Quei suicidi in cella e i doveri dello Stato di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 21 maggio 2023 Il recente intervento su questo giornale di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha portato a conoscenza fatti tragici che, nonostante la loro gravità e importanza, erano rimasti ignoti. Si tratta della morte di due detenuti come conseguenza del lungo sciopero della fame da essi praticato. Nulla a che vedere con il rilievo avuto recentemente dalla vicenda Cospito, sollecitata dalla natura politica del suo sciopero della fame e dal rilievo anch’esso politico che ha assunto nel braccio di ferro instaurato con le varie autorità dello Stato, governative e giudiziarie. Ora, anche sulla morte dei due detenuti ricordati dal Garante si è aperta una pur limitata discussione pubblica. Al valore in sé rappresentato dall’estrazione di tali tragedie dall’oscurità della non conoscenza da parte dell’opinione pubblica, si aggiunge quello che è proprio del dibattito sul tema generale. Tema che riguarda certo i detenuti e i frequenti loro suicidi (84 l’anno scorso), anche nella forma dello sciopero della fame portato alle ultime conseguenze. Ma tema che si inserisce nel quadro più vasto delle questioni che attengono alla decisione di por fine alla propria vita. Il dibattito sul suicidio assistito e sulla eutanasia ne fa parte. Vi sono nell’esposizione del Garante alcune parole chiave: disagio, ascolto, dialogo. Nel contesto carcerario esse hanno un’importanza specifica e particolarmente acuta. La restrizione della libertà personale, non solo per le condizioni carcerarie degradanti, né solo se di lunga durata, ha profonde, sconvolgenti conseguenze su tutti gli aspetti della personalità del detenuto. Più del suicidio in carcere, lo sciopero della fame, che si protrae nel tempo, per l’emergenza che rappresenta per lo Stato che “custodisce” il detenuto, non può rimanere ignorato dalla direzione del carcere e dai magistrati di sorveglianza. Ne sono dunque note le circostanze specifiche, la condizione del detenuto e la sua personalità e i motivi della protesta sottostante lo sciopero, l’esistenza o meno di possibili interlocutori esterni (famigliari, difensori, persone e associazioni della società civile). Ciò potrebbe rendere possibile comprendere le ragioni del disagio, attivarne l’ascolto, aprire un dialogo. Per che fare? Certo non per costringere chi pratica lo sciopero della fame (detenuto o no che sia) a rinunciarvi o imporgli l’intervento medico di alimentazione forzata, ma per offrirgli l’uscita dalla solitudine e consentirgli di vedere alternative alla morte. Perché nel trattare la scelta di mettere termine alla propria vita - specialmente quando, come in carcere, lo Stato si assume la responsabilità della sicurezza di chi ha imprigionato - la chiave di volta è il rispetto della autodeterminazione di ciascuno per sé. Ma l’autodeterminazione è un concetto e una concreta situazione di grande complessità e gravità. Essa non è sostituibile come, in assenza del Parlamento, ha fatto la Corte costituzionale nel 2019 costruendo una ristretta area fattuale di gravissime condizioni del paziente, in cui non è punibile l’aiuto al suicidio. Allo Stato spetta di rispettare la libertà degli individui, non sindacare i motivi che li inducono ad assumere una decisione che li concerne, né decidere quando rispettarla e quando no. In questo senso si è nettamente espressa la Corte costituzionale tedesca, sulla base di una Costituzione, che in tema di libertà non è diversa da quella italiana. Né è possibile condividere l’opinione del Comitato nazionale di bioetica, nella risposta data al quesito posto dal ministro della Giustizia sul caso Cospido e sulla validità di un rifiuto dei trattamenti sanitari utili a salvarne la vita “subordinato al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale”. Il Comitato ha affermato ovviamente che qualsiasi detenuto può avvalersi delle previsioni della legge n. 219 del 2017 sul consenso/rifiuto ai trattamenti sanitari, ma ha ritenuto di distinguere da quello che ha come unico fine quello di morire, lo sciopero della fame e il rifiuto di alimentazione forzata finalizzati a ottenere un certo comportamento da parte dello Stato. Anche quest’ultimo scopo rientra infatti nel campo della libertà individuale costituzionalmente garantita. Ma per essere veramente libera l’autodeterminazione richiede alternative, oggetto di scelta e rinunciabili, ma concretamente prospettate. Tipiche sono le cure palliative, che il Servizio sanitario nazionale deve offrire per rendere tollerabile il dolore. Ma non solo esse. I motivi che rendono insopportabile la vita a una persona o comunque la inducono alla decisione di morire sono i più vari e richiedono misure ogni volta diverse, per poter essere superati escludendo il suicidio. È questo il tema della vulnerabilità della persona, la cui tutela è solitamente richiamata da chi sostiene posizioni restrittive in tema di fine vita liberamente decisa. Sempre, si potrebbe dire, chi decide di morire e proprio perché vuole morire dimostra di essere vulnerabile (vulnerato, anzi, dalle circostanze che lo opprimono). Ma allora, nell’impossibilità giuridica e spesso anche materiale di costringerlo a vivere, occorre offrirgli la via per superare le difficoltà che soffre e che lo schiacciano. Certo si tratta di un’offerta rinunciabile (anche le cure palliative lo sono), ma essa è anche condizione perché si possa vedere l’autodeterminazione veramente come espressione di libertà. Quando il carcere si trasforma in manicomio di Maria Novella De Luca La Repubblica, 21 maggio 2023 La tragedia della salute mentale in cella, tra suicidi, violenza e abbandono. Otto ore di copertura psichiatrica alla settimana ogni cento detenuti: una goccia nel mare della disperazione. Uno su tre ha disturbi mentali. A otto anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e il passaggio alle “Rems” la riforma è incompiuta. Nei penitenziari la malattia viene gestita con metodi carcerari. Sedazione, isolamento, contenzione. Franco Corleone: “Dobbiamo fermare l’apertura di nuovi manicomi criminali”. Adesso il Sestante è chiuso. Il famigerato settore del carcere torinese Lorusso e Cutugno dove erano rinchiusi in condizioni brutali i detenuti con problemi psichiatrici, è finalmente smantellato. Era stata una denuncia di Susanna Marietti dell’Associazione Antigone nel 2021 a rompere il silenzio sulla vergogna di quel reparto, un vero e proprio manicomio di fatto, sul quale la procura di Torino ora indaga per almeno cento casi di maltrattamenti. Ricorda Susanna Marietti che per Antigone si occupa della salute mentale in carcere: “I detenuti erano abbandonati con i loro escrementi in celle al buio, nella sporcizia, come fossero mucchietti di stracci accucciati sulle brande, neutralizzati dai farmaci, con la bava alla bocca, gli occhi assenti. Nessuno che parlasse con loro, nessuno che li ascoltasse”. Un detenuto su tre soffre di disturbi mentali - Il Sestante era una Atsm, ossia una sezione speciale, definita “Articolazione per la tutela della salute mentale”. In pratica un reparto per detenuti psichiatrici gravi, ce ne sono 32 nelle 200 carceri italiane, alcuni funzionano bene, altri, la maggioranza, denuncia Antigone che nel 2022 ha visitato 99 penitenziari in tutta Italia, sono “luoghi di sommo degrado”. Perché negli istituti di pena del nostro paese (e non solo) la salute mentale è una scommessa. “All’8,7% dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6% assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, mentre ben il 42,4% sedativi o ipnotici, il 18,9% erano tossicodipendenti in trattamento. A fronte di questo c’erano 8,3 ore la settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore la settimana di servizio psicologico”. Nel 2022 sono stati 84 i suicidi dietro le sbarre, un numero enorme. L’Oms ha poi lanciato un allarme sconvolgente: un detenuto su tre in Europa soffre di disturbi mentali. È questa la fotografia, impietosa, del rapporto tra malattia mentale e carcere, a otto anni dalla chiusura nel 2015 degli ospedali psichiatrici giudiziari, i terribili Opg: la gestione dentro e fuori gli istituti di pena di chi commette un reato avendo una patologia psichiatrica appare di una difficoltà estrema. Con situazioni che tornano ad avvicinarsi, sempre di più, a logiche di contenzione e segregazioni. “La riforma è incompiuta”, denuncia Massimo Cozza, direttore del Dipartimento di Salute Mentale Asl Roma2. “La legge 81 del 2014, dopo diverse proroghe, ha messo fine allo scandalo dei manicomi criminali, dove i detenuti, anche per reati minori, venivano lasciati lì a vita, in una reiterazione della pena chiamata, non a caso, ergastolo bianco. Luoghi di sola custodia, discariche sociali”. La commissione Marino svelò gli orrori degli Opg. Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Ognuno di questi nomi porta con sé le sconvolgenti immagini di una sub-umanità che la commissione d’inchiesta del Senato sugli ospedali psichiatrici giudiziari, presieduta da Ignazio Marino, mostrò alla politica italiana. Manicomi ancor più degradati e violenti di quelli chiusi da Franco Basaglia nel 1978, in quanto contenitori non soltanto di pazzi, ma di cosiddetti pazzi criminali. Dove la definizione di criminale poteva assurdamente contenere il reato e la storia di un uomo, chiuso nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto da 25 anni, perché aveva “rubato settemila lire mimando con le mani in tasca la forma di una pistola”. O di un ragazzo arrestato perché vestito da donna. Ergastoli bianchi. Dopo anni di denunce delle associazioni, del movimento Stop-Opg, il Parlamento vara la legge che impone lo svuotamento dei manicomi criminali, con le resistenze della Destra che profetizza il rovesciarsi nelle strade di efferati pazzi criminali. Naturalmente non è avvenuto ma la de-istituzionalizzazione giudiziaria, compiuta in una ideale consonanza con la legge Basaglia, presenta ombre di attuazione ancor maggiori rispetto alla legge 180. Nel conflitto sempre più stridente all’interno degli istituti penitenziari tra “bisogno di cura ed esigenze di sicurezza che il carcere è chiamato a bilanciare, l’abbraccio mortale tra Giustizia e Salute, tra diritti che confliggono e faticano a convivere”, come si legge nell’ultimo rapporto Antigone sulle carceri italiane. Luci e ombre delle Rems - Aggiunge Cozza: “Giustamente si è passati dall’idea della reclusione a quella della cura affidata ai dipartimenti di salute mentale invece che al ministero della Giustizia. Sono state create le Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza a carattere sanitario, a cui vengono affidati i rei non imputabili, gestite dai dipartimenti di salute mentale. Sono 30 in tutta Italia, con circa 600 posti. Qui vengono assistiti i cosiddetti folli-rei, incapaci di intendere e volere considerati però socialmente pericolosi, la cui condizione non prevede il carcere, ma la cura, appunto, nelle Rems”. Alcune di queste strutture sono all’avanguardia, come quella di Trieste ad esempio, piccole, senza sbarre, nel solco, appunto, della de-istituzionalizzazione. “Altre, invece”, sottolinea Franco Corleone, Garante dei detenuti di Udine, “ad esempio Castiglione delle Stiviere, la più grande d’Italia, per le loro dimensioni riproducono di fatto la struttura dell’ospedale psichiatrico, in antitesi a quanto prevede la legge di chiusura degli Opg”. A Castiglione, in Lombardia, sono infatti concentrate ben 151 persone di cui 133 uomini e 18 donne, il 27% di tutta la popolazione delle Rems. Un numero enorme. “Le Rems però, con luci e ombre, sono di fatto il superamento del manicomio criminale. Il vero problema sono i detenuti con problemi psichiatrici, considerati capaci di intendere e di volere al momento del reato, per i quali la patologia psichica si aggrava o insorge successivamente all’ingresso in carcere. Ma le carceri non sono assolutamente attrezzate. Così accade che spesso la malattia”, rivela Massimo Cozza, “venga gestita con metodi carcerari. Sedazione, isolamento. Con agenti penitenziari che nell’assenza di operatori sanitari si trovano a dover gestire, magari, la crisi acuta di un detenuto”. (Come non ricordare l’utilizzo fino al 2017 delle “celle lisce”, celle totalmente vuote, senza né brande né servizi sanitari, in cui venivano rinchiusi senza vestiti i detenuti “agitati”. Alice che gettò i suoi figli dalle scale - L’ultimo suicidio in una di quelle stanze di tortura è del 2017 nel carcere di Paola. Si chiamava Maurilio Pio Morabito, aveva quasi finito di scontare la sua pena). E di certo non sarebbe dovuta essere in una cella del carcere di Rebibbia con i suoi bambini di sei mesi e due anni Alice Sebesta, detenuta per traffico di stupefacenti, che nel 2018 uccise i suoi piccoli gettandoli dalle scale. Eppure il “disturbo” di Alice era stato segnalato. Perché, allora, Alice Sebesta era con i figli nel nido del penitenziario romano anziché in una dimensione sanitaria? Quasi si fosse passati da manicomi-carcere, a carceri-manicomio. Mancano le risorse, i concorsi per operatori di salute mentale vanno deserti. Otto ore di copertura psichiatrica alla settimana ogni cento detenuti. Una goccia nel mare della disperazione. Franco Corleone, ex parlamentare, fa parte dell’Osservatorio sulla chiusura degli Opg, dopo essere stato il commissario unico che ha traghettato i manicomi criminali allo smantellamento. “Aver messo fine a quei luoghi della vergogna è stato un atto di civiltà. Ci sono delle criticità, certo, ma la riforma è in gran parte compiuta. Dopo la morte di Barbara Capovani è in atto invece un attacco sia alla legge 180, sia alla legge che ha chiuso gli Opg. Una strumentalizzazione che nasconde il deciso intento di tornare ai manicomi, da parte di una certa psichiatria e da parte com’è noto della Destra. Come se fosse l’unica risposta possibile alle aggressioni contro chi opera nella salute mentale. Sappiamo bene che non è così, le misure per fermare i violenti già esistono, a cominciare dalla libertà vigilata. Le stesse Rems prendono in carico i cosiddetti socialmente pericolosi ma sono di fatto luoghi di cura”. Rivedere il concetto di non imputabilità - Il problema è invece un altro, dice Corleone: “La gestione della salute mentale in carcere e il carcere stesso che produce patologie. Negli ambienti ristretti il disagio esplode. Quanti detenuti potrebbero uscire ed essere curati nel territorio invece di essere trattati soltanto farmacologicamente? Perché non avviene?”