Il problema non è l’abuso d’ufficio ma le norme poco chiare per i sindaci di Giovanni Zaccaro Il Domani, 22 maggio 2023 In uno Stato di diritto non si può pretendere che gli atti dei pubblici poteri siano sottratti al controllo di legalità ma il principio funziona solo se sono chiare le norme e le competenze che regolano ciascuna materia. Il dibattito sulla giustizia in Italia è sempre un poco vintage. E così, per la ennesima volta, si torna a parlare della riforma del reato di abuso di ufficio. Eppure, il reato è stato modificato tante volte nel passato, sempre per renderne più chiari i confini e per evitare che il giudice penale potesse sindacare il merito dell’azione amministrativa. Tanto che, come sanno quelli che frequentano le aule di giustizia, la norma è di quasi nessuna applicazione e le condanne si contano sulle dita di una mano. Rimane tuttavia ancora spazio per le legittime preoccupazioni dei Sindaci e dei pubblici amministratori che temono per le conseguenze penali degli atti che adottano e dunque, secondo un felice formula, hanno la “paura della firma”. Soprattutto rimane spazio per le annose polemiche fra “politica” e “giustizia” quando invece sarebbe auspicabile che entrambe conservassero le proprie energie per risolvere i problemi dei rispettivi campi. Ed allora il nodo va sciolto e strappato il velo della ipocrisia. Il controllo di legalità - In uno Stato di diritto non si può pretendere che gli atti dei pubblici poteri siano sottratti al controllo di legalità ma il principio funziona solo se sono chiare le norme e le competenze che regolano ciascuna materia. Nel nostro paese, invece vi è una quantità, spesso caotica e contraddittoria, di norme che disciplinano la stessa materia e molte volte nemmeno si sa chi decide su che cosa. Situazione esasperata da una parte con il processo di integrazione europea e dall’altra con il regionalismo, che hanno moltiplicato le fonti del diritto. Hanno, allora, ragione i Sindaci: come possono essere sereni al momento di firmare un atto, se spesso nemmeno è chiaro quale legge applicare e come applicarla? Ma, invece di cancellare il controllo di legalità, non sarebbe meglio definirne meglio il perimetro, tramite una normazione ordinata, che chiarisca regole ed eccezioni, competenze decisionali e gerarchie delle fonti? Il processo di decentramento amministrativo ha spostato le decisioni verso le periferie, l’Italia è il paese dei mille campanili e non ovunque ci sono le competenze e le professionalità per fronteggiare le complesse questioni di urbanistica, appalti, ambiente o di un’altra delle tante materie devolute alle amministrazioni locali. Come può un Sindaco di uno dei tantissimi comuni italiani, spesso molto piccoli, essere sereno al momento di firmare un atto se non ha la sicurezza di essere assistito da funzionari attenti, fedeli e preparati che ne hanno verificato la regolarità? I limiti delle competenze - In Italia esistono 2.230 pubbliche amministrazioni centrali e 19.665 pubbliche amministrazioni locali oltre a 22 enti previdenziali, 786 gestori di servizi pubblici e 103 stazioni appaltanti (fonte: indicepa.gov.it). Siamo sicuri che servano tutte e siano sempre chiari i limiti delle competenze e le gerarchie fra tutte le oltre 20.000 amministrazioni? Hanno, allora, ragione i Sindaci: perché assumersi la responsabilità di firmare un atto, se nemmeno è sicuro che rientri nelle sue attribuzioni o se è addirittura il frutto di un procedimento complesso e della interazione di più amministrazioni? Ma, invece di cancellare il controllo di legalità, non sarebbe meglio sfoltire il numero delle amministrazioni, accorpare quelle più piccole in modo che si possano dotare di migliori competenze, chiarire quale sia la “catena di comando” in modo da sapere con certezza chi abbia la responsabilità, anche penale, di cosa? Rimane, poi, il nodo di fondo. Non spetta alla giurisdizione sindacare come venga perseguito l’interesse pubblico (tranne che se ne faccia mercimonio). Tocca solo a chi è investito del voto popolare individuare i bisogni della collettività; graduare, fra più interessi pubblici, quale promuovere; selezionare i modi in cui farlo. E qui siamo al vero tema. La “crisi” della politica travolge la legittimazione delle scelte amministrative, che dovrebbero essere le manifestazioni pratiche dei programmi politici ed espone più facilmente il “decisore” alle polemiche ed alle contestazioni. La “invasione di campo” che a volte gli amministratori addebitano ai giudici, nessun effetto mediatico e politico avrebbe se si riscoprisse la buona politica e di conseguenza la buona amministrazione. Procedibilità d’ufficio generalizzata con l’aggravante mafia o terrorismo di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2023 Tutti i delitti aggravati da mafia e terrorismo saranno procedibili d’ufficio. Inoltre, l’obbligo di arresto in flagranza opererà anche se manca la querela, quando la vittima non è “prontamente rintracciabile”. Sono le novità del disegno di legge su procedibilità d’ufficio e arresto in flagranza, approvato in via definitiva la settimana scorsa. Le norme, annunciate all’indomani del debutto della riforma penale dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non sono in realtà correttivi al decreto legislativo 150/2022. Non vengono infatti ridotti i reati per cui la riforma, dal 3o dicembre, ha previsto la procedibilità a querela al posto di quella d’ufficio. La nuova legge - che sarà in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale - introduce invece in termini generali la procedibilità d’ufficio per tutti i delitti aggravati da mafia o terrorismo: anche se sono sempre stati procedibili a querela (anche prima della riforma penale), ora diventano procedibili d’ufficio se è contestata una delle due aggravanti. Ha invece una portata limitata la novità sull’arresto in flagranza in assenza di querela. Infatti, dato che è circoscritta ai delitti per cui l’arresto in flagranza è obbligatorio, sembra operare solo per la violenza sessuale. La procedibilità - I primi interventi riguardano gli articoli 270bis.1 e 416bis.1 del Codice penale, che prevedono delle aggravanti per reati connessi con attività mafiose, terroristiche o eversive. La nuova legge inserisce in entrambi gli articoli un ultimo comma, in base al quale, per i “delitti aggravati” da tali circostanze, “si procede sempre d’ufficio”. La procedibilità d’ufficio, anche in presenza di queste aggravanti, non scatta dunque per molestie, disturbo alle persone e alle occupazioni o del riposo delle persone, visto che sono contravvenzioni. È utile ricordare che le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 8545/2020, hanno stabilito che l’aggravante dell’agevolazione mafiosa si applica anche al concorrente nel reato non animato da tale scopo, se è consapevole dell’altrui finalità, anche in termini di dolo eventuale. La procedibilità d’ufficio non può venire meno grazie alle attenuanti, visto che le diminuzioni si calcolano sull’aumento di pena causato dall’aggravante. Inoltre, per giurisprudenza costante della Cassazione, il regime di procedibilità non muta con la concessione delle attenuanti (tra le tante, 44555/2015). Solo la dissociazione attiva del reo può fare venire meno l’aggravante di mafia o terrorismo, e dunque la procedibilità di ufficio. Viene anche prevista - tramite una modifica all’articolo 71 comma i del decreto legislativo 159/2011 (Codice antimafia) - la procedibilità d’ufficio per le lesioni, anche lievi, commesse da persona sottoposta con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. Le nuove aggravanti si estendono al delitto tentato, nel solco della giurisprudenza della Cassazione (da ultimo, sentenza 23935/2022). L’arresto in flagranza - Altre modifiche riguardano la possibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza, per i reati procedibili a querela previsti dall’articolo 38o del Codice di procedura penale, anche se la querela, nell’immediatezza, manca. Se la querela non viene proposta nelle successive 48 ore, o la vittima rinuncia o la rimette, l’arrestato è posto in libertà. La querela può essere proposta anche oralmente alla polizia giudiziaria. Questa stretta, in buona sostanza, sembra operare solo per il reato di violenza sessuale, che è l’unico procedibile a querela (da prima della riforma) tra quelli per cui, in base all’articolo 380, è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Mentre la nuova regola sull’arresto in flagranza non opera per i delitti contro la persona e il patrimonio per cui il decreto legislativo 150 ha introdotto la procedibilità a querela, dato che non figurano nell’elenco dell’articolo 380. Viene prevista una novità anche nel caso di giudizio direttissimo: se il giudice convalida l’arresto - e il termine per la presentazione della querela non è ancora spirato - sospende il processo. La sospensione è revocata non appena sopravviene la querela, o la rinuncia, e in ogni caso decorso il termine previsto dalla legge per la proposizione. La norma non specifica quale sia il termine cui fare riferimento, cioè se quello delle 48 ore, oppure quello ordinario previsto dal Codice penale, che per la violenza sessuale è di un anno. Non è una mancanza da poco, viste le comprensibili ricadute che può avere sulla libertà personale e la presunzione di innocenza. Una lettura sistematica non può far escludere interpretazioni che propendano per la seconda soluzione. Tuttavia, appare in ogni caso preclusa la possibilità di applicare all’indagato una misura cautelare, in virtù di quanto stabilisce l’ultimo comma dell’articolo 273 del Codice di procedura penale, visto che mancherebbe in ogni caso una condizione di procedibilità Anche qui, il tema sembra impattare solo sul delitto di violenza sessuale. La pratica quotidiana, tuttavia, insegna che per questo delitto non è frequente il giudizio direttissimo per la sommarietà del rito, che mal si concilia con gli accertamenti tipici per la prova della violenza. Delmastro: “Sul caso Cospito non mi pento. Anche se ho avuto un’ischemia...” La Repubblica, 22 maggio 2023 Il sottosegretario di FdI alla Giustizia dal Salone del libro di Torino torna sulla vicenda che nei mesi scorsi ha infiammato il dibattito politico: “Ha avuto pure ripercussioni sulla mia salute”. E ribadisce: “Non chiedo scusa al Pd”. Alfredo Cospito? “Ribadisco che è un criminale. Deve rimanere al carcere duro. Nel merito non mi pento di nulla”. Dal Salone del libro di Torino, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ritorna sul caso Cospito che nei mesi scorsi ha infiammato il dibattito politico. “Nel metodo non credo di svelare un altro segreto d’ufficio nel dirvi che sono sotto procedimento penale. Rispettando tutto ciò che ne consegue, non intendo aprire bocca sul resto - dice durante un incontro organizzato dal quotidiano Il Dubbio - Questa vicenda ha avuto pure ripercussioni sulla mia salute, dato che - rivela ora Delmastro - sono stato colpito un mese fa da un’ischemia”. Il sottosegretario di FdI si riferisce al caso Cospito-Donzelli-Delmastro scoppiato a febbraio scorso quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, intervenuto alla Camera, aveva definito l’anarchico “influencer del 41 bis” acusando la sinistra di “stare con i terroristi” riferendosi alla visita in carcere del 12 gennaio di quattro deputati dem a Cospito. Delmastro torna anche su questo aspetto “Non chiedo scusa al Pd”, ribadisce ammonendo sul tema del sovraffollamento delle carceri che “non può essere un alibi per la depenalizzazione”. A proposito dei detenuti tossicodipendenti, il sottosegretario di Fratelli d’Italia che auspica un “trattamento ad alta intensità sanitaria di disintossicazione”. “Io sono dipinto come l’anima nera del trattamento in Italia. La pena deve avere una funzione social-punitiva e preventiva”, osserva ancora. “Ho avuto un’ischemia”. Delmastro e le ripercussioni del caso Cospito di Marco Leardi Il Giornale, 22 maggio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia rivela le conseguenze della vicenda sulla propria salute. Ma non indietreggia né si scusa col Pd: “Cospito un criminale, deve rimanere al 41-bis”. “Ribadisco che è un criminale. Deve rimanere al carcere duro”. Su Alfredo Cospito, l’anarchico condannato per la gambizzazione di un uomo e detenuto al 41-bis, Andrea Delmastro non ha cambiato idea. In un dibattito pubblico organizzato al Salone del Libro di Torino, il sottosegretario alla Giustizia è tornato a parlare del caso dell’insurrezionalista pescarese in sciopero della fame, rimarcando la propria linea di intransigenza rispetto alle richieste di attenuazione del suo regime carcerario. Nell’occasione, l’esponente di governo ha fatto riferimento anche alle polemiche che lo avevano travolto in Parlamento e a seguito delle quali si era ritrovato indagato per violazione di segreto d’ufficio proprio sulla vicenda dell’anarchico. “Nel merito non mi pento di nulla, nel metodo non credo di svelare un altro segreto d’ufficio nel dirvi che sono sotto procedimento penale. Rispettando tutto ciò che ne consegue, non intendo aprire bocca sul resto”, ha argomentato Delmastro, sottoposto ora agli accertamenti della giustizia e ai puerili ostruzionismi della sinistra (se c’è lui in Aula, dalle opposizioni c’è chi si rifiuta di presenziare). “Questa vicenda ha avuto pure ripercussioni sulla mia salute, dato che sono stato colpito un mese fa da un’ischemia”, ha rivelato il sottosegretario di Fratelli d’Italia, ripetendo al contempo l’irremovibilità dalle proprie posizioni. “Su Cospito non chiedo scusa al Pd”, ha ribadito il parlamentare, che assieme al deputato Fdi Giovanni Donzelli aveva rimproverato ai dem di essere andati a far visita all’anarchico al 41-bis. “Io voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”, aveva tuonato Donzelli in un intervento di fuoco pronunciato lo scorso 31 gennaio. E subito, contro quest’ultimo e contro il sottosegretario Delmastro, si era scatenata la bagarre. Così, anche le successive polemiche e le richieste di chiarimenti delle opposizioni avevano assunto un carattere politico. Intervistato a Torino, Delmastro ha affrontato anche il tema del sovraffollamento delle carceri, ammonendo che “non può essere un alibi per la depenalizzazione”. Altra stoccata alla sinistra. A proposito dei detenuti tossicodipendenti, il sottosegretario alla Giustizia ha infine auspicato un “trattamento ad alta intensità sanitaria di disintossicazione”. “Io sono dipinto come l’anima nera del trattamento in Italia. La pena deve avere una funzione social-punitiva e preventiva”, ha concluso. Ecco come è nato il teorema “trattativa”: dai pentiti a Ciancimino jr. di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2023 Tutto ha inizio con le dichiarazioni di Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, tra il 1994 e il 1998: parlarono anche del “papello” di Riina, ritirato fuori dal figlio di “Don Vito”. La tesi giudiziaria della Trattativa Stato- mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente “trattativista”. Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Ma come nasce il teorema al livello giudiziario? Tutto parte da alcune dichiarazioni dei pentiti Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi fatte tra gli anni 1994 e 1998. Le date sono importanti, così come i due pentiti. In quel determinato periodo, entrambi, in qualche modo l’uno echeggiava l’altro nelle dichiarazioni. Cancemi, in quegli anni, ha riferito ai magistrati di presunti accordi di Totò Riina con ‘persone importanti’ che avrebbero garantito l’impunità dalle stragi e interventi a favore di Cosa nostra sulle questioni degli ergastoli, dei processi, dei pentiti e altri gravi problemi che opprimevano la loro organizzazione mafiosa. Cancemi ha associato tali ‘persone importanti’ ai nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi e alla volontà di Riina, addirittura già prima del ‘92, di servirsi di costoro. Nel 1996, sopraggiungono le dichiarazioni di Giovanni Brusca nelle quali si cita per la prima volta il” papello” che avrebbe scritto Riina nell’ambito di una ‘trattativa’ con soggetti appartenenti alle istituzioni, che ‘si erano fatti sotto’. Ricordiamo che Brusca era appena stato arrestato e ha deciso subito di collaborare. Nel ‘96, rispondendo alle sollecitazioni di chiarimenti degli inquirenti, ha spiegato che i presupposti di quella conversazione tra lui e Riina rendevano evidente che quest’ultimo si riferisse al fatto che qualche politico o appartenente alle istituzioni, intimidito dal livello degli ultimi attentati di Cosa nostra, aveva cercato un contatto con i capi corleonesi per vedere di scendere a patti con loro. Brusca ha spiegato che era altrettanto evidente che Riina avesse risposto a quell’invito inviando il “papello” ‘per avere riscontro’ (espressione usata da Brusca per chiarire contesto e punto di vista di Riina). Ricorda che, a un certo punto, poiché quella risposta al “papello” tardava, Riina mediante Salvatore Biondino, gli aveva mandato a dire che era necessario dare un altro ‘colpetto’ per riattivare l’interlocutore. Attenzione. Poi Brusca avrebbe reso le sue dichiarazioni sulla trattativa col “papello”, reiterandole e aggiornandole nel 1997 e nel 1998 nel contesto delle indagini preliminari e del dibattimento di primo grado a Firenze sulle stragi del continente, e dei processi sulle stragi Falcone e Borsellino. Nel contesto del processo di Firenze si diceva incerto se collocare la data dell’episodio prima della strage di via D’Amelio o dopo. Mentre però davanti alla Corte di Caltanissetta nel procedimento del Borsellino ter, dichiarava che l’affiorare dì altri ricordi gli aveva consentito di inserirlo tra le due stragi, prima cioè della strage in cui era rimasto ucciso Borsellino. Una memoria che cambia, oscilla fin dai primi momenti e nei contesti nei quali si trovava. Bisogna precisare che Giovanni Brusca ha dato un ottimo contribuito alla giustizia per tutto ciò di cui era protagonista (pensiamo alla strage di Capaci) e testimone diretto. Ma nel passato ha anche riferito episodi che non sono stati ritenuti veritieri. Ma innanzitutto nel 1996, periodo nel quale parlò di questo “papello”, Brusca raccontò fatti del tutto fasulli. Ad esempio il racconto del suo incontro con Luciano Violante - all’epoca presidente della commissione antimafia - sul volo Roma Palermo e che poi, fra mille polemiche che gli costarono lo status di pentito, ritrattò. Al primo processo Dell’Utri del ‘97 se ne era perfino uscito così: “via via che facevamo le stragi da Capaci a via d’Amelio, fino alle stragi del ‘93, la sinistra sapeva”. E come non dimenticare, sempre in tandem con Cangemi, quando aveva riferito agli inquirenti di Caltanissetta - e siamo nel 1997 - che fu l’allora procuratore Giuseppe Pignatone a far uscire le notizie sul dossier mafia-appalti e addirittura definirlo come un sodale di Antonino Buscemi - una delle persone coinvolte nella famosa indagine dei Ros - che faceva da sponda per la Feruzzi Gardini? Gli inquirenti non lo definirono credibile, sul presupposto che tali dichiarazioni riecheggiassero, in termini generici, quelle rese, già nel 1994, da Salvatore Cancemi. Sempre in coppia. Ma per quanto riguarda la vicenda del “papello” e trattativa, la coppia Brusca e Cancemi, invece viene presa sul serio. Il primo atto lo si può leggere nella richiesta di archiviazione di “Sistemi Criminali” presentata dai procuratori di Palermo Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. Siamo nel 2000, e nella richiesta stessa si dà atto dell’apertura di un procedimento sulla trattativa Stato-mafia. I due pm, in sostanza, sono i primi a gettare le basi di questa inchiesta basandosi appunto sulle dichiarazioni dei due pentiti. Già allora, infatti, la Procura di Palermo aveva vagliato l’ipotesi che il “papello” di cui aveva parlato il Brusca attenesse a un progetto strategico di ricatto ad un organismo politico. Ma nel 2004 dovettero archiviare il procedimento. Gli stessi pm avevano ritenuto, all’epoca, che i riscontri investigativi effettuati non avessero colmato i numerosi ‘buchi neri’ che si presentavano nelle ricostruzioni iniziali. Il procedimento viene riaperto nel 2008, perché subentra nella scena Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Il suo è un singolare percorso processuale. Mentre collaborava con la procura palermitana fornendo “prove” che per la maggior parte verranno sconfessate, riferiva di visite di avvertimento da parte di fantomatici uomini in divisa, presunti emissari del fantomatico signor ‘Carlo/ Franco’, di minacce epistolari e verbali di morte, di intimidazioni fatte pervenire presso le abitazioni di Palermo e di Bologna, mai tempestivamente denunciate, a suo dire, per non gettare allarme a fronte della messa in circolazione - contestualmente alla progressione delle sue accuse - , di presagi di eventi sempre più catastrofici ai suoi danni. Nell’avventura processuale di Ciancimino non può nemmeno sottacersi della calunnia operata ad arte ai danni di Gianni De Gennaro (all’epoca Capo della polizia) per cui il dichiarante sarà sotto processo e condannato; così come la vicenda dei candelotti di dinamite (detenuti in quantità tale da poter fare esplodere un intero isolato del centro di Palermo) fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell’aprile del 2011, per il cui possesso riporterà un’altra condanna. Senza nemmeno dimenticare che nel frattempo verrà indagato da un’altra procura, e poi condannato, per aver riciclato il “tesoro” di suo padre don Vito. Eppure è grazie a Massimo Ciancimino che finalmente la procura di Palermo è riuscita a imbastire il processo nel 2013 ricorrendo al reato di minaccia al corpo politico dello Stato. È da qui che prende vita la tesi Trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta? A partire dal febbraio del 1992, le minacce mafiose all’allora ministro Calogero Mannino sarebbero finalizzate a creare un rapporto di interlocuzione con il mondo politico per contenere l’azione repressiva dello Stato. Quindi Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di una trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, medico di Riina. Tutta questa narrazione è stata smantellata a partire dalle sentenze precedenti (ci sono tanti processi “clone”) e con il sigillo finale dalla Cassazione. Parliamo della sentenza del 27 aprile che ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros - peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo - negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda la minaccia nei confronti del governo Berlusconi, di cui era accusato Marcello Dell’Utri, la sentenza ha confermato quanto deciso dalla Corte di assise di appello di Palermo, che ne ha riconosciuto l’estraneità del primo. In soldoni non è vero che l’ex ministro Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Così come non è vero che Marcello Dell’Utri avrebbe proseguito la trattativa veicolando la minaccia mafiosa al suo amico Silvio Berlusconi quando era appunto presidente del Consiglio nel 1994. Quel contatto don Vito-Ros che diede il “la” all’invenzione della trattativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2023 Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, l’allora generale Mori provò a seguire nuove strade per arrivare alla cattura di Riina, cercò nuove fonti qualificate. il tutto mentre Cosa nostra colpiva ancora. Ma come sono andati i fatti, e cosa ci racconta la storia di quegli anni terribili che hanno avuto l’apice massimo tra il 91 e il 93? La trattativa tra gli ex Ros e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in che termini si è svolta? Bisogna sempre contestualizzare. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il ‘91 e il ‘92. I corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Totò Riina, il suo sentirsi a capo di un’organizzazione che potesse contrastare lo Stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria (il maxiprocesso imbastito dal pool antimafia, dove spiccavano Falcone e Borsellino) e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con parte del potere politico. La mafia, prima di Riina, non era meno feroce, più “moderata”, o addirittura rispettosa di valori. Semplicemente manteneva un rapporto paritario con le altre forze politiche ed economiche. Con l’avvento dei corleonesi (definizione coniata per la prima volta dall’allora generale Antonio Subranni), Cosa nostra ha avuto l’ambizione di sottomettere lo Stato. Due sono state le strategie volute da Riina. Da un lato il versante economico politico attraverso non solo il condizionamento degli appalti pubblici, ma - tramite prestanomi appartenenti a Cosa nostra stessa come i fratelli Buscemi - entrando direttamente in società con grosse imprese nazionali. Non solo. Risulta dagli atti che Riina aveva creato una impresa tutta sua, la Reale, che sarebbe dovuta diventare lo strumento per creare una cerniera tra il mondo mafioso, quello politico e soprattutto l’ imprenditoria di livello nazionale. Sempre Riina aveva avuto l’ambizione, poi fallita, di favorire la secessione della Sicilia tramite un movimento politico, una sorta di Lega del sud, per creare un vero e proprio Stato mafioso. Non è un caso che soprattutto Giovanni Falcone ha accuratamente spiegato che non esisteva un Terzo livello che eterodirigesse Cosa nostra. La realtà era ancora più complessa e drammatica. Riina voleva stare al di sopra di tutti. Questa era la peculiarità dei corleonesi. E nel contempo ha deciso di trucidare chiunque fosse di intralcio nel suo progetto. Basta riprendere una sua affermazione che fece sia durante le sue chiacchierate intercettate al 41 bis, sia quando fu sentito dall’allora capo procuratore nisseno Sergio Lari: “Se me la facessi con i servizi segreti, non mi chiamerei Totò Riina”. La sua strategia economica, era però accompagnata dal braccio armato. Gli omicidi eccellenti partono dalla sua volontà di neutralizzare chiunque potesse diventare un ostacolo per la sua ambizione “imprenditoriale”. Non va dimenticato che a Palermo operava la commissione presieduta da Riina, vertice gerarchico di una associazione criminale violentissima e gerarchicamente organizzata su tutto il territorio, che godeva di consenso popolare, con migliaia di adepti e una rete di professionisti e funzionari pubblici collusi. Riina fu uno dei principali responsabili della feroce guerra di mafia protrattasi degli anni ‘80. Ricordiamo che nella sola Palermo disponeva di squadre di killer permanentemente dedicate ai suoi ordini omicidiari. Ciò era contrastato da un numero di appartenenti alle forze di polizia e di magistrati assolutamente non dimensionato alla gravità che il fenomeno aveva assunto, nel contesto di uno Stato debole. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Un “nido di vipere”, come definì Paolo Borsellino. