Il carcere va abolito, rieducare è un’illusione: le nostre prigioni sono diventate ospizio dei poveri di Stefano Anastasia L'Unità, 20 maggio 2023 La morte di due detenuti nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, a seguito di scioperi della fame deliberatamente portati avanti per sessanta e quarantuno giorni, ha giustamente richiamato l’attenzione del Garante nazionale Mauro Palma, della stampa e dell’opinione pubblica. Per quattro mesi, giustamente, abbiamo discusso delle condizioni di detenzione di Alfredo Cospito, che protestava contro il regime di 41bis cui è costretto da un decreto ad personam del Ministro della giustizia, mentre non ci siamo accorti, e a dire il vero non abbiamo saputo nulla della protesta di questi due uomini fino al giorno della morte del secondo dei due. Entrambi ergastolani, uno si professava innocente, l’altro da anni chiedeva di poter scontare la pena nel proprio Paese. Questo sappiamo oggi, dopo che entrambi sono morti. Immaginiamo che le ragioni delle loro proteste siano riportate nel registro degli “eventi critici” che il personale penitenziario deve aggiornare in tempo reale e che gli uffici ministeriali possono consultare in tempo reale. Non sappiamo se l’iscrizione di un nuovo caso, o l’aggravamento di uno già registrato, generi un alert nella “sala situazioni” del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, il centro di monitoraggio degli eventi critici in corso nelle carceri italiane. Probabilmente sì, ma forse gli allarmi sono troppi, o non opportunamente distinti per indice di gravità. Fatto sta che per sessanta giorni in un caso, per quarantuno in un altro, qualcuno avrà registrato che l’uno e l’altro rifiutavano di mangiare per protesta contro quelle che loro ritenevano delle ingiustizie, il solo fatto della condanna o la possibilità di scontarla nel proprio Paese. Registriamo a nostra volta il fatto che l’osservanza dei protocolli di gestione degli eventi critici, che - come il Garante nazionale - presumiamo sia stata rispettata, non ha impedito che due uomini siano morti a pochi giorni l’uno dall’altro nello stesso istituto di pena nell’ignoranza, se non nell’indifferenza generale. Questo può avvenire nelle nostre carceri perché questo è lo stato delle nostre carceri. Uno stato di abbandono, se non di degrado, in cui solo l’abnegazione degli operatori e dei volontari, l’attenzione dei familiari e degli avvocati, la sensibilità delle autorità di garanzia riesce a evitare il peggio e, talvolta, a inverare miracolosamente la promessa rieducativa della Costituzione. In chi, come il sottoscritto, entra in (e per fortuna esce dal) carcere da trentacinque anni, di volta in volta per passione civile, impegno istituzionale, vocazione professionale, tutto questo potrebbe suscitare frustrazione o disillusione, ma per essere delusi bisognerebbe prima essersi illusi e io l’illusione del carcere rieducativo non l’ho mai coltivata. La promessa rieducativa è il nobile e generoso tentativo dei Costituenti di pensare a un carcere diverso da quello che è, un carcere come ultimo presidio di uno stato sociale che non abbandona nessuno. La storia del carcere come luogo di esecuzione delle pene è la storia di questa illusione. I suoi progetti di riforma risalgono ai suoi albori, e sono stati continuamente frustrati dalla natura degradante della pena detentiva. È la natura degradante della pena detentiva che impedisce che il carcere sia adeguatamente finanziato, che gli spazi e il personale siano adeguati ai bisogni e alla “rieducazione” dei condannati. Il carcere è, al più, una tragica necessità, da limitare ai casi in cui è strettamente necessario, per il tempo strettamente necessario. Invece è diventato l’ospizio dei poveri, si dice per dar loro una seconda opportunità, in realtà perché non si ha nulla da dargli fuori e allora sarà meglio tenerli rinchiusi da qualche parte. Con questo disincanto ci si può e si deve avvicinarsi al carcere: non per contemplare il suo fallimento, ma per lavorare al suo superamento. La battaglia per i diritti in carcere non è una surrettizia forma di legittimazione della istituzione penitenziaria, ma il modo concreto con cui il carcere può essere messo di fronte alle sue contraddizioni e, mano a mano, eroso e superato in nome delle sue promesse non mantenute né mantenibili: il rispetto dei diritti fondamentali, il sostegno al reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità. Le ragioni delle vittime e quelle del diritto di Andrea Pugiotto L'Unità, 20 maggio 2023 Il paradigma vittimario è cosa ben diversa dalla giustizia riparativa, ma il confine è labile, esposto a