stato proposto dalla Axè Film di Oristano, attraverso il socio e regista Giampaolo Vallati, in collaborazione con il Cpia 4 di Oristano. È rivolto ai detenuti appartenenti al circuito della media sicurezza della casa di reclusione. “Punta a offrire ai ristretti che intendano parteciparvi una reale possibilità formativa e occupazionale in un settore professionale”, spiega la direttrice del carcere Elisa Milanesi, “quello legato alla costruzione delle varie figure che ruotano intorno alla realizzazione di filmati, che la stessa società proponente ha verificato essere di difficile reperimento in Sardegna” “La casa di reclusione ha accolto e favorito la proposta, nella consapevolezza dell’importanza di costruire percorsi riabilitativi che possano offrire reali possibilità di lavoro dopo il ritorno in libertà, dialogando con la comunità esterna per realizzare progetti realmente inclusivi”, continua la direttrice. Il corso di formazione si articola in cinque moduli di 36 ore ciascuno. Durante il primo si è parlato delle competenze teorico-pratiche della scrittura per audiovisivo. Alla presentazione ufficiale di giovedì sono state invitate le autorità locali e i dirigenti di enti e commissioni regionali che, a vario titolo, si occupano di produzione cinematografica. Parteciperanno anche rappresentanti del terzo settore. Roma. “Dentro ma fuori”. Il podcast realizzato dai detenuti di Rebibbia La Repubblica, 24 maggio 2023 Viene lanciato in occasione dell’anniversario della Strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Falcone, la moglie e la scorta. È stata presentata oggi all’interno dell’istituto penitenziario di Rebibbia la prima puntata del podcast “Dentro ma fuori”, realizzato nell’ambito dell’omonimo progetto promosso dall’Associazione Dire Fare Cambiare e sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. Il podcast viene lanciato in occasione dell’anniversario della Strage di Capaci del 23 maggio del 1992 in cui persero la vita il Giudice Falcone, la moglie e la scorta. All’iniziativa di presentazione del progetto Dentro ma Fuori hanno preso parte: Barbara Funari, Assessora alle politiche sociali e alla salute di Roma Capitale; Valentina Calderone, Garante dei detenuti di Roma Capitale; Marta Bonafoni, Consigliera della Regione Lazio e una rappresentanza dell’Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio. Così spiega il progetto Giulia Morello, Presidente dell’Associazione Dire Fare Cambiare: “Dentro ma Fuori è partito a gennaio scorso con l’obiettivo di scrivere e realizzare un podcast sul tema della legalità insieme a venti detenuti dell’istituto penitenziario Rebibbia Reclusione. Siamo partiti dai racconti di venti persone in condizione detentiva per parlare della vita nelle carceri in funzione di una rieducazione/reinserimento nella comunità. Già il titolo svela il nostro principale obiettivo: creare un ponte tra il “dentro” e il “fuori” per incentivare e agevolare un dialogo e un incontro costruttivo tra questi due mondi, spesso lontanissimi a causa di stereotipi e pregiudizi persistenti. Ringrazio di cuore la direttrice Maria Donata Iannantuono, il comandante Luigi Ardini e la responsabile dell’area educativa Sara Macchia”. Il cuore del podcast destinato a un pubblico ampio e trasversale è la legalità, per interrogarsi sulle sfide che ancora oggi, a più di trent’anni dalla morte dei due magistrati Falcone e Borsellino, il nostro Paese deve affrontare. Dentro ma Fuori ha visto il coinvolgimento di quattro ospiti speciali per incontri propedeutici alla fase di scrittura del podcast: Paola Di Nicola Travaglini, Consigliera della Corte di Cassazione e scrittrice; Rossella Muroni, sociologa, già presidente nazionale di Legambiente; Danilo Chirico, giornalista e presidente dell’Associazione DaSud; Paolo Briguglia, attore. Il podcast è composto da tre puntate, oggi viene lanciata la prima sulle principali piattaforme di distribuzione di podcast. Qui la prima puntata del podcast dal titolo “L’attimo sospeso”. Le successive due puntate verranno diffuse una a settimana gratuitamente. Il podcast è stato scritto e realizzato da venti detenuti di Rebibbia insieme a un team di professioniste e professionisti composto da: Giulia Corradi, Giulia Morello, Silvia Vallerani, Martina Zuccarello, David Mastinu e Gaia Passamonti. Dire Fare Cambiare: no profit nata per volontà di un gruppo di donne operanti nel settore culturale, sociale e ambientale con l’obiettivo di offrire una nuova narrazione della cultura. Tra i progetti più importanti: Lancio del “Manifesto per la Cultura Bene Comune e Sostenibile”- firmato e sostenuto da molti artisti/e, operatori culturali, sociali e istituzioni; Progetto “Per un’ora d’Autore” - una serie di incontri online durante il lockdown con autori e cantautori che una volta a settimana si collegavano con i detenuti del carcere di Livorno e Gorgona; Adozione culturale di Gorgona, ultima isola carcere d’Italia; Progetto “Dal Palco al Parco” - laboratorio teatrale gratuito per gli anziani del Municipio XIV di Roma in collaborazione con Oltre le Parole Onlus; Cambiamo Cultura, portale online per promuovere l’arte e la cultura al femminile. Taranto. I detenuti si occuperanno di 90 gatti. Iniziativa in collaborazione con la Lav pugliasera.it, 24 maggio 2023 La Lav ha lanciato da Taranto un progetto pilota in Italia che prevede che detenuti e detenute si occupino della colonia felina (circa 90 gatti) presente nelle aree del carcere. Con un protocollo d’intesa firmato col direttore del carcere, Luciano Mellone, Lav si impegna a formare detenute e detenuti e a curare le adozioni e le sterilizzazioni dei gatti presenti all’interno del carcere. Per la colonia felina riconosciuta, detenuti e detenute costruiranno le cuccette, realizzeranno cuscini e giochi e con il supporto della Lav impareranno a prendersi cura del loro benessere. “Dopo un lavoro di coordinamento cominciato nel 2020 e interrotto a causa epidemia Covid19, finalmente siamo riusciti a far partire questo progetto di cui siamo particolarmente fieri. Oltre ad essere il primo in Italia, avremo modo, con il supporto del Centro italiano consulenza relazionale B.A.U. e di Patrizia Pizzuto, responsabile dell’Area trattamentale della casa circondariale di Taranto, di dimostrare come la vicinanza e il contatto con i gatti dia beneficio emotivo a chi vive una situazione estrema e difficile”: lo dichiara Rosj Savino, responsabile della Lav di Taranto. “Troppa confusione su salute mentale, violenza e responsabilità” quotidianosanita.it, 24 maggio 2023 Oltre 80 psichiatri campani intervengono con una lettera aperta sui dibattiti scaturiti dalla cronaca per esprimere “frustrazione” e chiarire che “malattia mentale non è sinonimo di violenza” e “non spetta agli psichiatri ‘curare’ la violenza” o “proteggere i cittadini da essa”. Per questo ci sono “le Forze dell’Ordine, la magistratura e luoghi deputati alla custodia di autori di reati, che sono gli istituti penitenziari e non gli SPDC o i Centri di Salute Mentale”. Per gli psichiatri campani affiancare salute mentale e violenza ha il solo risultato di “aumentare lo stigma sui pazienti psichiatrici veri”. “Siamo frustrati perché costretti non solo a confrontarci quotidianamente con la violenza (spesso non agita da veri pazienti psichiatrici ma da persone che usano la psichiatria come rifugio da sanzioni penali), ma veniamo anche ritenuti penalmente responsabili dei reati che queste persone compiono”. A dirlo è Anna Formato, psichiatra in servizio presso l’UOSM di Pozzuoli, in una lettera aperta sottoscritta da altri (per ora) 82 psichiatri di Napoli e Provincia. Una lettera per intervenire, uniti e concordi, sui dibattiti scaturiti dai fatti di cronaca, tra cui la morte della psichiatra Barbara Capovani, ed esprimere la “rabbia infinita” e la “frustrazione devastante” derivante dalle dichiarazioni rilasciate da “una marea di intervistati (magistrati, giornalisti, criminologi, passanti e psichiatri televisivi che frequentano più i salotti che i Centri di Salute Mentale)” che “danno le loro illuminanti interpretazioni e propongono soluzioni”. Con “una costante: delegare agli operatori della Salute Mentale (in particolare ai medici) il compito di rendere più sicura e protetta da atti violenti la vita dei cittadini italiani”. Nella lettera Formato e i colleghi sottolineano, piuttosto, come “non abbiamo deciso quando ci siamo laureati e specializzati di fare i poliziotti: NOI, in quanto medici, dobbiamo essere protetti dalla violenza. Non abbiamo scelto lavorare nel Ssn perché volevamo esibirci nelle arti marziali. Volevamo lavorare nel SSN come medici perché la salute è un diritto dei cittadini garantito dalla costituzione e eravamo fieri di lavorare nel Servizio Pubblico”. Ma gli psichiatri campani spiegano anche di essere arrabbiati perché le parole che spesso si sentono quando si parla di aggressioni e violenze richiamano spesso a “un sillogismo tanto automatico quanto falso: malattia mentale sinonimo di violenza e violenza sinonimo di malattia mentale. Non esiste alcun dato scientifico a riprova di questa equivalenza . La violenza esiste e è sempre esistita e non è una prerogativa di un paziente psichiatrico”, scrivono gli psichiatri campani che, per chiarire ancora meglio il concetto, spiegano come la violenza “non è una malattia ma un comportamento umano e non essendo una malattia non può essere curata. Altrimenti dovremmo curare “obbligatoriamente” i mafiosi, i camorristi responsabili di stragi e quotidiani atti di violenza; i terroristi di qualunque ideologia; i politici e capi di Stato che dichiarano e fanno guerre. L’unico caso in cui questi personaggi vengono inseriti nel circuito psichiatrico è quando lo chiedono essi stessi tramite i loro avvocati per evitare le sanzioni penali corrispondenti ai loro reati”. Gli psichiatri campani sottolineano come, allora, “non spetta agli psichiatri in quanto medici “curare” la violenza né proteggere i cittadini da essa. Ci sono le Forze dell’Ordine, la magistratura e luoghi deputati alla custodia di autori di reati: sono gli istituti penitenziari e non gli SPDC (reparti psichiatrici di cura); non i Centri di Salute Mentale né le strutture riabilitative. A noi medici si chiede invece non solo di curare qualcosa che non è una malattia, ma di mantenere il controllo dell’ordine sociale e provvedere a custodire gli autori di atti violenti. Si aumenta così lo stigma sui pazienti psichiatrici veri, vissuti dagli altri come violenti solo perché malati”. E a chi invoca i TSO rispondono: “Da quando ha cessato di essere uno strumento di cura a beneficio della salute di un cittadino ammalato per diventare una misura di sicurezza a beneficio della sicurezza sociale? Hanno già cambiato la legge 180? Non ce ne siamo accorti. Nei criteri per avviare un TSO non c’è alcun cenno alla pericolosità sociale (dalla 180 in poi) ma solo criteri clinici relativi alla situazione di quel dato momento e all’impossibilità di cure in luogo alternativo all’ospedale. Se scrivessimo su una richiesta di TSO adducendo tra i motivi la pericolosità sociale qualsiasi giudice la rifiuterebbe definendola illegale”. Mentre a chi chiede la riapertura dei manicomi e modifiche della 180 “gettando alle ortiche anni di civiltà e di dignità”, gli psicologi chiedono: “Perché non si parla invece della improvvida, demagogica chiusura degli OPG? E perché in questo clamore non c’è un accenno alla situazione incivile delle carceri, all’edilizia carceraria, alla impossibilità di curare in carcere (come previsto dalla legge) le patologie psichiatriche di persone autrici di reato vista la disastrosa assenza di spazi e operatori? La soluzione attuale è “affidare ai Centri di Salute Mentale” queste persone. Affidare che cosa significa? Fargli da guardiano? Impedire che compia reati? Per tutta la vita?”. E osservando come “questo Ssn di cui eravamo orgogliosi ce lo stanno smantellando sotto i piedi, trasformando inoltre la Psichiatria nello sversatoio di tutto quello che a livello sociale e economico non trova altra risposta”, gli psichiatri campani concludono chiedendo: “Questo SSN e questo Paese di quante Barbara hanno ancora bisogno per proteggere e ridare dignità ai loro operatori?”. Stranieri e droghe, la Corte boccia lo stigma di Letizia Valentina Lo Giudice Il Manifesto, 24 maggio 2023 Se l’approccio incongruamente afflittivo del sistema giuridico si rivela in ogni suo contorno nel Testo unico sugli stupefacenti, è nella “doppia conforme” di quello sull’immigrazione che conferma la propria sublimazione. Del resto, stranieri e detentori di sostanze stupefacenti - a tacer di terroristi e appartenenti alla criminalità organizzata - rientrano a pieno titolo nella categoria dei “nemici” dell’ordine pubblico e della sicurezza, i cui diritti e le cui garanzie sono ritenuti secondari rispetto al simbolismo penale e alla corsa legislativa alla rassicurazione dell’elettorato sensibile ai temi securitari. Ancora una volta la ragionevolezza è prevalsa grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88/2023 depositata l’8 maggio scorso, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità degli articoli 4, comma 3 e dell’art. 5, comma 5 del decreto legislativo 286/98 nella parte in cui determinano l’automatico rigetto della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro nel caso di uno straniero precedentemente condannato ai sensi dell’art. 73 comma 5 D.P.R. 309/90 per condotte di lieve entità connesse allo spaccio di stupefacenti. L’art. 4 comma 3 prevede che non è ammessa la permanenza in Italia dello straniero che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, per “reati inerenti gli stupefacenti”, tout court. La Consulta, nel dichiarare l’illegittimità di questa previsione, ha affermato che non è ammessa l’automatica ostatività di una condanna se questa sacrifica in modo ingiustificato i diritti fondamentali dello straniero prescindendo da una valutazione concreta della sua pericolosità sociale. Difatti, la precedente condanna per un reato inerente agli stupefacenti non è di per sé indice della minaccia all’ordine e alla sicurezza pubblica da parte del suo autore. Il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, applicato automaticamente costituisce misura irragionevole e sproporzionata che, in quanto tale, è discriminatoria. In altre parole, la Corte costituzionale ha finalmente dato atto della mutata percezione sociale e giuridica dei fatti legati agli stupefacenti che per quantità, qualità o modalità della condotta risultano di offensività esigua o inesistente e pertanto non giustificano un ulteriore sacrificio dei diritti del condannato. Per altro verso, non pare casuale che la sentenza sia intervenuta tre giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Cutro, con il quale il Governo ha cancellato dall’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione il permesso di soggiorno per protezione speciale. Essa veniva concessa in tutti i casi l’espulsione dal territorio italiano avrebbe comportato la lesione dei diritti dello straniero e la violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani. Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - intervenuta nel giudizio di costituzionalità per ribadire che i reati in materia di stupefacenti continuano a destare allarme sociale - la Consulta ha voluto ricordare che malgrado l’eliminazione testuale dell’art. 8 della Convenzione europea, esso è principio immanente al sistema che opera attraverso il parametro dell’art. 117 Cost., norma che impone all’Italia di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. In nessun caso la tutela della convivenza sociale, potrà dunque giustificare l’automatico diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per un reato che, pur se contemplato nell’elenco dei reati ostativi, non è in sé necessariamente sintomatico della pericolosità sociale del suo autore. Figuriamoci se trattasi di un reato “senza vittime” quali sono quelli connessi agli stupefacenti. Le vite sospese dei migranti diventati “clandestini” col dl Cutro di Alice Dominese Il Domani, 24 maggio 2023 Secondo avvocati e operatori legali, il Decreto Cutro rischia di compromettere anche le vite di coloro che avevano fatto richiesta di protezione speciale prima che la riforma entrasse in vigore. Il problema è capire cosa significa aver già presentato la domanda di protezione: chi incontrato problemi di accesso all’ufficio rischia infatti di rimanere escluso dalla protezione speciale. Le storie di migranti in attesa da anni di ricevere un permesso di soggiorno in Italia e che da tempo avevano fatto domanda di protezione speciale, mostrano la difficoltà quotidiana di chi vive senza documenti. Adriana è arrivata in Italia dall’Albania alcuni anni fa, quando era incinta. I suoi figli sono cresciuti a Roma, dove ha seguito due corsi di italiano e lavorato come badante, ma ora che il suo permesso di soggiorno provvisorio è scaduto, sono rimasti tutti senza documenti. A gennaio, prima dell’entrata in vigore del Decreto Cutro, su consiglio dell’avvocato che la assiste, ha fatto richiesta di protezione speciale. Dopo mesi di attesa, messaggi via pec inviati e ore di coda per chiedere notizie della sua pratica senza ricevere risposta, martedì scorso Adriana è tornata in questura prima di accompagnare i bambini a scuola: “Mi hanno detto che non possono darmi la protezione speciale perché questo permesso non si fa più, non mi hanno voluto scrivere nulla nero su bianco e mi hanno mandata via. Lo stesso è capitato a una ragazza messicana in coda con me”. Vite distrutte - Senza permesso, Adriana non può spostarsi liberamente, lavorare (se non in nero), fare richiesta di residenza o andare da un medico, e lo stesso vale per i suoi figli. Da quando è in Italia nessun dottore l’ha mai visitata, perché il permesso per assistenza di minori che aveva non glielo permetteva. Solo l’anno scorso è riuscita a portare i suoi figli per la prima volta dal pediatra: “L’Asl non voleva iscrivere mio figlio perché non aveva il codice fiscale e mia figlia, che ora ha 2 anni, perché non aveva la residenza”. La protezione speciale rappresentava per Adriana, e per chi come lei è da anni in Italia senza un permesso regolare stabile, una via d’accesso ai diritti fondamentali. Il Decreto Cutro rischia però di compromettere anche le vite di coloro che avevano fatto richiesta di protezione prima che la riforma entrasse in vigore. Da quando i legami familiari, l’inserimento sociale e la durata del soggiorno dei migranti in Italia non costituiscono più degli indici da valutare per ottenere la protezione speciale, le persone che hanno fatto ricorso per il suo riconoscimento si sono viste negare questo permesso dalla questura, anche se il tribunale aveva ordinato di rilasciarlo. Come nel caso di Umar, in Italia dal 2011 dopo aver viaggiato dalla Nigeria attraverso la Libia. Dopo mesi senza ricevere risposta, ora anche lui rischia di rimanere senza documenti fino a data da destinarsi. “Il tribunale mi aveva detto che avevo diritto alla protezione, ma la questura ha detto il contrario. Ho provato a chiedere spiegazioni ma lì nessuno sa mai niente, c’è sempre tanta confusione e spesso ci trattano male. Anche se forse hanno ragione, perché c’è sempre tanta gente per chiedere il permesso di soggiorno. Ti fanno mettere una firma su un foglio, ma quando hai finito di fare la coda ti dicono che hai fatto quella sbagliata e ti mandano da un’altra parte”, dice Umar, che ha appena concluso il suo turno di pulizie negli uffici del centro città, prima di andare a seguire il corso di italiano che ha iniziato da poco. “Ora non so cosa fare, ma non posso tornare indietro. Vorrei solo poter lavorare normalmente qui. A me Roma piace e ci vorrei restare”. Come Umar, anche chi ha ricevuto l’indicazione di recarsi in questura per formalizzare la propria richiesta rischia di perdere l’accesso alla protezione speciale, spiega l’avvocata Cleo Maria Feoli, che assiste migranti e richiedenti asilo: “Il problema è capire cosa significa aver già presentato la domanda di protezione: chi ha dato le impronte in questura non dovrebbe avere problemi, ma chi aveva inviato a mezzo Pec una richiesta di formalizzazione della domanda e ha incontrato problemi di accesso all’ufficio rischia di rimanere escluso dalla protezione speciale”. Lo stesso problema si era creato con le richieste di asilo e di protezione umanitaria dopo il Decreto Salvini, quando i tribunali hanno riconosciuto che le richieste inviate prima dell’entrata in vigore del decreto erano da considerarsi pre-riforma. Senza assistenza medica - A Bari, un’operatrice legale che segue madri con figli in Italia dagli anni 90 racconta che le sue assistite sono spaventate. Alcune di queste donne, invecchiate in Italia senza documenti, hanno sviluppato delle fragilità di salute per le quali difficilmente possono ricevere assistenza medica. In attesa da anni di ricevere un riscontro sulle proprie domande di permesso di soggiorno, avevano riposto fiducia nella protezione speciale, ma la questura non risponde da mesi ai loro solleciti. “C’erano già una serie di problematiche a monte - spiega l’operatrice - ma la riforma complica ulteriormente la situazione. Pur non potendo agire retroattivamente, infatti, la riforma influenza le valutazioni delle commissioni sulle domande di protezione speciale e ci si aspetta un peggioramento anche sulle richieste già depositate”. Se già prima del Decreto Cutro, insomma, le richieste di protezione non venivano valutate sempre coerentemente con la norma, d’ora in avanti, secondo operatori e avvocati, è probabile che l’interpretazione della normativa sarà ancora più restrittiva. Le persone direttamente coinvolte, spesso in situazioni di irregolarità, dovranno così aspettare ancora a lungo prima di poter esercitare i propri diritti. Attese di anni - Per alcuni però la vita senza documenti è insostenibile. Syed è bengalese, ha 25 anni ed è in Italia da 6. È arrivato su un barcone dalla Libia, dove lavorava come benzinaio e lavava le auto, ma se chiedeva di essere pagato veniva picchiato. “Nel viaggio in mare pensavo di morire, non avevamo cibo e mi girava la testa, dormivo poco, vomitavo e svenivo Ma tutti quando compiono 18 anni lasciano il Bangladesh, perché non si può studiare o lavorare lì e con i soldi dei parenti si va a cercare lavoro fuori. Se non si trova nulla, si va in un altro paese ancora”, racconta. Del centro di accoglienza vicino a Bologna dove è stato portato, Syed ricorda il freddo nelle ossa e la fame: “Eravamo 25 persone senza riscaldamento e acqua, non ci davano cibo e dormivamo tutti insieme in tre o quattro letti. Così sono scappato a Roma, da solo”. Qui Syed ha fatto richiesta per il passaporto senza mai riceverlo e la comunità bengalese lo ha aiutato a trovare un lavoro in pizzeria, dove lo pagavano in nero e poco, finché un suo amico gli ha detto di raggiungerlo a Padova. Dopo che la sua domanda di asilo è stata rigettata, un permesso di soggiorno provvisorio gli ha consentito di essere assunto regolarmente come cameriere e di dividere un affitto con altre cinque persone. Da quando il permesso è scaduto però, Syed ha paura di uscire per strada e di perdere il lavoro: “Ho fatto domanda di protezione speciale perché mi hanno detto che dà più diritti, ma aspetto da quasi un anno una risposta dalla questura. Senza documenti non posso fare nulla. Ogni giorno mi alzo e vado a lavorare, torno a casa e ricomincio, vorrei andare a trovare la mia famiglia, ma non posso fare nient’altro. Non ho una residenza, non posso aprire un conto o andare dal medico. Sono triste e stanco”. In Italia Syed ha sviluppato un problema a un occhio: è arrossato e pulsa ma non può essere visitato. Anche quando ha avuto