Visitare i carcerati per capire che il carcere è un ferro vecchio di Gabriele Terranova* L’Unità, 23 maggio 2023 Qualche anno fa, quando l’Italia fu condannata dall’Europa per le endemiche condizioni di sovraffollamento in cui versavano i nostri Istituti di detenzione, in violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, il Governo Renzi, illustrando il piano per rientrare nella legalità, volle dare atto dell’esistenza di alcuni soggetti indipendenti che eseguono regolari visite nei luoghi di privazione della libertà personale, esercitando un controllo - per così dire - diffuso sul rispetto dei diritti umani e sugli standard di civiltà che vi sono garantiti. Il fatto di essere stati menzionati fra quei soggetti costituì un importante riconoscimento, per noi penalisti delle camere penali che, dal 2006, ci eravamo dotati di un osservatorio carcere proprio con questa finalità. Oggi esiste anche un garante nazionale che si occupa dei diritti delle persone private della libertà personale e tanti garanti nominati dagli enti locali territoriali, ma conserva tutta la sua importanza anche il monitoraggio esercitato da soggetti non istituzionali, fra i quali si segnala in particolare l’associazione Nessuno tocchi Caino, che ha raccolto il testimone di Marco Pannella e della cultura radicale, da sempre attentissima a questi temi. Quest’ultima, sotto lo slogan “Il viaggio della speranza - visitare i carcerati”, ha promosso l’iniziativa, nella quale sta coinvolgendo i penalisti di tutta Italia, di organizzare non singole visite, ma un tour che, regione per regione, si propone di visitare tutti gli Istituti di detenzione del paese e che, ad aprile, ha segnato ben 11 tappe toscane. Il progetto è di grande interesse, non solo per l’impatto comunicativo che, sul territorio, rappresenta l’arrivo della carovana dei visitatori, che organizza sempre conferenze stampa e occasioni di pubblico dibattito, ma anche perché, un pezzo per volta, nel giro di un anno, avremo una radiografia completa di tutto il sistema penitenziario nazionale. L’intenzione finale, per nulla velata, è quella di promuovere anche una riflessione di fondo sull’opportunità di superare il carcere, quale forma di risposta privilegiata all’illegalità, rivelandone il volto brutale e degradante, che è tale sempre e ontologicamente, non tanto per ragioni congiunturali. Gli orizzonti del terzo millennio, nel quale siamo oramai entrati a pieno titolo, offrono ben più estese alternative, magari altrettanto invasive e da adottare con le dovute cautele, a chi ambisce esercitare un controllo sociale, rispetto agli strumenti di cui disponevano i governanti del 700, quando scelsero la prigione come alternativa alle pene corporali e alla legge del taglione. Il discorso ci porterebbe lontano, ma può anche essere declinato in termini minimali, immaginando di cominciare a sostituire i cancelli e le sbarre di metallo con normali porte blindate e vetri antisfondamento e i militari armati con strumenti di controllo telematico (come braccialetti elettronici, ma anche comuni webcam e smartphone geolocalizzati), in modo da contribuire ad assottigliare la differenza concreta fra una prigione e il confinamento coatto - più o meno esteso, a seconda delle concrete esigenze - in luoghi di privata (o pubblica) dimora. Anche il bilancio delle tappe toscane, offre interessanti spunti di riflessione. Ovunque abbiamo trovato strutture datate e ambienti fatiscenti, promiscuità fra gli spazi utilizzati per cucinare e lavare i piatti e i bagni, separati dal resto degli spazi detentivi talvolta solo da una tenda; per non parlare di docce e acqua calda, quasi sempre relegate in ambienti comuni, pregni di umidità stagnante, muffa e cattivo odore. Il tutto a dispetto di diffusi quanto interminabili progetti di ristrutturazione che, sulla carta, avrebbero dovuto garantire condizioni minimali di igiene e decoro e che invece contribuiscono a disegnare un quadro fosco di precarietà ed emergenza. Naturalmente, ovunque mancano le opportunità di studio o lavoro o di altre utili occupazioni e, anche quando il regime detentivo è aperto (si può cioè uscire dalle celle nelle ore centrali della giornata), l’alternativa alla branda è solo quella di passeggiare nei corridoi. Si riscontrano infine continuamente, fra i detenuti, problemi di salute e di dipendenze, quando non veri e propri casi psichiatrici, tutt’altro che rari, in attesa di cure e di quel trattamento individualizzato voluto dalla legge, che spesso cede il passo alla gestione del quotidiano. Unico significativo elemento di conforto: nelle strutture di dimensioni ridotte, a dispetto del degrado e perfino di tassi di sovraffollamento oltre la soglia di tollerabilità, si respira un clima disteso, perché il rapporto fra il personale e i reclusi è più diretto e si instaurano relazioni umane migliori. Speriamo che il messaggio arrivi a chi, quando si parla di piani di edilizia penitenziaria, quale unica, miope risposta a tutti i problemi del settore, propone di costruire maxi-carceri da 5.000 posti, cioè dieci volte i più grandi Istituti della Toscana. *Co-responsabile Regione Toscana Osservatorio Carcere Ucpi Nel 2022 oltre 500 persone in carcere ingiustamente: ecco tutti i numeri di Valentina Stella Il Dubbio, 23 maggio 2023 Il rapporto di errorigiudiziari.com: spesi più di 37 milioni in risarcimenti e indennizzi. Nel 2022 ci sono stati ben 547 casi tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari (-25 rispetto all’anno precedente). In notevole crescita, invece, la spesa complessiva per indennizzi e risarcimenti: poco meno di 37 milioni e 330 mila euro, oltre 11 milioni e mezzo in più rispetto al 2021. Sono queste le cifre aggiornate fornite da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di Errorigiudiziari.com, attraverso l’elaborazione dei dati acquisiti dal ministero dell’Economia e della Giustizia. I due giornalisti li definiscono i “numeri della vergogna” soprattutto se li guardiamo in maniera complessiva dal 1991 al 31 dicembre 2022, durante i quali i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno. Ma vediamo nel dettaglio i dati relativi allo scorso anno rispetto a quante persone sono state arrestate salvo poi essere assolte con sentenza definitiva (ingiusta detenzione) e quante quelle condannate e in seguito riconosciute innocenti dopo la revisione del processo (errore giudiziario). Si legge nel report di Errorigiudiziari.com che nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni. “Ma è obiettivamente difficile - commentano Maimone e Lattanzi - immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema. Assai più probabile, anzitutto, che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Tuttavia un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva (che abbiamo più volte segnalato) secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge”. Tra le ragioni per cui lo Stato respinge le domande troviamo: avvalersi della facoltà di non rispondere, nonostante sia un diritto riconosciuto per legge all’indagato, può essere un esempio di colpa grave che elimina il diritto all’indennizzo; avere frequentazioni poco raccomandabili; non essere stati pienamente collaborativi. Per quanto riguarda le statistiche sugli errori giudiziari veri e propri da gennaio a dicembre 2022 essi sono stati in tutto otto: uno in più rispetto all’anno precedente. Per il secondo anno consecutivo il dato complessivo relativo agli errori giudiziari resta sotto la soglia psicologica di 10. Un occhio infine alla spesa totale in risarcimenti per errori giudiziari. Il 2022 ha visto schizzare clamorosamente questa voce di spesa: 9 milioni e 951 mila euro, oltre 7 volte in più rispetto allo scorso anno. Ma a questo proposito è corretto ricordare che i criteri di elaborazione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione. Come si calcola effettivamente il risarcimento per ingiusta detenzione? In realtà tale domanda non è di per sé corretta. Ce lo spiega senza l’associazione di Maimone e Lattanzi: “In caso di ingiusta detenzione, infatti, lo Stato stabilisce che nei confronti di chi l’ha subita debba essere versato un indennizzo - che tecnicamente è cosa diversa dal risarcimento - perché il danno è stato frutto di una legittima attività dell’autorità giudiziaria. Ecco perché, a differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi, sulla base di parametri di riferimento e con un tetto massimo”. Anzitutto, per quantificare l’importo da corrispondere in caso di ingiusta detenzione, la Corte d’Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il decreto di archiviazione tiene conto di due criteri fondamentali: quantitativo, che si basa cioè sulla durata della custodia cautelare ingiustamente sofferta; qualitativo, che si fonda sulla valutazione caso per caso delle conseguenze negative derivate dalla privazione della libertà personale (per esempio i danni per la reputazione causati dalla pubblicazione sui media della notizia dell’arresto). “Il limite massimo di un indennizzo per ingiusta detenzione è fissato in 516.450,90 euro (tutti i tentativi di alzare questo tetto finora sono falliti)”. In pratica ogni giorno di ingiusta detenzione vale 235,82 euro. L’ammontare di un singolo giorno trascorso agli arresti domiciliari viene invece fissato di solito nella metà: 117,91 euro. Delmastro: “Non accetteremo veti dall’Anm” di Errico Novi Il Dubbio, 23 maggio 2023 Nel suo vivace intervento allo stand del Dubbio nel Salone del Libro, il sottosegretario alla Giustizia ha ribadito con nettezza la propria intransigenza sul carcere come sul caso Cospito, ma ha anche assicurato che, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, il governo non subordinerà le riforme alla “pace” con la magistratura. Andrea Delmastro ha un destino: far parlare di sé. Suscitare contrasti, anche. Basta leggere le reazioni arrivate ieri dal Pd dopo la richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Roma per l’ipotesi di violazione del segreto: da Anna Rossomando a Debora Serracchiani, non ci si è risparmiati dal rivendicare il fatto che, seppur in forma “extrapenale”, una rivelazione indebita del dossier “Cospito/41 bis di Sassari” ci sarebbe stata. E al momento di ri-attaccare il soittosegretario alla Giustizia, le esponenti dem neppure avevano chiaro che il gip non ha archiviato e ha rimesso la decisione all’udienza fissata per luglio. Delmastro però è anche persona trasparente e pronta a mettersi in gioco. Anzi, a esporsi. In tutti i sensi. Anche personali. Lo ha dimostrato nello scorso fine settimana, quando è stato ospite nello stand del Dubbio al Salone del Libro di Torino. Un incontro, serrato, con il direttore del nostro giornale Davide Varì e Gennaro Grimolizzi. Nell’ampio e vivacissimo confronto, a proposito della vicenda Cospito, attorno a cui è divampata la polemica tra lui, il collega di FdI Giovanni Donzelli e il Pd, il sottosegretario alla Giustizia non ha esitato a svelare di averne pagato il costo anche in termini di salute: “Sono stato colpito un mese fa da ischemia”. Ecco: nell’incontro a Torino Delmastro ha chiarito ancora una volta, meglio forse di quanto non gli fosse riuscito in passato, che le sue posizioni sono polarizzate e suscitano reazioni altrettanto estreme, ma che certo non lo si può accusare di essere sfuggente. Il che, naturalmente, ha i suoi risvolti impegnativi. Non tanto riguardo alla visione che il responsabile Giustizia di FdI ha ribadito ancora una volta di avere sul carcere: “Deve esserci anche la componete social-punitiva”, ha detto, “altrimenti la funzione rieducativa finirebbe per assumere un ruolo tirano rispetto alla prima, che pure la Costituzione prevede”. Ha anche confermato l’idea secondo cui si dovrà puntare su “edilizia penitenziaria e rimpatrio dei detenuti stranieri”. Ma poi ha tenuto a dire: “Io che sono considerato in Italia, sul carcere, l’anima nera del trattamento, ripeto che dal mio punto di vista i detenuti con tossicodipendenze andranno inseriti in percorsi ad alta intensità sanitaria di disintossicazione, perché prevedere per loro i laboratori di ceramica ma continuare a somministrare nello stesso tempo il metadone significa non portarli fuori dalla droga”. D’altra parte, anche le sue considerazioni sul 41 bis, che “in un caso come quello di Cospito va mantenuto, come per chiunque minacci lo Stato o suoi uomini come i carabinieri”, risentono non solo dell’irremovibilità sul casus belli ma anche dell’asprezza con cui tengono il punto nei confronti del Pd. E alla domanda del direttore Davide Varì se pensasse di ritirare l’attacco in cui aveva giudicato la visita dei dem al carcere di Sassari “macchiata” da un “inchino alla mafia”, offre la seguente ricostruzione: “Al netto della formulazione della frase, mi chiedo se davvero posso essere deplorato per aver fatto notare che se una delegazione di parlamentari, nobilmente impegnata nell’alto ufficio di visitare i detenuti, obbedisce alla sollecitazione di Cospito secondo cui, prima di parlare delle condizioni sue”, cioè dell’anarchico, “gli esponenti del Pd dovevano passare preliminarmente da alcuni detenuti affilati a camorra o ‘ndrangheta, per me sbagliano, e adottano una condotta assai poco istituzionale”. Nessuna retromarcia. Solo quel vaghissimo “al di là della formulazione della frase”. Però c’è poi un altro risvolto interessante. Che riguarda le riforme. E che offre il titolo fin qui un po’ oscurato dell’intensissima partecipazione del sottosegretario Delmastro ai dibattiti torinesi del Dubbio: il rapporto di “non subordinazione” fra governo e magistratura. Il direttore Varì gli chiede: separazione delle carriere e intercettazioni saranno smorzate dal rischio del conflitto con l’Anm? E lui risponde così: “Come non mi faccio dettare da altri cosa dire su Cospito, così non mi faccio interdire dalla magistratura nel procedere sulle riforme che ritengo necessarie. La separazione delle carriere, dal nostro punto di vista, è un approdo di fine legislatura che realizza, finalmente, in pieno l’articolo 111 della Costituzione, perché garantisce la terzietà del giudice. E implicitamente così assicura anche la costituzionalizzazione di quella parte del processo che è l’avvocato. Un riconoscimento che pure credo troverà spazio nel corso di questa legislatura”. Dunque Delmastro dichiara che si interverrà non solo sulle carriere di giudici e pm, ma anche sull’avvocato in Costituzione. Lo fa con lo stesso tono netto con cui rivendica le proprie posizioni sul carcere. Smentisce le ipotesi di un governo Meloni dissuaso dalla scarsa voglia di aggiungere con l’Anm un fronte ai tanti che già deve fronteggiare. È la parte “buona” che, nel caso di Delmastro, va presa o lasciata con quella su cui si può essere meno d’accordo, cioè con la sua intransigenza sull’esecuzione penale, sulla “certezza della pena”. Prendere o lasciare. Ma certo non si potrà dire che il messaggio politico di Andrea Delmastro sia un florilegio di ambiguità. Il giorno dell’ennesima commissione Antimafia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 23 maggio 2023 Nel trentunesimo anniversario della strage di Capaci si insediano i nuovi membri a Palazzo San Macuto. Ma la bicamerale è ridotta a palcoscenico di una recita stanca data in pasto a un paese che chiede verità. Si insediano oggi, 23 maggio, giorno in cui l’Italia celebra con dolore il trentunesimo anniversario della strage di Capaci, quel maledetto tratto di autostrada dove i corleonesi di Totò Riina massacrarono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Credono che la cipria, un po’ annacquata, della retorica possa nascondere o quantomeno appannare l’inutilità di una commissione parlamentare Antimafia nata oltre sessant’anni fa per contrastare l’invadenza di Cosa nostra e divenuta nel tempo una sorta di Cappella cardinalizia all’interno della quale la politica celebra il proprio impegno - certamente sincero e a tratti persino appassionato - contro l’arroganza dei boss e le trame delle cosche. Un impegno istituzionale, formale, quasi burocratico. Perché, nei fatti, i volumi accatastati nelle stanze di Palazzo San Macuto, sede della commissione bicamerale d’inchiesta, raccontano una storia fatta di lunghe e spossanti audizioni, di interminabili verbali, di ambiziosi ordini del giorno, di relazioni di maggioranza che vogliono comprendere tutto e di relazioni di minoranza che hanno invece la pretesa di narrare il contrario di tutto. Raccontano gli ardori giustizialisti dell’antimafia chiodata, quella che ha assecondato i teoremi, anche i più farneticanti, dei cosiddetti magistrati coraggiosi; e anche la nobile scelta di quei pochi senatori e deputati che hanno insistito comunque per affermare, a costo di essere accusati di intelligenza col nemico, le regole dello stato di diritto. Dibattiti utili, per carità. Che tuttavia non hanno spostato di un solo millimetro il fronte della lotta alla mafia né hanno sollevato di un centimetro le sorti di quelle regioni, come la Sicilia o la Calabria, afflitte da una secolare condizione di degrado e di abbandono. Anzi, hanno finito per giustificare, se non addirittura santificare, quel clima di perenne emergenza all’interno del quale molti apparati e molti professionisti dell’antimafia hanno cercato e cercano ancora di nascondere e salvaguardare i propri privilegi. Diciamolo. La commissione parlamentare Antimafia che oggi va a insediarsi solennemente ha una sola strada per mostrare e dimostrare la propria utilità. Ed è quella di dire ufficialmente al paese alcune verità delle quali i fanatici del giustizialismo e i giudici che vogliono riscrivere la storia d’Italia non intendono purtroppo prendere atto. La prima è che la mafia di trent’anni fa - quella che con le stragi spargeva terrore e sangue - non esiste più: quasi tutti i boss di quella nefanda stagione, buon ultimo Matteo Messina Denaro, sono stati catturati e murati vivi dietro le sbarre di un carcere duro e senza redenzione. Certo, resistono i rimasugli e resiste pure il pericolo di improvvisi e sanguinari rigurgiti di violenza. Ma il dato di fondo è che lo stato ha vinto, grazie al sacrificio dei suoi uomini migliori, mentre la mafia ha perso. Se si prende atto di questa verità si possono rivedere molte cose. C’è da riconsiderare, ad esempio, il mastodontico sistema delle scorte, molte delle quali sono diventate l’ostentazione compiaciuta di un potere giudiziario spesso sovradimensionato. E ci sono da riconsiderare soprattutto i metodi e gli strumenti con i quali sono stati gestiti, in tutti questi anni di processi farlocchi, i pentiti e i pataccari offerti ai collegi giudicanti come oracoli del bene mentre non erano altro che attrezzi di scena per “boiate pazzesche” recitate non sui palcoscenici ma nelle aule dei tribunali. Non è una strada facile. Perché richiede molto coraggio. Ma senza una svolta, decisa e radicale, resta la Cappella cardinalizia di San Macuto con la vecchia liturgia delle chiacchiere inutili, delle mozioni ipocrite e della fuffa beffarda data in pasto a un paese che legittimamente chiede verità e giustizia. Antimafia, è il giorno di Colosimo. I 5S: “Se il nome è quello non votiamo”. E anche FdI si divide di Liana Milella La Repubblica, 23 maggio 2023 Prima riunione, dopo otto mesi di attesa: in commissione anche due parlamentari sotto processo. Meloni non arretra sulla candidata presidente contestata e respinge le ipotesi Carolina Varchi e Wanda Ferro proposte dai dissidenti interni. Peggio di così non poteva partire la commissione parlamentare Antimafia, già segnata dall’indifferenza scritta negli otto mesi di ritardo dall’inizio della legislatura. Oggi la prima riunione, tra impresentabili e divisioni nella stessa maggioranza. Deciso altolà dal M5S, “se il nome è quello non partecipiamo al voto”. Mentre il Pd lancia l’ennesimo appello. Con un “ripensateci”. Ma i meloniani, anche a costo di dividere il partito, hanno deciso che la presidenza debba andare alla deputata Chiara Colosimo, sponsorizzata direttamente dalla premier, nonostante sue antiche frequentazioni con esponenti condannati dell’estrema destra, in primis Luigi Ciavardini dei Nar. E proprio su Colosimo ecco le voci di dissenso di chi, dentro FdI, avrebbe