pericolose scorribande. Va presidiato dalla matrice laica, liberale e garantista del diritto penale. Il 9 maggio si è celebrato il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo. Manlio Milani e Agnese Moro, su La Stampa, hanno saputo riempirlo di significati profondi, maturati anche attraverso la partecipazione a un percorso di giustizia riparativa finalizzato a superare la prepotenza subìta dalle vittime e agìta dai terroristi. Le loro sono parole autentiche. Attestano le potenzialità del «paradigma riparativo», ora introdotto nell’ordinamento dalla recente “riforma Cartabia”. La sua applicazione andrà seguita con attenzione a evitarne la torsione in un ben diverso «paradigma vittimario» (Giovanni De Luna) di cui è necessario predire le insidie. È il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961 a inaugurare l’era del testimone (martiris, in latino). L’esperienza della Shoah, dove i sopravvissuti allo sterminio sono del tutto innocenti e i criminali mostruosamente colpevoli, induce a immedesimarsi nella vittima. Fino ad attribuirle uno statuto speciale: creditrice di un debito inestinguibile, garantito da un enorme senso di colpa collettivo, oracolare, sottratta al contraddittorio. È l’unicità della Shoah a giustificarlo. Oggi, invece, identico status è riconosciuto alla vittima in quanto tale, di qualsiasi evento luttuoso a rilevanza penale. Lo dimostra proprio la legge n. 56 del 2007. Il Giorno della Memoria è istituito «al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice» (art.1). Inevitabili le aporie in un sacrario così sterminato. Vi trovano posto i morti per caso (tutte le vittime di stragi lo sono) o i morti per errore (scambiati per l’obiettivo politico che non erano) o gli antagonisti politici uccisi mentre contestavano le istituzioni (militanti di gruppi extraparlamentari, ad esempio, o la radicale Giorgiana Masi). Dunque, per il nostro ordinamento vittima è (potenzialmente) chiunque, per qualunque causa, anche a sua insaputa. Nasce da qui la proliferazione di Associazioni di familiari delle “vittime di” eventi di ogni tipo, benché tra loro incommensurabili: dell’immigrazione, ma anche della caccia; della mafia, ma anche delle sette religiose o del precariato. Un arcipelago abitato da gruppi in concorrenza tra loro (come le tante Associazioni di familiari di vittime della strada) o contrapposti tra loro (come l’Associazione tra familiari di vittime delle Forze dell’Ordine e le molte associazioni di familiari di vittime del Dovere). In questo contesto - come osserva Luigi Zoja - la giustizia sociale non è più rimedio ai problemi dei gruppi svantaggiati, bensì a quelli delle vittime, che prendono il ruolo che fu dei sindacati: «ma mentre il diritto sindacale sorgeva da una contrattazione, quello “vittimario” si sottrae così al contratto sociale, rifacendosi a una condizione originaria e trascendente». Cambia anche la narrazione mediatica, che «non è quella del dibattito politico cui il pubblico partecipa, ma quella dello spettacolo del dolore, cui esso si limita ad assistere». Non a torto, Tamar Pitch denuncia nel discorso pubblico la sostituzione della parola «oppressi» con quella di «vittime». Così declinato, il paradigma vittimario compone un puzzle in cui tutte le vittime lo sono in egual misura. Ma ciò ha un senso sul piano della pietas umana, non su quello della ricostruzione storica o giudiziaria. Azzerando le differenze, infatti, si nega l’identità di ciascuno e si fraintende l’accaduto, come lamenta giustamente Manlio Milani: «gli otto caduti in Piazza della Loggia sono inscritti oggi, insieme a tutte le vittime dei terrorismi, rosso e nero, nel patrimonio comune della storia repubblicana. Non posso più neanche chiamarli “compagni”». Le vittime di Brescia, infatti, sono morte per il loro impegno antifascista. Se poi tutte le vittime sono eguali, allora hanno anche identica voce in capitolo. Eppure non cantano in coro, come rivela la dolente memorialistica sugli anni di piombo di Mario Calabresi, Gemma Capra, Massimo Coco, Silvia Giralucci, Sergio Lenci, Giovanni Moro, Eugenio e Vittorio jr. Occorsio, Licia Pinelli, Benedetta Tobagi. È una cacofonia che non sorprende, perché del tutto personale è la memoria dei propri lutti e delle proprie ferite: per alcuni è un rapporto riappacificato, per altri è fonte di un rancore inestirpabile, che inchioda a un passato che non passa. Proprio in questi casi la voce delle vittime si salda con lo spirito del tempo dominato dal risentimento, che è il carburante del populismo penale. Così la sua retorica securitaria trova il giusto tono intimidatorio a sostegno di una politica