. La verità è che bisogna rivedere, secondo Corleone, il concetto di “non imputabilità”, eliminando la differenza tra coloro che compiono un reato e sono “capaci” da coloro che lo compiono essendo “incapaci di intendere e di volere”. Norma risalente al codice Rocco. “Anche i “pazzi” quando fanno del male sono consapevoli di farlo. Affrontare un processo può essere terapeutico. Eliminando quella dizione, che porta con sé l’idea che chi è incapace debba essere soltanto custodito in una Rems mentre chi delinque ma era savio al momento del delitto debba essere trattato da detenuto uguale agli altri. Per entrambi - conclude Corleone - la strada non sono nuovi manicomi criminali piccoli o grandi, ma la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale”. Due suicidi in carcere in due giorni. Gonnella (Antigone): “Servono subito interventi radicali” di Grazia Longo La Stampa, 21 maggio 2023 Due suicidi in carcere in appena due giorni. Il primo, giovedì scorso a Secondigliano, in Campania, il secondo, venerdì, a Ravenna, in Emilia Romagna, ripropongono in modo drammatico la questione di chi si toglie la vita dietro le sbarre. Dopo l’anno nero del 2022, che con 84 casi - praticamente uno ogni cinque giorni - ha battuto il record dei 72 suicidi del 2009, oggi, per il 2023, siamo a quota 23. “Ogni suicidio è un caso di disperazione a sé” osserva Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. E infatti il detenuto di Secondigliano aveva 65 anni, era in attesa di giudizio per associazione mafiosa e aveva già scontato un periodo in prigione e ai domiciliari. Mentre quello di Ravenna, 35 anni, anch’egli morto per impiccagione, era in cella da sole due settimane per violenze e lesioni permanenti nei confronti della compagna. “Nonostante le differenze - prosegue Gonnella - i due episodi vanno inquadrati in un contesto generale di disagio legato a molti fattori. Servono modifiche radicali affinché la detenzione svolga una funzione rieducativa e non solo sanzionatoria. C’è innanzitutto bisogno di un travaso generazionale per coinvolgere più giovani, in tutti i ruoli, dal direttore e gli agenti penitenziari agli psicologi, educatori e mediatori culturali. La disperazione singola è anonima, serve gente che attivi rapporti diretti con i detenuti”. E inoltre andrebbero rivoluzionati gli spazi: “Devono essere più fruibili, più aperti con maggiori attività. Da quelle scolastiche e universitarie a quelle teatrali e sportive”. Per non parlare, poi, dell’inadeguatezza delle strutture. “Da uno studio del nostro Osservatorio - prosegue Gonnella - emerge che nel 44% delle carceri ci sono celle senza acqua calda. Sempre per quanto concerne le celle, nel 56% sono senza doccia, nel 10% non funziona il riscaldamento, e nel 9% il wc non è in un ambiente separato dal resto della cella da una porta”. Il presidente di Antigone conclude con un richiamo ai politici “per utilizzare un linguaggio appropriato. Espressioni come “bisognerebbe buttare la chiave e farli marcire in galera” non favoriscono di sicuro la tutela dei detenuti”. Aldo Di Giacomo, segretario nazionale del Sindacato polizia penitenziaria evidenzia “le condizioni di difficoltà in cui vivono i detenuti a causa della criminalità diffusa nelle carceri. Dai soprusi fisici e psicologici, allo spaccio di droga: le organizzazioni criminali non agevolano la vita. Per cambiare la realtà non basta aumentare il personale penitenziario, oggi ci sono 57 mila detenuti a fronte di quasi 37 mila agenti, ma occorre potenziare anche l’assistenza psichiatrica. Nel carcere di Augusta, in Sicilia, alcune settimane fa, sono morti due detenuti per lo sciopero della fame. In fondo anche quella è una forma di suicidio che va arginata”. Secondo Di Giacomo, inoltre, “anche gli annunci per la costruzione di nuovi padiglioni lasciano il tempo che trovano mentre il ministro Nordio sta pensando al recupero di vecchie caserme, idea non nuova che richiede comunque soldi e tempi non brevi di realizzazione. Questa mattanza silenziosa deve finire con misure e azioni concreti perché lo Stato ha in carico la vita dei detenuti e ne risponde”. E il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, chiosa: “Dobbiamo riflettere sul perché ci siano tanti suicidi. È necessario costruire una cultura nuova per cui sanzionare qualcuno con il carcere non significhi farlo sentire espulso dalla società. Servono assolutamente più figure di tipo sociale”. Il carcere non è l’unica risposta. Sì al coraggio di pene alternative di Glauco Giostra Avvenire, 21 maggio 2023 Nell’inaugurare a Castel Capuano la nuova sede della Scuola superiore della magistratura il ministro Nordio ha pronunciato parole importanti e, speriamo, impegnative. Ha anzitutto voluto precisare come “presunzione di innocenza e certezza della pena” segnino “la duplice, convergente direzione” verso cui “intendono muoversi le riforme in cantiere, continuando a lavorare per superare una visione carcero-centrica della pena”. Affermazione particolarmente apprezzabile perché serve a chiarire che, almeno secondo il Ministro, “certezza della pena” - locuzione che nell’ecolalia di una certa politica sta spesso per “sbattere in galera e gettar via le chiavi” - non deve significare “certezza del carcere”: Giustamente, osserva il Ministro, “la Costituzione parla di pena, non di carcere. E la pena talora può essere più efficace se espiata - per alcuni reati - attraverso misure e percorsi adatti ai profili, anche molto diversi, dei detenuti e a favorirne il reinserimento nella società dei liberi”. Considerazione tanto più inoppugnabile, se si considera che la Costituzione per la verità parla di “pene che debbono tendere alla rieducazione del condannato”, a riprova che il legislatore costituente già quasi ottanta anni fa immaginava un arsenale sanzionatorio molto variegato, in grado di adattarsi al profilo e al percorso del condannato, anche al fine di cercarne il recupero sociale. Eppure, nonostante l’autorevole bussola costituzionale che indica con chiarezza limiti e finalità della risposta dello Stato al delitto, esattamente dieci anni fa abbiamo dovuto subire l’ustionante condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia), per trattamento inumano e degradante delle persone detenute e ancora oggi abbiamo penitenziari per larghissima parte somiglianti a stabulari di Stato, che registrano un raccapricciante stillicidio di suicidi. Molteplici fattori hanno concorso a questo sconfortante bilancio, ma la causa delle cause risiede nella diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e nella corrispondente tendenza politica - elettoralmente molto redditizia - ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento meno impegnativo e più inefficace: aumentare le fattispecie di reato ed elevare l’entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile. Una perdurante politica penale, sinora non certo ripudiata da questo Governo, di inequivocabile segno “carcerocentrico”, che fatalmente determina un crescente sovraffollamento penitenziario e una sostanziale impraticabilità della funzione risocializzativa della pena. Una politica che favorisce e sfrutta la grande mistificazione secondo cui promuovere il graduale reinserimento sociale del condannato significherebbe compromettere la sicurezza collettiva. Studi statistici dimostrano, al contrario, che il condannato cui è stato offerto un progetto individualizzato di meritato, progressivo ritorno in società ha una tendenza nettamente inferiore alla recidiva rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere, e che dal carcere - a meno di non voler punire tutti con l’ergastolo - prima o poi comunque uscirà. Dall’esperienza degli Stati generali dell’esecuzione penale in poi giacciono in via Arenula compiuti progetti di riforma che vanno nella direzione indicata dal Ministro. Le sue dichiarazioni lasciano sperare che abbia il coraggio di avvalersene, sebbene siano frutto di maggioranze diverse (alle quali tale coraggio è mancato); o quantomeno confidare che, questa volta, la divaricazione tra le parole del Ministro e i fatti del Governo sia sensibilmente inferiore ai centottanta gradi. Più manette per i diversi e i poveracci: il garantismo deve fronteggiare un nemico in più di Iuri Maria Prado L’Unità, 21 maggio 2023 Tutto si può dire, tranne che alla destra che si insediava al governo qualche mese fa non fosse stata concessa una notevolissima linea di credito anche da parte di osservatori non propriamente amici, o addirittura avversari, che tuttavia confidavano nella presenza e nella capacità di influenza di qualche indizio liberale in quel sostanziale complesso reazionario. Speranze vane. Specie in materia di giustizia, infatti - ma, con sguardo più largo, in ordine a ciò che orrendamente si dice “idea di società” -, la destra di governo ha immediatamente preso a esercitarsi nell’offerta di soluzioni politiche neppure soltanto conservatrici (che in un Paese che avrebbe assai poco da conservare sarebbero a dir poco indesiderabili), ma di deciso carattere recessivo praticamente in ogni ambito del vivere civile e sociale della cosiddetta “Nazione”. Pochi mesi di governo hanno con abbondanza dimostrato che le quotidiane amenità ministeriali sul destino etno-centrico della patria, l’elevazione a protocollo esecutivo di un italianismo simultaneamente tronfio e straccione, la sguaiata rivendicazione di un riordino sociale che la fa finita con gli immigrati anteposti agli italiani, con “la questione rom” e con le lingue forestiere lasciate libere di contaminare le purezze della nostra didattica, non erano gli episodi di ridicole intemperanze di cui si rendeva responsabile un personale politico poco sorvegliato: ma denunciavano una cultura. Quella che non casualmente ma sistematicamente offre prova di sé stessa addebitando a un deputato nero di avere una suocera indagata e una moglie con le borse di lusso, accusando la controparte politica di tenere bordone alla mafia e ai terroristi perché visita un detenuto al 41 bis, reclamando il pugno di ferro per le zingare che avrebbero una gravidanza dietro l’altra per scampare il gabbio, facendo del proprio profilo social il mattinale che riporta lo stupro a patto che a commetterlo sia l’africano, la rapina a condizione che a farla sia il clandestino, l’aggressione sempre che il responsabile non sia un italiano bianco di famiglia tradizionale. Sulla giustizia, in particolare, questa piega ormai compiutamente realizzata della effettiva fisionomia della destra di governo non potrebbe essere più evidente. I pochi conati di ipotesi liberale affidati a qualche comunicato eccentrico di un Guardasigilli che ha deluso solo gli illusi erano puntualmente contraddetti da una pratica di governo che ha attuato con esattezza il precetto elettorale della donna che sarebbe diventata presidente del Consiglio (“garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”): col dettaglio che sulla metà buona, le garanzie nel processo, non si capisce dove e come il governo sia intervenuto. Se dall’equanimità giustizialista che reclama più manette per tutti si passa a un sistema ricondotto a giustizia con più manette per i diversi e per i poveracci vuol dire soltanto che il garantismo deve fronteggiare un nemico in più. Colosimo e le polemiche sull’Antimafia? Il vero problema è cosa ha fatto la Commissione negli ultimi anni di Tiziana Maiolo L’Unità, 21 maggio 2023 Ma chi sarà mai questa Chiara Colosimo, che ha la pretesa di andare a presiedere la Commissione Antimafia senza aver mai indossato una toga? Meglio un bel pm “antimafia”, anche se ex. Non ha peli sulla lingua il dottor Giancarlo Caselli, e ha già il suo bel candidato da proporre per quella Bicamerale così speciale da avere persino poteri requirenti. Cioè gli stessi dell’autorità giudiziaria, con esclusione del potere di manette. Ecco la proposta, in uno dei tanti organi di famiglia: “E francamente avendo a disposizione una personalità professionalmente e moralmente ineccepibile di altissimo livello e di collaudata indipendenza come Cafiero de Raho, non riesco proprio a capire cosa di meglio si potrebbe trovare”. Il che non pare significare tanto che la candidata proposta dalla maggioranza parlamentare non abbia professionalità e moralità ineccepibili, quanto piuttosto il fatto che, anche quando, come nel caso di Cafiero, il magistrato sbarca in Parlamento, quel che conta è il suo habitus di pm, la sua natura di “antimafia”. Uno dei nostri, insomma, di noi unici titolati a presiedere una commissione con quella denominazione. Il contrario, sarebbe un po’ come se un “civile” avesse la pretesa di guidare un battaglione dell’esercito. Se poi, come nel caso di Chiara Colosimo, su di lei “si profilino ombre capaci di minare la credibilità e fiducia assolute di cui deve godere”, è chiaro che non vi è dubbio su chi dovrebbe cadere la scelta. E sarebbe interessante, lo diciamo