il Covid ed è rimasto a casa per settimane senza mutua, non ha potuto ricevere assistenza. Con i soldi si aggiusta, senza un conto in banca però alcuni datori di lavoro gli hanno detto che non potevano pagarlo e non riesce a inviare soldi ai suoi parenti rimasti in Bangladesh. L’avvocato che lo assiste teme che la sua richiesta di protezione speciale possa essere ignorata. Da quando la sua domanda di asilo è stata rifiutata, anche Syed infatti è seguito da un legale che gli ha permesso di fare ricorso in cassazione per la protezione internazionale, ma non tutti possono contare su questo tipo di supporto. I muri che la questura erge, spiega l’avvocato, costringono i richiedenti a rivolgersi a dei legali per avere più probabilità di ottenere un permesso o anche solo per essere più considerati al momento della formalizzazione della domanda in questura. “In queste fasi amministrative però - prosegue - il legale va pagato, perché non è ancora possibile chiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Ciò avviene in una fase in cui i richiedenti dovrebbero invece poter gestirsi da soli”. Questa situazione crea una differenza di trattamento tra chi, dopo aver tentato più volte di entrare in questura, si è rivolto a un legale e chi no. Questi ultimi richiedenti però difficilmente riusciranno a dimostrare di aver tentato di formalizzare la propria domanda, restando così esclusi dalla protezione speciale. Perché i Centri di permanenza per il rimpatrio devono indignare di Giulia Vicini* altreconomia.it, 24 maggio 2023 Cpr. A dispetto del nome e dei nomi che lo hanno preceduto -Centro di permanenza temporanea (Cpt), Centro di identificazione ed espulsione (Cie), e ora l’acronimo sta per Centro di permanenza per il rimpatrio - si tratta di un luogo di privazione della libertà personale. La stessa struttura di questi centri lo dimostra: alte mura, filo spinato e telecamere sul perimetro. Presidio costante di almeno quattro corpi di forze dell’ordine: esercito, carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza. I francesi hanno trovato un nome per diversificare la privazione della libertà personale dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio dalla detenzione nelle carceri ed è “retention”. In Italia si parla di trattenimento amministrativo. Come lo si voglia chiamare, si tratta della stessa privazione della libertà personale a cui sono sottoposti coloro che sono stati condannati per avere commesso dei reati. Chi sta nel Cpr non può andare da nessuna parte e risponde a regole che sono proprie del carcere, nonostante siano diversi i presupposti per il trattenimento e anche le garanzie e le tutele del trattenuto. I trattenuti nel Cpr sono cittadini stranieri in attesa dell’espletamento delle procedure di esecuzione di un rimpatrio forzato. Tra i presupposti (quantomeno quelli previsti dalla legge) per il trattenimento presso il Cpr vi è quindi anzitutto di non avere o non avere più un titolo per soggiornare regolarmente nel territorio nazionale, un permesso di soggiorno. Prendendo in prestito uno degli alienanti nomi in voga nel dibattito pubblico, chi può essere trattenuto al Cpr è “irregolare”. O, peggio ancora, “clandestino”. Ma, sempre in forza delle norme di legge, l’irregolarità non è sufficiente perché si possa applicare la misura del trattenimento presso il Cpr. È anche necessario che lo straniero sia “espellibile”, che possa essere destinatario di un provvedimento di rimpatrio. Questo perché l’ordinamento nazionale prevede delle ipotesi in cui il cittadino straniero, pur non avendo un permesso di soggiorno, non può essere allontanato dal territorio nazionale. È il caso dei minori, delle donne in stato di gravidanza e -quantomeno fino alla recente riforma della protezione speciale- di coloro che avevano maturato in Italia dei legami famigliari o sociali significativi e degni di protezione. Ulteriore presupposto perché le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere al trattenimento è che il provvedimento di rimpatrio comminato possa essere eseguito con la forza. L’uso della forza e il trattenimento sono infatti previsti come ultima ratio per garantire l’esecuzione del rimpatrio. L’ordinamento disciplina delle misure alternative, meno afflittive della libertà personale, quali ad esempio l’obbligo di firma e il ritiro del passaporto. Questi i presupposti di legge. L’esperienza però ci mostra che nei Cpr vengono spesso trattenute persone inespellibili o che potrebbero avere accesso a misure alternative. Quello che è certo è che chi è trattenuto presso il Cpr non ha commesso alcun reato, o quantomeno non è trattenuto per avere commesso un reato. Il suo trattenimento è unicamente finalizzato a consentire alle autorità di pubblica sicurezza di rimuoverlo forzatamente dal territorio. Che il trattenimento nel Cpr non sia conseguenza di alcun reato è tanto più evidente se si considera che anche chi vi è trattenuto dopo avere espiato una pena in carcere non lo è per “pagare” una pena -appunto già pagata altrove- ma per essere identificato, in un sistema che si rivela incapace, o forse disinteressato a procedere all’identificazione e al riconoscimento durante la (spesso lunga) permanenza in carcere. Per riassumere, della popolazione del Cpr fanno parte coloro che entrano nel territorio senza un titolo per l’ingresso o il soggiorno o che entrano con un titolo trattenendosi però oltre la sua scadenza. Coloro che perdono un titolo di soggiorno spesso per cause non a loro imputabili, quali la perdita dell’occupazione. Ma anche i richiedenti asilo. Coloro che chiedono protezione internazionale perché in fuga da persecuzioni e guerre. Il decreto legge 20/2023 convertito in legge 50/2023 ha peraltro reso il trattenimento del richiedente asilo la norma ogni qualvolta la domanda è presentata “in frontiera”. Dove il concetto di frontiera si amplia a dismisura ricomprendendo territori scelti senza alcuna apparente ragione (si pensi ad esempio Matera) con la conseguenza che alla domanda di protezione presentata in questi territori seguirà un trattenimento. Le direttive europee prescrivono che il trattenimento del richiedente protezione debba rappresentare una misura eccezionale e che si debbano distinguere i luoghi di trattenimento perché diversi sono i presupposti e diverse le procedure e le garanzie. Nondimeno i richiedenti asilo possono essere trattenuti fino a dodici mesi negli stessi luoghi dei cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio. Quando e quanto si può essere trattenuti nel Cpr? Sul quando, si è già detto, lo straniero che viene portato al Cpr non è solo quello che è appena entrato in Italia ma anche quello che si trova nel territorio da moltissimi anni e che nel territorio ha costruito un percorso di vita. Sul quanto vale la pena interrogarsi perché la disciplina degli stessi termini del trattenimento dimostra l’esclusiva funzionalità alla conclusione di un procedimento -quello di espulsione- che molto spesso le autorità non portano a termine. La proroga del trattenimento, dopo i primi trenta giorni, può infatti essere consentita dal Giudice di pace solo se “l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. Il trattenimento può essere prorogato per altri trenta giorni solo se risulta probabile che il rimpatrio venga eseguito. Il trattenimento non solo è funzionale all’esecuzione del rimpatrio ma anche spesso determinato da inefficienze o ritardi della Pubblica amministrazione. Dove si consuma il trattenimento ai fini del rimpatrio? Nonostante le nostre preoccupazioni e la nostra indignazione riguardino spesso, legittimamente, i Cpr, gli stranieri destinatari di misure di rimpatrio vengono trattenuti anche negli aeroporti. In quella Malpensa in cui i titolari di passaporto italiano transitano senza alcun ostacolo e in cui i cittadini stranieri a cui si contesta di “non avere i documenti in regola” al momento del loro arrivo vengono