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Caponnetto: “È finito tutto” disse a un giornalista, uscendo dall’obitorio dopo l’ultimo saluto a Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia. Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi chiari rapporti con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattarlo. All’epoca di questo fatto, verificatosi nella seconda metà del ‘92, Ciancimino era già stato condannato dal Tribunale di Palermo alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di associazione di stampo mafioso e per corruzione aggravata, e che, in stato di libertà, risiedeva a Roma, in un appartamento di via San Sebastianello, attendendo il verdetto della Corte d’appello e continuando a coltivare i suoi interessi, sempre col supporto dell’assistenza del figlio Massimo. Gli ex Ros Mori e De Donno conoscevano a fondo per ragioni professionali la biografia criminale e le vicende giudiziarie di Ciancimino. Oltretutto il ‘caso di don Vito” era di dominio pubblico, anche per essere stato al centro dell’inchiesta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, che nel ‘72 aveva consegnato i primi risultati del suo lavoro al Parlamento, e sotto i riflettori della stampa, soprattutto negli anni delle indagini di Giovanni Falcone. E fu proprio De Donno, in particolare, che aveva partecipato attivamente a quelle indagini su appalti del comune di Palermo gestiti da don Vito. Ma in che consistevano questi contatti? La procura di Palermo ne ebbe a conoscenza attraverso la dichiarazione di Ciancimino, resa su sua istanza il 17 marzo del ‘93 quando si trovava presso il carcere di Rebibbia. Innanzi al procuratore capo Giancarlo Caselli e al sostituto Antonio Ingroia spiegò che, nel corso dell’interlocuzione con Mori e De Donno, dai primi contatti avuti con l’intermediatore ‘ambasciatore’ dei boss, Antonio Cinà, aveva preso atto della diffidenza e dell’arroganza di questi ultimi e inoltre aveva anche preso atto della chiusura del colonnello Mori verso ogni ipotesi di trattativa finalizzata a delle concessioni ai corleonesi, e pertanto, dopo una pausa di riflessione, aveva deciso di aiutare gli stessi carabinieri alla cattura di Riina, passare il Rubicone e riscattare la sua vita (così si espresse). Ma il suo arresto, il 19 dicembre ‘92, aveva fatto morire sul nascere la sua collaborazione. Vito Ciancimino dichiarava ai Pm, tra le altre cose, di avere accettato di incontrare allora i carabinieri poiché turbato, sconvolto e sgomento dalle uccisioni di Salvo Lima, dalle stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino e preoccupato delle conseguenze, solo negative, che ciò avrebbero portato alla Sicilia e in ultima analisi a tutta l’Italia. Già emerse che quella “trattativa” fu un bluff da parte di Mori come raccontò lui stesso quando fu sentito come teste al processo di Firenze sulle stragi continentali. Ma anche Ciancimino nel contempo bluffava. In quel momento pensava, a torto, di poter ottenere qualche beneficio per sé visto che era sotto processo per associazione mafiosa. D’altronde, per comprendere la personalità di Ciancimino basterebbe leggere la nota di Giovanni Falcone del 17 dicembre del 1985 dove sintetizza con semplicità e precisione gli intrighi di cui questi era capace, per incrementare le sue rendite illecite e nascondere la titolarità e la provenienza del suo patrimonio. L’operazione condotta da Mori e De Donno non era nulla di indicibile. Fu fatta in un momento drammatico. D’altronde i pentiti nascono così. Lo spiegò molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. L’unica pecca è che Ciancimino aveva una personalità per nulla affidabile. E infatti mai divenne collaboratore di giustizia. Ritornando a Totò Riina, alla fine la pagò cara a causa della sua megalomania. Ha voluto fare la guerra allo Stato. E l’ha persa. Dopo di lui, la mafia ritornò a essere quella di prima. Significativa l’intercettazione del 2000 tra Pino Lipari, l’uomo degli appalti, con un suo sodale. Parlano di un summit con Bernardo Provenzano. La discussione fu proprio sul cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme. Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: “Gli dissi: ‘figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate …!’“. Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Antonino Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. “Il discorso appalti era stato affrontato - ha spiegato Giuffrè - e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore”. La mafia “rumorosa”, ovvero quella stragista, ha perso trent’anni fa. Il declino è iniziato con la cattura di Riina grazie ai Ros, poi saliti ingiustamente sul banco degli imputati. Il Protocollo Farfalla? In realtà fu solo una “dietrologia di Stato” che non portò alcun risultato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2023 L’operazione, effettuata tra il 23 giugno 2003 e il 18 agosto 2004, puntava a individuare una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis, criminalizzate mediaticamente ma da inquadrare nel contesto storico. Durante il lungo processo Trattativa Stato-mafia è entrato di tutto di più. Elementi sempre utili per suggestionare soprattutto l’opinione pubblica, anche perché non hanno nulla a che fare con il capo d’accusa. Tanto si era parlato, ma si parla tuttora oggi, del cosiddetto “Protocollo Farfalla”. Un’operazione di intelligence condotta dall’allora Sisde guidato da Mario Mori in accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tinebra. Come vedremo, fu in realtà un episodio che è l’esatto contrario di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Casomai parliamo di una dietrologia di Stato, visto che tale operazione consisteva nello scoprire una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Un po’ come quando, nel 2020, ci sono state le pesanti rivolte carcerarie e, persone come i magistrati Nino Di Matteo e altri, hanno teorizzato che dietro ci fosse una regima mafiosa per arrivare a trattare con lo Stato. Per comprendere quante suggestioni abbia creato questa operazione condotta dall’intelligence di Mori, basterebbe riportare le parole di Claudio Fava, quando era vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia: “Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico”. Il paradosso è che il “Protocollo Farfalla”, fu davvero una operazione - a detta di chi scrive -scellerata. Ma che rispecchia esattamente il retropensiero degli odierni accusatori di Mori. E infatti tale operazione effettuata tra il 23 giugno 2003 e il 18 agosto 2004, fu del tutto fallimentare. La denominazione “farfalla” prende ispirazione dall’associazione “Papillon”, creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni della casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie non violente in collaborazione con i movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie. Ma come mai il nome di questa operazione di intelligence si è ispirata proprio a “Papillon”? Nell’agosto del 2002, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu ritrovato un volantino di “Papillon Rebibbia Onlus”. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. Perché? Come già detto, quell’operazione di intelligence nacque a seguito del sospetto che dietro le proteste contro il 41 bis ci fosse una regia mafiosa. Ancora meglio lo spiega la relazione del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) redatta a conclusione di un approfondito lavoro: “Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario indicato nella relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista”. In sintesi, si era trattata di una sorta di “dietrologia di Stato” che intravvedeva addirittura le forze politiche garantiste in combutta con le organizzazioni criminali. In pratica, il “Protocollo Farfalla” sembrava avere la stessa forma mentis di uno di quei servizi che manda in ondaReport dove si allude a complotti del genere. Per capire meglio, bisogna inquadrare il contesto storico e la criminalizzazione mediatica delle proteste contro il 41 bis. Le norme dell’articolo 41 bis furono inizialmente adottate - a seguito della strage di Via D’Amelio - con un carattere temporaneo per una durata limitata a tre anni (fino al 1995). Il 41 bis fu prorogato per ben tre volte e il 31 dicembre 2002 fu reso ordinario dal governo Berlusconi. Con l’approssimarsi dell’ultima scadenza, si riaccese il dibattito, anche politico, sul carcere duro. Ricordiamo ad esempio l’inchiesta sul 41 bis dei radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia che documentarono seri problemi di legittimità. Anche i detenuti al 41 bis si fecero parte attiva di questo dibattito e nel marzo 2002 il noto mafioso Pietro Aglieri inviò al procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso una lettera sullo speciale regime carcerario; nella missiva si auspicavano “soluzioni intelligenti e concrete” al problema del carcere duro così come fino a quel momento applicato. Nel luglio 2002 Leoluca Bagarella, durante il processo presso la Corte d’assise di Trapani, rilasciò dichiarazioni spontanee nelle quali chiedeva una riconsiderazione, in termini politici, del regime previsto dall’articolo 41 bis. Nello stesso periodo, in una decina di istituti di pena in cui si applicava il carcere speciale, si verificarono iniziative di protesta e scioperi della fame dei detenuti. Il caso mediaticamente più eclatante fu, però, l’esposizione di due striscioni: il primo, “Uniti contro il 41- bis”, esposto allo stadio di Palermo e il secondo su iniziativa dei tifosi del Bologna in cui si esprimeva solidarietà ai tifosi palermitani per la libertà di parola. I media dell’epoca diedero risonanza a tali manifestazioni e alimentarono il dibattito. Al centro delle polemiche vi erano anche alcuni parlamentari, indicati dai criminali al carcere duro come traditori, poiché, una volta eletti, avrebbero cambiato il proprio pensiero sull’articolo 41 bis. Si ricordano, a tale proposito, le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè in riferimento ai parlamentari Nino Mormino e Antonino Battaglia. Tali polemiche furono ribadite da una lettera firmata da alcuni detenuti di Novara, tra cui Francesco Madonia e Giuseppe Graviano (oggi ritornato in auge per via delle inchieste della procura di Firenze), i quali rimproveravano avvocati penalisti entrati in Parlamento di aver cambiato posizione: “da avvocati avevano deprecato il 41 bis, da parlamentari invece non avevano combattuto il carcere duro”. È in questo contesto che si avviò l’operazione di intelligence. Sappiamo che l’operazione “Farfalla” si concluse con un nulla di fatto: non c’era nessuna regia occulta dietro le legittime proteste. Resta però un interrogativo: si dice che tale operazione si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura. Ciò però cozza con la testimonianza dell’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. Che cosa ha raccontato? “Venni a conoscenza che all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi. Io ho sempre cercato di fare il ministro occupandomi anche dell’apparato, per cui la cosa non mi piacque assolutamente, perché poteva anche avere altri risvolti, magari a priori assolutamente legittimi. Ma volli vederci chiaro, anche per testimoniare un po’ il fatto che, se fossi stato informato su questioni di questa gravità, sarebbe stato meglio. Senza avvisare l’allora capo del dipartimento Tinebra del blitz, chiesi di fare il giro della palazzina e entrai in un reparto in cui c’erano non ricordo più se tre, quattro o cinque centrali di ascolto, con persone che indossavano delle cuffie e che ascoltavano non so chi”. Prosegue il senatore Castelli: “Diedi incarico all’allora mio capo di gabinetto di svolgere indagini di natura puramente informale. Lui, dopo qualche tempo, mi disse che effettivamente era tutto regolare e che tutto avveniva sotto l’egida della magistratura”. Quindi a quanto pare, la magistratura ne venne formata eccome. Nulla di oscuro. La relazione del Copasir ha concluso che tale operazione non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e probabilmente anche della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. Si legge nella relazione che l’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività, ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate su una ipotetica trattativa tra lo Stato e la criminalità organizzata. Questi i fatti. Ma ancora oggi si cita a caso il “Protocollo Farfall”a, ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza dei fatti nudi e crudi. Tutto è utile per preservare il brand “Trattativa”. Lo stop al 41 bis? Riguardò appena 11 affiliati: tra loro neppure un boss di Cosa nostra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2023 In migliaia di atti l’unica “prova” sarebbe la revoca del “carcere duro” decisa dall’allora guardasigilli Conso, ma la scelta fu imposta da una sentenza della Consulta. Tutte le motivazioni della sentenza Trattativa Stato-mafia, sia di primo che secondo grado, sono composte da migliaia di pagine, il 90 percento delle quali non vertono sulle singole posizioni degli imputati. O meglio, non si limitano a provare il reato per il quale sono accusati, ma tendono a ricostruire gli eventi che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri, passando dai tentativi di golpe dei primi anni Settanta, al sequestro Moro, sino al terrorismo brigatista e alla P2, oltre, ovviamente, alle stragi mafiose. Per essere più chiari, prendiamo in esame la sentenza d’appello: nelle 3000 pagine, alla fine l’unica presunta prova della minaccia