senza retorica, poter assistere ai lavori di una commissione parlamentare come continuazione di quelli della Direzione Nazionale Antimafia condotta dal dottor, oggi onorevole, Federico Cafiero de Raho. Naturalmente non sappiamo neppure, essendo Chiara Colosimo una giovane deputata alla sua prima esperienza parlamentare, come intenda condurne lei la presidenza. Perché nel frattempo è stata finalmente, con il ritardo fisiologico di ogni inizio legislatura, fissata la data del 22 maggio come quella in cui la commissione si formerà e i suoi componenti eleggeranno gli organi dirigenti. Sarà una data significativa, la vigilia dell’anniversario della strage di Capaci, quella in cui furono assassinati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Ci sono tanti modi di ricordare un grande magistrato e il suo sacrificio. In passato ci furono in Parlamento tanti deputati e senatori di Alleanza Nazionale, il partito antenato di Fratelli d’Italia, quello cui appartiene Chiara Colosimo, i quali avevano le idee ben chiare sui principi che distinguono lo Stato di diritto dallo Stato etico. Non è vero che questi principi sono estranei al mondo della destra, come non lo sono a una parte della sinistra. Ci sono i nomi e i cognomi, oltre ai resoconti stenografici delle Camere a dimostrarlo. Un punto fondamentale è ovviamente quello della divisione dei poteri, in cui rientra il fatto che la lotta alla mafia è compito dei governi, mentre alla magistratura spetta individuare i responsabili dei reati. Ecco perché sarebbe alquanto inopportuno che l’esperienza e la cultura “antimafia” di un pubblico ministero venissero traslate automaticamente in una commissione parlamentare. Meglio quindi Chiara Colosimo, pur se inesperta. E pure se ignoriamo se la sua cultura politica sia più vicina a quella dei suoi “padri” politici di An che siedevano vent’anni fa sugli stessi scranni occupati oggi dai colleghi di Giorgia Meloni, o invece a quel settore del suo partito più contiguo alla visione da Stato etico di Rousseau e i suoi seguaci dei Cinque stelle. Un fatto però ci dà speranza, i lividi che la giovane deputata porta sul corpo dopo le legnate che le sono pervenute da Ranucci e il suo Report con annessi il gruppo di Libera e il piccolo circolo di qualche parente di vittime di mafia. Quei colpi (piace sempre ricordare i “lividi dell’anima” di cui parlava Rosa Luxemburg) potrebbero essere i suoi salvavita. Se è vero che molti di quelli che oggi si professano “garantisti” lo sono diventati solo quando gli artigli della malagiustizia hanno graffiato i loro volti, o quelli dei loro cari, ben vengano anche i lividi sul corpo di Chiara Colosimo. Una foto con una “brutta persona”, Luigi Ciavardini, uomo della destra estrema, condannato per strage e due delitti, pena scontata e ampia revisione del proprio passato. Nel presente l’adesione a una associazione di quelle che si occupano dei detenuti. Un po’ come, sul versante di sinistra, Salvatore Buzzi, che anni fa fu fotografato a incontri di fundraising del Pd laziale e a tavola anche con qualcuno che poi diventerà ministro, senza destare particolare scandalo. Ci vogliono proprio gli spiriti maligni di destra e di sinistra per rinfacciare a qualcuno il reato di fotografia. Chiara Colosimo era consigliere regionale, ai tempi di quella foto, e faceva il suo lavoro bene, evidentemente, se si occupava anche di detenuti. O avrebbe dovuto chiedere l’esame del sangue e il tasso di antifascismo ogni volta che qualcuno le si affiancava per una foto? Dobbiamo quindi ritenere che, se per esempio stringiamo una mano, condividiamo non solo il presente ma anche il passato della persona che ci si è avvicinata? Il problema vero della Commissione bicamerale antimafia è se mai un altro, chiunque la presiederà. Nelle due ultime legislature, quelle in cui fu presieduta prima da Rosi Bindi e poi da Nicola Morra, ha dato l’impressione di svolgere un’attività moralistica, con lo stile tipico della subcultura grillina, più che di indagine sulla congruità della normativa antimafia e sull’applicazione concreta della stessa da parte della magistratura. Questi due ex presidenti, che non sono più in Parlamento, vengono ricordati soprattutto per le famose “liste degli impresentabili”, attese con bramosia da quei giornalisti e quelle testate che brillano per l’adesione alla medesima sub-cultura. Se fosse fondata l’impressione che quelle due commissioni, una successiva all’altra, abbiano rivolto la loro attività investigativa più a fare le pulci a ogni candidato alle elezioni per verificare se nel loro passato ci fosse per esempio una foto come quella che viene imputata oggi a Chiara Colosimo, che non a verificare l’applicazione rigorosa delle leggi antimafia, questo significherebbe una cosa sola. Che questa commissione è inutile, forse addirittura dannosa. Ha più importanza l’informazione di garanzia ricevuta nel passato da un candidato alle elezioni comunali, o l’attività costante di procuratori che spendono energie e denaro pubblico in clamorosi blitz “antimafia” che vengono poi puntualmente smentiti dai giudici di vari gradi? Proprio ieri, giusto per fare un piccolo esempio, è stato scarcerato dal tribunale del riesame in Calabria il “capo degli zingari”, arrestato il 15 aprile con un’altra sessantina di persone per narcotraffico. Sarebbe ordinaria amministrazione, se tutta l’operazione non fosse stata presentata in conferenza stampa come una colossale operazione “antimafia”. Perché c’è proprio un problema di cultura politico-giudiziaria, in questo momento in Italia e trent’anni dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino. C’è un settore, ristretto ma rumoroso, di società che pare aver bisogno che la mafia continui a esistere e che non accetta il fatto che non tutto ciò che si muove nell’illegalità e nella trasgressione debba essere catalogato come “mafia”. C’è anche altro, e non è detto che sia meno grave. Ecco, onorevole Colosimo, hic Rhodus, hic salta. Non sarà una foto a farci capire che Presidente sarà. Auguri. “Perché serve depenalizzare il reato di abuso d’ufficio”. Parla il giurista Stortoni di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 maggio 2023 “L’articolo 323 del codice penale ha da sempre dimostrato una inutilità fisiologica e una pericolosità patologica”, ci dice Luigi Stortoni, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Bologna. “L’articolo 323 del codice penale, quello sull’abuso d’ufficio, ha da sempre dimostrato una inutilità fisiologica e una pericolosità patologica. Per questo sarebbe un’ottima soluzione depenalizzare il reato, sostituendolo con un illecito punito sul piano amministrativo”. Lo dichiara, intervistato dal Foglio, Luigi Stortoni, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Bologna, ascoltato su questo tema nei giorni scorsi dalla commissione Giustizia della Camera, che sta esaminando le proposte di modifica dell’abuso d’ufficio (in attesa che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ponga sul tavolo la propria proposta). “Il reato di abuso d’ufficio - sottolinea Stortoni - si è rivelato foriero di pochissima obiettiva tutela penale, che si ha quando c’è una sentenza di condanna. Nel caso dell’abuso d’ufficio, infatti, solo l’uno per cento dei procedimenti si conclude con una condanna. Quindi si ha una fattispecie che genera molti procedimenti, ma che sono dannosi, perché creano effetti nefasti sia per gli indagati o per gli imputati, sia per la stessa pubblica amministrazione”. “Nel corso del tempo si è registrato un progressivo lavorio del legislatore per cercare di tassativizzare questa fattispecie penale, cioè di precisare in maniera accurata la condotta punita, in modo da renderla ‘meno pericolosa’”, spiega Stortoni. “Il problema - prosegue - è che anche l’ultima riforma, quella del 2020, non ha portato all’obiettivo sperato. L’utilizzazione giudiziaria di questa fattispecie è rimasta la stessa. Il numero delle denunce è infatti rimasto il medesimo, così come il danno da queste prodotto sulla vita, sulla reputazione e sulla carriera degli indagati, che poi saranno assolti dopo quattro o cinque anni. Tutto ciò ha una ripercussione anche sulla pubblica amministrazione, perché crea il fenomeno della burocrazia difensiva che spinge anche gli amministratori più solerti ad avere paura di prendere decisioni”. Ma per il giurista, il risultato fallimentare delle ultime riforme “si rintraccia anche nella giurisprudenza, che è stata refrattaria a ogni modifica legislativa”: “La giurisprudenza è arrivata al paradosso di invocare, come norma che indica un comportamento, l’articolo 97 della Costituzione, che invece definisce un bene giuridico. Anche dopo la riforma del 2020 la corte di Cassazione in diverse sentenze ha continuato a interpretare in maniera molto ampia la fattispecie di reato”. Ecco perché depenalizzare il reato non sarebbe una cattiva idea. “E’ una soluzione che ha la sua ragionevolezza. La norma penale che non fa il suo dovere fa un danno immenso, perché c’è di mezzo la libertà personale”, dice Stortoni. A proporlo è Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, che ha elaborato un’apposita proposta di legge che prevede la sostituzione del reato con una sanzione amministrativa. Proprio Costa ha raccolto in un dossier circa 150 casi di sindaci che negli ultimi anni sono stati indagati per abuso d’ufficio, rinviati a giudizio e poi assolti. Alcuni casi sono veramente paradossali. L’accusa è stata avanzata, per esempio, per il rifiuto di concedere una sala per una riunione, per l’uso di un’auto di servizio o per la trascrizione dell’adozione di figli di coppie gay. “Tutto può rientrare nell’abuso d’ufficio e tutti possono esserne colpiti, non solo i sindaci, ma qualsiasi amministratore”, ha dichiarato Costa in una conferenza stampa tenutasi giovedì al Senato, a fianco al leader di Azione, Carlo Calenda: “Si tratta - ha osservato Calenda riferendosi al dossier - di 150 persone ingiustamente indagate e poi assolte. Non sono singoli casi che restano sui giornali una giornata ma persone che hanno vite rovinate e di cui ci dimentichiamo”. “L’abuso d’ufficio - ha aggiunto - determina anche una paralisi nell’amministrazione. I sindaci hanno paura di decidere e tutto questo significa che non si spendono i soldi del Pnrr”. Nel 2017 lo stesso Nordio venne nominato a capo di una commissione ministeriale sull’abuso d’ufficio. Colui che qualche anno dopo sarebbe diventato ministro della Giustizia concluse proponendo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Una scelta radicale su cui Nordio ora appare molto più cauto, soprattutto a causa delle resistenze della Lega. “Intercettiamone uno per intimidirli tutti”, così le Procure “spiano” le strategie degli avvocati di Simona Musco Il Dubbio, 21 maggio 2023 “Intercettiamone uno, intimidiamo tutti gli altri”. Con queste parole, un paio di anni fa, la Camera penale di Roma reagiva all’ennesimo caso di intercettazione a carico di un avvocato. Casi non isolati, che negli anni hanno riempito le pagine di questo giornale, come testimonianze di una pratica non consentita, ma comunque tollerata, dal momento che di conseguenze non ce ne sono. Le norme, allo stato attuale, prevedono il divieto di trascrizione, anche sommaria, di queste comunicazioni. Un passettino in avanti rispetto alla norma precedente, che ne vietava il solo utilizzo, che però non impedisce comunque di ascoltare e, dunque, scoprire la strategia difensiva, con buona pace del diritto di difesa. Tra i casi raccontati dal Dubbio c’è quello di Roberta Boccadamo, del foro di Roma, che leggendo l’ordinanza del gip di Genova con le motivazioni della misura cautelare emessa nei confronti dei vertici di Atlantia nell’inchiesta legata al crollo del Ponte Morandi, si è imbattuta in una conversazione tra lei e Antonino Galatà, ex Ad di Spea, incaricata da Aspi della sorveglianza e manutenzione della rete autostradale in concessione, suo assistito. Conversazione non solo registrata, dunque, ma anche trascritta e utilizzata da un giudice. E a permettere tale “svista” una giustificazione che però non corrisponde al vero: Boccadamo venne infatti indicata come compagna di Galatà. Ma non si tratta dell’unico caso. Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, ha portato il suo caso davanti alla Cedu, denunciando una lesione del diritto di difesa. Il legale infatti, ha ritrovato nei brogliacci allegati alle informative contenute nei fascicoli di un’indagine alcune intercettazioni intrattenute con il proprio assistito, in quel momento detenuto a 200 chilometri dal suo ufficio. Prima di loro era toccato ad altri: tra gli episodi noti vi sono quello relativo a Francesco Mazza, avvocato del foro di Roma, che nel 2019 si è ritrovato citato in un’informativa di cui era entrato in possesso dopo la notifica della chiusura delle indagini preliminari a carico di tre suoi assistiti, indagati nell’ambito della vasta operazione anti usura condotta dai carabinieri di Roma Eur e denominata “Under Pressure”. Per ben due volte la polizia giudiziaria ha appuntato dettagli di conversazioni tra lui e uno dei tre assistiti, il cui telefono era sotto controllo da un po’ di tempo. In un caso l’avvocato ha trovato trascritta per filo e per segno tutta la conversazione. Nel secondo, invece, soltanto un sunto. Ad Asti, sempre nel 2019, l’intera classe forense si era mobilitata gridando allo scandalo, quando Roberto Caranzano, avvocato astigiano, si ritrovò allegato al fascicolo di un processo per spaccio di droga il “foglio notizie” con le spese del procedimento penale, 27 pagine contenenti il nome di decine di colleghi di Asti, Torino e Cuneo, consulenti e giudici onorari, per una spesa totale di 559.221 euro. Un grosso malinteso, si affrettò a spiegare la procura di Asti, che parlò di “errore del sistema informatico”. Nelle cuffie dei finanzieri di Locri sono finite anche le voci dei difensori dell’ex sindaco di Riace Domenico Lucano, intercettato mentre era al telefono con gli avvocati Antonio Mazzone (scomparso a dicembre 2020 e sostituito dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia) e Andrea Daqua. La cimice piazzata a Palazzo Pinnarò registrò l’ex sindaco e Daqua, a cui si era rivolto dopo le ispezioni che hanno dato il là all’indagine che lo ha fatto finire a processo. E quel dialogo, anziché essere cestinato, venne trascritto nell’informativa finale dell’inchiesta “Xenia”. I due, in quel momento, discutevano di possibili strategie difensive, in vista di un’ormai più che scontata indagine. Nello stesso periodo, i dialoghi di quattro avvocati sono finiti nelle quasi 30mila pagine di un’indagine avviata dalla procura di Trapani nel 2016, con lo scopo di fare luce sull’attività delle ong attive in mare per soccorrere i naufraghi che cercavano di raggiungere le coste europee. Si tratta di Alessandra Ballerini, Michele Calantropo, Fulvio Vassallo e Serena Romano. E quale fosse il loro ruolo era noto anche alla polizia giudiziaria, che nell’appuntare i loro nomi li ha definiti avvocati per i diritti umani. Una violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che dispone che i colloqui tra difensore e indagato non solo non siano utilizzabili, ma non possano nemmeno essere intercettati. E nonostante gli esposti al Csm e alla procura generale della Corte di Cassazione, nessuno sembra rispondere mai di tali violazioni. Liguria. “Vasi comunicanti”, progetto per l’inclusione di persone sottoposte a provvedimenti penali cittadellaspezia.com, 21 maggio 2023 Finanziamento di un milione e 800mila euro assegnato dalla Cassa delle Ammende. Regione Liguria aderisce ai finanziamenti di Cassa delle Ammende presentando “Vasi comunicanti: dall’esecuzione penale alla rete territoriale del lavoro e del benessere sociale”, un progetto elaborato tramite la collaborazione tra il Prap (Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria), l’UIEPE (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) e il CGM (Centro giustizia minorile) e co-finanziato dalla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia. L’obiettivo è promuovere sul territorio sportelli per l’inclusione attiva delle persone sottoposte a provvedimenti penali, sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari, favorendo il collegamento con i servizi territoriali, l’accesso alle misure alternative alla detenzione e l’inclusione sociale. Tra le azioni previste, fondamentali sono i percorsi di inclusione socio- lavorativa e attivazione sociale (orientamento formativo, l’accoglienza abitativa e il sostegno alle capacità genitoriali). Prevista anche l’attivazione di azioni di sensibilizzazione della cittadinanza alla giustizia riparativa e alla mediazione penale. Il programma si sviluppa su tre anni, con un finanziamento di un milione e 800mila euro (600mila euro per ogni annualità) assegnato alla Liguria dalla Cassa delle Ammende, accompagnato con un co - finanziamento di 540 mila euro da parte della Regione. “Si tratta di un’ottima occasione per potenziare i meccanismi dell’inclusione sociale - commenta l’assessore alle Politiche sociali e Terzo settore di Regione Liguria, Giacomo Giampedrone - Sul nostro territorio possiamo contare sull’esperienza decennale del progetto ‘la Rete che Unisce’, che ha come destinatari persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e prevede, ad esempio, la formazione professionale e l’assistenza ai loro nuclei familiari, anche per i minorenni, senza dimenticare i servizi pubblici per il sostegno alle vittime di reato, per la giustizia riparativa e la mediazione penale. La Liguria ha tutte le carte in regola per presentare una progettualità sostanziosa e ben strutturata ed aderire al progetto della Cassa delle Ammende”. “Vasi comunicanti” sarà realizzato sul territorio regionale in stretta collaborazione con gli uffici locali del ministero di Giustizia e con gli enti del Terzo settore. Tutti i dettagli saranno messi a disposizione sul sito istituzionale www.regione.liguria.it. Milano. Età avanzata, dipendenze e problemi mentali. Salute a rischio nel carcere-modello di Roberta Rampini Il Giorno, 21 maggio 2023 All’avanguardia per il trattamento dei detenuti, carcere modello per i progetti di reinserimento lavorativo e sociale, il carcere di Milano Bollate tuttavia ha “grandi problematiche nell’area sanitaria”. A dirlo l’associazione Antigone all’indomani della visita di una delegazione del proprio Osservatorio nella casa di reclusione, che ospita 1.275 detenuti, di cui 116 donne. “Il carcere di Bollate continua a rappresentare un’eccezione positiva nel panorama penitenziario italiano. Molte sono le persone detenute lavoranti, così come le opportunità di studio e le altre attività che animano il carcere e costruiscono ponti tra il dentro e il fuori - si legge nel report di Antigone -. A differenza di altre strutture lombarde, la percentuale di stranieri è in linea con la media nazionale (38,6%), mentre il 42% è tossicodipendente. Alcune criticità riguardano l’innalzamento dell’età media dei detenuti, con 40 persone ristrette che superano i 71 anni”. Altra nota dolente è il reparto infermeria, dove la delegazione ha notato situazioni gravi: “Detenuti ultraottantenni, un uomo aveva difficoltà deambulatorie e a causa degli ascensori rotti ci è stato fatto capire che non potesse accedere all’aria. E ancora assenza di materassi e piantoni per due detenuti allettati. Ma anche alcune situazioni particolarmente critiche dal punto di vista della salute mentale (come un detenuto che dorme sotto il letto senza accettare le lenzuola) con nessuna attività prevista o trattamentale”. Insomma anche nel carcere di Bollate la sanità penitenziaria richiede interventi urgenti per garantire spazi e assistenza adeguata h24 per tutte le patologie. “Il reparto infermeria è uno spazio inadeguato, soprattutto per un carcere che da sempre è il modello per tutti i penitenziari italiani - dichiara Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia che ha visitato il carcere. In un momento di trasformazione del penitenziario con sempre più detenuti definitivi, tanto il centro clinico Sai di Opera quanto l’infermeria di Bollate richiedono un intervento consistente, perché il trattamento non può prescindere dalla cura della salute e viceversa”. Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella precisa, “il carcere è un pezzo di città, le persone detenute hanno lo stesso diritto alla salute di chiunque altro, per questo è fondamentale che il livello dell’assistenza sanitaria dentro gli istituti di pena sia garantita nel miglior modo possibile”. Milano. I ragazzi del Beccaria: un giorno nel carcere minorile di Paola Manciagli oggi.it, 21 maggio 2023 “Oggi” è il primo giornale a varcare i cancelli del minorile. Quello degli evasi di Natale (poi tornati o ripresi). Ecco come si vive qua dentro. Per tutti, la speranza è di avere una seconda chance: “Quando ho visto mia madre soffrire, ho deciso di cambiare”. Chissà se i ragazzi del minorile di Milano lo sanno, chi era Cesare Beccaria. Chissà se sanno che il penitenziario dove sono adesso porta il nome di una persona che tre secoli fa lottò avendo a cuore i detenuti e le pene che subivano (“Se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità”). I ragazzi del Beccaria ne stanno passando tante, si è scritto. Proteste, abusi tra compagni di cella. Da quando il giorno di Natale sono evasi in sette (poi tutti recuperati), si è polemizzato su quanto l’Istituto sia sovraffollato, sulla ristrutturazione in corso da 15 anni che rende invivibili gli spazi. Gran parte dei giovani detenuti ha esperienze devastanti e neanche immagina una vita diversa da quella che ha sperimentato. Il Beccaria, in passato, era considerato un luogo capace di risvegliare talenti e sogni, aprire possibilità. Ovvero quello che la normativa penale minorile prevede, dal D.P.R. 448 del 1988 in poi. La situazione sembra precipitata. Oggi è il primo giornale a entrare e a trascorrere nell’Istituto una giornata intera, per dare conto di quel “sembra”. I LAVORI - Il Beccaria comincia con un ampio cortile circondato da vecchi murales. Un fazzoletto è coltivato a giardino. Il resto è terra rivoltata. Anche nei corridoi incrociamo operai che dipingono, grandi teli di plastica, sentiamo martellare. In bagno, una presa penzola dal muro. Se non altro, ora c’è una fine prevista per i lavori: l’estate. Dal cortile si dipana un dedalo con alte mura: c’è l’orto, un campetto da calcio di erba sintetica, uno da rugby, edifici con scale buie, lunghi corridoi sorvegliati dagli agenti e porte di ferro con lo spioncino rettangolare. Dietro una recinzione si intravede una piscina scoperta. “La sveglia, momento delicato” - È un giorno di festa, le attività sono ridotte. Ma alcuni ragazzi accettano di mostrarci come funziona la loro giornata. Ci seguono il direttore Maria Vittoria Menenti (in questi giorni la direzione è cambiata, e in autunno è previsto un altro avvicendamento), educatori e agenti. Siamo controllati a vista. Anche la vita dentro è così. “Quando li svegliamo, per esempio, è un momento delicato”, spiega Maria Lucia Loiola, educatrice al Beccaria da 28 anni. “Soprattutto i nuovi sono demotivati o sono in difficoltà perché di solito assumono sostanze. Già restano stupiti che a svegliarli siano persone che non sono arrabbiate, che sorridono. Se va bene la sveglia, va bene tutta la giornata”. Le sezioni sono come appartamenti: più stanze da due o da tre, il bagno con le docce, la cucina, una sala con divano e magari il biliardino. “C’è chi non vuole sentirsi a casa” - Ce ne mostrano una abbastanza in ordine, anche se spoglia. “C’è chi alle pareti attacca foto dei propri cari e chi no perché non vuole appartenere a questo posto, pensare di essere a casa”, spiega Loiola. “La maggior parte, ora, è di origine straniera e arriva dalla Stazione Centrale. Sono abituati a quello: uno, con il letto lì accanto, continuava a dormire a terra avvolto nella coperta”. Non è come “Mare Fuori” - “Io mi alzo alle 7.30”, racconta Luca (i nomi dei ragazzi sono di fantasia). “Vado al corso professionale, torno, magari pulisco la stanza. E dopo mangiato andiamo in sala musica o a dipingere, o giochiamo alla playstation. Siamo riusciti a comprarci FIFA 2023”. Fabrizio Bruno, coordinatore dei laboratori formativi, sottolinea: “Non funziona come nella fiction Mare fuori. Lì, nelle prime due stagioni i ragazzi passano tanto tempo a non fare niente. Al Beccaria tutti fanno qualcosa. Laboratori, scuola, percorsi lavorativi. E poi palestra, musica, teatro, informatica, jujitsu, arte. È libero solo il mercoledì, per i colloqui con i familiari. Li ammorbiamo di attività”. “Ho visto mia mamma che soffriva” - Un certo Alex doveva amare il disegno, ha firmato bozzetti appesi nelle aule, murales nel campo da calcio: “Sì, ha firmato dappertutto. Ma poi ha scelto di tornare a fare quella vita e l’hanno rimesso dentro all’estero”, racconta Luca. “Io sono stato arrestato il giorno degli esami a scuola, alla fine li ho dati qui”. Appena arrivato non aveva voglia di fare niente. L’educatrice Loiola spiega: “A un certo punto scatta qualcosa, alla loro età succede. Magari dopo una litigata, dove però si rendono conto che li hai a cuore”. Luca ricorda: “Ho visto mia mamma che soffriva, non l’avevo mai vista così, è arrivata a prendere farmaci. Ha capito cosa facevo solo quando mi hanno arrestato. Lei pregava tanto per i ragazzi che combinavano certe cose: è rimasta scioccata scoprendo che suo figlio era il primo”. Vantaggi e svantaggi - A Luca è servito anche parlare: “Mi sono confrontato con i ragazzi che avevano l’articolo 21 (il permesso di lavorare pagati all’esterno o negli spazi all’aperto dell’Istituto, ndr). Ho visto i vantaggi e gli svantaggi della vita di prima. Facevo soldi dal nulla, non me ne fregava niente di 50 euro. Ma poi ho iniziato a mettermi nei panni delle persone che venivano derubate”. Ora si sta formando per un lavoro e sogna di aprire un centro giovanile diurno: “Parlane con don Gino”, gli suggerisce il direttore Menenti. Don Gino Rigoldi è il cappellano del Beccaria, colonna portante della rinascita di tanti ragazzi. E loro lo sanno: “Già fatto, direttore”, sorride Luca. “Non so cosa mi piace fare” - Entriamo in un’aula scolastica con la cartina dell’Italia, la lavagna e un altro bel disegno di Alex, l’artista. Ivan, 17 anni, studia per la licenzia media. Gli piace l’italiano, scrivere. Compone canzoni trap. Da grande vuoi fare il cantante? “È il mio sogno”. Il laboratorio di cucina è il regno di Sergio, 19 anni. Mentre giriamo apre armadi, sfoglia libri, solleva coperchi. Sei qui da molto? “Mi conoscono”. Sei tornato più volte? “Sì”. E frequenti sempre il laboratorio? “No, è la prima volta”. E perché? “Perché questa volta devo stare dentro 10 mesi”. Al forno c’è Emil, che ha occhi grandi e lavora pensando che un giorno sarà assunto. Il ventenne Fabio ha appena iniziato in falegnameria: “Ma non mi appassiona”. Perché hai iniziato? “Piuttosto che stare in camera…”. Cosa ti piace fare? “Non lo so”. “Non devono diventare tutti falegnami o pasticceri”, spiega Elvira Narducci, responsabile dell’area pedagogica, “ma imparare le abilità utili in ogni lavoro, ad esempio relazionarsi con il capo”. C’è chi è di passaggio - Con l’insegnante di arte hanno dipinto un albero pieno di rami rigogliosi, e su ogni ramo c’è il nome di qualcuno che ha dormito, mangiato, sofferto, sognato, lavorato