preferito al vertice della commissione due deputate come Carolina Varchi, avvocata e oggi vicesindaco di Palermo, o Wanda Ferro, sottosegretaria all’Interno ed ex componente dell’Antimafia nella scorsa legislatura. La prima è nota in Parlamento per i suoi focosi interventi ogni volta che si parla di giustizia. La seconda è stata una presenza attiva nella commissione presieduta dall’ex grillino Nicola Morra. Ma tant’è, entrambe sono state “sacrificate” dalla decisione di sponsorizzare Colosimo, pur andando allo scontro duro con il Pd e con il M5S. Da entrambi i partiti, ancora ieri sera, un deciso niet alla sola ipotesi di votare per Colosimo. Contro Colosimo il M5s non partecipa al voto - Nettissimo quello del partito di Giuseppe Conte, proprio mentre indiscrezioni dalla maggioranza gli addebitano trattative sottobanco per conquistare una delle due vicepresidenze. Ma ecco, quando sono le 21, una nota dei componenti del M5S della Commissione Antimafia per smentire qualsiasi possibile accordo. “Se la maggioranza dovesse insistere sul nome che è circolato in questi giorni, il Movimento 5 Stelle non parteciperà al voto in segno di totale contrarietà alla scelta che si vuole portare avanti”. Perché “è irrinunciabile che per la presidenza venga indicata una figura che interpreti lo spirito della legge con cui abbiamo istituito la nuova Commissione”. Nessuna trattativa, dunque, per conquistare una delle due vicepresidenze. Una andrà sicuramente a Mauro D’Attis di Forza Italia. Sulla seconda ecco l’altolà dei componenti del M5S della commissione tra cui figurano due ex magistrati come l’ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e l’ex procuratore generale di Palermo ed ex pm antimafia Roberto Scarpinato, rispettivamente oggi deputato e senatore del M5S. Per la pattuglia grillina a palazzo San Macuto “le polemiche di questi giorni sulla presidenza della commissione rischiano di compromettere la credibilità e l’autorevolezza di un’istituzione delicata e importante per la nostra democrazia”. Ed ecco il richiamo alla lettera inviata dalle associazioni delle vittime della mafia e del terrorismo e da Salvatore Borsellino. “Sono loro - scrive il M5S - che interpretano al meglio i valori della giustizia presenti nella nostra società. La commissione Antimafia è un pilastro dell’impegno istituzionale per la legalità, nel rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione. Gli atti della commissione sono nella storia del lavoro investigativo contro le mafie”. Nettissima anche la linea del Pd che invita la maggioranza a fermarsi dalla forzatura che sta per compiersi sulla presidenza Colosimo. Ovviamente nessuna disponibilità a compromessi sulle vicepresidenze, bensì la richiesta ferma di ritirare subito il nome di Colosimo per non avviare il lavoro della commissione contro tante associazioni antimafia e antiterrorismo. Un no arriva anche da Italia viva, con la senatrice Raffaella Paita, che fa parte della commissione: “Senza un accordo istituzionale noi non votiamo nessuno”. Un “no” che riguarda sia la presidente, ma anche i vicepresidenti. Commissari all’Antimafia, ma sotto processo - E infine due curiosità. Della commissione Antimafia fanno parte anche un deputato e un senatore sotto processo per reati contro la pubblica amministrazione, Giuseppe Castiglione e Francesco Silvestro. Alla Camera, e adesso in Antimafia per il gruppo di Azione, l’ex alfaniano ed ex forzista Giuseppe Castiglione è tuttora sotto processo per corruzione a Catania per il Cara di Mineo. Considerato un uomo forte nelle preferenze. E proprio in questi giorni Azione sostiene a Catania, per la poltrona di sindaco, il candidato di FdI Enrico Trantino, l’avvocato figlio dello storico parlamentare del Msi Vincenzo Trantino. Al Senato invece ecco l’imprenditore Francesco Silvestro, noto come “il re dei materassi” per via dell’azienda di famiglia, sotto processo per tentata concussione e falso per vicende di ormai dieci anni fa quando l’attuale senatore era presidente del Consiglio comunale di Arzano, un Comune sciolto per camorra due anni dopo. L’Antimafia di Nicola Morra, alle regionali del 2020, lo aveva indicato tra gli “impresentabili”. Caso Cospito, la Procura chiede l’archiviazione per Delmastro ma il gip si oppone: “Rivelò atto segreto” di Carmine Di Niro L’Unità, 23 maggio 2023 Sull’indagine a carico di Andrea Delmastro, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia del governo guidato da Giorgia Meloni, il gip di Roma vuole vederci chiaro. Il giudice per le indagini preliminari ha infatti fissato a luglio l’udienza per ascoltare le parti, tecnicamente non accogliendo la sollecitazione dell’ufficio della Procura di archiviare le indagini. Il fascicolo aperto nei confronti del sottosegretario parte da un esposto presentato del deputato Angelo Bonelli, di Alleanza Verdi-Sinistra, dopo le parole in aula del deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, che aveva fatto riferimento a conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e altri due detenuti al 41 bis, accusando poi i colleghi parlamentari del Partito Democratico che erano andati a trovare il detenuto di “stare dalla parte dei terroristi con la mafia” citando proprio stralci di quelle conversazioni durante l’ora d’aria tra l’anarchico e gli “uomini d’onore”. Delmastro era indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, per aver rivelato al compagno di partito Donzelli il contenuto di un documento riservato del Gom, il Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria (una scheda di sintesi della polizia penitenziaria), sul caso di Alfredo Cospito, per mesi in sciopero della fame. In una nota la Procura spiega che “la richiesta di archiviazione riconosce l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo ed è fondata sull’assenza dell’elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extra-penale”. In sostanza per i magistrati di Roma il sottosegretario Delmastro non avrebbe potuto condividere col collega di partito Donzelli quelle informazioni riservate che descrivevano i colloqui di Cospito con alcuni boss detenuti con lui al 41 bis, ma il fatto non è punibile in quanto il deputato di Fratelli d’Italia era convinto in buona fede di non star violando la legge non avendo contezza delle norme relative agli atti di indagine provenienti dalle carceri. Con la decisione del Gip di non accogliere la richiesta di archiviazione, solo a luglio dopo l’udienza verrà stabilito se archiviare, ordinare nuove indagini o la formulazione di un’imputazione coatta. I maltrattamenti sono puniti più gravemente se la condotta si è ripetuta anche una volta dopo la riforma di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2023 La nuova sanzione più sfavorevole si applica al reato abituale che si consuma solo cessando il comportamento penalmente rilevante. Non viola il principio di irretroattività della legge penale l’applicazione del nuovo e più gravoso trattamento sanzionatorio introdotto per il reato abituale quando parte di tale condotta si protrae oltre l’entrata in vigore della nuova normativa. Infatti, come nel caso dei maltrattamenti in famiglia, il reato che prevede l’abitualità si consuma solo con la cessazione della condotta di rilevanza penale. Non poteva quindi il ricorrente che maltrattava il figlio minore prima e dopo l’entrata in vigore della legge 69/2019 - che ha aumentato minimo e massimo edittale dell’articolo 572 del Codice penale - lamentare l’illegittimità della pena irrogatagli in base alle disposizioni della nuova legge. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 21998/2023 - ha respinto il ricorso e ha chiarito la corretta interpretazione da dare ai precedenti di legittimità indicati dalla difesa a supporto della non applicabilità delle nuove pene introdotte solo perché la parte minore della commissione dei maltrattamenti era stata realizzata quando era già vigente da qualche mese la nuova legge penale. Reato permanente, nuovo e abituale - In realtà la difesa - come spiega la Cassazione - si era riferita a due differenti fattispecie, rispetto al caso in esame dove si trattava di inasprimento della pena per un reato abituale. Infatti, i casi citati nel ricorso riguardavano uno il reato permanente e l’altro l’introduzione ex novo di una fattispecie penale. Nel caso del reato permanente la Cassazione penale fa notare che rileva la nuova legge più sfavorevole all’imputato se la parte di condotta realizzata post entrata in vigore della novella contiene tutti gli elementi del fatto-reato, per cui si applicheranno le pene più severe. Lo stesso riferimento errato fatto dalla difesa riguarda il precedente di legittimità che ha risolto il caso dell’introduzione di una nuova fattispecie di reato. In particolare, si trattava del reato di stalking. E anche in tal caso non è applicabile la nuova legge penale a chi ha commesso prima e dopo la novella le sue condotte connotate da atti persecutori, se gli elementi costitutivi del reato non si sono realizzati compiutamente dopo l’introduzione legislativa della nuova fattispecie penale. Invece, nel caso che occupa si tratta di applicare al reato abituale di maltrattamenti una pena più grave in ragione della condotta maltrattante proseguita dopo la riforma del trattamento sanzionatorio. In quanto la ripetizione di tali comportamenti anche in una sola occasione dopo l’entrata in vigore della nuova legge si salda compiutamente nella cornice dell’abitualità e dunque non scatta il principio di irretroattività della legge penale. Rapina con la mascherina anticovid, sì all’aggravante del travisamento anche se era obbligatoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2023 Lo ha affermato la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22049 depositata oggi, confermano l’indirizzo di legittimità. Legittima l’aggravante per il travisamento per il rapinatore che nel corso della commissione del reato portava la mascherina anti covid nonostante in quel periodo, novembre 2021, fosse obbligatoria per legge. Lo ribadisce la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22049 depositata