trattenuti anche fino a otto giorni, in aree sterili, senza vedere la luce del giorno e senza avere accesso ai loro oggetti personali, e poi vengono “accompagnati” all’aereo che li riporta a casa. Dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 è inoltre possibile trattenere presso dei locali all’interno delle questure in attesa di rimpatrio. E negli uffici di via Montebello della questura di Milano questi locali esistono e vengono comunemente utilizzati. Infine, quello che forse più deve indignare è come si svolge il trattenimento. Ai trattenuti nel Cpr sono riconosciute garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere, tanto nel procedimento che porta alla privazione della libertà, quanto nelle condizioni materiali di tale privazione. Il caso dell’utilizzo della forza pubblica per l’esecuzione del rimpatrio di cittadini stranieri è l’unico per cui -in alcune ipotesi- la legge nazionale esclude la necessità di una convalida giudiziaria. Questo vale per i respingimenti “immediati” ai valichi di frontiera e anche, con l’entrata in vigore del decreto legge 20/2023, per chi è destinatario di misure di espulsione di carattere penale. Anche dove una convalida giudiziaria è prevista, la stessa è molto al di sotto degli standard del giusto processo, con udienze che si svolgono da remoto, senza concedere ai legali adeguato tempo per conferire con l’assistito, e hanno una durata complessiva di poco più di un quarto d’ora. Nel procedimento di convalida, inoltre, opera spesso un’inversione de facto dell’onere della prova in cui lo straniero deve offrire prova documentale di tutto quello che deduce mentre sulle dichiarazioni rese dalla Questura, parte istante, si fa cieco affidamento. Quanto alle condizioni, l’ampia reportistica risultante dai sopralluoghi effettuati presso i Cpr è più che eloquente. Lo straniero trattenuto non riceve alcuna informativa sui diritti e sui servizi a cui ha titolo. Significativo è che lo stesso venga identificato e arrivando nella sala colloqui con l’avvocato si identifichi con un numero. Quando si iniziano a identificare le persone con i numeri la storia ci insegna che non si arriva mai a nulla di buono. *Avvocata, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione Perché è giusto eliminare la parola “razza” dalla pubblica amministrazione di Arturo Scotto huffingtonpost.it, 24 maggio 2023 Dobbiamo sopprimere quello che è un marchio di infamia che determina sin dalla nascita differenze che non esistono tra esseri umani che condividono lo stesso suolo e la stessa lingua. Sergio Mattarella ha usato parole nette e inequivocabili. A proposito della Costituzione ha ricordato che conta la persona in sè, non l’etnia. Sbarrando la strada a qualsiasi concezione di supremazia della razza. Il presidente ha scelto di dirlo in un momento delicato, dopo che alcune uscite pubbliche di un ministro rilevante e di peso nel governo del paese avevano suscitato nell’opinione pubblica disappunto e rabbia. Sostituzione etnica, razza, ceppo. Per poi fare marcia indietro e spiegare ciclicamente di essere stato equivocato. Il ministro Lollobrigida ha persino dichiarato - proprio sulle colonne dell’HuffPost che era favorevole a eliminare la parola razza dalla Costituzione, facendo riferimento a una proposta di legge da me depositata a inizio legislatura che, per la verità, interveniva esclusivamente sulla Pubblica amministrazione e sui suoi atti. Interessa poco se è una marcia indietro o un modo per uscire da una polemica. Ci sta a cuore la sostanza e che alle parole seguano i fatti. Io credo che vada superata la parola razza come spiega benissimo l’Istituto italiano di Antropologia da anni. Le nuove conoscenze sul Dna mostrano che gli esseri umani condividono il 99,9 per cento del patrimonio genetico e che il restante 0,1 per cento non rimandano a particolari tra gruppi. Ma attorno a quello 0,1 si sono consumate nella storia le più grandi tragedie: guerre, pulizie etniche, campi di sterminio, apartheid, leggi razziali. Attorno a quello 0,1 l’uomo ha praticato il sonno della ragione ed si è reso colpevole di crimini incancellabili. La Francia ha abolito il termine razza dalla propria legislazione già nel 2013, aprendo la strada a una innovazione per l’intera Europa. In un bel corsivo sul Corriere della Sera Paolo di Stefano, scrittore e saggista, spiega che la parola razza ormai è da attribuire soltanto alla sfera non umana come spiegano numerosi studi di antropologi e di filologi. Questa settimana si apre la discussione e il voto nelle commissioni Affari Costituzionali e Lavoro della Camera sul Decreto per il rafforzamento delle capacità amministrative della P.A.: è l’occasione per far passare un principio di civiltà e per eliminare tutte le zone d’ombra di una letteratura giuridica arretrata e condizionata da altre - terribili - stagioni del nostro paese. Abbiamo presentato un emendamento - il 27.08 - che sostituisce per tutti gli atti e documenti della P.A. la parola “razza” con il termine “nazionalità”. Non è una questione di dettaglio, ma una rivoluzione. Perché sopprime quello che è un marchio di infamia che determina sin dalla nascita differenze che non esistono tra esseri umani che condividono lo stesso suolo e la stessa lingua. Ma da soli non ce la facciamo, non abbiamo i numeri e non ci interessa piantare bandierine. Serve un voto bipartisan. Auspichiamo che nella destra si apra un dibattito e si scelga una strada diversa. Sarebbe una bella pagina per il Parlamento italiano. L’educazione al conflitto deve cominciare a scuola di Christian Raimo* Il Domani, 24 maggio 2023 Alla repressione dei movimenti studenteschi e giovanili si è accompagnata anche uno svuotamento di quell’apparato circolatorio della democrazia che sono le assemblee, i consigli, i collettivi. Ecco perché i ragazzi stanno imparando a diventare schiavi del potere. Fa molta impressione negli ultimi mesi vedere come le manifestazioni di dissenso, le piazze e le espressioni del conflitto in pubblico siano non soltanto stigmatizzate e represse da un governo che ha deciso di fare del controllo poliziesco la forma privilegiata di esercizio di potere (dal decreto rave alla decisione di costituirsi parte civile nei processi contro i militanti di Ultima generazione), ma squalificate anche da molte altre componenti democratiche. Il caso Roccella al Salone del libro o il livore - e la reazione penale - che suscitano le azioni dei movimenti ecologisti ci mostra gli effetti di una crisi che spesso non viene analizzata: da dove l’analfabetizzazione di massa rispetto alle categorie e le pratiche della democrazia? Possiamo lasciarci cadere le braccia quando assistiamo per giorni a dibattiti tutti astratti su dissenso e violenza, o indignarci per come sia citata sempre a sproposito l’espressione “fascismo degli antifascisti”, attribuita (da una pletora di politici che va da Matteo Salvini a Matteo Renzi) a Pasolini e da lui mai usata; ma il peggior esito della discussione intorno alle contestazioni è quello di non riconoscere la genesi di quest’analfabetizzazione al confronto politico. L’educazione alla democrazia - Un osservatorio privilegiato per capire come nel tempo si sia degradata l’educazione alla democrazia è la storia dei movimenti studenteschi degli ultimi 25 anni. Di fatto, dopo Genova, l’ultima mobilitazione larga c’è stata sul finire degli anni zero con l’Onda. Ancora sono in carcere manifestanti del 2001 e del 2010. Nel frattempo, nelle scuole italiane, venivano introdotti dispositivi, apparentemente innocui - il registro elettronico, il voto in condotta, o l’alternanza scuola lavoro - che hanno soffocato l’autonomia degli studenti e limitato il loro tempo per formarsi al gioco democratico. Imparare a scrivere gli striscioni, sapere a memoria canti politici, saper organizzare un’assemblea, per esempio, sono saperi che si passano di generazione in generazione politica e che oggi spesso non hanno