qui. Al momento, il Beccaria ospita 24 ragazzi (a dicembre 2022 i detenuti di tutti i Minorili erano 400). Hanno tra i 16 e i 23 anni: nove sono italiani, gli altri vengono da Marocco, Egitto, Tunisia, Algeria, Albania. Sedici sono dentro per rapina aggravata, due per tentato omicidio. Il resto per furti e reati minori. Noi abbiamo conosciuto chi deve restare mesi o anni. Ma c’è chi è di passaggio: la custodia può durare meno di 30 giorni. Tanta diffidenza - Le parole di molti escono a stento. Sembrano diffidenti. “La fiducia nell’adulto è la prima cosa che va ristrutturata”, spiega Narducci. “Ad esempio, agli educatori raccomando di non dare risposte se non si è ancora certi. Meglio dire: “Ti farò sapere domani a quest’ora”. E domani a quell’ora risponderai. Per un giovane è importante rendersi conto di essere tenuto in mente. E qui ci sono ragazzi che non sono mai stati tenuti nella mente, nella pancia e nel cuore di nessuno”. Narducci lavora al Beccaria da più di 30 anni, dal 1992: la situazione è precipitata? “Abbiamo avuto difficoltà oggettive, i continui cambi di direzione, i lavori. Se non ci fosse stata una radice così profonda in tutti noi, gli educatori, gli agenti, non avremmo tenuto il senso delle nostre azioni. Ma l’abbiamo tenuto”. “Un po’ padre, un po’ fratello, un po’ psicologo” - Il pranzo arriva in piatti di plastica sigillati. A tavola con noi c’è Giulio, 19 anni. Com’è la vita qui? “Fantastica”, ironizza. Lavora nell’orto. Ti piace? Fa spallucce. Poi mangiate quello che coltivate? “Sì, e di sicuro è meglio della mensa”. Alcune proteste sono partite proprio per il cibo, racconta l’agente scelto Luca Ciardulli, al Beccaria da 5 anni: “C’è sempre un motivo quando si ribellano, bisogna capire qual è, e mediare. Io parlo molto con loro, ma ognuno di noi trova il suo modo di essere un po’ padre, un po’ fratello, un po’ psicologo. Nelle sezioni non indossiamo la divisa, è di ostacolo, la associano alle persone che li hanno arrestati e portati qui. Ma il mio ruolo resta quello di rimetterli un po’ inriga quando c’è bisogno. Può succedere che qualcuno sia svogliato, oppure nervoso perché un colloquio con un familiare è andato male. Tra di loro si prendono in giro e succedono battibecchi. A volte, tornano dalle telefonate stravolti perché hanno ricevuto una brutta notizia da casa, che magari è in Marocco. Allora li chiamo da parte, così non devono far sapere a tutti i fatti loro, e cerco di capire e tranquillizzare”. Quand’è che diventa difficile? “Quando parlano poco la nostra lingua o non la parlano affatto. Ce la caviamo a gesti, essere impositivi o violenti peggiora solo la situazione”. Il recupero - Non è raro che, una volta fuori, vada male: “Sono tutti molto giovani”, spiega Bruno, il coordinatore dei laboratori. “Spesso hanno capacità e intelligenze particolari, si rendono conto di avere un’occasione e investono tantissimo. Da questo punto di vista, sul lavoro partono con una marcia in più. Ma di fronte a un rimbrotto, a una correzione, possono rivivere l’esperienza fallimentare che hanno passato a scuola o nelle relazioni, perché sono stati abbandonati. Allora si scoraggiano e vogliono mollare”. “In pochi si rendono conto che i ragazzi del Beccaria sono i nostri ragazzi, quelli che stanno in classe, all’oratorio o per strada a chiacchierare”, sottolinea l’educatrice Loiola. “Se dipendono da alcol e sostanze è perché l’uso è ormai diffuso”, aggiunge la responsabile Narducci. “Sono sempre più presenti anche situazioni psichiche delicate: c’è chi ha il trauma dell’immigrazione o chi è stato detenuto in Libia, un inferno”. È difficile immaginare che possano recuperare: “Eppure, l’ho visto accadere”, replica. “Gli adolescenti hanno risorse che non immaginiamo. Solo, bisogna ridare loro la speranza. Prima ancora che ci credano loro, dobbiamo crederci noi”. Benevento. I detenuti riorganizzato l’archivio del tribunale Il Mattino, 21 maggio 2023 L’iniziativa è frutto di un protocollo tra gli uffici giudiziari e le associazioni con il Garante dei detenuti. I detenuti sistemeranno l’archivio del Tribunale di Benevento. L’iniziativa, prevista con un protocollo, si pone l’obiettivo di realizzare programmi di intervento formativi, lavorativi e ricreativi di varia tipologia da realizzarsi in partenariato e finalizzato, nello specifico, alla sistemazione dell’Archivio presso il Tribunale di Benevento, mediante il ricorso a forme di collaborazione volontaria di persone sottoposte a misura alternativa alla detenzione. Tale attività si inserisce nel solco della giustizia riparativa quale forma indiretta di riparazione all’illecito penale commesso. Lunedì prossimo si terrà la firma del protocollo di intesa che verrà stipulato tra il Tribunale di Benevento, l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna, il Garante dei Detenuti della Regione Campania e la Rete “Sale della Terra”. Saranno presenti la dottoressa Marilisa Rinaldi, Presidente del Tribunale di Benevento, la dottoressa Marisa Bocchino, Direttore dell’Ufficio di esecuzione Penale Esterna, Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania, Angelo Moretti, Presidente della Rete di Economia Civile “Sale della Terra” e la dottoressa Adele Caporaso, Responsabile della Piattaforma “Libertà Partecipate” afferente alla Rete “Sale della Terra” L’intento condiviso è di proseguire e consolidare il percorso, frutto della collaborazione tra le realtà operanti nel mondo della giustizia penale e la Rete “Sale della Terra”, intrapreso dall’ULEPE a partire dal 2003 (quando era denominato CSSA, Centro di Servizio Sociale per Adulti, già diretto dalla dottoressa Marisa Bocchino) quando furono avviate le pratiche di inclusione sociale e lavorativa dei soggetti in esecuzione penale con progetti personalizzati, stabilendo le prime collaborazioni con le cooperative sociali del territorio, alcune delle quali poi confluite nella Rete “Sale della Terra”. Latina. La storia di Pamela, che assume un detenuto e crede nei diritti latinaoggi.eu, 21 maggio 2023 Questa storia parla di speranza e ostinazione. Ruota attorno a tre donne caparbie. Una è la giornalista Flavia Filippi, che ha messo in piedi l’associazione “Seconda chance” e sta consolidando un programma che consente di trovare occupazione a persone detenute per dare loro, appunto, un’altra possibilità. La rete funziona bene a Roma, meno nelle province del Lazio e sembrava quasi impossibile esportarla anche a Latina, poiché nella casa circondariale di via Aspromonte non esiste una sezione per i cosiddetti “ammessi al lavoro esterno”. Eppure lei, Flavia, ce l’ha fatta lo stesso grazie alla collaborazione e alla fiducia di una ristoratrice di Terracina, che uno dei detenuti di Latina lo ha assunto, trattandosi di un bravo cuoco e pasticciere. Questo sarà il suo nuovo lavoro in una catena di cibo veloce. A raccontarlo è proprio la Filippi: “Penso all’immensa soddisfazione di avercela fatta a Latina, nel cui carcere non c’è una sezione per gli ammessi al lavoro esterno e quindi non ci sono possibilità, in teoria. Ma ogni tanto qualcuno può ambire a una misura alternativa. Ed è ciò che è accaduto quando il 31 gennaio scorso la direttrice Nadia Fontana (ora alla guida di Rebibbia femminile) e il capoarea Rodolfo Craia mi hanno detto che D. sarebbe potuto andare in affidamento se qualcuno gli avesse offerto un lavoro. A quel punto sono andata letteralmente in fissa”. D. è un detenuto del carcere del capoluogo, ha 43 anni, abitava prima dell’arresto in un paese sui Monti Lepini, ha moglie e tre bambini, cucina bene, si intende di pasticceria, in carcere faceva il bibliotecario ed era stimato da tutti. Dopo il colloquio con la direttrice del carcere, Flavia Filippi, tramite la sua associazione, comincia a spedire i curricula del detenuto ovunque ma nessuno degli imprenditori interpellati tra la città di Latina e la provincia accetta di assumerlo, per quanto “raccomandato” per la sua esperienza e la volontà di ricominciare. Poi, improvvisamente, la svolta. Pamela Sambucci, titolare di una toasteria a Terracina, dice ha sta cercando proprio quella figura professionale. “In quel momento tutto è cambiato. In quattro e quattr’otto abbiamo organizzato l’incontro con D. e appena è uscita dal carcere di Latina mi ha detto: ‘Ok, mi piace, facciamo la richiesta per prenderlo.’ Un fulmine, una donna decisa, precisa, pratica. E poiché ha una toasteria pure a Frosinone, la prossima settimana andrà a cercare personale in quel carcere. A Pamela vorrei dire: pure se non ci siamo mai viste, sappi che vorrei clonarti”. D. intanto sta già lavorando nel locale di Terracina, a fine turno fa ritorno a casa, dalla sua famiglia. E’ una storia a lieto fine, una delle poche ma ha il sapore della speranza e per questo va raccontata. In più arriva a pochi giorni da un’altra iniziativa che ha coinvolto un gruppo di detenuti del carcere di Frosinone che, insieme ai volontari ambientalisti di Priverno hanno ripulito le sponde del fiume Amaseno, da tempo luogo indebitamente utilizzato per l’abbandono di rifiuti. A dicembre scorso un’azione analoga si è tenuta sul lungomare di Sabaudia sempre in collaborazione con i volontari e l’amministrazione locale su input dell’associazione “Seconda chance” e per quella infaticabile caparbietà di Flavia Filippi. Sassari. Giornata evento “La parola ai detenuti: che padre sarò?” algherolive.it, 21 maggio 2023 Sfruttare il tempo della pena: dalla condanna alla scelta di cambiare. Giovedì 25 maggio, a Sassari, si terrà la giornata evento “La parola ai detenuti: che padre sarò?”. Un argomento non facile da trattare davanti a una platea, una tematica che tocca le pance e le ferite dell’anima, ma che è doveroso approfondire perché solo attraverso il confronto e la diffusione di buone pratiche, è possibile introdurre strategie efficaci quando si parla di violenza contro le donne e i minori. L’evento, organizzato dal Centro Ascolto Uomini Maltrattanti Sardegna, con il patrocinio della Regione Autonoma della Sardegna e del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, si svolgerà nell’aula Mossa del medesimo Dipartimento e consisterà in una giornata intensa in cui si alterneranno interventi dal carattere formativo e informativo, ognuno pensato per dare il proprio contributo fattivo. L’evento, accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Sassari con rilascio di 6 crediti formativi in materia non obbligatoria, sarà moderato da Silvia Lidia Fancello - Delegata EFA per la Sardegna - e vedrà l’intervento del Dott. Mariano Brianda - già Presidente della sezione penale della Corte d’appello di Sassari; del Capitano Yuri Abbate, Comandante della Compagnia Carabinieri di Sassari; del Dott. Angelo Beccu - Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sassari, e ancora della Dott.ssa Paola Sechi - PhD, Ricercatrice di Diritto Processuale Penale Dipartimento di Giurisprudenza Università degli Studi di Sassari; della Dott.ssa Luisella Fenu - Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Sassari; della Dott.ssa Francesca Solarino - assistente sociale, referente della Direzione Generale delle Politiche Sociali e della Direzione Generale della Sanità per il progetto ministeriale promosso dalla Regione Sardegna “SOStenere in Rete”; del Dott. Jeorge Freudenthal - Responsabile Progetto Gakoa (dai Paesi Baschi); della Dott.ssa Laura Ciapparelli - Avvocata e criminologa forense - e della Dott.ssa Nicoletta Malesa - presidente e coordinatrice del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti Nord Sardegna. Durante la giornata, con in inizio alle h. 10.00 e fine lavori per le h. 17.00, sarà installata, per tutta la durata, la mostra pittorica dell’arte terapeuta Danila Pittau, mentre gli interventi dei vari relatori saranno intervallati dalla lettura di alcune testimonianze reali di padri ed ex-detenuti della Casa Circondariale di Sassari, località Bancali, raccolte nell’elaborato - realizzato dalla giornalista Elena Mascia che prende il nome dal titolo dell’evento - a cura dell’attore Giovanni Salis. Cuneo. Carcere e diritti: se ne parla in Provincia lafedelta.it, 21 maggio 2023 È dedicata al rapporto tra carcere e diritti, a vent’anni dalla nascita dei Garanti dei detenuti, la conferenza in programma martedì 23 maggio alle 11 nel palazzo della Provincia di Cuneo (Sala Giolitti). L’iniziativa, promossa dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, si svolge in collaborazione con la Provincia. Era il 14 maggio 2003 quando la Città di Roma deliberava l’istituzione della prima figura di garanzia dedicata alle persone detenute in Italia, mentre era 6 ottobre dello stesso anno la Regione Lazio approvò la legge n. 31 intitolata “Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. La presenza di Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio e portavoce nazionale dei Garanti territoriali, sarà l’occasione per una riflessione pubblica a distanza di 20 anni dalla nascita dei garanti. Dopo i saluti istituzionali di Luca Robaldo, Presidente della Provincia di Cuneo, interverrà Stefano Anastasia e sono previsti gli interventi Paolo Allemano (Garante della Città di Saluzzo), Paola Ferlauto (Garante della Città di Alba e Garante della Città di Asti), Michela Revelli (Garante della Città di Fossano), Alberto Valmaggia (Garante della Città di Cuneo). Hanno assicurato la presenza e prenderanno la parola Rita Monica Russo Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, il Direttore dell’Uepe Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Cuneo Elena Boranga, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cuneo Alessandro Ferrero, la rappresentante della Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta Dora Bissoni, Mario