veicolata al governo è la famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 detenuti. Ebbene, anche in questo caso si è fatta una gigantesca disinformazione mediatica. Parliamo del caposaldo dell’avvenuta trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta questa narrazione? La sostituzione dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti costituì il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo la tesi, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo un alleggerimento dei 41 bis realizzato, nel novembre del ‘93, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro. Ancora una volta, si rilegge la storia con il metodo dietrologico. Un metodo non scientifico, che mette in soffitta la giurisprudenza e soprattutto il funzionamento dello Stato di Diritto. Purtroppo sono state strumentalizzate le parole di Giovanni Conso, l’allora ministro della Giustizia che decise di non prorogare il 41 bis a 336 detenuti. In realtà, è stato abbastanza chiaro quando fu sentito per la prima volta in un processo, parliamo quello di Firenze sulle stragi continentali. che si può ascoltare su Radio Radicale. Parliamo del 15 febbraio del 2011. Alla domanda su quelle mancate proroghe, Conso spiegò che tale decisione è stata presa a seguito della sentenza della Corte costituzionale. Purtroppo, quando è stato sentito altre volte, lo stesso Conso - non citando più quella sentenza - e spiegando solamente che tale decisione la prese in solitudine anche con la speranza che potesse in qualche modo “favorire” la cosiddetta l’ala moderata di Cosa nostra, offrì inconsapevolmente la stura alle suggestioni. Ma la verità dei fatti chiarisce ogni minimo dubbio. La sentenza della Consulta è la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993. Ricordiamo che il 29 ottobre - quindi 3 mesi dopo la sentenza - lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria inviò un documento in cui si chiedeva a diverse autorità - dalla magistratura alle forze dell’ordine - un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. A questo si aggiunge un particolare non di poco conto. Il 30 luglio del’ 93 - quindi due giorni dopo la sentenza della Consulta - l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e pena chiese un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41 bis direttamente ai Ros. L’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni ripose di non essere d’accordo sul mancato rinnovo del 41 bis. Un dettaglio fondamentale: secondo la tesi della trattativa, sarebbero stati i Ros a veicolare la minaccia, in particolare il fantomatico papello di Riina. E invece cosa fecero? L’esatto opposto: si opposero alla decisione di non prorogare. La sentenza della Consulta, frutto dei ricorsi del tribunale di sorveglianza con i quali si chiedeva l’illegittimità costituzionale del 41 bis, ha salvato il carcere duro ma nel contempo ha chiesto che i rinnovi del regime speciale non fossero collettivi, ma valutati caso per caso. L’allora ministro Conso, fine giurista, ha applicato tale decisione. Erano tutti detenuti mafiosi? Assolutamente no. L’esatto contrario. Dei 336 decreti in scadenza, il regime del carcere duro non è stato rinnovato soltanto per diciotto detenuti appartenenti a Cosa nostra (a sette dei quali è stato, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato); per nove detenuti appartenenti alla ‘ndrangheta; per cinque detenuti appartenenti alla Sacra corona unita; per dieci detenuti appartenenti alla camorra. Dunque gli aderenti a Cosa nostra contenuti in quell’elenco erano pari a meno del 5,5 percento di tutti i detenuti con decreto in scadenza e, ciò nonostante, all’epoca, né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia né dalla Dna, né dalle altre forze di polizia richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, non ha quindi nulla a che fare con il frutto di un patto scellerato. Parliamo semplicemente di una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi: il nuovo rigoroso trend interpretativo della norma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza del 28 luglio 1993; la mancanza di una motivazione che non doveva essere generale e astratta come quella inviata in risposta dalla Procura di Palermo, ma puntuale e individualizzata per ogni sottoposto; non da ultimo, la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri - a tratti, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità - già avviata col precedente capo del Dap Amato, mediante la nota del 6 marzo 1993: distensione che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità organizzata, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione essi siano. Tutto il teorema, si regge evidentemente su una grave carenza di cultura giuridica. Niente arresti domiciliari se il detenuto andrebbe ad abitare in una casa occupata abusivamente di Vincenzo Giglio terzultimafermata.blog, 22 maggio 2023 La sentenza di Cassazione n. 20841/2023, chiarisce che il regime degli arresti domiciliari è impraticabile se l’abitazione utilizzabile è stata occupata abusivamente. Nell’opinione del collegio di legittimità il provvedimento impugnato, con il riferimento al contesto di illegalità nel quale si trova l’immobile dove la misura dovrebbe essere eseguita e all’inapplicabilità, anche a prescindere da un giudizio in ordine alla meritevolezza della stessa, ha dato coerente e adeguato conto delle ragioni per le quali ha respinto la richiesta della difesa. La motivazione così resa, in assenza di palesi illogicità, non è sindacabile dalla Cassazione. Il tribunale, sebbene in termini impliciti, inoltre, ha fatto correttamente riferimento a quanto disposto per gli arresti domiciliari dall’art. 284, comma 1-ter, cod. proc. pen. Il rinvio contenuto nell’art. 47-ter, comma 4, ord. pen., a fronte del quale il tribunale di sorveglianza fissa le modalità di esecuzione della detenzione domiciliare secondo quanto stabilito dall’art. 284 cod. proc. pen., infatti, impone di ritenere che anche alla misura alternativa, che ha natura analoga agli arresti domiciliari, si applichi il divieto contenuto nell’art. 284, comma 1-ter, cod. proc. pen. L’art. 47-ter, comma 1, ord. pen., cui poi rinvia il comma 1-bis, d’altro canto, prevede che la detenzione domiciliare possa essere eseguita nella “propria” abitazione, ovvero in uno degli altri luoghi indicati, facendo in tal modo evidente riferimento a una situazione in cui il titolo, in virtù del quale il condannato ha la disponibilità dell’immobile, sia lecito. Torino. Controllare i detenuti trasformandoli in bambini di Franco Luigi Sani futura.news, 22 maggio 2023 “Il sistema carcerario mira a infantilizzare il detenuto”. Luigi Manconi è esplicito durante l’incontro sulle condizioni di vita nelle carceri al Salone del Libro 2023. “I detenuti - spiega - vengono privati della loro componente affettiva e hanno una mobilità ridotta. Queste condizioni portano i carcerati a diventare asessuati come dei bambini e provano lo stesso shock che ha il bambino nel momento di distacco dal genitore. Ne consegue che a livello psicologico il detenuto è sottomesso e sottratto della propria identità”. Il discorso di Manconi è avvenuto durante l’incontro “Dei corpi, delle pene e della cura” e hanno partecipato Stefano Anastasia il fondatore dell’associazione Antigone, per la tutela e le garanzie del sistema penitenziario, la giornalista Paola Caridi e l’autrice Claudia Mazzuccato. In generale, prosegue Manconi “il carcere mira a distruggere la tua dignità personale colpendo principalmente sull’aspetto fisico. Molto spesso accade che i detenuti sono costretti a vivere così vicini nelle celle che devono condividere il proprio sudore e non riescono a mantenere una propria intimità”. Un altro tema discusso nel corso dell’incontro sono la situazione delle carceri in Italia rispetto al mondo e le violenze perpetrate dentro le celle: “Paragonandolo all’Egitto, il sistema carcerario italiano è molto meno violento e di solito le molestie vengono perpetrate molto più raramente. Tuttavia, le violenze in carcere a differenza dello stato africano in Italia sono punite per legge”. Al termine dell’incontro Stefano Anastasia ha raccontato il tema del sovraffollamento delle carceri e le condizioni di vita dei detenuti post Covid. Modena. Festival Giustizia Penale, numeri record: in 4mila agli incontri con i big Il Resto del Carlino, 22 maggio 2023 Gli organizzatori soddisfatti: “Questa è un’edizione che segna una crescita esponenziale nell’importanza anche internazionale”. “Il Festival è stato ricco di partecipazione, nonostante le difficoltà logistiche e dovute al tempo: sale stracolme, numeri online straordinari e una qualità incredibile dei relatori che hanno voluto essere con noi nonostante tutto. Questa è un’edizione che segna una crescita esponenziale nell’importanza nazionale e internazionale del nostro Festival”. Il direttore scientifico di Festival Giustizia Penale, Luca Luparia Donati, sintetizza in poche parole il successo della quarta edizione dell’evento. Un successo corroborato da numeri, che sono destinati a crescere nelle prossime settimane grazie al fatto che tutte le sessioni sono state registrate e sono disponibili sul sito e sui canali social. In totale alle 33 sessioni della quattro giorni, hanno partecipato in presenza circa 4mila persone, mentre i video visti grazie alle dirette e alle visualizzazioni dei soli giorni del Festival, sono oltre 100mila, a cui è necessario aggiungere i numeri del portale Gestiolex valido per i crediti formativi di avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri e consulenti in proprietà industriale. Sui soli canali social del Festival i contatti, nella sola ultima settimana, sono stati oltre 250mila senza contare le condivisioni, a dimostrazione di un interesse per questa manifestazione che è aumentato nel tempo e che si pone al centro del dibattito sulla giustizia penale a partire da un progetto molto definito: affrontare il tema della giustizia penale senza indulgere al populismo, con una chiara identità garantista. “Il tema ci ha consentito di essere molto vicini al territorio, alle imprese e al lavoro - sottolinea il presidente della Camera Penale di Modena, Roberto Ricco, tra gli organizzatori della kermesse - e al tempo stesso di parlare ai cittadini”. Chiude Guido Sola, presidente di Festival Giustizia Penale: “Sono contento perché il bilancio è positivo da tutti i punti di vista, siamo particolarmente felici perché anche il pubblico in presenza è tornato numerosissimo in tutte le nostre location tra Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo, a dimostrazione del fatto che il nostro progetto culturale sta entrando sempre più nel dibattito pubblico anche grazie all’impegno di chi rende possibile realizzare FGP”. A ottobre, in occasione dello spin off, sarà lanciato il titolo del 2024. Anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che non ha potuto partecipare di persona, non ha voluto far mancare un suo intervento: “In diverse occasioniho segnalato come i processi riformatori della giustizia penale’ vadano compresi non solo nella prospettiva degli sforzi necessari a realizzare un compiuto spazio dei diritti e delle garanzie, ma anche per l’acquisita consapevolezza di quanto anche questo settore dell’ordinamento, seppure in misura diversa dalla giustizia civile, partecipi al consolidamento delle capacità del Paese di ‘competere’”. Saluzzo (Cn). Una serata per affrontare la questione dell’esecuzione penale in carcere targatocn.it, 22 maggio 2023 Lunedì 22 maggio al Monastero della Stella si presenta il libro “Le pene e il carcere” di Stefano Anastasia. Si discuterà di temi proposti dal testo. Parteciperà anche la nuova direttrice del carcere Morandi. Ingresso aperto a tutti. Il Garante delle persone detenute della Regione Piemonte, in collaborazione con l’Associazione penitenziaria “Liberi Dentro” di Saluzzo, e la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo propone una serata di approfondimento sulla questione aperta dell’esecuzione penale in carcere. Lunedì 22 maggio alle 20,45 al Monastero della Stella (in piazzetta Trinità, 4 a Saluzzo) si svolgerà la conferenza pubblica per la presentazione del volume “Le pene e il carcere” di Stefano Anastasia (EdizioniMondadori Education - 2022). Di cosa parla il libro? Il volume affronta - in maniera scientifica ma con linguaggio divulgativo - la necessità e le forme della pena che restano un problema in ogni società democratica. Chi autorizza, in che misura, con quali limiti l’inflizione di una sofferenza legale? L’interrogativo appare ineludibile quando si presenta nell’estremo della pena capitale, ma riecheggia anche nella privazione della libertà cui sono costretti i condannati alla pena detentiva, spesso in carceri sovraffollate e in condizioni fatiscenti. Eppure la domanda di giustizia in forma di carcere e pena cresce diffusamente, insieme con le facili risposte populiste che le sollecitano e ci scommettono. In questo libro la complessità del tema viene indagato attraverso la differenza tra diritto e potere di punire, la distanza tra il volto costituzionale della pena e la sua realtà e le sfide che una concezione radicale dell’universalità dei diritti umani pone alle prassi punitive e alla stessa istituzione carceraria. Stefano Anastasia - Nato a Roma nel 1965 è Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà per la Regione Lazio, e per un mandato anche della Regione Umbria e dal 2018 è