oggi. La II Sezione penale ha così respinto il ricorso di un uomo condannato nell’ottobre 2022 dalla Corte di appello di Lecce alla pena di anni sei, mesi due, giorni dieci di reclusione e 2.300 euro di multa per i delitti di rapina aggravata in concorso e porto d’arma. Nel ricorso, l’uomo, tra l’altro, ha sostenuto il vizio di motivazione in relazione alla contestata aggravante, affermando che essendo la mascherina obbligatoria l’intento “non era quello di travisarsi bensì semplicemente quello di non attirare l’attenzione generale, in un periodo in cui transitare in un luogo chiuso col volto scoperto sarebbe risultato inusuale e avrebbe suscitato l’attenzione delle persone circostanti”. Per la Suprema corte però va ribadita la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in tema di rapina, ricorrono gli estremi dell’aggravante del travisamento (ai sensi dell’art. 628, comma terzo, n. 1), cod. pen.), “nel caso in cui - come nella fattispecie - l’agente indossi una mascherina, non rilevando, in contrario, che l’uso della stessa sia prescritto dalla normativa di contrasto alla pandemia da Covid-19, atteso che la parziale copertura del volto mediante la mascherina è funzionale al compimento dell’azione delittuosa, rendendo difficoltoso il riconoscimento del responsabile”. Con la sentenza n. 1712/2022, la II Sezione aveva già affermato che “la presenza di un evidente nesso di necessaria occasionalità con il fatto illecito contestato esclude la possibilità di ritenere tale condotta alla stregua di mero adempimento del dovere”. Lazio. Il presidente della Regione Rocca: “Salute mentale, carcere di Regina Coeli inadatto” askanews.it, 23 maggio 2023 “Apriremo in Regione tavolo dedicato alla tossicodipendenza”. La visita al carcere romano di Regina Coeli non è stato un sopralluogo sporadico. Lo ha spiegato il presidente della regione Lazio, Francesco Rocca, intervenendo a Radio Radicale nel programma Radio Carcere. Rocca ha spiegato che si recherà in visita anche ad altre strutture e ha ripercorso la visita nei giorni scorsi al carcere di Regina Coeli e affrontato la questione del sovraffollamento e delle condizioni difficili in cui versano alcuni detenuti, oltre alla carenza di personale e alla questione della richiesta dei servizi sanitari da parte dei detenuti. “Il carcere di Regina Coeli - ha detto - è inadatto ai problemi legati alla salute mentale” ha aggiunto, spiegando che è necessario trovare soluzioni in modo rapido e adeguate. “A mio avviso se c’è una diagnosi legata alla malattia mentale va individuata una struttura più idonea” ha aggiunto. Parlando in generale della psichiatria ha spiegato che non si tratta di una “Cenerentola” solo in carcere ma dell’applicazione della Legge Basaglia e della “croce” e del “peso” che cade per la gran parte sulle famiglie “servono investimenti” ha spiegato. Per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti “c’è ancora molto da fare. Il carcere invece di essere un luogo di rieducazione e rinascita, diventa un luogo afflittivo”. “Nei prossimi giorni in regione apriremo un tavolo dedicato alle tossicodipendenze” ha aggiunto. Marche. Carceri, rinnovati i progetti di agricoltura sociale e ceramica centropagina.it, 23 maggio 2023 Accordi sottoscritti dal garante Giulianelli per diversi istituti marchigiani e per la Rems di Macerata Feltria. Nuovi accordi sottoscritti dal garante Giancarlo Giulianelli per quanto riguarda le attività trattamentali negli istituti penitenziari delle Marche. Attraverso il protocollo d’intesa con Prap (Amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche) e Università Politecnica delle Marche previsti l’istituzione ed il funzionamento del Polo universitario penitenziario a Montacuto e Barcaglione. Per il triennio accademico 2022 - 2025 con l’Università di Urbino si rinnova, invece, l’attività del Polo universitario regionale presso la Casa di reclusione di Fossombrone. Un’esperienza portata avanti ormai da anni e che nel 2017 ha raccolto anche l’adesione del Garante. Il 24 novembre del 2021 è stato siglato un nuovo protocollo d’intesa tra Prap, Università e la stessa Autorità di garanzia. Nel marzo scorso avviato il secondo corso di “aiuto cuoco” per il Polo professionale presso gli istituti penitenziari di Ancona - costituito nel 2017 tra Garante, Regione e Prap - e rinnovato l’accordo con l’Amap (“Agenzia Marche Agricoltura Pesca”, ex Assam) per il progetto “Agricoltura sociale negli Istituti penitenziari di Ancona”. Obiettivo generale è quello di fornire ai detenuti l’acquisizione e il miglioramento delle competenze professionali di settore. Previsti diversi corsi di specializzazione, attività specifiche come il ripopolamento e la diffusione della “gallina Ancona” e uno studio sociologico inerente l’impatto dell’agricoltura sociale sull’ecosistema penitenziario. Nel corso del tempo l’attivazione dell’iniziativa, anche con la collaborazione di Coldiretti, ha dato vita a una fiorente attività e proprio di recente la “Fattoria Barcaglione” è stata accreditata nell’albo nazionale della rete delle aziende agricole che fanno capo alla Fondazione di “Campagna Amica”. Infine, “Al di qua del muro… L’infinito”, progetto che va ad interessare la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) “Casa Badesse” di Macerata Feltria, gestita dalla società “Atena”. In questo caso si registra la collaborazione tra Garante e Comune e l’iniziativa ripropone, per il prossimo triennio, la realizzazione dell’atelier d’arte di ceramica raku (antica tecnica giapponese) attività già avviata in passato da “Atena” con risultati positivi. “La natura”, “Il viaggio” e “I passaggi del sogno” sono i temi annuali proposti agli ospiti della Rems. Caserta. Il dramma della droga in carcere, la Garante: “Non hanno nulla da fare, bisogna agire” di Rossella Grasso L’Unità, 23 maggio 2023 Non ci gira intorno e parla chiaro: “In carcere purtroppo circola la droga. È questo un problema palese e diffuso in tanti istituti penitenziari italiani”. Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della provincia di Caserta non ci sta a rimanere in silenzio di fronte a un vero e proprio dramma umano che crea reclusi spesso assopiti e non presenti a sé stessi. E non solo. “La droga in carcere genera un sacco di problemi, così mi è stato riportato da diversi familiari che mi supplicano aiuto - dice - persone spente o alterate, indebitate e che chiedono alle famiglie i soldi per pagarsi la dose. E poi capitano anche le liti e gli scontri sempre per colpa delle sostanze stupefacenti. Non si può far finta di nulla”. La garante racconta l’ultimo episodio a cui ha assistito: “Un detenuto, ex tossicodipendente, dopo una lunga trafila burocratica, è stato trasferito dal carcere in una comunità - racconta - non aveva con se la cartella clinica, ma ancora più grave è il fatto che è arrivato in crisi d’ astinenza: il detenuto era in carcere da anni, è evidente che si è drogato abitualmente lì. Un fatto gravissimo”. Per la garante non è un problema di un carcere specifico ma diffuso a livello nazionale. Anche alcune delle rivolte balzate alle cronache potrebbero avere questa spiegazione. “C’è bisogno di maggiori controlli, con perquisizioni garantiste e mai pregiudizievoli, non solo tra i detenuti ma tra tutti coloro che entrano in carcere. La droga non arriva solo con i droni ai detenuti ma potenzialmente da chiunque fa ingresso negli istituti di pena”. Un traffico che danneggia tutti, rende la vita in carcere ancora più drammatica e fa emergere un altro problema quello dell’ozio. “I detenuti in carcere devono obbligatoriamente fare attività trattamentale, studiare e lavorare”- continua la garante. Per la garante le persone in carcere devono essere assistite da psicologi, psichiatri, perché spesso sono proprio gli agenti della polizia penitenziaria a sostituirsi a queste figure professionali che mancano. Spesso ci si aggrappa al “carrello della felicità”, quello fatto di ansiolitici e farmaci calmanti di cui si finisce per far abuso e spaccio. E non sono rari i casi di persone che proprio in carcere hanno iniziato a fare uso di stupefacenti rovinando la loro vita e quella delle famiglie fuori. “Bisognerebbe incrementare obbligatoriamente le attività trattamentali - continua Belcuore - incentivare le proposte dei volontari, attività sportive, qualsiasi progetto che però non sia solo sulla carta. Ogni detenuto dovrebbe avere tante ore al giorno di attività trattamentale. Altrimenti avremo sempre un esercito di assopiti che cerca il modo per tirare avanti”. Belcuore pensa proprio a una proposta di legge per istituzionalizzare tutto questo. Forse nel carcere manca anche quel po’ di umanità e di ascolto che renderebbe la vita delle persone recluse più sopportabile. Secondo la garante Belcuore, un esempio è quello che sta succedendo a Santa Maria Capua Vetere, un carcere diventato noto per la “terribile mattanza” ma che recentemente sta vivendo un vero e proprio cambio di rotta. “In quel carcere ci sono ancora tanti problemi - ha detto - ma devo fare un plauso speciale alla direttrice Donatella Rotundo che con i miei occhi ho visto prodigarsi per i detenuti, anche fuori orario di lavoro e nei fine settimana. Si fa carico dei loro problemi cercando di risolverli con i pochi mezzi che ha. Ascolta le esigenze di tutti ed è riuscita a creare un clima di stima e fiducia, puntando su tante progettualità”. Roma. Rebibbia, detenuti a lezione di gelato: “Così troveremo un lavoro” di Maria Lombardi Il Messaggero, 23 maggio 2023 L’iniziativa dell’associazione “Seconda chance”: il maestro Andrea Fassi insegna i trucchi del mestiere, boom di richieste. “In questa fase non ci interessa se il gelato è buono o cattivo. Ci interessa la struttura”, i sapori verranno, spiega il maestro Andrea Fassi. “Facciamo un ripasso: vi ricordate perché gli ingredienti si sciolgono a bagnomaria? Esatto, per evitare il rischio di retrogusto bruciato”. Kumar ai fornelli gira l’amalgama di cioccolato in un pentolino immerso nell’acqua, come ha appena raccomandato il titolare del Palazzo del Freddo, la gelateria di via Principe