Tretola, Presidente regionale delle Acli Piemonte, Paolo Romeo Presidente dell’Associazione “Ariaperta” e Carla Vallauri Presidente dell’Associazione “Sesta Opera”. Coordina e modera Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Sono stati invitati i magistrati di Sorveglianza dell’Ufficio di Sorveglianza di Cuneo. Chiavari (Ge). Voce al territorio: la nuova iniziativa parte dal carcere Il Secolo XIX, 21 maggio 2023 Uscire dalla redazione per incontrare il territorio, portare il giornale tra la gente per dare voce a chi non ha voce, costruendo insieme le pagine dell’edizione, con vere e proprie riunioni di redazione nei luoghi meno frequentati dalle cronache. È il nuovo progetto che Il Secolo XIX edizione Levante mette in campo per accendere i fari sulle molteplici realtà delle nostre comunità: quartieri disagiati, reparti ospedalieri alle prese con criticità, scuole di montagna dimenticate, realtà carcerarie, aziende in crisi, centri anti violenza. Ma anche eccellenze poco conosciute, luoghi dell’ingegno e dell’innovazione che vale la pena raccontare, con tutto il loro portato di risorse e potenzialità. Ognuno di questi ambiti, ciascuna di queste esperienze hanno moltissimo da dire e da raccontare. Il Secolo XIX vuole intraprendere un viaggio di riscoperta. Un viaggio utile per i lettori, ai quali viene fornita la possibilità di conoscere realtà spesso ritenute marginali e poco frequentate dalla cronaca. Ma utile soprattutto ai nostri interlocutori, che avranno modo di uscire allo scoperto, mettendo l’accento sulle problematiche che affrontano ogni giorno, avanzando proposte e richieste, aprendo un canale di comunicazione con il giornale - e, per suo tramite, con la comunità - che non si esaurirà nello spazio di un incontro, ma avrà modo di strutturarsi in un dialogo continuo. Ponendo sul tavolo, ogni volta, degli obiettivi concreti che, insieme, si tenterà di raggiungere. Un nuovo approccio, altamente innovativo e per certi versi rivoluzionario di “pensare” il giornale anche in funzione di promozione sociale dei settori non sufficientemente conosciuti della comunità. Un modo di informare che significa anche prendersi cura della comunità nella sua interezza, connettendo chi oggi è fuori rete e incrociando comunicazione e impegno civile. Ogni settimana, quindi, Il Secolo XIX proporrà un appuntamento diverso. Questo lungo viaggio partirà martedì mattina con la prima esperienza che abbiamo deciso di conoscere più da vicino, la Casa Circondariale di Chiavari. Saremo accolti dalla direttrice Paola Penco, che incontreremo insieme al personale della polizia penitenziaria, a operatori sociali, medici e infermieri, al cappellano del carcere e, ovviamente, alle persone che in questa struttura sono recluse. Racconteremo la vita al di là del muro di cinta, i progetti di formazione, recupero e reinserimento sociale. Cercheremo di individuare insieme eventuali obiettivi da raggiungere per sostenere i progetti che all’interno della Casa Circondariale vengono portati avanti, vero e proprio investimento sulla sicurezza sociale di tutta la comunità. Il giorno successivo ad ogni nostro incontro “esterno”, pubblicheremo un ampio resoconto nelle pagine dell’edizione del Levante. Quelle stesse pagine che, almeno in parte, prenderanno materialmente vita durante le riunioni condotte nei luoghi che via via ci ospiteranno. In un dialogo continuo con i lettori e con le realtà che andremo a conoscere più da vicino. Monza. L’omaggio a Ennio Morricone dà un futuro agli ex detenuti di Barbara Calderola Il Giorno, 21 maggio 2023 Omaggio a Ennio Morricone per aiutare gli ex detenuti a trovare lavoro. “Once upon a time”, il concerto dedicato al Maestro e ad altri grandi compositori della storia, andrà in scena a TeatrOreno oggi alle 20.30. Protagonista, l’orchestra d’archi Milano Strings Academy diretta da Michelangelo Cagnetta con la collaborazione di Marilena Pennati e composta da una trentina di musicisti tra gli 11 e i 18 anni, insieme al coro polifonico D’Altro Canto, neonato ensemble di sole voci femminili - una ventina fra soprani e contralti - guidate dal Luca Pavanati, che ha anche curato gli arrangiamenti. Accanto a loro, nel ruolo di solista la soprano Tiziana Cisternino, artista del Coro del Teatro alla Scala di Milano. L’intero incasso della serata sarà devoluto alla cooperativa sociale “La valle di Ezechiele”, che si occupa di aiutare i carcerati a costruirsi una seconda vita. “L’evento - spiega don Eugenio Calabrese, parroco della frazione e responsabile di TeatrOreno - ha lo scopo di sostenere la coop nata nel 2019 da un’idea di don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio con l’obiettivo di offrire un mestiere a chi vuole rimettersi in gioco nella vita”. La scaletta è una sorpresa per il pubblico, è certo solo che ci sarà un medley delle musiche da cinema più famose di Morricone in una cornice di brani classici con un’incursione nel pop americano. L’evento segna il debutto del coro femminile che riunisce elementi brianzoli e del Pavese. “Tutte hanno lavorato con me negli ultimi anni - ricorda Pavanati - sono felice che abbiano abbracciato con entusiasmo e passione un progetto così impegnativo”. Per informazioni e biglietti: prenotazioni@teatroreno.it. “Mare fuori, un fenomeno che ha riacceso i riflettori su una realtà dimenticata” di Cristina Palazzo La Repubblica, 21 maggio 2023 La direttrice del carcere minorile di Torino, Simona Vernaglione, al Salone del Libro con i protagonisti della fiction. “Mare Fuori ha acceso i riflettori su posti come gli istituti penali minorili spesso dimenticati. La realtà è diversa ma la serie ha fatto conoscere il carcere nella sua funzione, non tenere chiuse le persone ma dare senso alla loro chiusura e ha mostrato che dentro o fuori i ragazzi sono uguali. Per i giovani a volte il carcere non è una seconda possibilità ma la prima di guardare il mondo non nella parte peggiore”. Simona Vernaglione, direttrice dell’istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino lo ha spiegato durante il talk al Salone del Libro, ospitato dallo stand della Città di Torino e Città Metropolitana insieme con i protagonisti di Mare Fuori. Al suo fianco, per raccontare invece la fiction e il contrasto con la realtà, c’era Nicolò Galasso, o semplicemente O’ Pirucchio per le tante e i tanti fan della serie che oramai lo conoscono bene e gli sceneggiatori Maurizio Careddu e Cristiana Farina. La serie è diventata cult in poco tempo, “sento l’effetto wow quando passo e per questo sarò sempre riconoscente perché vuol dire che è arrivato il messaggio”, ha raccontato il giovane attore. La sfida, ammette, è stata raccontare “la fragilità mascherandola, una maschera bruta che il mio personaggio indossa all’inizio e per cui credo tutti lo avete odiato. Ma la meraviglia è stata vedere il cambio del personaggio, la sua crescita e la mia con lui”. I ragazzi dentro il carcere spiegano “sono inconsapevoli, come il primissimo Pirucchio. Non sa quanto ha sbagliato ma ritrova quello che aveva con un’esigenza maggiorata”. Per scrivere Mare Fuori, raccontano gli sceneggiatori, hanno girato alcuni istituti italiani. Hanno ascoltato storie di vita e sbagli, li hanno riportati nei personaggi, alcuni sono diventati personaggi stessi. “Abbiamo scoperto che erano semplicemente ragazzi, che come tutti stanno passando un periodo della loro vita complesso. Sbagliare a quell’età è necessario, attraverso lo sbaglio capiamo chi siamo. Il mio carcere ideale - spiega la sceneggiatrice Farina - è quello in cui si apre la finestra su una realtà diversa da quella vissuta fino a un certo momento. Una finestra che chiamerei speranza”. Al Ferrante Aporti di Torino al momento vivono 47 ragazzi “a volte dobbiamo anche insegnare loro a parlare, perché sono minori stranieri non accompagnati, ma in generale vogliamo insegnare a fare attività spendibili fuori, come la pizza nella fiction o il teatro, perché la bellezza, l’arte e la cultura siano stimoli”, racconta la direttrice Vernaglione. Il sogno della struttura è aprire il teatro “per farlo entrare nel circuito cittadino, una puntata del cartellone della città. Ma cerchiamo la bellezza anche con la musica, abbiamo un coro a cui i ragazzi partecipano con entusiasmo. Lanciamo tanti progetti con il Comune e l’assessora Purchia in cui si incontrano ragazzi dentro e fuori. Scoprono di essere uguali. Quel che ci fa male però che i nostri hanno le pantofole perché considerano il carcere la loro casa. Ma il carcere è non libertà”. La pandemia ha inciso in modo negativo sui giovani, “abbiamo avuto lentamente ma rapidamente la sensazione che la riapertura alla vita sia significato anche apertura alla devianza che è cambiata - racconta la direttrice -. Come per il fenomeno delle baby gang. Abbiamo notato una recrudescenza in termine numerico elevatissima con reati particolarmente violenti a volte incomprensibili per modalità. Questo, oltre a creare una rimodulazione dell’intervento educativo, ci pone di fronte al dubbio su quel che noi come società esterna dobbiamo fare”. Per l’assessora Purchia “chi ha onore e onere di rivestire ruoli con responsabilità pubblica non deve perdere di vista che quei luoghi ospitano nostre cittadine e cittadini, sono la nostra città. Non dico che i muri devono essere distrutti ma devono esserci scollegamenti continui”. La legalità rigorosa di Bruno Caccia ispira e premia gli studenti a 40 anni dalla sua uccisione di Sarah Martinenghi La Repubblica, 21 maggio 2023 Hanno vinto il primo premio della seconda edizione del bando gli studenti dell’istituto tecnico superiore Bonfantini di Novara con un audio in cui hanno voluto “dare voce alle vittime innocenti di mafia”. Hanno raccontato chi era Bruno Caccia, il suo rigore, il suo sorriso sotto i baffi, il suo essere esempio per sempre. Gli aneddoti svelati dagli ex magistrati Paolo Borgna e Ugo De Crescienzo, di chi l’ha conosciuto, di chi ha imparato il mestiere di magistrato grazie a lui, assorbendo insegnamenti di vita anche davanti a fascicoli che apparivano bagatellari, perché piccoli o grandi che fossero i reati, nulla sfuggiva al suo controllo e alle sue lezioni di legalità e al suo senso del dovere. E quella legalità ha attraversato 40 anni ed è arrivata a ispirare i lavori degli studenti che, nell’aula Magna del Palazzo di giustizia, sono stati premiati giovedì pomeriggio, davanti al prefetto Raffaele Ruberto e a giudici, pm, procuratori capo attuali e passati, con una cerimonia in cui erano anche presenti anche Guido, Paolo e Cristina Caccia, i tre figli del procuratore ucciso dalla ‘ndrangheta il 26 giugno del 1983. Hanno vinto il primo premio (1200 euro) della seconda edizione del bando “#Il mio futuro è legalità”, gli studenti dell’istituto tecnico superiore Bonfantini di Novara con un audio in cui hanno voluto “dare voce alle vittime innocenti di mafia”. Da Bruno Caccia, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, alle storie sconosciute come quella di “Matteo Toffanin e Cristina Marcadella”, due giovani fidanzati che il 3 maggio 1992 mentre erano a bordo di una Mercedes imprestata da uno zio “tornavano da una giornata di sole in spiaggia” quando vennero raggiunti da alcuni colpi di pistola destinati in realtà al proprietario della vettura. Oppure quella di Cristina Mazzotti, “una bella ragazza, capelli neri, abiti eleganti”, che rientrava da una serata con gli amici quando venne rapita in cambio di un riscatto da 5 miliardi di lire. Rinchiusa in una botola di una cantina, “poca aria, niente luce”, fu uccisa “dal mix di droghe somministrate per stordirla dai suoi sequestratori” e poi gettata in una discarica a Novara. “Il nostro istituto scolastico ha voluto dedicare proprio a lei il giardino delle rose”, per non dimenticare lei e tutte “quelle vittime innocenti che devono essere per noi stelle che illuminano il nostro cammino di verità, giustizia e onestà” hanno spiegato gli studenti. Secondi classificati (800 euro), invece, i ragazzi del liceo Cattaneo di Torino, che “ci hanno messo la faccia”, in un video in cui hanno raccontato cosa sia la legalità: hanno tracciato un excursus della ‘ndrangheta in Piemonte per poi focalizzarsi sulla figura del procuratore capo Caccia, il suo omicidio, la sua eredità, chiudendo infine con la Cascina intitolata a lui e alla moglie, “una storia di vittoria contro la mafia”, perché requisita al mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore: “è la storia di come un potere, quello mafioso, che sembrava essere superiore a tutto, in realtà era solo temporaneo, e alla fine anche la sua stessa casa è diventata luogo di riscatto e legalità”. Terzo, infine, (600 euro), l’istituto Norberto Bobbio di Carignano con un disegno che rielabora la storica foto di Falcone e Borsellino scattata il 27 marzo 1992 in cui si parlano seduti vicini, immagine diventata icona della lotta alla mafia. I tre premi, messi a disposizione dalla giunta dell’A.N.M (Associazione Nazionale della Magistratura) Piemonte, dovranno essere utilizzati per attività didattico-educative. L’iniziativa si inserisce nell’ambito di un protocollo d’Intesa per lo svolgimento di attività di formazione sui temi della legalità e della giustizia, siglato tra la Corte d’Appello di Torino, la Procura Generale di Torino, l’ANM, l’USR per il Piemonte e la Sovraintendenza agli Studi della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che si propone di avviare con le scuole iniziative formative e lezioni, oltre al bando del concorso “#Il mio futuro è legalità” rivolto a tutti gli istituti scolastici di II grado del Piemonte e della Valle d’Aosta. Quest’anno cinquanta magistrati piemontesi hanno incontrato gli studenti di 30 scuole per spiegare loro come