il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni italiani. È stato tra i fondatori dell’associazione Antigone. Tra i suoi principali interessi di ricerca la teoria dei diritti umani, le dinamiche del controllo sociale e il sistema penale. Numerose sono le sue pubblicazioni. Con l’autore discuteranno dei temi proposti dal libro: Susanna Agnese, giornalista; Paolo Allemano, Garante dei detenuti della Città di Saluzzo; Bruna Chiotti, Presidente Associazione di volontariato penitenziario “Liberi Dentro” Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Parteciperanno all’incontro la nuova Direttrice della Casa di Reclusione ad alta sicurezza di Saluzzo, dottoressa Luisa Pesante e l’assessore ai Servizi Socio-sanitari e Legalità del Comune Saluzzo, avvocato Fiammetta Rosso. Anita, le altre operaie di Venezia, e la doppia morale che vale solo per loro di Ilaria Gaspari Corriere della Sera, 22 maggio 2023 La scrittrice Emanuela Canepa sceglie il romanzo storico e ci porta negli Anni 20: la disparità di stipendio fa da innesco alla trama. E poi l’idea che, quando trasgredisce, la donna sbagli due volte: rispetto alla legge e all’immaginario. Emanuela Canepa, in libreria per Einaudi con il suo terzo romanzo, “Resta con me, sorella”, è una scrittrice (con il suo esordio, “L’animale femmina”, ha vinto il premio Calvino); di formazione, però, è una storica. Nel nuovo libro, ambientato nella Venezia degli Anni 20, le due vocazioni si intrecciano nel racconto delicato e meticoloso della vicenda di Anita: giovane donna che, per il bene della famiglia che da sola non potrebbe mantenere, accetta di finire in prigione pur da innocente, pagando il fio della colpa di un fratellastro inetto. Ma nel carcere della Giudecca la sua vita cambierà. Pensa che la scelta di dar voce a un piccolo coro di donne nasca in qualche modo dai suoi studi? “Il fatto è che le donne mi sembrano sempre, nelle dinamiche relazionali, straordinariamente interessanti perché sfumate. Nel bene e nel male. A dire la verità, la cosa mi crea anche dei problemi. Mi sento domandare spesso: ma ce l’hai con gli uomini? Perché li rappresenti così poco, nei tuoi romanzi? Non ce l’ho assolutamente con gli uomini, il fatto è che se si può scegliere quello che si legge, non si sceglie quello che si scrive. E nella mia testa emergono sempre storie di donne. Probabilmente poi anche da lettrice ho una certa ossessione... ecco, alla fin fine forse non scegliamo neanche quello che leggiamo. Oggi studiamo la storia con un’ottica molto diversa da quella che si applicava cinquant’anni fa: non si può più non notare quanto poco le donne siano rappresentate, quindi il desiderio di rileggerle anche in chiave storica significa mettersi in contatto con voci che non hanno mai risuonato”. Che metodo di lavoro ha seguito per imbastire un romanzo storico? “L’unica cosa che avevo chiara quando ho deciso di scrivere un romanzo storico era l’ambientazione: Venezia. Poi ho cominciato a documentarmi e mi ha colpita la questione della disparità dei compensi fra uomini e donne, che peraltro nel corso dell’ultimo secolo si è attenuata ma è tutt’altro che risolta. Era un vero e proprio paradigma: la più specializzata delle operaie cent’anni fa guadagnava comunque sempre meno del più generico degli operai maschi. Ricordo una dichiarazione di Anna Kuliscioff proprio su questo tema: perché le mani di una donna devono produrre meno ricchezza, quando empiricamente sappiamo che non è così? Da questa constatazione di ingiustizia è nata la storia. Io sono molto devota alla storia: al di là di qualunque cornice, non voglio mandare messaggi, voglio raccontare”. E come mai proprio Venezia? “Venticinque anni fa, quando mi sono trasferita da Roma a Padova, per un anno intero ho studiato Venezia per prendere il patentino di guida turistica. A lasciarmi esterrefatta non era tanto l’arte, che pure mi riempiva di meraviglia, quanto la storia di Venezia: la Repubblica Veneziana, la sua modernità impressionante. L’unico, grandissimo Stato nazionale che abbiamo avuto in Italia, in tutta quella frammentazione di staterelli sottomessi a varie autorità, stranamente rimane un argomento periferico nei curricula scolastici. E mi interessava particolarmente un certo torno di anni, gli anni Venti di un secolo fa, il momento del grande sviluppo industriale, di Porto Marghera, ma anche dello sviluppo turistico. In quegli anni viene inventato per Venezia proprio un modello economico, da una classe di imprenditori il più famoso dei quali, Volpi di Misurata, ha creato il Festival del cinema”. Com’è stata la ricostruzione di un ambiente poco raccontato come il carcere della Giudecca? “Facendo ricerche per questo libro ho avuto la conferma di una cosa che ho sempre saputo, avendo lavorato in una biblioteca universitaria per vent’anni: i bibliotecari sono persone tendenzialmente entusiaste. Ho scritto mail generiche con richieste di informazioni in cambio delle quali, spesso nel giro di qualche ora, ho ricevuto la scannerizzazione di documenti d’epoca preziosi e inestimabili. Le carceri femminili hanno avuto sempre un’organizzazione che intercetta un’altra mia passione narrativa: le suore. Pur non essendo cattolica mi trovo sempre a mio agio nell’ambiente dei monasteri, sarà l’eredità di qualche antenata? Le suore hanno gestito le prigioni femminili fino a epoche recentissime: dalla Giudecca sono andate via nel 1996. Questo aspetto risponde a un paradigma interessante: l’idea che la donna che trasgredisce la legge pecca due volte, a differenza dell’uomo. Come se venisse meno a un obbligo di coerenza rispetto a un immaginario. Lombroso, in testi che oggi fanno sorridere ma all’epoca erano presi molto sul serio, sostiene che la donna che viola la legge è quasi più in difetto rispetto alla morale che rispetto alla legge stessa. In questa logica, la presenza delle suore nel carcere ha una funzione di rieducazione morale. Certo, si dice che il problema del contenimento della violenza, fra le detenute, è meno grave. Ma se questa doppia morale fosse stata ritenuta valida anche per gli uomini, nelle carceri maschili ci sarebbero stati i guardiani laici, e pure i sacerdoti. Non era così”. Sente di essere uscita trasformata dal suo ruolo di narratrice, e in un certo senso di testimone di questa storia? “Mi sono divertita follemente. Nel lavoro di ricerca e documentazione ho potuto mettere insieme tutto quello che sono: storica, poi bibliotecaria, per la prima volta ho usati strumenti bibliografici che conosco bene per una mia ricerca personale. Penso che avrei potuto continuare a documentarmi per anni, solo per il puro piacere di farlo. Perché l’affastellamento della conoscenza è autopoietico: più documentazione metti insieme più nascono idee. Il capitolo che forse ho amato di più è quello in cui Anita va a vedere la salma del Milite Ignoto che sosta alla stazione di Venezia, la notte del 28 ottobre 1921, in viaggio da Aquileia verso Roma. Io di questa storia non avevo idea, ma mi son detta: quasi quasi mi vado a sfogliare i periodici dell’epoca, tanto per capire quali erano gli argomenti che si discutevano a Venezia in quei giorni. Inizio a sfogliare i giornali e mi trovo di fronte alla notizia. Ho dovuto assolutamente aggiungere la scena, immaginare l’emozione, il fermento della città. Insomma, non escludo, da qui in poi, di scrivere solo romanzi storici...”. È il miracolo della serendipità, che trasforma le coincidenze in piccole epifanie? “Penso di sì... è successo anche con il titolo del romanzo. Il primo argomento che sono andata ad approfondire è stata l’epidemia di spagnola, forse anche perché ho iniziato a scrivere il romanzo in piena emergenza Covid. Mi sono imbattuta nella storia di una crocerossina, Margherita Kaiser Parodi, partita diciottenne per raggiungere l’esercito, primo focolaio dell’influenza: contagiata anche lei, è morta a vent’anni. È l’unica donna che riposa nel sacrario militare di Redipuglia, dove sono sepolti oltre 100.000 morti della Grande Guerra. Sulla sua lapide ci sono due versi che mi hanno colpito moltissimo; per due terzi sono bruttissimi, la classica retorica carducciana. Il terzo emistichio, non riesco a dirlo senza commuovermi: A noi, fra bende, fosti di Carità l’Ancella/ Morte fra noi ti colse./ Resta con noi, sorella. Non l’ho potuto più dimenticare, quell’abbraccio dei soldati all’unica donna seppellita con loro”. Il volontariato? È un lavoro. Impegnarsi per gli altri diventa così strategico di Paolo Foschini Corriere della Sera, 22 maggio 2023 Il questionario “Noi+” e l’importanza della Riforma. Paolo Di Rienzo (Università Roma Tre) e il nuovo studio sul non profit: “Queste capacità vanno valorizzate”. Il volontariato ha competenze così particolari che neppure è consapevole di averle. Competenze “trasversali e strategiche”, al punto che se il “lavoro” (e qui usiamo questa parola apposta) dei volontari a un tratto sparisse saremmo tutti veramente nei guai. “Il fatto è che queste competenze devono essere riconoscibili e riconosciute. In primo luogo da chi le possiede, quindi dai volontari stessi. Poi dal sistema di istruzione-formazione e dal mondo del lavoro, come vorrebbe il Codice del Terzo settore. E se ciò avvenisse con regolarità ne trarrebbero vantaggio tanto il mondo del lavoro quanto quello del volontariato. La nostra indagine vuole essere un passo decisivo in tale direzione”. A parlare è il professor Paolo Di Rienzo, ordinario di Educazione adulti e Apprendimento permanente presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, dove è titolare del Laboratorio di metodologie qualitative nella formazione degli adulti, che da anni porta avanti un progetto per il “riconoscimento delle competenze” di chi opera nel Terzo settore. Dei volontari in particolare. Ed è in questo ambito che si colloca la ricerca cui il professore ha appena accennato qui sopra, intitolata “Noi+. Valorizza te stesso, valorizzi il volontariato”, promossa con l’ateneo dal Forum terzo settore assieme a Caritas italiana. “L’indagine - spiega Di Rienzo - è tuttora in corso con la distribuzione e la raccolta di un questionario per l’individuazione, la definizione e la classificazione delle competenze dei volontari. Non è un obiettivo semplice come si potrebbe pensare. Perché tali competenze non vengono acquisite solo in contesti formali quali possono essere scuola o università, ma attingono a esperienze personali, familiari, culturali, sociali, professionali, di vita quotidiana, che possono essere le più diverse. Oltre a quelle che si formano con il volontariato stesso. Eppure, tutte insieme, esse concorrono a realizzare la competenza complessiva del volontario. Che è unica, difficilmente definibile, eppure innegabilmente preziosa e quindi strategica. E per questo ha bisogno, per essere valorizzata appieno, di un criterio scientifico che la definisca. E possa perfino in qualche modo misurarla”. È un interesse di tutti, naturalmente. Perché se è vero che anche il volontariato è cambiato e sta cambiando - e giustamente per essere efficace diventa sempre più impegnativo e professionale - il mancato riconoscimento di quel valore in ambito formativo e lavorativo rischia di renderlo meno attrattivo. Ma attenzione, vale anche il viceversa: se a un laureato in Economia o in qualsiasi altro ambito venisse riconosciuta formalmente anche la competenza acquisita con un anno di servizio civile avremmo da un lato economisti (per dire) migliori e dall’altro sempre più volontari. “L’Organizzazione internazionale del lavoro - ricorda infatti il professor Di Rienzo - ha contribuito di recente alla rottura di un tabù. Perché ha riconosciuto il volontariato come un “lavoro” a tutti gli effetti in quanto caratterizzato non solo dalla gratuità cui tutti lo associano ma anche da impegno costante, competenze - appunto - e realizzazione di un obiettivo. Ocse e Unione europea hanno riconosciuto a loro volta che nel volontariato vengono agite sia competenze professionali definite, fatte lievitare dai professionisti che formano chi opera nel Terzo settore, sia altre, di tipo strategico e spesso “tacito”. E sono queste ultime a sviluppare nei volontari quel senso di “autonomia e responsabilità” che rappresentano, se riconosciute, un valore aggiunto anche nel mondo del lavoro “non volontario”. Competenze la cui valorizzazione è prevista non solo dal Codice del Terzo settore - che chiede di definire “i criteri per il riconoscimento in ambito scolastico e lavorativo delle competenze acquisite nello svolgimento di attività o percorsi di volontariato” - ma ora anche dalle politiche più recenti del nostro Paese”. Facile da capire, meno da realizzare. “E infatti è questo - insiste il prof - l’obiettivo della nostra ricerca. Che richiede il coinvolgimento del più ampio numero possibile di volontari. È un questionario per cui bastano pochi minuti e si svolge su www.noipiu.it”. E sullo stesso sito - per chi volesse aiutare la diffusione dell’iniziativa, presentata la scorsa settimana dalla portavoce del Forum terzo settore Vanessa Pallucchi - si possono recuperare tutti i materiali esplicativi che ogni organizzazione può inoltrare ai propri soci. “Il Terzo settore e il volontariato - conclude il professore - non sono soltanto “utili” alla società in quanto le offrono servizi. Sono cantieri di cittadinanza attiva da cui escono cittadini migliori, con livelli di competenze più alti. E la consapevolezza di tali competenze è il primo passo per vedersele riconosciute”. Una