panpenalista, che incrementa pene e reati elevando il paradigma vittimario a «instrumentum regni» (Daniele Giglioli). Tutto ciò può aprire a preoccupanti derive. Eccone due esempi, estremi e urticanti. Negli USA la pena di morte si è emancipata dalla sua natura di vendetta privata per mano pubblica. Oggi si giustifica con un più civile ed evoluto scopo terapeutico, quale «modo per ripristinare il benessere collettivo e fornire una chiusura psicologica alle vittime traumatizzate» (David Garland). È una metamorfosi insidiosa. Ne fa un servizio che la comunità statale deve alle vittime. Non ha più nulla di patibolare, trasformata d’incanto in una moderna terapia di sostegno. Ecco l’altro esempio. Se la giustizia deve farsi carico anche della vulnerabilità di vittime potenziali, ben potrà bilanciarsi la dignità del torturato con quella degli innocenti in pericolo, che solo le informazioni estorte con la violenza potranno salvare. Trasformato così il torturato da vittima certa in aggressore di vittime ipotetiche, ogni argine può saltare: «un uomo ammette d’aver piazzato una bomba? Il ricorso alla tortura salverà delle vite. Un uomo è sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura lo scoprirà. Un uomo ha un amico sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura porterà a individuare il sospetto. Un uomo professa idee pericolose e potrebbe avere in mente di piazzare una bomba? La tortura rivelerà i suoi piani». I sintomi di un uso strumentale del paradigma vittimario sono anche altrove. Per la politica, ad esempio, c’è vittima e vittima. Si spiega anche così la faticosa e tardiva introduzione dei reati di depistaggio e di tortura: la solidarietà per le vittime perde di peso davanti alla volontà dello Stato «restio a lasciarsi mettere sotto accusa» (Benedetta Tobagi). Sul paradigma vittimario poggia anche lo stigma verso leggi di amnistia e indulto, accusate di provocare una vittimizzazione secondaria. Nel discorso pubblico, infatti, la clemenza va subordinata al perdono delle vittime. Eppure il perdono è una categoria metagiuridica: non è un dovere della vittima (perché inesigibile), né un diritto del reo (perché è altra cosa dalla riabilitazione sociale). Il perdono è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo riceve («per-dono»), impermeabile al diritto positivo. Alcune vittime, infine, scompaiono dall’orizzonte politico. Ad esempio, quando si tratta di rimediare al sovraffollamento carcerario (perché la vittima è il carnefice) o quando si nega l’introduzione del reato o dell’aggravante di omo-transfobia. Forse che certe vittime sono fi glie di un dio minore? Tra i due paradigmi, riparatorio e vittimario, il confine è sottile ed esposto a pericolose scorribande. Va presidiato da chi ha a cuore la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale. Ecco perché i sentimenti di giustizia delle vittime, sole o associate, certamente «devono ricevere il riguardo sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte d’ispirazione. Quando provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti, ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei torti» (Adriano Sofri). Sottoscrivo. Abuso d’ufficio, il reato che Costa vuole eliminare: i casi dei 150 amministratori locali assolti di Tiziana Maiolo L'Unità, 20 maggio 2023 Eliminare dal codice penale il reato di abuso d’ufficio, trasformarlo in illecito amministrativo. Ne sono convinti da sempre Carlo Nordio e Silvio Berlusconi, e i garantisti di Forza Italia, ma anche Matteo Renzi e Carlo Calenda, e con loro anche molti parlamentari del Pd, come quelli della Lega e una parte consistente di Fratelli d’Italia. E l’Anci, l’associazione degli amministratori locali che portano sul corpo lividi e ferite per il reato di “sputtanamento”. Che è poi il problema principale anche dopo le assoluzioni. Ma colui che più di tutti ha impugnato questa bandiera è indubbiamente Enrico Costa, uno che ha a cuore le regole dello Stato di diritto. Così ieri ha fatto un passo in più rispetto a tutti gli altri deputati che stanno discutendo in commissione giustizia alla Camera una serie di proposte di legge che vanno dall’abolizione dell’articolo 323 del codice penale fino alla sua sterilizzazione di fatto pur mantenendolo formalmente come reato. Il deputato Costa, in conferenza stampa con lo stato maggiore di Azione, da Carlo Calenda a Maria Stella Gelmini, ha sciorinato sul tavolo i “casi”. Le situazioni di 150 amministratori locali, che sono persone con i loro corpi e sentimenti, che hanno visto la propria vita ribaltata, gettata in pasto ai lupi, che hanno dovuto rinunciare a guidare la propria