funziona il processo civile e penale, parlare di Costituzione e di giustizia, metterli in guardia dai pericoli degli stupefacenti e della rete. “Caccia era un uomo rigoroso e viveva questo suo rigore con semplicità e immediatezza - ha spiegato il prefetto Ruberto ai ragazzi - era un uomo che faceva il suo dovere, e farlo fa vivere serenamente. Vi auguro di andare sempre a dormire con la coscienza a posto, di vivere nella legalità, in quella regola che fa della nostra società una società più libera e più giusta”. Alla cerimonia “Bruno Caccia: l’uccisione di un uomo giusto”, oltre al presidente di Istoreto Paolo Borgna e a Ugo De Crescienzo, che furono entrambi suoi sostituti, hanno voluto ricordarlo anche il docente di storia contemporanea dell’università di Salerno Carmine Pinto, la “vpo” Paola Bellone autrice del libro “Tutti i nemici del procuratore”, l’ex procuratore capo Armando Spataro, il presidente della Corte d’Appello Edoardo Barelli Innocenti, il presidente della giunta Anm Piemonte Enrico Arnaldi Di Balme. Una cerimonia ricca di ricordi e di emozioni, sulle note musicali del duo formato da Tiziana Cappellino e Pietro Ballestrero. L’Italia dei senza cibo: 3 milioni di persone assistite con i pacchi alimentari di Giulio Sensi Corriere della Sera - Buone Notizie, 21 maggio 2023 In aumento le famiglie in difficoltà sostenute con la distribuzione di alimenti. Il Forum di Milano, la rete dei Comuni. “Ma le politiche sono senza una regia”. Il modello degli hub contro gli sprechi. L’afflusso di persone è discreto, ma in costante aumento nei quattro “hub” che la città di Milano ha messo in piedi per poter dare una risposta a più di 3500 famiglie in difficoltà: in questi luoghi - quartiere Isola, Gallaratese, Lambrate e Centro - nel 2022 sono state raccolte dai supermercati 177 tonnellate di vivande ancora buone, ma destinate a diventare un rifiuto. Altre 120 sono state quelle che Recup e Banco Alimentare hanno rimesso in circolo nel quinto hub, quello del mercato Sogemi di Milano. Cibo che contribuisce a dare una risposta alla crescente quantità di persone che chiedono aiuto, con attenzione anche alla salubrità e frutta e verdura che non mancano mai. Un dato preciso di quanti in Italia non riescano a mettere insieme quotidianamente almeno due pasti dignitosi non esiste ancora, ma una serie di statistiche raccontano una situazione di disagio sempre più forte. Lo scorso agosto erano quasi 2,8 milioni le persone assistite con il pacco alimentare del programma europeo di aiuto agli indigenti, il Fead, una delle diverse tipologie di aiuto: mezzo milione in più rispetto al giugno del 2020, in piena pandemia, quando il problema è esploso per poi aumentare costantemente con le crisi successive e il boom dell’inflazione. Qualche mese prima, nel 2019, il Comune di Milano, assieme a Fondazione Cariplo, Assolombarda e Politecnico, aveva già messo in piedi il primo hub per il recupero e la redistribuzione delle eccedenze alimentari, con la partecipazione di una vasta rete territoriale di realtà del Terzo settore che destinano il cibo a persone e famiglie in difficoltà economica. Ne nacquero dieci nei mesi di lockdown e quattro sono ancora attivi. “Stiamo lavorando a risposte più strutturali - racconta la vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo con delega alla food policy - partendo dagli hub che sono i luoghi in cui si incrociano le eccedenze e i bisogni, dove si incontra chi è in difficoltà e chi vuole aiutare. La povertà è una spirale che spinge verso il basso ed è fondamentale poter trovare una rete che aiuta perché le complicazioni sono molte e di varia natura. Per questo serve mettere insieme le risorse e operare insieme. Stiamo ampliando l’azione degli hub, ma facendolo intelligentemente, coinvolgendo tutti gli attori nelle progettazioni”. Una sensibilità che sta crescendo in tante città. Milano sta facendo scuola da Expo 2015 quando iniziò a mettere in piedi una “food policy” integrata che affronta tutti i nodi, dalla lotta agli sprechi all’organizzazione degli aiuti, dalle mense scolastiche al coinvolgimento dei produttori locali. I tanti progetti sono stati raccontati nei giorni scorsi al Forum del Cibo, un evento che aveva l’obiettivo di attivare gli scambi di buone pratiche anche per favorire stili di vita sani e rispettosi dell’ambiente. Andrea Calori è un esperto di politiche alimentari e ha contribuito a costruire la Rete italiana politiche locali del cibo, un gruppo composto da 500 tra accademici, ricercatori, amministratori e attivisti che studiano e operano per pianificare a livello territoriale sistemi del cibo sostenibili. “Il Covid - spiega - ha generato una crescita di attenzione al tema, la crisi ha picchiato duro, gli effetti dell’inflazione si sentono, ma si stanno anche sperimentando soluzioni organizzative più innovative. Dotarsi di strategie generali permette di trattare le povertà alimentari in tutta la loro complessità. I Comuni si sono inventati un ruolo che prima non avevano, era tutto in carico agli enti assistenziali che distribuivano gli aiuti, ora ci sono idee e risorse per organizzare meglio le cose, partendo dalle eccedenze, che però sono solo un aspetto”. In diversi quartieri di Torino si sono moltiplicate le esperienze innovative, a Roma sta nascendo il Consiglio del Cibo, un’alleanza di associazioni, aziende agricole, personalità del mondo della ricerca scientifica e dell’Università per arrivare all’adozione da parte del Comune di una food policy. Ma anche nelle piccole città si stanno moltiplicando le pratiche virtuose che si incrociano con le diverse misure nazionali. “C’è una coscienza crescente su questi temi - spiega Davide Marino, docente universitario di politiche del cibo e fra gli animatori dell’esperienza romana - ma le politiche di intervento sono ancora spezzettate. Ci sono gli aiuti Fead comunitari, c’è il ruolo imprescindibile del Terzo settore, ci sono i nuovi strumenti di sostegno e inclusione che hanno sostituito il reddito di cittadinanza, c’è il reddito alimentare, una misura aggiuntiva introdotta con la scorsa legge di bilancio. Ma sono tutte politiche frammentate che non superano il problema della povertà assoluta da cui discende poi quella alimentare. Servono soluzioni organiche, anche per andare oltre un approccio puramente assistenzialistico”. Migranti. La rotta dei disperati dalla Val di Susa alla Francia: 10.000 persone in 8 mesi di Irene Famà La Stampa, 21 maggio 2023 Sempre più battute da un lato le strade di Oulx, Cesana e i sentieri di Claviere, Monginevro. Dall’altro Bardonecchia e poi il Colle della Scala. Diecimila persone da luglio 2022 a marzo 2023 hanno intrapreso i sentieri della Valle di Susa nel tentativo di superare il confine francese. Per raggiungere Lione, Parigi. Alcuni la Germania, il Belgio. L’Eldorado, così verrebbe da dire. Più semplicemente posti sicuri lontano dalla violenza, dalla povertà, dalla guerra e dalla fame. C’è chi li definisce “carico residuale”, chi li sfrutta per le proprie battaglie, chi li rispedisce indietro. Le barriere, si sa, non vengono costruite per essere superate. C’è chi, controcorrente, sceglie la solidarietà e fornisce soccorso e accoglienza. E i dati dell’associazione Rainbow4Africa, Medici per i diritti umani, così come quelli della Croce Rossa Italiana, raccontano di una rotta dei disperati sempre più battuta: da un lato le strade di Oulx, Cesana e i sentieri di Claviere, Monginevro. Dall’altro Bardonecchia e poi il Colle della Scala. Solo l’altra notte sono state intercettate un centinaio di persone. Ragazzi, famiglie con bambini. “Si è ritornati ai numeri del 2018-2019”, spiega Michele Belmondo, segretario della Croce Rossa Italiana di Susa. E i settanta posti del rifugio “Fraternità Massi” di Oulx, ampliato nel dicembre 2021, non bastano. Novemila i passaggi registrati negli ultimi sei mesi, 633 donne, 1017 minori. L’altra sera una ventina sono stati ospitati al polo della Croce Rossa a Bussoleno, in dodici rintracciati a notte fonda a Cesana, quindici respinti dalla gendarmeria. Numeri che raccontano un’emergenza umanitaria. Che corrispondono ai nomi e ai cognomi di chi, come Rosalie, 14 anni, ha attraversato il Burkina Faso, il Mali, l’Algeria e la Tunisia. Ha subito violenze fisiche e psicologiche. La sua unica colpa? Essere nata dalla parte sbagliata del mondo. E aver cercato fortuna altrove. I passaggi in Valle di Susa sono “la cartina di tornasole degli sbarchi dei primi mesi del 2023 a Lampedusa”, prosegue Michele Belmondo. Da inizio 2020 erano aumentati gli arrivi dalla rotta Balcanica. Dall’Iran, dal Kurdistan, dal Pakistan. Dall’Afghanistan sono famiglie con bambini. E poi zii e nonni. Anche minori non accompagnati. “Quello che non è un bel posto dove stare”, diceva Essan, quattro anni, dopo che con mamma e papà era scappato dal secondo Emirato islamico. Era il dicembre 2021, Kabul era caduta e l’emergenza Afghanistan era finita sotto gli occhi del mondo intero. Poi Essan è tornato ad essere un invisibile. Come i tanti che cercano di superare il confine. Da inizio 2023, le associazioni e la Croce Rossa hanno registrato dei cambiamenti. Sempre più persone arrivano dall’Africa subsahariana, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio, dal Mali, dalla Guinea. Costante il numero dei migranti provenienti dal Marocco. I più si imbarcano in Tunisia per evitare il passaggio dalla Libia. Secondo i dati del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, nel corso del 2022 sono stati oltre seicento i morti in mare. E poi quelle imbarcazioni “invisibili”, scomparse senza lasciare traccia. Chi sbarca a Lampedusa, arriva in Valle di Susa per ricongiungersi con i parenti in Francia o in Germania. Di nuovo si affidano alla speranza, a quei sentieri pericolosi sì, ma unica opzione per tentare di evitare i controlli. “Armi: gran parte del nostro export a regimi repressivi” di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2023 Giorgio Beretta è analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia e della Rete italiana pace e disarmo. Ha appena scritto un libro - Il Paese delle armi (Altreconomia) - per denunciare storture del settore, omissioni delle industrie della Difesa e falsi miti veicolati soprattutto dalle lobby delle armi. Giorgio Beretta, è appena uscita la relazione sull’export di armi italiane nel 2022. Che impressione ne trae? La produzione di armi comuni italiane si regge su due fenomeni alquanto preoccupanti: più del 60 per cento di queste armi è destinato agli Stati Uniti, dove alimenta la corsa ad armarsi, una vera nevrosi collettiva, da parte di alcuni strati della popolazione: gli Usa sono il Paese col più alto tasso di omicidi con armi da fuoco nel mondo occidentale, di fatto sono un popolo in costante guerra con se stesso. C’è poi un’ampia serie di armi, sia di tipo comune sia militare, che vengono fornite a regimi dispotici tra cui Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Turkmenistan, Bahrain e Iraq. Non proprio Stati democratici... Altro che armi “per difendere la democrazia”: la gran parte delle esportazioni sia delle armi leggere militari sia degli armamenti italiani è destinata ai governi repressivi del Nord Africa e del Medio Oriente. È risaputo, ma ovviamente nessuno vuole sollevare il problema, men che meno in Parlamento. Forse perché la politica ha forti legami con le aziende del settore, non sono per quanto riguarda le armi militari ma anche quelle “comuni”. Come si manifestano questi legami? È un’attività fatta di stretti contatti tra alcune associazioni di sedicenti appassionati di armi e alcuni partiti, in particolare Fratelli d’Italia e la Lega. Queste associazioni sono funzionali a fare da tramite tra i produttori di armi - che hanno tutto l’interesse a permettere che con qualsiasi tipo di licenza si possa detenere un vero arsenale di armi (tre revolver o pistole, dodici fucili semiautomatici e numero illimitato di fucili da caccia oltre ad un ampio numero di munizioni) e a non sollevare questioni riguardo alla facilità con cui si può ottenere una licenza per armi. E ad ogni tornata elettorale invitano i propri aderenti e gli appassionati a votare quei partiti che promuovono quelli che definiscono “i diritti dei legali detentori di armi”. Insomma, un rapporto che conviene a partiti e aziende. Per questo scontiamo anche una scarsa trasparenza del settore? Il mondo politico in generale non ha alcuna intenzione di inimicarsi una fetta di elettori, dai cacciatori ai cosiddetti tiratori sportivi, facendo chiarezza e imponendo norme e controlli più stringenti. Un esempio? Non esiste in Italia né un dato ufficiale su quanti siano tutti coloro che detengono una licenza per armi, compreso il nulla osta, né sul numero di armi regolarmente detenute nelle case degli italiani. Ma soprattutto non c’è un rapporto ufficiale sugli omicidi e femminicidi commessi con armi legalmente detenute: né il Viminale né l’Istat hanno mai riportato questo dato che, se reso noto, farebbe comprendere la gravità del fenomeno. Quindi c’è un problema anche di percezione sulle armi? Dallo scoppio della guerra in Ucraina c’è un costante tentativo di “normalizzare” le armi... Anche per questo c’è una forte sottovalutazione degli effetti deleteri e mortali delle armi regolarmente detenute in Italia. Il possesso di armi viene motivato con l’esigenza di difendersi nella propria abitazione in caso di rapina, ma in Italia a fronte di 3 o 4 omicidi all’anno per furto o rapina - eventi gravissimi ma molto rari - il nostro Osservatorio Opal ne registra annualmente almeno 35-40 con armi legalmente detenute. Quindi, se c’è un’arma in casa, questa viene più spesso utilizzata non per difendersi, ma per ammazzare la