persona non è la sua malattia, il diritto all’oblio nasce dalla Costituzione di Luigi Manconi e Federica Resta La Stampa, 22 maggio 2023 Dai reati alla salute: ogni cittadino deve poter cancellare il passato e riaffermare la sua nuova vita. La sensazione è quella di una “folla solitaria”: una moltitudine di individui, l’uno sconosciuto all’altro. Ognuno di essi si trova attraversato da un immenso flusso di dati: informazioni preziose o totalmente superflue, che hanno una funzione salva vita o una insidiosa capacità manipolativa, che arricchiscono la conoscenza o che disgregano i saperi acquisiti. Quel flusso, ci mette a disposizione il codice del bancomat e la ricetta delle zucchine alla scapece, il tragitto per raggiungere una farmacia all’una di notte e le delibere del Consiglio Nazionale dell’ordine dei Commercialisti e degli Esperti Contabili. Dentro quel flusso si trovano, poi, elaborazioni fantastiche, allucinate mitologie, tesi cospirazioniste e balle colossali: dal complotto dei Rettiliani al traffico dei bambini realizzato attraverso il sito web del rivenditore di mobili Wayfair con la complicità di Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros e Bill Gates. Una massa di informazioni che ci rende più forti e al tempo stesso più vulnerabili. Più forti, perché ci fornisce strumenti e risorse di conoscenza come mai nella storia dell’umanità. Più vulnerabili perché può offrirci notizie false e ingannevoli e può affidare i nostri dati (dalle patologie alle opzioni sessuali) a chiunque voglia acquisirli, scambiarli, metterli in vendita. In altre parole, la nostra intera esistenza viene tradotta in altrettanti dati, dai consumi alimentari a quelli culturali a quelli sanitari, fino alle scelte affettive, a quelle politiche e agli stili di vita. Tutto è ridotto a un codice che viene stipato insieme a miliardi di altri in una infinità di archivi e banche dati e, da qui, inserito in circuiti di comunicazione, di selezione degli orientamenti e delle preferenze, di promozione degli indirizzi di consumo e di opinione morale. Ne deriva che la nostra possibilità di scelta è destinata a oscillare sempre tra capacità di conoscenza ed eccesso di dati, tra consapevolezza e impotenza, tra massima informazione e minimo potere decisionale. È dentro questo punto di tensione che si colloca la questione detta dell’oblio oncologico, di cui ha scritto Paolo Russo su queste pagine nei giorni scorsi. Ovvero il diritto dell’individuo a non essere “immobilizzato” nella propria malattia, una volta che ne sia guarito: nel momento in cui si sostiene un colloquio di lavoro, quando si negozia un mutuo a lungo termine o si stipula un’assicurazione, o persino quando si avvia la procedura per adottare un bambino. Si tratta di circostanze molto concrete, che possono assumere tratti drammatici, e qualcuno è arrivato a paventare il rischio di una sorta di “apartheid oncologico”. Ma il diritto all’oblio è qualcosa di ancora più ampio, che chiama in causa principi fondamentali dello stato di diritto nell’era digitale. Già prima, nel 1958, la Corte di Cassazione stabiliva il “diritto al segreto del disonore”. E ciò a proposito del coinvolgimento dell’allora questore di Roma nella strage delle fosse Ardeatine. Emergeva così l’accezione “difensiva” del diritto all’oblio, come diritto a proteggere la propria persona dagli effetti negativi che possano derivare dalla notorietà di fatti, appunto, disonorevoli. Nel tempo trascorso da allora, il diritto all’oblio è diventato un importante dispositivo di tutela della persona dal rischio della “biografia ferita”: di una raffigurazione, cioè, scorretta perché distorsiva o, comunque, “riduzionistica”, della sua identità. Con l’avvento di Internet e la sua eterna memoria, l’oblio è diventato prezioso strumento di ridimensionamento della visibilità mediatica della persona, capace di correggere la memoria sociale quando essa rischi di cristallizzare - di congelare in un passato ormai superato - una vita nel frattempo evolutasi. E, dunque, mutata. È significativo che, anche a condannati per terrorismo, la giurisprudenza della Cassazione abbia riconosciuto il diritto a non essere rappresentati come tali, dopo che, anche espiando la pena, abbiano prese le distanze da quel passato. In questo senso l’oblio, riequilibrando memoria collettiva e biografia individuale, realizza il diritto di ciascuno a essere - e a essere presentato come - altri da chi si è stato. Si afferma, così, il diritto inalienabile al mutamento di sé. L’oblio consente a ciascuno di riappropriarsi della propria storia personale, di cambiarne il destino, di sottrarlo a un esito predeterminato, evitando che la proiezione eterna del passato pregiudichi il futuro e la stessa possibilità di cambiamento esistenziale. E questo vale non soltanto per il “disonore” del reato commesso, ma per ogni “incidente” che possa ferire la persona e la sua identità. Così pure per la malattia: da alcuni (in ultimo Michela Murgia) raccontata, anche pubblicamente, come parte di sé, talmente costitutiva da volerne rendere partecipi gli altri; da alcuni, invece, vissuta come una ferita da cui non si vuole essere rappresentati e in cui non si vuole essere risolti. Quando Emma Bonino diceva “io non sono il mio cancro”, pur non facendone mistero affermava il suo diritto a prescindere da esso nella conduzione della sua vita e anche nella formazione della sua immagine. Non è un profilo irrilevante, se si considera che - in numerose circostanze - sembra sia possibile guarire dalla malattia, ma impossibile liberarsi del suo stigma. Come se la patologia proiettasse la sua ombra sulla vita futura del paziente, serrando una gabbia dalla quale risulta impossibile fuggire. Proprio per questo, per garantire alla persona il diritto di prescindere dalla malattia passata, di liberarsi dal peso della sua idea, il Parlamento europeo, nel febbraio 2022, ha raccomandato agli Stati membri l’adozione di norme capaci di garantire l’oblio a chi lo voglia. In numerosi paesi dell’Unione esistono leggi simili e, in Italia, proposte in materia sono state presentate nella scorsa legislatura e in questa. Se, come recita l’art. 3 della Costituzione, è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli “che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, è certamente un dovere politico che quella persona, in tutta la sua straordinaria complessità, non sia ridotta alla sua malattia. L’oblio, in questo senso, ha il compito di rendere possibile una vita altra e diversa, non già predefinita e prescritta. Come diceva Paul Ricoeur “al di sotto della memoria e l’oblio, la vita. Ma scrivere la vita è un’altra storia”: sempre mutevole e sempre aperta al cambiamento. Dove e come curare i malati mentali di Riccardo Staglianò La Repubblica, 22 maggio 2023 L’omicidio della psichiatra Barbara Capovani riapre il dibattito. Noi siamo entrati in una delle residenze che hanno sostituito gli Opg. Ma non è neppure questo il posto giusto per un killer. Calice al cornoviglio (La Spezia). Senza considerare il resto, sembrerebbe l’inizio di una scampagnata. La strada che si inerpica tra un bosco di castagni, il castello Doria-Malaspina sullo sfondo, il tutto baciato da un sole che grida estate a ogni raggio. Fino al cartello Rems, che sta per Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le strutture che dal 2015 hanno rimpiazzato gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), il ricovero dei matti pericolosi, in una estrema sintesi politicamente scorretta. È in un posto come questo che avrebbe dovuto stare Gianluca Seung, l’uomo che è accusato di aver ucciso a sprangate la psichiatra Barbara Capovani, essenzialmente rea di non aver avallato la sua infermità di mente? Uno che diceva di avere il cervello blu e il dna alieno, ma che era spesso invitato, in giacca e cravatta, a parlare nei convegni dell’antipsichiatria, il movimento critico su contenzioni e Trattamenti sanitari obbligatori (Tso). Per Alfredo Sbrana, una vita tra Opg e reparti, che ha diretto la psichiatria territoriale pisana prima della stessa Capovani e che, dopo aver inaugurato quella di Volterra, oggi dirige la Residenza ligure che siamo venuti a visitare, la risposta è un deciso no: “Una cosa è la malattia psichica, dal disturbo bipolare alla schizofrenia, con tutta la sintomatologia di deliri e allucinazioni. Altra il disturbo della personalità, un modo di essere, antisociale, narcisistico, che annulla la tua empatia nei confronti dell’altro. Seung è uno che non agiva perché sentiva le voci ma che si filmava mentre l’arrestavano”. E quindi doveva stare in quelle “proiezioni territoriali in carcere”, come la stessa Capovani aveva battezzato il felice esperimento nella prigione pisana: qui psichiatri a contratto fanno i turni per stabilizzare gente malata, e assai pericolosa, in una struttura dove la polizia penitenziaria protegge gli operatori. Cosa che non succede nelle Rems, dove ci sono giusto due guardie giurate per evitare che gli internati scappino (è successo). E men che meno nel parcheggio dell’ospedale Santa Chiara dove il 21 aprile la dottoressa si era chinata per togliere il lucchetto alla bici e tornare a casa dai tre figli e dal marito dando la schiena all’indisturbato assassino. Se non Seung, sedicente sciamano che aspettava ai domiciliari, all’evidenza troppo laschi, l’ennesima udienza fissata il 17 maggio (nel 2012 aveva ficcato un taglierino, non una matita com’è stato scritto, in faccia a un altro psichiatra; poi tentato una violenza sessuale su una sedicenne; quindi spruzzato spray urticante in faccia a un carabiniere), nelle trentuno Rems nazionali ci stanno invece 650 persone. Un po’ di più aspettano in media dieci mesi per entrarci, di cui una quarantina si trovano in carcere e le altre fuori, in libertà vigilata o con obbligo di firma. Troppi pochi posti? “Non necessariamente” spiega Sbrana: “Se dai 650 attuali si arrivasse a 8-900 non mi dispiacerebbe, ma il problema è che spesso qui finiscono persone che dovrebbero stare altrove”. La legge istitutiva del 2014, che puntava a superare l’orrore di certi Opg, “bolge infernali con camere da 2-3 persone dove ne finivano tranquillamente anche 7-8”, le aveva previste come “extrema ratio” per pazienti infermi di mente, quindi non imputabili. Ma dal momento che una sentenza della Cassazione, nel 2005, aveva ritenuto tali anche i casi gravi di disturbo della personalità, ora ci possono finire anche loro (il Dsm, la bibbia diagnostica, invece distingue chiaramente tra malattie, asse 1, e disturbi, asse 2). Spesso si è desunta, sbagliando, la presunta infermità dall’efferatezza di certi crimini. Patrizia Orcamo, la dirigente della Regione con cui ho negoziato i termini della visita, è ancora più netta: “Se ci mandassero solo le persone giuste i posti attuali sarebbero più che sufficienti”. Lo dice sventolando l’ultima lista ricevuta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (questa Rems è l’unica che prende internati esclusivamente dalle carceri, di tutta Italia) che indica una quarantina di potenziali candidati di cui “solo una decina risponderebbero ai requisiti originari di malattia”. Mentre se il rapporto tra patologia e reato è debole avrebbe molto più senso cercare sistemazioni diverse: tipo comunità residenziali, senza sbarre. Questa conversazione avviene nella sala riunioni della struttura, una bella palazzina ocra, circondata da due anelli di recinzioni di circa tre metri, con vista sul giardino dove 4-5 dei quindici internati sui 20 posti totali chiacchierano vicino a due palloni di cuoio. È qui che, via Teams, il giudice di sorveglianza si collega con loro per ri-valutarne la pericolosità sociale. Lo staff prevede una trentina di persone tra infermieri, ausiliari sanitari, educatori, assistenti sociali, psicologi e 4 psichiatri, tra cui il direttore Sbrana e la coordinatrice Elisabetta Olivieri che, per conto della Asl proprietaria dello stabile (il personale è invece assunto da una cooperativa privata) sovrintende ai rapporti con l’esterno. Simona Rombola, un’educatrice dagli occhi vispissimi ma uno scricciolo rispetto agli internati, tutti maschi, sui trent’anni di media, massicci, piuttosto imprevedibili, snocciola una serie di attività, dal calcetto alla musica, dall’insegnamento dell’italiano per i sei extracomunitari presenti, con sproporzione simil-carceraria, fino alla pet therapy con i cani e il Chi Gong, una specie di Tai Chi rilassante, in attesa di attivare corsi di teatro. Attività incastonate in una griglia che, nel riassunto del coordinatore infermieristico, Alessio Tedesco, prevede sveglia alle 8 con colazione a seguire, spuntino alle 10.30, pranzo alle 12.30, merenda alle 16.30 e cena alle 19.30. Tre i turni di somministrazione di farmaci “obbligatori, perché questo è un luogo di cura, con otto occhi per assicurarsi che li prendano davvero”. Interviene Sbrana: “Le loro sono malattie da cui non si guarisce ma che vanno curate, per stabilizzarli. Con risultati a volte stupefacenti. Tipo quando uno entrato col Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, ndr), così agitato da arrampicarsi sui muri, è poi uscito salutando gli operatori”. Sì perché oltre al clima interno, con tanta riabilitazione, oltre al contenimento, l’altra fondamentale differenza rispetto a prima è che, se tutto va bene, non si è condannati a restare. “In questo primo anno sono entrate 23 persone e ne sono uscite 8, verso altre residenze e una addirittura a