Eugenio, a Roma. “Quando esco voglio fare il gelataio o il pasticcere”, e continua a rimestare la crema, “ma non qui, nel mio Paese”, l’India, da cui lo separa un ergastolo. “Il mio sogno, quando torno libero, è mettere su un allevamento di lumache”. “Io, quando sto fuori, voglio fare le pizze”. Fuori da Rebibbia casa di reclusione, dove gli anni si contano in pena e le condanne sono definitive. Ore 12, lezione di gelato. Al laboratorio di cucina e sala lavorazione del carcere si arriva dopo aver superato vari cancelli e cortili. Intorno all’isola di alluminio, dove sono pronte le confezioni di latte, panna e i tondini di cioccolata fondente, i dodici detenuti e il maestro gelataio. “Abbiamo avuto molte più adesioni del previsto e quindi le ore di lezione sono passate da 2 a 4 ore e gli allievi sono diventati una trentina”, Andrea Fassi è al sesto incontro di gelateria in carcere. “A ottobre pensiamo di fare un ulteriore corso, l’idea è di dare tutti gli strumenti per lavorare. Nel nostro laboratorio possiamo uno o due detenuti tra quelli che sono più interessati”. L’azienda bolognese Carpigiani ha offerto alla casa di reclusione, in comodato d’uso per due mesi, una macchina per la produzione di gelato artigianale. “Spero che questo sia solo il primo dei corsi di gelateria che organizziamo nelle carceri italiane”, Flavia Filippi, cronista giudiziaria a TgLa7, ha fondato l’associazione “Seconda chance” proprio con questo obiettivo, “procurare opportunità di lavoro per i detenuti ammessi a lavorare fuori dal carcere. Ora inviteremo a Rebibbia le più famose gelaterie per incontrare i ragazzi che stanno terminando le lezioni, chissà che non ci scappi qualche assunzione”. Sono già 160 le offerte di lavoro procurate in un anno dall’associazione. “Proponiamo agli imprenditori baristi, lavapiatti, cuochi, pasticceri, camerieri, addetti alle pulizie, muratori, meccanici e giardinieri ma anche laureati facendo loro conoscere le agevolazioni fiscali e contributive previste dalla legge Smuraglia in caso di assunzioni di detenuti ed ex detenuti”. Gelataio, perché no? Alessandro, una condanna a 8 anni per spaccio e associazione, non ci aveva mai pensato. “È bello imparare cose nuove, ti liberi la mente e non senti che stai in galera. Io ho seguito tutti i corsi, faccio teatro con il Brancaccio, ho completato il Dams, dipingo e faccio mostre. Speriamo in un futuro migliore e che tutto questo servi per un inserimento”. Dei 300 detenuti della casa di reclusione, “in 15 seguono l’università”, ricorda Sara Macchia, responsabile dell’Area trattamentale, che insieme al comandante della polizia penitenziaria Luigi Ardini ha curato l’organizzazione del corso. “Tra le attività, c’è anche un laboratorio di pratiche filosofiche e un podcast sulla legalità”. G.C. segue la lezione del maestro Fassi in divisa bianca, “qui faccio il cuoco da 11 anni, sono il responsabile della cucina, ho una squadra di sette persone. È una fortuna lavorare, mandiamo i soldi a casa. Io avevo una pizzeria, mi hanno arrestato nel mio locale”. Mancano 5 anni per la fine della pena. “Buonissimo, non si capisce che è un sorbetto”, il detenuto di origine serba si tormenta per il figlio. “L’ho incontrato in carcere, è in cella con me, un pischello, ha preso una brutta strada e mi dispiace tanto. Sono qui per cumuli di pene, reati contro il patrimonio. Ma lui ha fatto anche la scuola, non doveva finire come me. Spero che gli serve a qualcosa, che cambia vita quando esce da qui”. Chissà cosa ci aspetta fuori, il detenuto con il berretto amaranto se lo chiede sempre, “vorrei uscire per i miei genitori, per farmi perdonare, e poi tornare dentro e scontare la mia pena fino all’ultimo. Mi occupavo di informatica e di grafica, avevo una società. Poi è successo: tentato omicidio. Ma tutti noi meritiamo un’altra possibilità”. Una Seconda chance, appunto. “Questa è l’occasione per acquisire una capacità che può essere spesa in ambiente libero”, la direttrice di Rebibbia reclusione, Maria Donata Iannantuono, viene fermata ad ogni passo mentre attraversa un lunghissimo corridoio, “direttrice, scusi”, e c’è una risposta per ogni domanda. “Persone che stanno scontando pene per reati gravi accolgono queste opportunità con entusiasmo”. Napoli. La ricetta del buon caffè? La insegnano a Nisida nel carcere per minori di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 23 maggio 2023 Avviato nel carcere minorile un laboratorio di Consvip per insegnare un mestiere. I corsi per statuette del presepe, pasticceria e lavorazione della pelle. Nisida lascia senza fiato. Per la vastità del mare, che custodisce l’isola di fronte a Napoli e si svela quanto più si sale, e per i punti interrogativi che incombono, all’aprirsi dei cancelli del carcere minorile che lì ha residenza. Proprio lì, dove ci si aspetterebbe che il tempo sia perduto, i ragazzi possono invece accettare la sfida di una seconda possibilità. Dietro le porte serrate molti di loro sono indaffarati in laboratori di varia natura. Le loro mani, ora, sono sporche di farina, colore e stucco. Imparano a sfornare la pizza, a restaurare parti del carcere, a dare forma alla ceramica. E, da poco tempo, a preparare e servire il caffè. È il nuovo laboratorio che grazie a Consvip srl ha trovato spazio dentro le mura dell’istituto. Mario Simonetti, padre del caffè Toraldo, ha accettato di buon grado la sfida: “L’imprenditore non ragiona solo con la tasca, ma anche con il cuore. Se si può fare qualcosa, io ci sono. Vorrei creare una scuola, non solo per chi è detenuto ma anche in chiave preventiva, perché i ragazzi abbiano un’istruzione pratica. I giovani hanno una marcia in più, imparano prima e meglio di noi”. Un ragazzo di Nisida, che ora sa gestire la macchina da caffè professionale, si è lasciato coinvolgere a tal punto da chiedere di servire gli altri detenuti a colazione, scaldare il latte, apparecchiare e sparecchiare. “Vuoi fare il barista da grande?” e la risposta spiazza: “Io ora non penso al futuro”. Il direttore dell’istituto, Gianluca Guida, aiuta a decifrarne il significato: “Viviamo il qui e l’ora, non il futuro, perché il lavoro non è solo il mestiere che imparano durante i laboratori, ma è entrare in relazione con la loro parte migliore e non più rispondere alle attese di altri. Possono guardarsi dentro: questo è il loro tempo”. Chi ha già imparato a fare il caffè racconta i tentativi fatti: ora sa che otto grammi di polvere corrispondono a una tazzina e che “se imparo qualcosa che mi piace, imparo di più”. Una dinamica che si sente raccontare anche nei laboratori di statuette del presepe, di pasticceria e lavorazione della pelle. C’è fermento, ma questo non rende tutto semplice: “Ci sono giornate in cui non mi voglio alzare dal letto e altre in cui sono curioso. Si può sempre scegliere”, dice uno di loro, con una maturità segnata che va al di là dei suoi 17 anni. La pena è certa, per molti è grave e lunga, ma nelle turbolenze quotidiane la maggior parte dei ragazzi vive e cerca la relazione con gli educatori, i professori come un porto sicuro, da cui allontanarsi e a cui tornare. “Le sbarre ci sono evidentemente”, continua il direttore, “eppure cerchiamo di dare un respiro”. Negli spazi restaurati dai ragazzi stessi, non lontano dal laboratorio teatrale dove Eduardo De Filippo insegnava recitazione, c’è una mostra: un’artista napoletana ha indagato il tema della profondità e ha fotografato l’iride degli occhi di alcuni ragazzi. Loro hanno reagito alle immagini: “Chiure ll’uocchie e veco o scuro”; “Vivo più nella mia testa che nel mio cuore”; “Avere un impiego e lasciare il passato”. Uno degli educatori rilegge le frasi e dice “sono ragazzi come tutti, con la loro storia sulle spalle”. Ma persiste la possibilità di scorgere un nuovo orizzonte. Ferrara. Lavoro in carcere. Se ne parla con la Camera Penale e l’associazione Nessuno Tocchi Caino estense.com, 23 maggio 2023 L’evento si terrà oggi (martedì 23 maggio) alle 16 presso la sede dell’Ordine degli Avvocati di via Borgo dei Leoni 60. “Il lavoro in carcere”. È il titolo della conferenza che, organizzata dalla Camera Penale ferrarese “Avv. Franco Romani” e dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, si terrà oggi (martedì 23 maggio) alle 16 presso la sede dell’Ordine degli Avvocati di via Borgo dei Leoni 60. Dopo il saluto dell’avvocato Eugenio Gallerani, presidente dell’Ordine degli Avvocati, toccherà all’avvocato Pasquale Longobucco, presidente della Camera Penale ferrarese, presiedere l’appuntamento. Tra i relatori saranno presenti Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto Costituzionale a Unife, Filippo Barbagiovanni Gasparo, avvocato del foro di Ferrara e responsabile territoriale dell’osservatorio Carcere, Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino ed Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno Tocchi Caino. L’evento si inserisce nel contesto dell’iniziativa “Il viaggio della Speranza” che l’associazione Nessuno Tocchi Caino sta effettuando nelle carceri d’Italia e che questa mattina la porterà nel penitenziario di via Arginone. Genova. Il mondo di Keith Haring colora il carcere di Marassi di Erica Manna La Repubblica, 23 maggio 2023 L’omaggio dei detenuti: un murale lungo 12 metri nello stile dell’artista americano, simbolo di libertà. I personaggi stilizzati e iconici di Keith Haring varcano le mura del carcere di Marassi. Attraverso una mostra, nelle sale di quel teatro che è unico in Europa: il primo costruito da zero - insieme ai detenuti stessi - all’interno di una casa circondariale. Ma non solo: perché su quel muro che separa il dentro dal fuori, proprio di fronte al Teatro dell’Arca, un gruppo di detenuti sta realizzando un murale di dodici metri per sei nello stile dell’artista statunitense. A coordinarli, studenti e docenti dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. “Un modo per creare una prosecuzione ideale della mostra: una volta conclusa l’esposizione, resterà il murale - spiega Mirella Cannata, presidente e anima dell’associazione Teatro Necessario Onlus, progetto che dal 2005 con la Compagnia