moglie, la compagna, la ex, un vicino, i parenti. In altre parole, l’arma posseduta col pretesto della legittima difesa è lo strumento privilegiato per l’illegittima offesa. Questo chiama in causa la facilità con cui si può ottenere una licenza per armi, ma anche la poca trasparenza. Stati Uniti. Così abbiamo ritrovato l’orgoglio nero di Marco Bruna Corriere della Sera, 21 maggio 2023 A dieci anni dalla creazione di Black Lives Matter, intervistiamo i due afroamericani che hanno vinto il premio Pulitzer per un libro dedicato alla vicenda tragica di George Floyd, ucciso dalla polizia nel maggio 2020. Robert Samuels e Toluse Olorunnipa fanno il punto sulla lotta per i diritti civili negli Stati Uniti. L’America è un uomo agonizzante che implora per la propria vita, riverso a terra su una strada di Minneapolis. Ha il ginocchio di un agente premuto sul collo. Le sue ultime grida sono strazianti: “Mamma, ti voglio bene”, “Non riesco a respirare”. Undici lettere: George Floyd. Nove minuti e 29 secondi: il tempo interminabile durante il quale il ginocchio dell’agente Derek Chauvin rimane premuto sul collo di Floyd, uccidendolo, il 25 maggio 2020. L’America, abituata a perdere il suo candore di terra promessa, è anche il volto di quest’uomo afroamericano di 46 anni, diventato il simbolo del nuovo movimento per i diritti civili. Un volto che assomiglia a tante altre vittime dell’odio razziale: Emmett Till, Trayvon Martin, Michael Brown, Breonna Taylor... Nel decimo anniversario del movimento Black Lives Matter - nato come hashtag nel 2013 e diventato protesta globale dopo l’assoluzione di George Zimmerman, il 13 luglio 2013, nel caso dell’omicidio del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin, ucciso il 26 febbraio 2012 -, due reporter del “Washington Post” hanno vinto il Pulitzer per His Name Is George Floyd (2022), il racconto della vita e della morte di Floyd, il racconto di come il pregiudizio sia alla base delle strutture di potere negli Stati Uniti. Robert Samuels e Toluse Olorunnipa aprono uno spiraglio sui sogni e sui demoni di Floyd: la dipendenza dalle droghe, le cure per l’ansia, la depressione, la claustrofobia, la voglia di emergere attraverso lo sport per non rimanere per sempre il ragazzo nato in un quartiere povero di Houston, Texas. “La Lettura” ha intervistato Samuels e Olorunnipa pochi giorni dopo la vittoria del Pulitzer. Black Lives Matter, dieci anni dopo. Che cosa è cambiato in America? TOLUSE OLORUNNIPA - Ero in Florida quando cominciò tutto. Ho assistito alle prime proteste dopo la morte di Trayvon Martin. Ero a Tallahassee, c’erano gruppi di attivisti, compresi quelli che sarebbero confluiti nel movimento Black Lives Matter, che occupavano gli uffici dell’allora governatore, Rick Scott. Chiedevano un cambiamento. Era ancora un gruppo disorganizzato. Poi cominciarono a scendere nelle strade, a urlare i nomi delle vittime. Dieci anni dopo, dopo tanti hashtag, ognuno legato al nome di una persona uccisa dall’odio razziale, abbiamo visto il movimento sbocciare, creare un cambiamento, fare condannare un poliziotto. Oggi gli agenti in servizio indossano piccole telecamere, dieci anni fa non era richiesto. Oggi possiamo vedere ciò che fanno. L’omicidio di George Floyd è stato un momento cruciale nella storia del movimento: si è riacceso, è esploso. Ma c’è ancora molto da fare. ROBERT SAMUELS - L’assoluzione di George Zimmerman ha rappresentato un punto di svolta drammatico: è cambiato il modo in cui parliamo di razza, il mondo in cui pensiamo alla nerezza. Abbiamo cominciato a condividere l’idea di un orgoglio nero. Abbiamo cominciato a discutere pubblicamente di razzismo sistemico, del contributo fondamentale dei neri alla storia di questo Paese. Più di quanto succedesse in passato. Le amministrazioni presidenziali, Trump escluso, hanno fatto abbastanza per i diritti civili? ROBERT SAMUELS - L’omicidio di Michael Brown, ucciso da un poliziotto nel Missouri, ha infuocato il dibattito nel 2014: il tema era se i leader di Black Lives Matter dovessero essere più impegnati sul versante politico o se fosse meglio tenersi lontani da quel terreno insidioso. Lo stesso Barack Obama era indeciso. Joe Biden ha spesso detto di essere in debito con la comunità afroamericana per la sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Biden si è speso per riformare la polizia. Non è chiaro se abbia fatto tutto ciò che è in suo potere. TOLUSE OLORUNNIPA - Il grande scoglio incontrato da Obama è stato l’essere il primo presidente nero d’America. Parte delle resistenze che ha incontrato nel mondo politico erano dovute proprio al colore della sua pelle. Donald Trump era molto più libero di percorrere la sua strada. Certo, tra gli attivisti rimane il dubbio se anche Obama avrebbe potuto fare di più per la causa afroamericana. Forse il suo timore era perdere l’appoggio della maggioranza bianca del Paese, cruciale per essere rieletto. Chi era George Floyd? TOLUSE OLORUNNIPA - Lo chiamavano tutti Perry. Era un uomo complicato, amato da tante persone. Aveva una personalità gentile. Ha commesso degli errori. George Floyd è l’immagine di una comunità presa a pugni dal sistema, una comunità che si rialza sempre e prova a credere nella promessa americana. Volevamo parlare di George Floyd per riflettere sull’America razzista in cui è cresciuto. Perché l’omicidio di Floyd ha generato più sdegno rispetto ad altri a sfondo razziale in America? ROBERT SAMUELS - La prima ragione è che tutti lo abbiamo visto, grazie a una ragazza di 16 anni, di nome Darnella Frazier, che filmò gli ultimi, strazianti, attimi di vita di George Floyd. Mise immediatamente il video sui social. Quelle immagini contraddissero il rapporto della polizia. Raccontavano una verità che nessuno poteva ignorare. Eravamo in piena pandemia, non avevamo molte distrazioni, eravamo costretti in casa. Tutti abbiamo visto quel video. La seconda ragione ha a che fare con la brutalità condivisa, testimoniata: un agente bianco si prende la vita di un afroamericano che implora pietà. Ha un significato simbolico: un uomo soffocato dallo Stato. Forse quelle immagini ci hanno convinto che le lotte dei neri, le loro difficoltà, sono reali, da prendere sul serio. La violenza che dicono di subire non è un’esagerazione. Come immaginate il futuro di Black Lives Matter? TOLUSE OLORUNNIPA - Le fondamenta sono state posate, ne parleremo ancora a lungo. Siamo cambiati, l’America è cambiata. È un movimento diffuso, non c’è una leadership centrale, è difficile immaginare che cosa sarà tra dieci anni. Prenderà nuove forme, a seconda dello stato di salute del Paese. Si adatterà al presente. I detrattori del movimento affermano che non c’è sufficiente organizzazione al suo interno. Come ha puntualizzato Robert, Black Lives Matter ha originato un cambiamento cruciale in America. Purtroppo ci vorranno altre morti per vedere il movimento sbocciare ancora, come è successo con George Floyd. ROBERT SAMUELS - È un momento fondamentale per continuare a riflettere sul valore di ogni vita umana. Il movimento è stato centrale per l’educazione di molte persone, ha prodotto una nuova sensibilità. Quando si parla di questione razziale in America non si può ignorare che cosa sia stato Black Lives Matter. Tra le oltre 400 interviste che avete condotto per realizzare questo libro, quale vi ha toccato di più? ROBERT SAMUELS - Quella ai genitori di Daunte Wright, il ventenne afroamericano ucciso dalla polizia vicino a Minneapolis, nel 2021. L’agente che lo uccise disse di avere scambiato il taser con la pistola e gli sparò. Poco lontano Derek Chauvin veniva processato per l’omicidio di George Floyd. Il padre di Daunte mi disse: “Ho visto mio figlio sotto un lenzuolo bianco, il suo corpo abbandonato su una strada. Ho visto un poliziotto nero e ho pensato: spero sia stato lui a uccidere mio figlio perché un bianco non lo condanneranno mai”. Un afroamericano può sperare che ci sia giustizia solo a spese di un altro afroamericano. TOLUSE OLORUNNIPA - Ricordo una cena passata con i famigliari di George Floyd. Ascoltare le battaglie che ha combattuto attraverso i loro racconti mi ha ricordato il confine sottile tra la storia e il presente, tra la schiavitù, la segregazione razziale e il tempo che stiamo vivendo. Iran. Al Salone di Torino parliamo di emancipazione e poesia di Tiziana Ciavardini* Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2023 In Iran questa mattina sono stati impiccati tre uomini Saeid Yaghoubi, Majid Kazemi e Saleh Mirhashemi erano stati arrestati a novembre durante le proteste seguite alla morte di Masha Amini. Mahsa (Zina) il cui nome significa luna, era una ragazza curdo iraniana uccisa dalle percosse ricevute della polizia morale dopo essere stata arrestata per non aver indossato il velo islamico in modo appropriato. I tre uomini sono stati uccisi dal regime criminale islamico questa mattina all’alba proprio nel momento della preghiera. Un’esecuzione anomala fatta oggi, venerdì il giorno sacro dei musulmani, giorno appunto di preghiera che solo per questo dovrebbe essere condannato dalla comunità islamica internazionale. L’accusa dei tre giovani è la solita messa da tempo in campo dal regime ogni qualvolta si voglia uccidere un essere umano senza una vera e propria motivazione: la ‘guerra contro Dio’ - “moharebeh” - unita all’accusa di possesso di armi durante le proteste nella città di Isfahan. Senza prove sono stati anche accusati di aver ucciso tre militari iraniani di cui due basiji. La vicenda per questo è stata soprannominata (Khane-ye Isfahan), la casa di Isfahan. A nulla sono valsi gli appelli da parte dei famigliari che si erano radunati davanti al carcere per chiedere lo stop delle esecuzioni, ma anche da parte di tutta la comunità internazionale che ha lanciato attraverso i social l’appello scritto su un foglietto proprio dai tre ragazzi che chiedevano aiuto affinché non venissero giustiziati. Secondo un rapporto di Iran Human Rights la Repubblica Islamica dell’Iran negli ultimi dieci giorni ha giustiziato una persona ogni sei ore e circa 42 persone, poco più della metà delle quali appartenevano alla minoranza etnica beluci, sono state giustiziate dalle autorità iraniane nelle ultime settimane. In questi mesi dall’inizio delle proteste iniziate a settembre 2022 la Repubblica Islamica ha continuato ad arrestare, torturare ed uccidere chiunque abbia osato criticare il regime. Qualche settimana fa, altri due uomini Sadrollah Fazeli Zarei e Youssef Mehrdad, sono stati impiccati con l’accusa di ‘blasfemia’, ovvero di aver insultato il profeta Maometto e bruciato il Corano. Nonostante il silenzio internazionale dei media quest’anno è il Salone del libro di Torino a dare visibilità all’Iran e alle tematiche urgenti da risolvere. Nella giornata di giovedì 18 maggio, giorno di inaugurazione è stata intitolata la piazza dei “Diritti Umani e Civili” a Mahsa Amini, simbolo delle proteste contro l’oppressione femminile in Iran. “Una donna coraggiosa - si legge sulla pagina Facebook del consigliere regionale Gianluca Gavazza - la cui memoria vuole essere onorata, come testimone della lotta per vedere riconosciuti e rispettati i propri diritti fondamentali. Una dedica che non vuole essere però fine a sé stessa. Essa interroga le coscienze di cittadini e istituzioni, affinché un gesto come quello di Mahsa Amini non rimanga l’azione eroica del singolo ma mobiliti la collettività a difesa dei diritti e delle libertà essenziali di ogni individuo”. *Giornalista e antropologa Siria. Torna Assad, il crimine vince: una triste lezione di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 21 maggio 2023 La Siria riammessa nella Lega Araba nonostante gli orrori del presidente contro la propria popolazione. E nemmeno Zelensky lo condanna. La triste lezione della riammissione della Siria di Bashar Assad nella Lega Araba resta che purtroppo alla fine anche le dittature più sanguinarie, se hanno forti alleati e militanti decisi a non cedere pur a costo di crimini efferati, possono vincere e restare in sella. Perché di questo stiamo parlando: già pochi mesi dopo lo scoppio delle rivolte popolari nella primavera del 2011 la sorte del regime di Assad pareva segnata. I rivoltosi chiedevano democrazia e riforme, ma la Nomenklatura sin da subito reagì ordinando ai soldati di sparare ad alzo zero, arrestando e torturando impunemente, costringendo centinaia di migliaia di persone a sfollare. Le sommosse divennero quindi più determinate, non vennero battute neppure dal ricorso alle armi chimiche da parte dei lealisti. Nel 2013 Assad era sul punto di gettare la spugna. Ma l’Iran e soprattutto la Russia di Putin intervennero militarmente per sorreggerlo. E fu l’orrore: i morti da allora sfiorano il mezzo milione. L’aviazione russa, assieme a quella lealista, prese metodicamente di mira gli ospedali, le ambulanze e i quartieri popolari dove operavano i gruppi dell’opposizione. Furono assassinati i leader moderati per criminalizzare l’intero movimento in nome della lotta al fondamentalismo islamico. Adesso i circa sette milioni di profughi siriani distribuiti tra Libano, Giordania, Iraq e Turchia rischiano di essere rimpatriati con la forza senza alcun riguardo per i loro diritti di perseguitati politici e nel rispetto della rinnovata “fratellanza” araba. Assad ha devastato il suo Paese pur di salvare il regime: un precedente che per molti aspetti rassicura lo stesso Putin. Anche per questo sarebbe stato opportuno che Zelensky nella sua visita lampo due giorni fa al summit della Lega Araba di Gedda, oltre a chiedere il sostegno alla causa Ucraina, avesse pronunciato una parola di condanna contro Assad, che comunque si è tolto le cuffie mentre lui parlava.