testimoni capaci di riconoscerne il valore. I movimenti studenteschi nell’ultimo anno hanno subito una repressione durissima: sospensioni, sei in condotta, eliminazione dei viaggi d’istruzione. L’importanza del collettivo - Quello di cui non ci si rende conto è che senza questa vitalità si è sclerotizzato anche l’apparato circolatorio della democrazia formale che dovrebbe dare senso alla formazione democratica della cittadinanza: gli organi collegiali. Chiunque oggi abbia a che fare con consigli di classe, collegi docenti, assemblee di istituto… sa quanto sia spesso frustrante, sterile, caricaturale la partecipazione. Pochissimi studenti usano i collettivi per ragionare intorno ai temi del loro mondo contemporaneo, ancora meno li usano per mettere in discussione il contesto in cui studiano. A luglio di quest’anno cominceremo a commemorare i cinquant’anni dalla promulgazione dei cosiddetti decreti delegati (avvenuta tra il 1973 e il 1974), ma già ora potremmo ricordarci che alle prime elezioni per eleggere rappresentanti di docenti, studenti e professori, votarono nove milioni di persone, di cui quasi la metà partecipò a almeno alle migliaia di assemblee che prepararono quelle elezioni. Si trattava in buona parte di donne mai uscite di casa che prendevano parola per la prima volta. Non erano “anni di piombo”, era una stagione felice, che nel suo libro autobiografico che avrebbe dovuto presentare al Salone persino Eugenia Roccella ricorda come il momento di emancipazione per una donna nata e cresciuta in una provincia del meridione. Anche Emma Bonino, che come Roccella proviene dalla famiglia radicale, prova a ricordarglielo sulla Stampa di ieri, ma non coglie come quello sguardo sul pieno di allora sia lo speculare della mancanza di credito che oggi si dà ai movimenti che lottano, contestano, si prendono denunce, affrontano processi. Un aiuto al potere - Purtroppo anche per le ragioni della diseducazione al conflitto va guardato a quello che è accaduto in questi anni nelle scuole. Cos’è che ha prodotto questo rigurgito di paternalismo diffuso che definiamo boomerismo senza distinguerne gli elementi repressivi? Anche qui, dobbiamo fare un po’ di storia del passato recente: l’invasione di migliaia di incontri per l’educazione alla legalità coordinati da rappresentanti delle forze dell’ordine senza nessuna qualifica pedagogica, l’introduzione di una materia confusa per statuto come l’educazione civica, e le centinaia di progetti sulla comunicazione non ostile, hanno ridotto il concetto stesso di democrazia a scuola al suo opposto: un posto in cui bisogna essere d’accordo con chi ha il potere. *Scrittore e traduttore Smettete di chiamare “ecovandali” gli attivisti del clima di Vera Gheno La Stampa, 24 maggio 2023 Le azioni da parte di Ultima Generazione vengono, dai mezzi di comunicazione di massa, descritte come atti distruttori contro il bene comune e l’arte, nonché la civiltà, tanto che gli attivisti stessi sono stati definiti da più parti ecovandali. La narrazione prevalente dei loro atti dimostrativi è stata pressoché unanimemente critica: va bene protestare contro il disastro climatico, certo, ma c’è modo e modo; e tra i modi possibili di protestare non rientrerebbe, secondo il common sense, quello di imbrattare le opere d’arte, o di fermare il traffico. Come se le rivoluzioni fossero sempre state fatte con i guanti bianchi, seguendo regole da singolar tenzone, piuttosto che come zuffe da strada. Poco importa se la quasi totalità degli atti compiuti da Ultima Generazione e simili è davvero di tipo puramente dimostrativo, o cerca di esserlo: attivisti e attiviste usano prodotti che dovrebbero essere facilmente risciacquabili, proprio perché l’intento non è quello di vandalizzare nulla, bensì di richiamare l’attenzione di un pubblico fortemente distratto su una questione forse più cogente che non l’imbrattamento delle opere d’arte: il fatto che tra poco potremmo non avere un pianeta sul quale mettere in esposizione tali capolavori. Molti media, tuttavia, preferiscono non mettere in luce la reversibilità della maggioranza degli atti compiuti; meglio alimentare la visione degli attivisti e delle attiviste quali giovani sbandati, ignoranti e antisociali, distruttori di cose belle e importanti per il genere umano (come se l’abitabilità del nostro pianeta non lo fosse). Funziona molto bene il processo di othering, alterizzazione, fondamentale per individuare dei colpevoli altri-da-sé e potere così sentirsi innocenti: ciò che provoca le azioni dimostrative non viene mai sottolineato abbastanza, come se questi giovinastri, questi poco di buono si svegliassero la mattina e decidessero di vandalizzare l’arte così, per sport. L’alterizzazione gioca anche su un altro fattore: l’età di chi protesta. La nostra società cerca costantemente, e in tutti i modi, di sminuire le giovani generazioni, le loro azioni, le loro parole - si pensi al trattamento riservato a Greta Thunberg e alle persone che la seguono, definite “gretine” da esimi esponenti del nostro mondo politico; potremmo dire che le giovani generazioni sono colpite da una vera propria ingiustizia epistemica, cioè non sono considerate capaci di produrre conoscenza. Ecovandali, dunque. Vandalo è una delle tante parole che Tullio De Mauro censisce in un articolo uscito il 27 settembre 2016 su Internazionale, intitolato Le parole per ferire. Insieme a ottentotto, scozzese, zulù e molti altri è semplicemente il nome di un popolo che, nell’accezione comune, è diventato derogatorio, cioè offensivo. I Vandali erano una antica popolazione germanica che, secondo lo Zingarelli 2022, “a più riprese invase i territori dell’Impero romano d’Occidente e nel V secolo assalì e saccheggiò Roma”. Oggi, il termine è usato con il significato di “chi, per ignoranza, inciviltà o puro gusto della violenza, distrugge o manomette senza motivo specialmente beni appartenenti al patrimonio artistico o culturale”. Mi pare che le azioni di Ultima Generazione siano tutto fuorché prive di una motivazione. Mi spingerei quasi a dire che i veri ecovandali sono coloro che hanno ridotto il pianeta in questo stato; quindi, anche noi, che con sdegno puntiamo il dito verso i giovani che protestano, ignorando i motivi che portano attivisti e attiviste a protestare in maniera così… fastidiosa. Oms, il diritto alla salute è in gravi condizioni di Nicoletta Dentico Il Manifesto, 24 maggio 2023 A Ginevra la 76ma assemblea della Organizzazione Mondiale della Sanità. Che resta di quella visione utopica dell’Onu 75 anni dopo? La comunità di salute pubblica internazionale è tutta a Ginevra questa settimana per la 76ma assemblea Mondiale della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Un evento fortemente simbolico quest’anno. Settantacinque anni fa diventava operativa l’Oms, la prima agenzia tecnica delle Nazioni Unite, e il diritto alla salute era il primo a farsi diritto internazionale vincolante. Un fatto che pochi conoscono, ma che interpreta un’inequivocabile visione, negli anni del dopoguerra. La classe politica sopravvissuta alla catastrofe di due conflitti mondiali, alla follia di due genocidi (contro armeni ed ebrei), alla ferocia di due ordigni nucleari sganciati in pochi giorni su Hiroshima e Nagasaki, non esitarono a incarnare un’aspirazione decisamente utopica, per rinascere dalle braci della distruzione. Cooperare era meglio che farsi la guerra. Realizzare il più alto livello di salute possibile per tutta l’umanità era la strategia vincente per rendere il mondo un luogo più sicuro. La costituzione dell’Oms, il cui preambolo si staglia come una delle più alte elaborazioni concettuali di politica internazionale, coniuga salute e pace come condizioni per la sostenibilità e la dignità di ogni persona sul pianeta. Che cosa resta oggi di quella visione? È in chiaroscuro la lunga storia dell’Oms, certo, ma non possiamo liquidare le molti luci. In sette decenni l’aspettativa