Scatenati ha coinvolto oltre quattrocento detenuti sul palcoscenico, nella veste di attori e tecnici, ricevendo otto medaglie del presidente della Repubblica - il progetto, sostenuto da Compagnia di San Paolo, è nato perché siamo stati contattati da Elv-Culture of innovation, organizzazione culturale di Milano: l’idea è quella di mettere a punto diversi eventi collegati tra loro. Per far entrare l’arte e la cultura in luoghi alternativi. E rendere meno spesse le mura che separano il dentro e il fuori”. Sono due detenuti, a fare da guida alla mostra dedicata a Haring e a raccontare la vita e la poetica dell’artista che ha realizzato i suoi graffiti nella metropolitana, sui muri delle città, sugli spazi pubblicitari vuoti. Sono quindici le opere in esposizione sulle pareti e sul palcoscenico del Teatro dell’Arca: che per l’occasione si apre all’esterno, la mattina dalle 9 alle 12 per le scuole e la sera dalle 17 alle 20 per il pubblico generico. E il 23 maggio dalle 18 alle 20 è in programma una conferenza organizzata dalla Fondazione dell’Ordine degli Architetti “Progettare gli spazi della pena secondo Costituzione” aperta a studenti e pubblico, con la direttrice del carcere di Marassi Tullia Ardito, l’architetto Cesare Burdese e il professor Andrea Franco del Politecnico di Milano). “Altri detenuti, intanto, stanno realizzando borse e magliette con il disegno che sta prendendo vita sul muro - continua Mirella Cannata - stampate artigianalmente nel laboratorio di serigrafia della sezione di Alta Sicurezza gestito dall’associazione Bottega Solidale all’interno della casa circondariale”. Raccontare i diritti, quando la giustizia diventa letteratura di Beatrice Anfossi Il Dubbio, 23 maggio 2023 Si è tenuta domenica pomeriggio presso Il Salone del Libro di Torino la premiazione che ha segnato la conclusione della terza edizione del concorso letterario Premio Letteratura per la Giustizia, indetto da FAI (Fondazione dell’Avvocatura Italiana) e CNF (Consiglio Nazionale Forense) in collaborazione con Il Dubbio. Un’iniziativa che si inserisce, come ricordato dalla vicepresidente della FAI Francesca Sorbi, nel filone della promozione di valori quali la tutela dei diritti, promossi dalla Fondazione stessa. I partecipanti al Premio Letteratura per la Giustizia erano chiamati infatti a presentare un’opera attinente alle tematiche affrontate ogni giorno da Il Dubbio, quali appunto il garantismo, i diritti e il carcere, nella forma di una delle categorie in concorso: romanzi, racconti brevi, poesie o, novità di quest’anno, “7 parole per un racconto”, una categoria speciale ideata dal giurato e scrittore Claudio Calzana, che ha commentato così l’iniziativa: “7 parole per un racconto invita all’essenzialità, ad arrivare al nucleo centrale di ciò che si vuole dire. La cosa difficile è sicuramente scrivere, ma ancor di più lo è stato giudicare, perché ogni opera presenta dei significati sottintesi non sempre facili da cogliere”. Dopo i successi delle edizioni precedenti, che hanno visto trionfare nella categoria Romanzi Domenico Tomassetti, con “Una vita come la tua” e Anna Vasquez, con “Malacriata” (entrambi pubblicati dalla Bertoni Editore), anche quest’anno il comitato di lettura ha dovuto vagliare più di novanta opere. La giuria finale, composta dalla vicepresidente della FAI Francesca Sorbi, dal direttore de Il Dubbio Davide Varì, dagli autori Claudio Calzana, Salvatore Esposito e Lanfranco Caminiti, dal giornalista e consulente Filippo Piervittori e dall’editore Jean Luc Bertoni, ha infine decretato i seguenti vincitori: per la Categoria Speciale “7 parole per un racconto” si è classificata al primo posto Maria Chirivì, direttore amministrativo, con “Anima Ti passo quest’anima dalle sbarre, conservamela”; al secondo posto Luisa Di Francesco, docente in pensione, con “A punta di coltello - Ti amo! Non mi lasciare! 23 coltellate”; al terzo posto Fausto Callegari, funzionario, con “In memoria di un avvocato - Ucciso perché corretto. ‘ Quell’altro’ col caffè”. Per la Categoria Poesie, invece, a trionfare è stata Ebe Guerra, avvocato, con “Gli anni contati”, che racconta il fardello degli anni da scontare non solo fisicamente per il condannato, ma anche metaforicamente per il giudice che glieli ha attribuiti; a seguire Maurizio Di Stasi, avvocato, secondo classificato con “Nisida”, uno spaccato degli spazi e soprattutto delle emozioni dell’omonimo carcere minorile; e infine Ersilia Saffiotti, avvocato, con “Carcere”, in cui la riflessione sulla detenzione diventa introspettiva, intima. Tre componimenti legati dal medesimo tema, come ha sottolineato Francesca Sorbi: “Questa similitudine segnala che noi tutti riflettiamo su una situazione personale molto difficile, molto critica”. Tema che, peraltro, è stato ampiamente trattato e approfondito nei giorni del Salone del Libro anche all’interno dello stesso stand de Il Dubbio - FAI - CNF, con incontri che hanno coinvolto personaggi di spicco e soprattutto con l’iniziativa “Ti condanniamo a 5 minuti di carcere”, che consentiva a chiunque lo volesse di provare l’esperienza di isolamento all’interno di una cella, accompagnata dal racconto di Marco Sorbara, che in carcere ha trascorso ingiustamente (essendo stato poi assolto in via definitiva) 909 giorni, di cui 45 in completo isolamento. Tornando ai vincitori del Premio Letteratura per la Giustizia, per la categoria Racconti brevi si sono così posizionati: al primo posto Elisa Tomassi, magistrato, con “Testimonianze”, il racconto lucido dell’incontro tra un giudice e un test, in un caso di presunta morte da amianto; al secondo posto Francesca Piroli, avvocato, con “Il bene e il male”, il cui protagonista è una guarda carceraria, un antieroe che assiste inerme e disinteressato di fronte a un episodio di violenza gratuita ai danni di un detenuto; al terzo posto Riccardo Carlino, studente di giurisprudenza, con “La macchina”, il racconto dicotomico di un uomo, il protagonista, costretto a vivere attaccato a un macchinario che gli consente di respirare, e della società che lo circonda. Arriviamo dunque alla categoria principale, quella dei Romanzi: in palio per il vincitore, come già nelle precedenti edizioni, l’editing e la pubblicazione dell’opera da parte della Bertoni Editore. A trionfare, quest’anno, è stato Alfonso Sturchio, avvocato, con il romanzo “Il ministro”, quasi un inquietante prequel dell’attuale guerra in Ucraina, con uno sviluppo narrativo costruito su diversi piani temporali che pone il lettore al centro delle situazioni descritte, coinvolgendolo emotivamente in tutte le vicende raccontate. Un romanzo che, ha raccontato l’autore, affonda le radici nel suo background pop: “Leggevo romanzi in cui le storie dei personaggi si intrecciavano e ad un certo punto confluivano, pensavo che non avrei mai potuto scrivere una cosa così complicata; quindi, per me è stata una sfida. Volevo riuscire a replicare un po’ di ciò che avevo letto”. Al secondo posto della categoria Romanzi troviamo invece Francesco Soldi, psicoterapeuta, con “La rosa e la barca”, in grado di raccontare la forza e la debolezza di un’avvocata, professionista affermata, che in un curioso rapporto epistolare con un detenuto scopre tutta la propria fragilità; al terzo posto, infine, Luca Magni, avvocato, con “Senza permesso”, un romanzo che muove le sue fila da un errore giudiziario, raccontando vite spezzate e soprattutto lasciando al lettore la responsabilità di fare i conti con sentimenti come la rabbia, il risentimento, la vendetta, il senso di scacco e d’impotenza, l’amarezza e la voglia incontrollata di riscatto e di rivalsa. A leggere gli estratti delle opere, la preziosa voce dell’avvocato Francesco Preve. Si conclude così una nuova edizione di successo del Premio Letteratura per la Giustizia, in grado di portare all’attenzione del pubblico, attraverso lo strumento letterario, temi di fondamentale importanza non solo per Il Dubbio e l’Avvocatura, ma per la cittadinanza tutta. Queste, per chiudere, le parole di commento del direttore, Davide Varì: “Ringrazio Francesca Sorbi, che ha trascinato tutti noi in un qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato di realizzare: un concorso letterario”. “Mal di Libia”: le colpevoli responsabilità europee per la crisi di Tripoli di Gennaro Avallone Il Manifesto, 23 maggio 2023 L’inchiesta di Nancy Porsia pubblicata da Bompiani. La presentazione giovedì alle 18 al Maxxi di Roma con l’autrice, Alberto Negri e Vittorio Di Trapani. Un’ex colonia, uno scatolone di sabbia governata poi da un dittatore eccentrico e, infine, il porto di partenza dei barconi verso le coste italiane: è a queste immagini che solitamente viene ridotta la Libia nel nostro paese. Poco, troppo poco per capire una popolazione, i suoi conflitti interni e le sue condizioni di vita e aspirazioni. E la sua rivoluzione, tentata, usata, tradita, stravolta. IL LIBRO di Nancy Porsia, Mal di Libia. I miei giorni sul fronte del Mediterraneo (Bompiani, pp. 290, euro 18), al contrario, ci fa calare nella storia e nella vita quotidiana di questo paese, accompagnandoci, attraverso pagine febbrili, durante il periodo successivo all’uccisione di Gheddafi, dal mese di ottobre 2011. L’autrice si è immersa totalmente nella vita di questo paese, almeno fino a quando le è stato possibile, minacciata, a un certo punto, dai poteri criminali che aveva svelato e denunciato con nomi e cognomi, attraverso il suo lavoro di inchiesta. Compreso il nome del trafficante conosciuto come Bija, ospitato nel 2017 in incontri sul tema dell’immigrazione con delegati del Governo italiano, come documentato nel 2019 dal giornalista di Avvenire Nello Scavo. Il libro ci proietta nelle fragilità della tentata transizione alla democrazia e nel processo che, molto rapidamente, per responsabilità interne e, soprattutto, internazionali, ha portato la Libia a divenire uno Stato fallito, dominato da pratiche di tipo mafioso, “cannibalizzato dalle varie ragioni di Stato dei paesi vicini e lontani, scivolato in una guerra civile in cui i libici sono soldati e gli stranieri generali”. Queste pratiche raggiungono