comunità per un reato da cui poi, ma molto poi, erano stati assolti. Il 96 per cento dei casi, dicono le statistiche, finisce con l’archiviazione. Anche perché, ci dice la storia, molte situazioni sono determinate da quel singolare metodo di lotta politica, un tempo caro alla sinistra e poi travasato nel mondo grillino, che consiste nel rivolgersi alle procure come forma di ricorso per una gara persa o un posto pubblico attribuito ad altri. Ripicche politiche destinate a finire in fumo, ma che spesso lasciano sul terreno gravi danni politici e umani. Ricordate la vicenda del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, il primo amministratore di un capoluogo di provincia che portò alla vittoria il Movimento cinque stelle e che fu cacciato dal suo partito proprio per quell’informazione di garanzia? Bene, quel provvedimento della magistratura, che in seguito fu archiviato, era stato la conseguenza di un esposto del Pd locale. Infondato, ma intanto in grado di cambiare il corso della storia. In molti casi le conseguenze comportano che si arrivi a capovolgimenti politici che disattendono i risultati elettorali, soprattutto se interviene una condanna in primo grado che fa scattare quell’altro miracolo dell’ingiustizia che si chiama “legge Severino” e che determina la sospensione dall’incarico dell’amministratore. Che questo reato, “vago, generico, impalpabile”, come lo definisce lo stesso Costa, “che porta ad aprire migliaia di inchieste, anche se poi le condanne sono rarissime”, vada portato là dove avrebbe sempre dovuto stare, nel mondo delle sanzioni amministrative, è cosa buona e giusta. Che esista anche un rischio, come paventato dall’avvocato Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega, è altrettanto vero. Il timore deriva dalla conoscenza delle astuzie e dell’ingordigia di tanti pubblici ministeri. Di quelli che, quando hanno individuato il tipo d’autore, pur di mettergli i denti nel collo sono pronti anche a contestare il reato più grave, in assenza di quello più morbido dell’articolo 323. Del resto non lo fanno già oggi, quando contestano il reato associativo anche quando non esiste, pur di poter arrestare e intercettare? Non lo hanno già fatto, negli anni di Tangentopoli, quando hanno arrestato intere giunte comunali e regionali, arricchendo il reato di abuso d’ufficio con qualche inesistente turbativa d’asta? È vero, il rischio c’è, e non saremo noi ad auspicare che qualcuno leghi le braccia dietro la schiena ai pm per impedire loro di fare il proprio dovere. Già immaginiamo gli strilli del sindacato delle toghe per la violazione dell’indipendenza e autonomia della magistratura. Ma ci vuole un po’ di coraggio, soprattutto da quella parte della maggioranza, un po’ di Fratelli d’Italia e della Lega che hanno ancora l’orecchio sensibile alle sirene delle toghe e la certezza della pena. Riflettano sulle migliaia di sindaci dei piccoli paesi, soprattutto, quelli che si fanno in quattro ogni giorno anche solo per spostare un tombino o le radici di un albero che deformano il marciapiede proprio davanti alla casa di un disabile in carrozzina. Quelli che il cittadino saluta per strada chiamandoli per nome. Gli stessi che da un giorno all’altro perdono la moneta che ha più valore nelle loro tasche, la fiducia di chi li ha votati e voluti a guidare una comunità. Lasciare in graticola, esposto al sospetto di sguardi dubbiosi per dieci dodici anni un sindaco solo perché un concorrente politico lo ha denunciato per una nomina, vi sembra giusto? Diritto all’oblio, tutte le novità introdotte dalla riforma Cartabia di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 20 maggio 2023 «Non si poteva ottenere di più», dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che si è molto speso per questa norma. La riforma Cartabia del processo penale ha introdotto importanti cambiamenti nell'applicazione del diritto all'oblio. Il nuovo articolo 64-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale prevede, infatti, che la persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento, o di non luogo a procedere, ovvero un provvedimento di archiviazione, possa richiedere che sia preclusa l'indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, in rete, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi dell'articolo 17 del Regolamento generale per la protezione dei dati. La procedura è semplice: la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone una annotazione che è quindi titolo esecutivo per la «sottrazione dell'indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante». La disposizione non deve generare, però, false illusioni