di vita nel mondo è aumentata da 46 a 73 anni, con i progressi più significativi nel sud globale. La campagna contro il vaiolo, iniziata nel 1959, ha portato alla sua eradicazione nel 1980: il vaiolo resta la sola patologia della storia estirpata finora. Siamo vicini a eliminare la poliomielite e il verme della Guinea. In 42 paesi è scomparsa la malaria e in 47 è stata debellata almeno una malattia infettiva. Prima che Covid sconvolgesse il pianeta, tubercolosi e HIV erano sotto controllo. La mortalità materna al parto è crollata di un terzo negli ultimi venti anni, del 50% quella dei bambini - anche se un recente rapporto dell’Oms lancia l’allarme di un pericoloso stallo sulla salute materno-infantile dal 2015, a confermare la fragilità di ogni successo anche nell’era della sostenibilità. L’Oms ha saputo esprimere il meglio di sé quando, avvalendosi del suo potere normativo, ha agguantato la piaga del tabagismo e smascherato la lobby del fumo, che negava la sua connessione con il cancro. La adozione nel 2005 della convenzione sul controllo del tabacco segna una pagina memorabile dell’Oms, e rimanda alla storica riluttanza dei governi di usare questa potenzialità enorme in altri ambiti. Nel 1978, la prima conferenza internazionale sulla salute pubblica voluta dal direttore dell’Oms Halfdan Mahler ad Alma Ata si incuneava nelle pieghe della guerra fredda per proiettare una politica ispirata ai diritti sociali fondamentali e alla richiesta di un nuovo ordine economico internazionale, con lo storico orizzonte della salute per tutti entro l’anno 2000. Questa pietra miliare della salute pubblica ha ridisegnato la cultura sanitaria nel mondo. Mahler ebbe a definire la Dichiarazione di Alma Ata “un momento sacro” e “un sublime consenso” della comunità internazionale. La sua attualità è intatta. Ma nel 1981, a pochi anni da Alma Ata, negli Stati Uniti una nuova patologia del tutto sconosciuta colpiva la comunità gay, salvo poi diffondersi a macchia d’olio su persone di ogni genere ed età. Ci vollero due anni per trovarne l’origine nel virus dell’HIV. Intanto un altro virus si faceva strada, ben più difficile da fronteggiare: l’ideologia dell’economia assolutizzata come mezzo e non come fine ha imposto l’universalizzazione del modello di sviluppo americano, combinato con forme selvagge di deregolamentazione e finanziarizzazione, in tutto il mondo. Il vento del riduzionismo economico ha trasfigurato le politiche sanitarie, ampliando e stratificando le disuguaglianze sanitarie ovunque. Se è vero che dal 2000 è aumentato l’accesso ai servizi sanitari essenziali, è altrettanto evidente che la adozione di programmi verticali su singole malattie, basati sull’approccio biomedico di matrice occidentale - l’opposto della visione di Mahler - ha neutralizzato la spinta di molti paesi - anche nel sud del mondo - verso politiche correlate ai determinanti della salute. L’agenda sanitaria neoliberale ha sospinto con forza una declinazione umanitario-medicalizzata della salute, con il preciso intento di aprire le porte ai privati. Una strategia che ha progettato gli interventi e deformato l’impianto dei sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo, asserviti alle priorità dei donatori. Oggi, il 50% della popolazione mondiale non ha accesso a uno o più servizi sanitari di base, né al personale sanitario. Dal 2000, due miliardi di persone sono costrette a pagare di tasca propria, con sacrifici inenarrabili, i servizi sanitari essenziali: un terzo in più in 20 anni (Oms, 2023). Aumentano intanto i bisogni della popolazione mondiale, sotto gli effetti intossicanti del modello di sviluppo imposto dalla globalizzazione sul suolo, l’aria, le acque, sul modo stesso di vivere delle persone. Cresce la popolazione che vive in uno stato di eccezione quasi permanente, discriminata e marginalizzata come se non fosse umana. Cresce la massa di popoli in movimento alla ricerca di una via di salvezza o solo di una vita degna, costretta a scontrarsi con la ferocia di politiche sicuritarie che alterano lo stato di salute fisico e mentale di chi le subisce ma anche lo stato di salute civile e umana di chi le somministra. Il diritto alla salute non gode affatto di buona salute. E neppure l’Oms, sfregiata nel suo mandato costituzionale dalla tentacolare influenza di interessi privati. Ma guai a ritenerla frettolosamente inutile, o spacciata. L’Oms è la somma della volontà dei suoi stati, il mondo sarebbe ben peggiore senza. Così, tanto per cominciare da noi: che fa l’Italia per sostenere davvero questa organizzazione? Cooperazione nelle indagini sui crimini internazionali, la Francia rema contro il trattato di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 24 maggio 2023 È in corso a Lubiana, capitale della Slovenia, una sessione di negoziati, promossa da 77 stati membri delle Nazioni Unite, per la stesura di una Convenzione sulla cooperazione internazionale nelle indagini e nei procedimenti sul genocidio, sui crimini contro l’umanità, sui crimini di guerra e su altri crimini internazionali. Se la Convenzione vedesse la luce, la cooperazione giudiziaria internazionale garantirebbe alle vittime delle più gravi violazioni dei diritti umani maggiore accesso alla giustizia e alla riparazione. Il testo in discussione prevede una serie di obblighi degli stati, tra i quali la reciproca assistenza, soprattutto in tema di estradizione, nelle indagini e nei procedimenti giudiziari: le une e gli altri, infatti, coinvolgono vittime, elementi di prova e presunti responsabili di diversi stati. Di particolare importanza è l’obbligo, per gli stati che sottoscrivessero la Convenzione una volta entrata in vigore, di processare presunti autori di tali crimini o di consegnarli a un altro stato oppure a un organo della giustizia internazionale. Non è detto che il negoziato di Lubiana si concluda bene. Ieri la Francia, appoggiata dal Regno Unito, ha presentato una proposta che, se approvata, potrebbe indebolire la Convenzione al punto tale da consentire ai criminali di guerra di evadere la giustizia. Si tratta di modifiche alla bozza degli articoli 6 e 11 della Convenzione, che lascerebbero alla discrezionalità degli stati l’istituzione di meccanismi di giurisdizione universale e di norme per l’estradizione di sospetti autori di crimini di diritto internazionale. *Portavoce di Amnesty International Italia Ucraina. Il caso Rocchelli tra fiducia nella giustizia e silenzi ingiustificati di Graziella Di Mambro articolo21.org, 24 maggio 2023 Avere fiducia nella Giustizia. Per i familiari di Andrea Rocchelli è più che un imperativo ed è il motivo per il quale si sono rivolti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Sono passati nove lunghi anni da quel 24 maggio 2014 e oggi in Ucraina c’è una guerra più ampia, eppure nemmeno allora era un luogo di pace. L’assassinio di Andrea e del collega russo Andrej Mironov ne è la prova. Ciò che è successo dopo, nel corso delle varie fasi giudiziarie è anche peggio e adesso, nel momento in cui Italia e Ucraina si dichiarano unite, potrebbe essere il momento giusto per tornare su questa storia. Invece… Per l’uccisione di Rocchelli è stato processato Vitaly Markiv, militare della Guardia nazionale ucraina, condannato a 24 anni in primo grado e poi assolto in Appello e in Cassazione. “La nostra è una irrisolta domanda di verità e giustizia - ha detto Elisa Signori, madre di Andy, in un intervento pubblicato sul sito di Articolo21 e ripreso da ‘La Provincia pavese’ - per un delitto che la magistratura italiana definisce un crimine di guerra, ma su cui si stende l’oblio. L’obiettivo che ci proponiamo è porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli di difendere così la vita di civili e giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra”. Il giornalista italiano fu ucciso in Ucraina in un attacco deliberato delle forze armate ucraine, assieme al collega William Roguelon, che