il loro livello più sistematico nel caso della gestione della merce-migrazione, trasformata in pochi anni in un’industria del traffico e in una fabbrica di estorsioni, violenze e attraverso “il business della detenzione”. Va meditato pagina per pagina questo testo, anche per capire come è stato possibile che lo Stato italiano abbia firmato degli accordi con quello libico - “con alcune delle sue milizie”, in realtà - nonostante conoscesse i trattamenti inumani riservati a una parte degli immigrati nei suoi centri di detenzione e nelle prigioni. È stato possibile perché le persone in cerca di protezione sono state definite come una minaccia da parte degli Stati europei e, quindi, da tenere lontane dando i soldi alle dittature, come quella turca di Erdogan, o alla Guardia costiera libica, formata anche da trafficanti, come nel caso indagato da Nancy Porsia nella città di Zawiya in Tripolitania. Più è entrata nei meandri di questo metodo mafioso - di quello che in un capitolo del libro viene definito “Il cartello” - più la realtà che la giornalista ha incontrato mostra l’abisso in cui la Libia è stata cacciata. Le condizioni di vita delle persone straniere incontrate nelle carceri di Tariq al-Seka, Abu Salim e Surman sono raccapriccianti. Un incubo? No, una materialità concreta che, sebbene raccontata e fatta conoscere alle popolazioni e istituzioni italiane ed europee, non ha sortito alcun effetto sulle politiche migratorie; anzi, al contrario, queste si sono ancora di più fondate dal 2017 in avanti sull’esternalizzazione delle frontiere, la sicurezza selettiva dei confini, la criminalizzazione dei potenziali richiedenti asilo e l’indifferenza di massa verso le sorti di centinaia di migliaia di persone. Queste politiche continuano nonostante il loro fallimento, reso terribilmente evidente dagli oltre 47 mila morti che l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) conta nel Mediterraneo dal 2003 ad oggi, proprio perché l’Europa, invece di cambiare la propria prospettiva verso un fenomeno in parte nuovo come quello delle migrazioni in corso, continua allo stesso modo, sacrificando sempre più vite alla propria scelta di inadeguatezza, anche giungendo ad assoldare “sicari per eliminare i testimoni”. Questo fallimento si perpetua sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, rendendo evidente, come si scrive nel libro, la crisi profonda della nostra democrazia, di quella italiana, svenduta negli accordi con le milizie libiche, svendendo, al tempo stesso, “migliaia di uomini, donne e bambini, i loro diritti, il loro diritto alla vita”. A questo fallimento, però, non possiamo arrenderci, al fine di non perdere del tutto la nostra umanità, così viva, al contrario, nella lucida rabbia che anima questo libro e che suscita la sua lettura. La parola popolo e le sue insidie di Dacia Maraini Corriere della Sera, 23 maggio 2023 Alla fine capiamo che popolo vuol dire tutto e niente. Eppure per i populisti il popolo lo si riconosce in quella parte degli abitanti di un paese che si identifica con un capo. La parola popolo echeggia su molte bocche in questo periodo. Chi rappresenta meglio il popolo? Chi ne fa gli interessi? Ma cosa si intende quando si parla di popolo? Nella Storia la parola ha avuto tanti significati. Per alcuni il popolo è semplicemente la gente che abita in uno spazio preciso: città, paese, continente. Per altri si identifica con i cittadini, quindi coloro che si riconoscono come parte di una nazione. Per altri il popolo è solo la parte povera del paese: contadini, operai, artigiani. Per altri è fatto solo da esclusi, emarginati, diseredati. Il dizionario spiega che sinonimo di popolo è: comunità, gente, stirpe. Ma anche: lavoratori, classe, proletariato, volgo, plebe, massa, folla, moltitudine, pubblico. Una vastità di significati. Alla fine capiamo che popolo vuol dire tutto e niente. Eppure per i populisti il popolo lo si riconosce in quella parte degli abitanti di un paese che si identifica con un capo. Per non farsi accusare di tirannia si spiegherà che il capo è stato “eletto dal popolo” per l’appunto, ovvero da una maggioranza di coloro che hanno votato (che spesso consiste in una minoranza della popolazione di un paese) ma per costoro, incriticabile, inamovibile. Il capo è il capo e ha un rapporto simbiotico e sacrale con il suo popolo. Chi si oppone è un pericoloso nemico; del popolo naturalmente, e cioè del capo. Ma i giornalisti, gli insegnanti, gli artisti sono da considerarsi popolo? Sembra di no, perché i giornalisti hanno la brutta abitudine di cercare la verità e quindi non possono considerarsi popolo; gli insegnanti troppo spesso si considerano indipendenti dal pensiero unico e quindi possibili sobillatori e traditori della Patria. In quanto agli artisti, per carità, hanno idee strampalate, pretendono di raccontare il paese e le sue contraddizioni, inoltre guadagnano con le loro opere e non dipendono dallo Stato, sono spregevoli radical chic. E gli operai? Una volta, i socialisti li indicavano come popolo, ma ora dove sono gli operai che per via delle macchine si sono trasformati in tecnici? E le donne? Quando fanno figli e si riconoscono nel capo, certo; ma se pretendono di pensare con la propria testa e portare avanti una professione, non sono più popolo ma arroganti femministe. Ecco le insidie della parola popolo, che viene usata troppo spesso per giustificare arbitrii, privilegi e prevaricazioni. No, non sono criminali. Danno voce alle ragioni della Scienza di Angelo Bonelli* Il Riformista, 23 maggio 2023 Caro sindaco Gualtieri, non condivido la tua decisione di costituirti parte civile contro i ragazzi di Ultima Generazione e ti spiego perché. Disapprovo alcuni metodi utilizzati dalle ragazze e dai ragazzi di Ultima generazione come ad esempio i blocchi stradali, perché dal mio punto di vista danneggiano i settori sociali più deboli e allontanano simpatie piuttosto che conquistarle. Alexander Langer diceva: “La transizione ecologica deve essere socialmente desiderabile”. Queste cose le ho dette e continuerò a dirle ai ragazzi e ragazze di Ug. Quello che manca alla politica tutta, è la volontà di ascoltare le loro ragioni, le loro preoccupazioni. In poche parole nessuno ha parlato con loro e ci si vuole confrontare, classificandoli incredibilmente come dei criminali, che per me non sono. Ho incontrato i ragazzi di ultima generazione svariate volte e molto prima delle ultime elezioni politiche insieme alla mia collega co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi. Portavano e portano richieste che sono le stesse che provengono dalla comunità scientifica internazionale e nazionale, come passare alle energie rinnovabili per liberarci dalla dipendenza delle fonti fossili ed eliminare i sussidi ambientalmente dannosi che sottraggono 41 miliardi di euro di soldi pubblici. Quello che ho constatato è che tutti i partiti e rappresentanti delle istituzioni non li hanno mai ricevuti. I ragazzi e ragazze di Ug hanno fatto scioperi della fame, ricordo quello lungo e preoccupante di Alessandro, ma nessun partito li ha incontrati e voluti incontrare. Hanno prodotto atti non violenti di disobbedienza civile e ora che colorano di carbone vegetale le fontane l’attenzione si è concentrata su di loro. Come possiamo trattare da criminali o addirittura definire eco-terroristi chi chiede di ascoltare le ragioni della scienza per salvare il pianeta, migliorare le condizioni di vita della popolazione e difendere una parola troppo abusata che si chiama “futuro”? L’Italia sa bene cos’è stato il terrorismo: bombe, morti e attentati. Non stiamo vivendo questo, eppure a questi ragazzi la procura di Padova ha contestato l’associazione delinquere che prevede una dura pena di carcere a sette anni. Siamo in piena crisi climatica e le immagini che abbiamo visto dall’Emilia Romagna dimostrano la violenza di questi cambiamenti: 14 vittime e danni per circa cinque miliardi di euro secondo quanto denunciato dal presidente della Regione Bonaccini. Cos’è criminale i disastri climatici che dobbiamo commentare ogni volta o le azioni di questi ragazzi e ragazze? L’Italia è un paese in cui la desertificazione è aumentata considerevolmente secondo il Cnr e questo influirà sulla produzione di cibo, l’acqua potabile sarà sempre meno disponibile e l’inquinamento in Italia secondo l’agenzia europea per l’Ambiente provoca ogni anno in Italia oltre 52 mila decessi con costi economici e sociali elevati. Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin invece di spiegare le ragioni per cui l’Italia non ha un piano di adattamento climatico ed un piano energia e clima come previsti dalla Ue, attacca gli ambientalisti ma non dice però che i danni solo da eventi metereologici estremi negli ultimi 40 anni in Italia ammontano a 100 miliardi euro. Intanto il negazionismo climatico condiziona le scelte politiche come dimostrano le irresponsabili dichiarazioni del presidente del gruppo di FdI al Senato Malan. Caro sindaco Gualtieri, al tuo posto invece di costituirmi parte civile, io i ragazzi e le ragazze di Ug li avrei incontrati, ascoltato le loro ragioni e cercato di costruire un dialogo. Ma fare come ha fatto il presidente del Senato La Russa non mi piace, anche perché il governo deve spiegare a tutta Italia perché non si è costituito parte civile contri gli stragisti di piazza della Loggia a Brescia e invece lo fa con dei ragazzi e ragazze che usano carbone vegetale i cui effetti spariscono dopo poche ore. *Deputato Iraq. Lo scandalo carceri, 400 donne “jihaidiste” in sciopero della fame di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 23 maggio 2023 In Iraq ci sarebbero almeno 400 donne che da oltre quattordici giorni stanno conducendo uno sciopero della fame. Non sono detenute comuni. Sono tutte dell’alta sicurezza. L’accusa è la più pesante che ci possa essere: jihadiste, appartenenti all’Isis. Sono russe, turche, azere, ucraine, siriane, francesi, tedesche, finanche americane. Le loro condanne vanno dai 15 anni di carcere alla pena fino alla morte se non anche alla pena di morte. Con loro, detenuti, ci