casa” calcola Olivieri: “E tutti sanno che potrebbe capitare anche a loro”. Magari non a quel paziente che Sbrana aveva conosciuto prima all’Opg di Montelupo e poi ritrovato nella Rems a Volterra: con tre ammazzamenti datati 1990, è sempre dentro. Né ai due qui per omicidio, che invano cercherò di individuare, ma la semplice possibilità è la fiammella che illumina occhi altrimenti piuttosto spenti. E voi, non avete paura? Nella rassegna stampa letta prima di arrivare, spiccano le testimonianze di operatori, da tutto il Paese, che dopo l’omicidio di Capovani, invocano sicurezza. Salta fuori il nome di Paola Labriola, psichiatra uccisa dieci anni fa a Bari, e si moltiplicano le segnalazioni di assalti e tentate violenze sessuali verso un personale molto spesso femminile. Al punto che l’anno scorso la Corte costituzionale ha chiesto, sin qui inascoltata, di intervenire in difesa del diritto alla salute anche del personale. E voi, non avete paura? Mentre si spegne il coro di “no”, “cerchiamo di non restare mai da soli”, “riconosciamo gli eventi sentinella” e via rassicurando, di colpo l’educatrice e l’infermiere si alzano e spariscono per pochi minuti. C’è stato un battibecco, e un internato, con una specie di ustione sul collo e altre cicatrici, ha appena ricevuto un cazzotto in faccia da un altro che gli ha lasciato un taglio sotto l’orbita. La rabbia nel suo sguardo non impressiona Sbrana, un gigante con trascorsi da lottatore agonistico che ne ha viste di tutti i colori (sull’anno all’Opg di Reggio Emilia: “Un posto abbastanza tremendo tranne per un bell’albero al quale, un giorno, uno si è impiccato. Così hanno segato anche quello”). Qui ci vuole un’autoanalisi - Ma questa violenza in luoghi simili è ordinaria amministrazione. A tal proposito mi concedo una breve parentesi personale. Ho fatto il servizio civile nell’ex manicomio milanese Paolo Pini e so bene che, tra quei malati, il confine tra quiete e tempesta può essere labilissimo. E conoscevo Barbara Capovani dall’università, quando ancora appiccava sulla scrivania gli schemi delle associazioni tra farmaci assolutamente da evitare, con tanto di teschio disegnato a mano. Era una donna e un medico piuttosto formidabile che rispondeva a qualsiasi richiesta di consigli, ed era successo anche pochi giorni prima che si abbattesse su di lei la furia di Seung. Il quale viveva nella città dove sono nato e lì invitava, in mailing list molto ben organizzate, avvocati e professionisti vari, per denunciare Pm che gli avrebbero fatto torti o per pubblicizzare eventi in cui parlava, accanto a eredi anche molto noti di Basaglia e altri psichiatri che si erano guadagnati un buon credito in Regione predicando più ascolto e meno farmaci. E che ora dovrebbero, ma non mi risulta che sia successo, fare una seria autoanalisi. “Senta” taglia corto Sbrana “quelli che dicono che non hanno mai usato la contenzione mi sa che, tenendo le porte aperte, hanno scaricato il problema su altri. Non è un caso che il Friuli, terra basagliana, sia tra le pochissime regioni senza una vera Rems. Epperò a giorni arriverà da noi un duplice omicida proprio da Trieste”. Intendiamoci, a differenza del leghista Edoardo Ziello che, a cadavere caldo, aveva già chiesto di rivedere la Legge 180, Sbrana non ci pensa neppure: “Siamo stati all’avanguardia nel mondo, non si torna indietro. Però quella riforma va completata e bisogna trovare il modo di garantire la sicurezza sociale sennò fornisci argomenti a quelli che vogliono cancellarla per ideologia”. In questa stanzetta diventata d’un tratto refettorio a base di focaccia genovese, tutti concordano che l’importante è accogliere le persone “appropriate”. Perché altrimenti si creano due imbuti: a monte, ammettendo magari gente che ha fatto reati “semplicemente” sotto l’influenza di alcol o droga; e a valle perché un immigrato senza fissa dimora, una volta entrato, poi dove lo ricollochi? Questi casi meno gravi, con un miglior coordinamento tra medici, magistrati e servizi sociali, magari vanno subito in altre residenze, meno protette. Quelli più pericolosi, alla Seung, invece in sezioni specializzate in carcere - come quella pionieristica pisana. Fiori per Barbara - Sarà la struttura molto nuova, in un bel contesto bucolico, ma nei limiti di un posto con le sbarre alle finestre e dove per passare da una zona all’altra servono codici alle porte quando non un badge, è molto meno triste di quanto mi aspettassi. Infinitamente meno di un carcere, per non dire di un centro per immigrati. In una delle sale attività ci sono disegni, da cieli notturni a tempera a creature fantastiche, appesi alle pareti e sculturine fatte col Das. Come in una qualsiasi scuola materna. “Gli piace rivedersi nelle fotografie” ha notato non so più chi, come i bambini. “Ogni tanto si accapigliano” ha chiosato il “maestro” Sbrana. E quando succede, commenta la psicologa Paola Simonelli, “se ne discute, se ne parla a lungo fino a quando non prendono consapevolezza”. Questo quanto alle accuse degli psichiatri soft, che detestano i loro colleghi presunti hard, e che legittimavano in incontri e convegni il futuro omicida. C’è solo un favore che Sbrana mi chiede: “Se possibile scriva dei 200 euro che quelli curati nel carcere di Don Bosco hanno raccolto per i fiori alla Capovani”. Ed è l’unico momento in cui a quest’omone che mi ha raccontato senza batter ciglio di mignoli staccati a morsi a infermiere e di come aveva domato quel tipo che, anni fa, aveva minacciato di uccidere uno a uno i suoi compagni di cella e strangolare gli operatori, muoiono le parole in bocca. Così come al cronista. Legge Basaglia, dopo 45 anni i servizi di salute mentale sono ancora inadeguati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2023 Riproposto in Parlamento un ddl che, sulla scorta di quelli già presentati nelle scorse legislature, definisce le politiche sociali di prevenzione e gli interventi a sostegno delle famiglie. A 45 anni della legge Basaglia, ancora permangono problemi. Non dalla legge che fu un atto rivoluzionario, ma dalla mancata realizzazione della riforma fino in fondo. Non se ne fece più nulla del ddl “Disposizioni in materia di Salute mentale”, depositato in Senato da Nerina Dirindin nel settembre del 2017. Tra i primi firmatari vi furono Luigi Manconi, Sergio Zavoli e altri. Nella successiva legislazione fu depositato alla Camera da Elena Carnevali e al Senato da Laura Boldrini. Anche in questo caso nulla. Ora il ddl è stato depositato alla Camera da Debora Serracchiani e al Senato da Filippo Sensi. Se ne farà qualcosa? Cosa prevedeva il ddl del 2017 ora riproposto in Parlamento? Partiamo dal fatto che la legge n. 180 del 1978, conosciuta come “legge Basaglia” e successivamente confluita nella legge n. 833 del 1978, ha segnato un momento decisivo nella legislazione sociale italiana. Questa legge non si è limitata a eliminare gli ospedali psichiatrici come luoghi di cura per i disturbi mentali, ma ha introdotto in modo pionieristico un sistema di servizi di assistenza psichiatrica che va oltre il manicomio. Ha istituito una rete di assistenza basata sul territorio, con i dipartimenti di salute mentale come pilastri organizzativi dell’assistenza psichiatrica e di un settore significativo del sistema di welfare italiano. Questa legge ha superato l’approccio precedente che associava la malattia mentale alla pericolosità sociale e allo scandalo pubblico. Ha radicalmente cambiato il sistema dei trattamenti sanitari obbligatori, spostando l’assistenza psichiatrica verso i diritti sociali e il diritto fondamentale alla salute mentale garantito dall’articolo 32 della Costituzione. Ha eliminato le implicazioni di sicurezza pubblica legate ai trattamenti sanitari obbligatori e ha posto l’accento sulla tutela dei diritti dei pazienti. Nonostante l’importanza di questa legge, la sua attuazione è stata ostacolata e rallentata nel corso degli anni. Ci sono state interpretazioni ambigue e resistenze che hanno compromesso l’effettiva realizzazione degli obiettivi della legge. Solo nella seconda metà degli anni 90, con l’adozione dei progetti obiettivo per la salute mentale, si è raggiunta una maggiore attuazione e si è completata la chiusura degli ospedali psichiatrici. Negli ultimi anni, c’è stata una crescente preoccupazione per lo stato dei servizi di salute mentale in Italia. Le associazioni di familiari e persone con disturbi mentali hanno denunciato l’inadeguatezza dei servizi e chiesto maggiori attenzioni, risposte concrete e durature. Si è verificata, in diversi casi, una frammentazione dei percorsi di cura, l’uso di pratiche segreganti e contenitive e il ritorno di approcci basati sul modello bio- farmacologico. Questo ha evidenziato la necessità di politiche innovative e di un rinnovato impegno per garantire la salute mentale come diritto fondamentale. Per questo la proposta di legge per la promozione e la garanzia della salute mentale è diventata urgente. Il ddl del 2017 puntava su questo. È necessario fare costante riferimento al rapporto della Commissione parlamentare del 2013 sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, che ha evidenziato la necessità di aggiornamenti continui nelle organizzazioni e nelle politiche sociali di prevenzione, nonché interventi a sostegno delle famiglie. Nonostante le sfide e le disuguaglianze regionali nella realizzazione dei servizi di salute mentale, le esperienze positive dimostrano che è possibile realizzare modelli di cura efficaci. Molti paesi e comunità hanno sviluppato programmi innovativi che hanno dimostrato di migliorare la qualità della vita delle persone con disturbi mentali. Uno dei modelli di cura di successo è rappresentato dalla “comunità terapeutica”, in cui le persone affette da disturbi mentali vivono in una comunità strutturata e ricevono supporto e trattamento dal personale specializzato. Questo modello si basa sull’idea che un ambiente terapeutico positivo e un sostegno sociale adeguato siano fondamentali per il recupero e il benessere delle persone con problemi di salute mentale. Altri modelli promettenti includono l’approccio “housing first”, che si concentra sulla fornitura di alloggi stabili e sicuri per le persone senza dimora affette da malattie mentali, garantendo loro un ambiente sicuro e la possibilità di accedere a cure e servizi di supporto. Questo modello ha dimostrato di ridurre l’incidenza delle ricadute e di favorire un miglioramento significativo nella qualità della vita delle persone coinvolte. Inoltre, sono stati sviluppati modelli di cura basati sull’uso delle nuove tecnologie, come le applicazioni mobili per la gestione dei sintomi e il monitoraggio dei progressi, e le terapie online che consentono alle persone di accedere alle cure anche a distanza. Questi approcci possono essere particolarmente utili per le persone che vivono in aree remote o che hanno difficoltà di accesso ai servizi tradizionali. Per la realizzazione di modelli di cura efficaci richiede però un impegno a livello politico e finanziario, nonché una collaborazione tra i vari attori del settore della salute mentale, compresi i professionisti sanitari, e i dipartimenti locali. Inoltre, è fondamentale combattere ogni forma di discriminazione, stigmatizzazione ed esclusione nei confronti delle persone con disagio e disturbo mentali. Marcia della pace Perugia-Assisi: “Guerra e catastrofe climatica sono figlie della stessa logica” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 22 maggio 2023 Tanti bambini e tanti giovani sfilano per chiedere la fine del conflitto. Ma la novità di quest’anno è il no anche a un’altra apocalisse, quella ambientale. Tra i volti famosi Bergonzoni e Cucinelli, tra i politici Fratoianni e Boldrini. A guardarla da qui, nel corteo che scorre allegro e di buon passo sulle vie di San Francesco, l’Italia non sembrerebbe una nazione sull’orlo di una crisi demografica senza ritorno. Sarà, forse, perché migliaia di giovani e centinaia di bambini camminano avvolti nelle bandiere della pace, dipinti di arcobaleno in ogni ciocca di capelli. “La guerra è una tomba grigia - dice il cartello di Jacopo, 10 anni, da Firenze - ma noi coloreremo tutto”. Nel nome di Gandhi - Perugia-Assisi, terza “Marcia della pace e della fraternità” da quando è scoppiata a febbraio del 2022 la guerra in Ucraina, ventunesima da quando la istituì nel 1961 il filosofo Aldo Capitini: il conflitto è nella fase più aspra ma il frastagliatissimo mondo del pacifismo italiano continua testardamente a camminare. Chiedendo stop alle armi nucleari, stop a nuovi invii di materiale bellico in ogni teatro di guerra, Ucraina compresa, perché, dice Luca Fedrigotti, 38 anni, di Carpi, mentre una gigantografia di Gandhi gli scorre accanto, “l’unica arma dovrebbe essere quella della diplomazia”. Nessuna ingenuità. “Ho iniziato a marciare nel 1995 e da allora non è cambiato nulla, anzi le guerre sono in aumento. Continuo a protestare, a dissociarmi, se smettessi mi sentirei complice. Putin è l’invasore e va fermato, l’Europa e gli Stati Uniti avrebbero la forza di portarlo alla trattativa, non accade perché il business delle armi è più forte di tutto”. Bergonzoni: “Chiediamo tregua” - Ma la novità di quest’anno, mentre l’Emilia continua a piangere le sue vittime, è che oltre allo slogan “No war”, c’è anche il no alla catastrofe climatica, all’apocalisse ambientale, dicono i camminanti del sentiero di San Francesco, “figlia della stessa logica di rapina della guerra, di un’economia che