rimase gravemente ferito. Che stavano facendo lì, in quel luogo? Lavoravano. Documentavano il conflitto Russia-Ucraina, andato avanti come adesso tutti sappiamo. Andrea in Ucraina collaborava con la ong Soleterre e tra gli altri servizi ve ne è stato uno sui bambini malati e ospiti della casa-famiglia gestita da Soleterre a Kiev. Raccontava il Donbass, una regione che con questa guerra è diventata famosa. Non si può evitare di notare il silenzio ovattato e incomprensibile che avvolge questa storia, una vicenda che ha molto a che vedere con l’informazione, con il giornalismo che guarda i fatti. I genitori di Andrea Rocchelli, Rino ed Elisa, hanno sempre condannato in modo convinto la guerra in atto e l’invasione della Russia, ma hanno anche ricordato come il governo Zelenskj abbia “proseguito nella linea scelta del precedente, negando la dinamica dei fatti ricostruita dalla magistratura italiana, mentendo e soprattutto costruendo false verità”. E questo è stato tollerato dall’Italia. Andrea Rocchelli era nel Donbass insieme al giornalista Andrej Mironov e al fotoreporter francese William Roguelon, erano esposti, indifesi, si trovavano accanto a dei binari abbandonati e sono stati colpiti da spari provenienti dalla collina su cui si trovava il battaglione Azov. Le ultime foto scattate dal giornalista sono state ritrovate due anni dopo, nel 2016. Nella sentenza del Tribunale viene riconosciuta la provenienza dei colpi: gli spari arrivarono dalla parte ucraina e non furono accidentali. L’Ucraina, il suo governo ha negato sempre. La dinamica di quello che è stato un vero e proprio agguato è chiara, tuttavia in Appello, a novembre 2020, Vitaly Markiv è stato assolto per insufficienza di prove a causa di un vizio di forma del processo di primo grado. In una inchiesta indipendente andata in onda a febbraio 2022, i giornalisti Valerio Cataldi, Giuseppe Borello e Andrea Sceresini, hanno pubblicato l’ultimo tassello di verità: un disertore dell’esercito ucraino, scappato all’estero, ha detto che il suo superiore, il comandante Michail Zabrodskij, dichiarava la responsabilità di questi nella morte di Rocchelli. Zabrodskij è deputato in Ucraina. Come si è visto tante, troppe, volte, le amicizie diplomatiche incidono sulla difficile ricerca della verità e sulla esigenza di giustizia delle famiglie dei giornalisti morti nell’esercizio del loro lavoro. Sta andando così per Giulio Regeni, il caso senza risposte, la storia che non riesce ad approdare in un’aula di Tribunale dove potrebbero essere messe a confronto le prove, gli elementi nuovi e quelli già noti. E sta andando così per Mario Paciolla, una storia declinata in fretta in suicidio e su cui ancora adesso si cerca di mettere un velo impenetrabile. Iran. La premio Nobel Ebadi: “Quattro impiccati al giorno, il regime di Teheran ha paura” di Greta Privitera Corriere della Sera, 24 maggio 2023 L’avvocata e attivista: “Da sempre il regime usa le impiccagioni e la violenza come arma per spaventare. Ma non capisce che questi metodi fanno crescere la rabbia”. “Anche il vetro della tua lapide li infastidisce”, scrive Ashkan Amini. Il giovane curdo iraniano di Saqqez si rivolge alla sorella con una storia su Instagram dove si vede il vetro in mille pezzi che proteggeva la fotografia della tomba di Mahsa Amini, uccisa il 16 settembre dalle guardie dell’ayatollah Khamenei. Postare, denunciare, alludere che al regime il nome di Mahsa pesa come il piombo è affare di coraggio, in Iran. Per molto meno, vieni portato dentro, interrogato, torturato. “Questa generazione di giovani è eroica, più di noi”, dice Shirin Ebadi, 75 anni, che ieri ha partecipato al Global Policy Forum organizzato da Ispi, università Bocconi e Oecd. Giudice, avvocata e attivista, nel 2003 è stata la prima iraniana e prima musulmana a ricevere il premio Nobel per la Pace. Ebadi sa che cosa significa vivere in un Paese in cui se sei donna non puoi esercitare la tua professione, in cui finisci in carcere con accuse inventate - lei ci è stata per 22 giorni - , dove sei costretta ad andartene se non vuoi morire. In esilio a Londra dal 2009, non ha mai smesso di lottare per un Iran laico e democratico. Quando a Oslo ha ricevuto il premio Nobel ha pronunciato queste parole: “La libertà e la democrazia non vengono mai serviti su un piatto d’argento”. Lei quanto ha pagato per la libertà? “Molto, ma non mi sono mai pentita di quello che ho fatto. Anzi, se rinasco ripeto tutto. Continuerò a fare il possibile perché il regime cada. Smetterò di lavorare, di battermi per i diritti umani solo quando l’Iran sarà un Paese democratico”. Da qui, l’impressione è che quello che sembrava l’inizio di una grande rivoluzione abbia subito una battuta d’arresto. Pensa che sia solo un momento o la brutalità della Repubblica islamica ha vinto? “Dovete pensare alla rivoluzione come a un treno sulle rotaie. Prima va veloce, poi rallenta, poi succede che si deve fermare anche in qualche stazione. La rivoluzione iraniana partita dall’uccisione di Mahsa Amini, negli ultimi mesi ha solo cambiato forma. All’inizio erano tutti in strada, adesso un giorno scendono in piazza gli operai per il loro salario da fame, il giorno dopo scioperano gli insegnanti. Il giorno dopo ancora i pensionati, poi gli studenti per un futuro migliore. Se la situazione fosse calma come sembra da fuori, per quale motivo avrebbero dovuto continuare ad avvelenare con il gas gli studenti nelle scuole?”. La scorsa settimana, tre uomini che avevano preso parte alle proteste sono stati impiccati e dal 21 aprile, in tre settimane, la dittatura ha giustiziato decine di persone non legate alle manifestazioni... “In media, impiccano quattro persone al giorno. Da sempre il regime usa le impiccagioni e la violenza come arma per spaventare. Ma non capisce che questi metodi fanno crescere solo la rabbia. La Repubblica islamica non è abbastanza intelligente da ascoltare il proprio popolo, quindi, la miopia di decenni ha portato solo a una speranza comune: la fine della dittatura di Khamenei”. In passato, anche lei pensava che il Paese fosse riformabile, adesso sembra che nessuno creda più in una possibilità di riforma. Che cosa ne pensa? “Sì, forse prima c’era una minima speranza che il regime cambiasse, però più è passato il tempo più abbiamo visto che non esiste modo di migliorare la dittatura. Le persone hanno provato tutte le forme pacifiche possibili, ma hanno anche visto che è stato inutile. Ora vogliamo cacciare il dittatore”. Alcuni sostengono la necessità di una lotta armata. Che cosa ne pensa? “Non credo nella lotta armata, la storia ci ha dimostrato che questo tipo di azioni giustificano i regimi, diventano le scuse dell’oppressore per schiacciare i popoli. Sono felice che gli iraniani, fino a ora, stanno portando avanti una resistenza pacifica”. Lei e personalità come il principe Pahlavi e Masih Alinejad - tutti in esilio - avete fatto parte di una coalizione che si è sciolta ma che si proponeva da traghettatrice per andare verso un referendum. Pensa che la popolazione iraniana abbia bisogno di figure esterne per gestire una transizione? “Qualunque transizione debba essere fatta, sarà compiuta dal popolo all’interno del Paese. Tutto quello che accadrà sarà per mano e volontà degli iraniani. L’opposizione fuori deve unirsi per aiutare a far crollare il regime ma non per decidere al posto di chi sta dentro. Anche Reza Pahlavi dice che lui non intende fare il leader ma crede in un referendum popolare per scegliere il prossimo sistema politico”. Che cosa si aspetta dalla comunità internazionale? “Che i media parlino di quello che succede in Iran e mostrino la violenza che subisce il nostro popolo. E che i governi la smettano di fare affari con la dittatura”. Anche lei ha conosciuto la brutalità della Repubblica islamica... “Sì, ma oggi è peggio. Più il regime si indebolisce più diventa feroce. Ma gli iraniani non hanno più paura di questi uomini”.