sono anche un centinaio di bambini. Bambini nati in carcere. Bambini morti in carcere. L’ultimo, un bambino di tre anni. Recluse e reclusi nel carcere di Rusafa, a est di Baghdad. Un video trafugato, diffuso dalla BBC, rivela che sono stipate anche in 40 in un’unica cella. Se alcune hanno riconosciuto di aver liberamente scelto di entrare a far parte dell’Isis partecipando anche ad azioni violente, altre vi sono state costrette. C’è chi con insistenza ha detto di aver dovuto sposare un combattente islamico, minacciata di morte se si fosse rifiutata. A questi uomini è poi accaduto, con la caduta dello Stato islamico nel 2017, che la furia violenta che hanno seminato gli si sia ritorta contro. Decine di migliaia di militanti sono stati catturati, molti giustiziati sommariamente. Alle migliaia di loro donne e bambini, salvo chi è stato rimpatriato nei Paesi di origine, è toccata in sorte la detenzione nelle galere della Siria e dell’Iraq. Ed è qui che queste donne, stremate da una vita che le ha portate a conoscere anche il modo in cui quella che si chiama “giustizia”, dal processo al carcere, si può abbattere su un essere umano, hanno deciso di non mangiare più, alcune anche di non bere più. Sono emaciate, stese immobili sul duro pavimento di pietra del carcere. All’inizio di questo sciopero bevevano meno di un bicchiere d’acqua al giorno. Poi alcune hanno deciso di rifiutare anche questo. Lo fanno per dire che il processo che hanno subito non è stato giusto. Lo fanno per dire che le condizioni di detenzione sono disumane. Il mese scorso il Ministro della Giustizia iracheno, dopo aver licenziato il direttore del penitenziario di Rusafa per via delle immagini che da lì sono uscite, ha ammesso che vi è il quadruplo delle detenute che potrebbero stare in quella struttura. Caino allora oggi è lo Stato. E Caino per queste donne oggi è il carcere. Il carcere che così come è concepito e organizzato nella vita quotidiana, rappresenta un’istituzione totale maschile. Lì dentro tutto è volto a rispondere all’aggressività e alla violenza con regole speculari che fanno vincere i valori maschili. Vi è una tremenda assenza di considerazione della componente emozionale che è propria di ogni essere umano ma che più naturalmente sono le donne a esprimere. I corpi inermi di queste detenute nel carcere di Rusafa che non sappiamo se stiano continuando o no il loro sciopero della fame ci impongono allora di tendere loro la mano, rinchiuse come sono non solo in uno spazio fisico, ma anche emotivo. Tutto il mondo è paese e il carcere è tale in tutto il mondo. È duro. È maschio e rende la condizione detentiva femminile carica di una componente afflittiva ulteriore. Quelle 400 donne jihadiste ci chiedono aiuto e al contempo ci aiutano a meglio confrontarci con la dimensione femminile della detenzione che noi stessi trascuriamo per l’entità numericamente inferiore a quella maschile e perché poco propensi a comprendere le ragioni della “devianza” femminile. Leggo sulla Treccani che “Cesare Lombroso, universalmente riconosciuto come il fondatore dell’antropologia criminale, fu il primo a tentare una analisi sistematica della problematica della delinquenza femminile, individuando, nel suo testo del 1893 intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, nella maggiore debolezza e stupidità delle donne rispetto agli uomini la causa della minore diffusione della criminalità femminile”. Ecco, è proprio lasciandoci passare sulla testa considerazioni come questa che tutto un mondo di garanzie e valori nonviolenti, di cui il mondo femminile, come ha detto Mariateresa di Lascia, è un portato formidabile, lasciano spazio a una giustizia senza grazia. Non è un caso se proprio lei, all’atto della fondazione, volle quel riferimento a Caino nel nome della associazione, a riprova di una necessità che anche nel male, può sembrare paradossale, occorre in fondo sapere amare. Perché nei confronti dei due fratelli, Caino e Abele, Dio, per essere pienamente in ascolto di Abele interroga anche Caino e per fare piena giustizia del sangue di Abele si prende cura di Caino. Non lo inchioda a un fatto passato ma, in un processo di consapevolezza dove il carcere non figura mai mentre è serrato il dialogo, gli dischiude un dopo da vivere. Stati Uniti. Sempre più libri censurati e ora i bibliotecari rischiano carcere e multe salate di Anna Lombardi La Repubblica, 23 maggio 2023 Negli ultimi mesi già 7 Stati hanno passato leggi che puniscono chi fornisce testi “proibiti” ai minori, con altri 20 con in cantiere norme simili: le punizioni prevedono fino a 10 anni di prigione e sanzioni fono a 100 mila dollari. Bibliotecario, il nuovo mestiere più pericoloso d’America. Quello che un tempo era considerata un impiego tranquillo, per menti colte, ma non necessariamente avventurose, negli Stati Uniti sempre più in preda a una sorta d’isteria neo puritana - al punto che perfino mostrare il David di Michelangelo a scuola può far scandalo - è diventato un lavoro a rischio. Il numero dei libri censurati aumenta costantemente e negli ultimi mesi già 7 Stati hanno infatti passato leggi che puniscono col carcere o multe salate chi fornisce testi “proibiti” ai minori, con altri 20 con in cantiere norme simili. Il problema è che se fino a poco tempo fa si vietavano 1-2 titoli l’anno, oggi si parla di 5-6 al giorno. Ad aprile, secondo Pen America, l’organizzazione letteraria no profit focalizzata sulla libertà d’espressione che al riguardo ha pubblicato un rapporto intitolato “Banned in the USA: The Growing Movement to Censor Books in Schools”, erano ben 2253 i titoli banditi. Ma la triste conta va aggiornata di continuo, visto che se ne aggiungno mediamente 100 nuovi al mese. I bibliotecari che “sbagliano” - continuando a conservare copie bandite nei loro scaffali, o peggio, fornendole a minori, possono essere trattati da veri criminali: secondo le nuove leggi, in Oklahoma rischiano fino a 10 anni di carcere, mentre in Arkansas 6. In Tennessee onerosissime multe fino a 100mila dollari. In Indiana, Missouri (unico Stato dove ha ottenuto sostegno bipartisan e non solo quello dei repubblicani) e North Dakota circa due anni di carcere e mediamente 15mila dollari di multa. Mentre in Idaho solo il veto del governatore Brad Little, repubblicano anche lui ma preoccupato di veder crollare il sistema scolastico sotto una valanga di cause, ha bloccato la proposta di un suo compagno di partito che ipotizzava di “risarcire” con 2500 dollari pure quei genitori i cui pargoli fossero finiti in contatto con testi vietati. Le nuove leggi stanno letteralmente terrorizzando i bibliotecari: come raccontano al Washington Post che ne ha intervistati alcuni: tanto più che fino a poco tempo fa non erano mai stati ritenuti direttamente responsabili dei testi conservati. In molte biblioteche i titoli a rischio sono già stati rimossi. In altre, in accordo coi presidi e legislatori, si stanno creando sezione chiamate “Behind the shelf”, dietro lo scaffale: per cui libri banditi restano proprietà delle biblioteche, ma gli studenti, per ottenerli, devono mostrare un permesso scritto e controfirmato da genitori e insegnanti. Un bel problema visto che tra i libri censurati in circa 5mila istituti scolastici di 32 diversi Stati (impedendone di fatto l’accesso a circa 4 milioni di studenti) ci sono numerosi classici, in catalogo da anni, ma ora messi all’indice perché sfiorano tematiche sessuali o razziali. Testi come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood che immagina un futuro distopico dove una teocrazia totalitaria si è imposta negli Stati Uniti e sottomette le donne a scopi riproduttive (libro esaltato dai movimenti femministi pro-aborto). E poi Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini vietato per certe descrizioni di violenza sessuale e perché “promuove l’Islam” e “simpatizza coi terroristi”. Nella lista ci sono pure Peter Pan di J.M.Barrie (razzista), Lolita di Vladimir Nabokov (pornografico) e perfino una versione a fumetti de Il Diario di Anna Frank dove nello sfondo di alcune tavole si vedono statue nude. Tocca però a L’occhio più azzurro della scrittrice afroamericana e Premio Nobel per la Letteratura Toni Morrison il record di censure, in cima alla Top Ten dei testi più proibiti a causa delle “descrizioni forti”, il “linguaggio disturbante” e addirittura “l’implicita aderenza ad un’agenda socialista”. Secondo il rapporto di PEN America, il 41 per cento dei titoli vietati tratta esplicitamente temi Lgbtq+ o ha personaggi che si riconoscono come tali. Il 40 per cento ha protagonisti afroamericani. Il 21 affronta il passato razzista d’America. Gli Stati più zelanti sono il Texas (801 titoli banditi) seguito dalla Florida di Ron De Santis, che sta rapidamente guadagnando terreno con 566 e la Pennsylvania “ferma” a 457. A battersi per i divieti sono almeno 50 organizzazioni conservatrici, spesso vicine ad esponenti del partito repubblicano, molto ben finanziate, che hanno già ottenuto in almeno 6 Stati l’obbligo per le biblioteche scolastiche di coinvolgere i genitori nella scelta e revisioni dei testi. Naturalmente, leggi che proibiscono l’uso di materiale osceno esistono in tutti i 50 Stati d’America. Ma biblioteche e musei hanno sempre avuto diversi livelli di esenzioni, affinché gli insegnanti potessero trattare con materiali adeguati temi riguardanti la biologia e l’educazione sessuale, dando per scontato che avrebbero fatto un uso corretto dei testi a loro disposizione. Ebbene, in molti Stati non è più così: “In 37 anni non ho mai visto un tale assalto alla cultura”, racconta al Wp Keith Gambill, presidente del sindacato degli insegnanti dell’Indiana. “Subiamo l’assalto di integralisti che accettano il mondo solo quando somiglia a ciò in cui credono loro”. Posizione su cui concorda pure Suzanne Nossel, a capo di PEN America: “Stanno trasformando anche le nostre scuole pubbliche in campo di battaglia politico, costringendo insegnanti e bibliotecari a lasciare il loro posto di lavoro. Fronteggiamo una vera minaccia alla libertà intellettuale che è alla base di una democrazia sana”.