arricchisce pochi e toglie a tutti”. È il pensiero di Alessandro Bergonzoni, pacifista convinto: “L’Emilia chiede tregua, i giovani chiedono tregua, i migranti chiedono tregua. Non esiste una guerra giusta. Se si vuole vincere non si parlerà mai di pace. Bisogna trattare, anche con compromessi anomali, una trattativa anche storta ma che sia una trattativa, un avvicinamento col rivale. Siamo qui per raccontare che c’è dissenso, obiezione di coscienza, per dire che siamo non violenti. Non si può stare in silenzio. Se taccio sono colpevole”. Papa Francesco nel cuore - Antonio Cubeddu ha 30 anni, vive a Nuoro e insegna al liceo. “Se non puntiamo al disarmo nucleare la pace resterà un’utopia. Guardate che delusione il G7 a Hiroshima. Nemmeno la presenza degli Hibakusha sopravvissuti al bombardamento atomico è bastato per decidere una moratoria nucleare”. Gandhi e papa Francesco. L’unico leader citato è Bergoglio. Suor Giulia, missionaria francescana, è alla testa di un corteo di bambini. Le parole del pontefice le sa a memoria. “Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro, sì al dialogo e no alla violenza. Sì al negoziato e no alle ostilità. Sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni. Sì alla sincerità e no alla doppiezza”. Cucinelli e la nuova pace di Vestfalia - Dietro lo striscione “Trasformiamo il futuro”, partito dai Giardini del Frontone di Perugia per arrivare alla rocca di Assisi, ci sono tutti, dalla “Tavola per la pace” alla “Rete Pace e Disarmo”, che aggregano la maggioranza delle sigle pacifiste, ci sono 119 scuole e 71 università affratellate nella “Rete per la pace”, poi i sindacati con le bandiere rosse della Cgil, le Acli con le bandiere bianche, c’è Libera, Emergency, l’Anpi, i fazzoletti partigiani sono ovunque, tanti quanto gli stendardi di Agesci e Cngei, scout laici e cattolici. “Siamo diecimila, è la marcia dei ragazzi”, annuncia Ivano Lotti, organizzatore del cammino Perugia-Assisi, alla partenza c’è anche Brunello Cucinelli, umbro, imprenditore famoso, re del cachemire made in Italy, ma anche di un modo di fare azienda etico e rispettoso dei diritti. “I nostri giovani sono le sentinelle dell’umanità e credo che ben presto si arriverà anche ad una contemporanea pace di Vestfalia”, sostiene con ottimismo Cucinelli citando la guerra dei trent’anni. “Stiamo andando verso un secolo speciale, che io trovo particolarmente bello. Anche se abbiamo una guerra in corso, sono però convinto che i saggi dell’umanità troveranno una soluzione ben presto, ne sono sicuro”. Chissà. Di politici alla marcia ci sono Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti, entrambi dell’alleanza Verdi-Sinistra. “Mentre l’escalation militare continua imperterrita e l’Europa dà il via libera per mandare anche gli F-16 in Ucraina, qui ad Assisi c’è un popolo di uomini e donne che rifiutano la logica delle armi e tentano di fare valere la ragione della pace e il buonsenso”. Piccolotti: “Il governo investa sulla speranza invece che sulla morte. C’è una sola strada per il cessate il fuoco in Ucraina ed è la trattativa diplomatica tra Usa e Cina, con la mediazione dell’Europa”. E Laura Boldrini: “Dobbiamo tutti, ad ogni livello, promuovere il dialogo e costruire la via d’uscita dalle guerre. L’Italia e l’Europa sostengano la missione di pace del cardinale Zuppi a Kiev”. Nubifragi e rovesci risparmiano la marcia, anzi il sole è caldo mentre i diecimila arrivano alla Porziuncola, la piccola chiesa custodita nella basilica di Santa Maria degli Angeli dove San Francesco - si dice - scoprì la sua vocazione e accolse Santa Chiara e i primi frati. (Poi davanti alla rocca, traguardo della marcia, scuole ed università firmeranno il “Patto di Assisi” per l’educazione alla pace). Beatrice Debbia ha 20 anni, studia legge per diventare magistrata e arriva da Scandiano. “Non so se il mio camminare potrà fermare la guerra, anzi le guerre. Ma partendo dal basso la mia protesta è questa, questa è la mia richiesta di giustizia. Se diventeremo tanti, chissà, un milione di persone che camminano contro la guerra, magari ci ascolteranno. Una cosa è certa: non si può cercare la pace rispondendo alle armi con nuove armi”. Ancora il pensiero corre al Mahatma Gandhi e alla sua marcia del sale. Alex, Samuel, Cristian, Nunzio e Benedetto hanno 16 anni, vengono da Bronte, in Sicilia. Hanno facce allegre, sorrisi aperti: “Noi camminiamo, qualcuno ci ascolterà”. Forse però lo slogan più bello è quello di un gruppo di donatori di sangue, che procedono spediti e a passo deciso. “Siamo qui perché il sangue bisogna donarlo, non spargerlo sui campi di battaglia”. Migranti. Mediterraneo: aumentano gli arrivi, l’Unione Europea complice degli abusi in Libia La Repubblica, 22 maggio 2023 Il resoconto dell’European Council on Refugees and Exiles: nel primo trimestre del 2023 il numero di arrivi è aumentato in maniera significativa, con l’Italia come principale porta di ingresso. Secondo Frontex i passaggi irregolari delle frontiere verso l’Unione Europea attraverso il Mediterraneo centrale sono quadruplicati nei primi quattro mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo del 2022, raggiungendo il livello più alto da quando l’agenzia ha iniziato a raccogliere informazioni nel 2009. I dati pubblicati il 5 maggio dal Ministero dell’Interno italiano raccontano di 42.449 arrivi in Italia dall’inizio dell’anno. Ai primi di maggio a Lampedusa sono sbarcate quasi duemila persone in meno di tre giorni. Un totale di 1053 persone risultano morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio di quest’anno. L’accusa all’UE di finanziare gli abusi in Libia. Il 12 maggio Medici senza Frontiere ha rilasciato una dichiarazione che ribadisce la complicità europea negli abusi in Libia. Secondo l’organizzazione nel 2022 circa 23.600 persone sono state intercettate dalla Guardia costiera libica, finanziata dall’Unione Europea, e rimpatriate con forza in Libia. Ma in Libia, secondo l’ultimo dossier delle Nazioni Unite, le persone migranti corrono il rischio costante di essere detenute arbitrariamente e sottoposte a torture e trattamenti inumani che si configurano come crimini contro l’umanità. Il racconto di chi è stato detenuto in Libia. Asha ha diciassette anni ed è stata salvata dalla nave Ocean Viking gestita dall’organizzazione SOS Mediterranee il 1° aprile. Abbandonata a nove anni durante la guerra civile somala, poi soccorsa da uno zio violento, Asha è riuscita a scappare da sola da Mogadiscio per sottrarsi a un matrimonio forzato con un parente di 83 anni. Durante la fuga è stata detenuta per tre anni in Libia, dove ha subito torture delle quali porta ancora i segni sul corpo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM) nel periodo tra il 7 e il 13 maggio 2023, 89 persone migranti sono state intercettate e rimpatriate in Libia. Il numero totale delle persone rimandate sulla sponda sud del Mediterraneo ha superato quota cinquemila. Il lavoro di soccorso delle ONG. Nel frattempo, nonostante i costanti tentativi di criminalizzare le operazioni di salvataggio in mare, le organizzazioni non governative continuano a soccorrere i naufraghi nel Mediterraneo centrale. La Geo Barents, la nave gestita da Medici senza Frontiere, ha soccorso il 16 maggio ventisei persone in difficoltà in acque internazionali al largo della Libia. Tra i profughi c’erano una donna incinta e otto bambini. Il 17 maggio la nave di Bansky, la Louis Michel, ha soccorso settantuno persone su un gommone sovraffollato e inidoneo alla navigazione. Respingimenti sul confine tra Italia e Francia. Le autorità francesi hanno dispiegato una serie di droni per monitorare il confine perché - hanno dichiarato - è materialmente impossibile impedire alle persone di attraversare il confine in modo irregolare senza l’ausilio dei droni. Parigi sostiene che circa 12.607 persone sono state fermate sul confine italo-francese dall’inizio di quest’anno, segnando un aumento del 40 per cento rispetto al 2022. I numeri ufficiali del governo francese sono però smentiti dalle associazioni che assistono i profughi alla frontiera. Per le ONG invece non c’è stato, in questi mesi, nessun aumento significativo delle persone in transito. Medici senza Frontiere denuncia i respingimenti all’altezza di Ventimiglia. Secondo Sergio Di Dato, responsabile della clinica mobile che assiste i migranti sul confine tra Francia e Italia, in media ogni giorno 20/25 persone vengono respinte dalla Francia verso l’Italia e si teme che questo numero possa aumentare dopo il dispiegamento di altri 150 poliziotti alla frontiera. Di Dato ha aggiunto che la situazione è molto complicata a Ventimiglia, dove alcune persone respinte sono accudite dalle associazioni che operano sul territorio, ma altre invece finiscono in campi improvvisati senza acqua né latrine, in mezzo ai topi. Congo. Caso Attanasio, l’inchino all’Onu: Palazzo Chigi resta fuori dal processo di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2023 Fino a ieri nessuna costituzione di parte civile. La nota della Fao al pm che indaga sui suoi funzionari: “A rischio i rapporti con il governo”. “Ricordare Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci non è solo un dovere istituzionale, ma un atto di giustizia e di amore. Verso le loro famiglie (…) che possono contare sul sostegno delle Istituzioni per conoscere la verità su quei tragici fatti. Verso la nostra Nazione, che con orgoglio può rendere omaggio al sacrificio di due servitori dello Stato”. 22 febbraio scorso, secondo anniversario della morte dell’ambasciatore italiano in Congo e del carabiniere che gli faceva da scorta: Giorgia Meloni non manca di ricordarli con parole toccanti sullo sfondo di patria e famiglia. Eppure, passato il tempo delle commemorazioni, la Presidenza del Consiglio non ha ancora dato mandato all’Avvocatura dello Stato per costituirsi parte civile nel processo a carico di due funzionari del Pam (Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite), accusati di omissioni nell’organizzazione del viaggio durante il quale Attanasio e Iacovacci rimasero uccisi nel corso di un tentativo di sequestro (sei congolesi sono stati condannati all’ergastolo nel loro Paese). Il prossimo 25 maggio si terrà l’udienza preliminare del procedimento italiano. Palazzo Chigi ha qualche giorno per costituirsi parte civile, ma secondo quanto risulta al Fatto, ancora ieri mattina nulla era stato comunicato all’Avvocatura dello Stato. La scelta del governo, anche per il caso Attanasio, potrebbe essere la stessa presa in altri contesti: è già stata revocata la costituzione di parte civile nei processi a Berlusconi (a Milano e a Bari); nel caso della strage di Piazza della Loggia invece la richiesta è arrivata in ritardo ed è stata respinta dal giudice. E poi c’è stato il procedimento a carico dei torturatori di Giulio Regeni: Meloni e il ministro Tajani, convocati dal gup, non si sono presentati, causa “segretezza” dei colloqui con il presidente egiziano Al-Sisi. A pesare sul procedimento per la morte di Attanasio però potrebbe essere una questione “diplomatica” che riguarda l’immunità (o meno) dei due dipendenti del Pam. E il Pam è un’agenzia dell’Onu, il che vuol dire anche gli alleati americani. Così il sospetto è che Chigi stia prendendo tempo per non turbare le sensibilità diplomatiche. Giovedì prossimo, dunque, si terrà l’udienza preliminare. Gli indagati sono due dipendenti del Pam in servizio nella Repubblica democratica del Congo, per i quali la Procura di Roma a novembre scorso ha chiesto il rinvio a giudizio. Sono accusati di non aver predisposto “per negligenza, imprudenza e imperizia, ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione” di quel 22 febbraio 2021. Quando la Procura ha iscritto i due funzionari è stato sollevato un problema di immunità, che però il pm Sergio Colaiocco ha escluso. Non è dello stesso avviso la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, come ha scritto nelle note inviate al Comando dei carabinieri del ministero degli Affari esteri. Nella “nota verbale” del 30 luglio 2021, la Fao riferisce su quello che descrivono come un “grave incidente” avvenuto l’8 giugno 2021 a Roma quando uno dei due funzionari è stato interrogato dal pm. Convocato come persona informata sui fatti, la sua posizione si è trasformata in indagato. “L’organizzazione - riporta la nota del 30 luglio 2021 - ha l’onore di richiamare lo status giuridico del Pam quale organo congiunto e sussidiario della Fao e le Nazioni Unite, i privilegi e immunità che il programma e i propri funzionari godono…”. Si spiega poi che il Pam ha acconsentito che il dipendente “venisse sentito esclusivamente sulla base di una cooperazione volontaria e senza pregiudizio alcune a dette immunità…”. Nella nota si esprime “seria preoccupazione” per l’iniziativa della Procura, a loro detta “in evidente violazione degli accordi fra il Pam e le autorità italiane”. E poi si aggiunge: “Il mancato rispetto da parte del pm di detti accordi rischia di nuocere a una lunga e positiva tradizione di cooperazione e sostegno reciproco fra Fao, Pam e governo italiano”. Sarà il giudice a decidere sull’immunità. Di certo il messaggio dell’agenzia Onu non è stato accolto dal pm, convinto che tale privilegio non sia contemplato. Si può dire lo stesso della Presidenza del Consiglio? O è questa la ragione della mancata costituzione di parte civile? Vedremo cosa accadrà da qui al 25 maggio e se Chigi vorrà essere presente in aula.