in quanto «deindicizzare» non significa «cancellare». In altre parole, il risultato che si ottiene è solo quello che i dati personali inseriti nei motori di ricerca non sono più in associazione a parole chiave relative al reato contestato. È sufficiente, allora, effettuare una ricerca diversa, ad esempio inserendo il nome di un coimputato o quello del magistrato che ha condotto le indagini che il link della notizia che si pensava deindicizzata ricompare. La nuova normativa ha creato un florido mercato di società che si offrono per “cancellare” dal web le notizie. Massima attenzione, quindi, ai servizi realmente offerti. «Non si poteva ottenere di più», dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che si è molto speso per questa norma. «È evidente - aggiunge Costa - che di un personaggio pubblico, coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche se assolto, si troverà sempre traccia della notizia». Da Google sono chiari: se la notizia è stata “aggiornata” ai più recenti sviluppi della vicenda giudiziaria, quindi all’assoluzione, difficilmente potrà essere “deindicizzata”. E poi bisogna sempre valutare l’interesse alla reperibilità delle informazioni riportate riguardo il ruolo pubblico rivestito. La Corte di Giustizia e Comitato europeo per la protezione dei dati hanno indicato «la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte». In particolare, alla domanda «Cosa rappresenta un ruolo nella vita pubblica?» il Comitato europeo per la protezione dei dati ha chiarito, tra l’altro, che «a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti (iscritti agli albi) possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche». Da ultimo, infine, le Linee Guida del Comitato europeo per la protezione dei dati circa la natura giornalistica di un'informazione e il fatto stesso che sia stata pubblicata da un giornalista, la cui professione è informare il pubblico, «costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia». “La legalità va reinventata, a volte è anche disobbedienza” di Mario Portanova Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2023 Così Nando dalla Chiesa mette insieme Falcone e don Milani. A Milano tre iniziative non ortodosse per l'anniversario della strage di Capaci mettono insieme il magistrato ucciso dalla mafia, il prete di "Lettera a una professoressa" e le detenute-attrici del carcere di alta sicurezza di Voghera. Certo che è facile associare Giovanni Falcone alla parola “legalità”, ma don Milani che c’entra? Caso mai lo ricordiamo come disobbediente cronico, l’esatto contrario dell’ossequiosa adesione alle norme scritte che regolano il sistema. E invece c’entra, sostiene Nando dalla Chiesa, perché il termine legalità oggi va reinventato. “Anche Falcone fu un disobbediente rispetto al sistema - argomenta il sociologo e attivista antimafia - se no non avrebbe subito quella persecuzione. Il maxiprocesso fu un evento anche culturale: dimostrò che la mafia di può essere giudicata proprio nel suo regno”. La legalità reinventata ha a che fare con il non rassegnarsi all’esistente. Anche qui vanno lette le sfumature dell’esperienza di Falcone: “Da magistrato rispettava le sentenze, ma promosse la rotazione delle diverse sezioni della Cassazione nei giudizi per mafia, dopo che un monitoraggio aveva rilevato una casistica anomala di annullamenti. Anche una sua creatura come la Procura nazionale antimafia poneva problemi giuridici e suscitava l’ostilità dei colleghi, ma una volta introdotto fu una svolta nel contrasto alla criminalità organizzata”. La legalità va quindi sottratta al dominio del diritto, continua dalla Chiesa, “è cultura, coscienza morale, modo di vivere”. Ora sì che il legame con Don Milani si fa più chiaro. Il prete di Barbiana “ha proposto un’idea di legalità più alta, contestando l’ordinamento della scuola che era il riflesso dell’ordinamento della società”. Anche promuovere l’obiezione di coscienza a una legge, quella sul servizio di leva, come fece don Milani, può essere un paradossale esempio di legalità. La legalità da reineventare è il filo condutture di tre iniziative organizzate dal Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con Cross, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’ateneo. La prima, il 22 maggio, viglia dell’anniversario della strage di Capaci, si intitola “La vera e malinconica storia di Giovanni Falcone”: una “lezione teatrale” tenuta da dalla Chiesa sul magistrato ucciso dalla mafia, promotore di una “giustizia consapevole” che non finisse per favorire le organizzazioni mafiose (Teatro Parenti, ore 21). La seconda, il 24 maggio dalle 14,30 nella Sala lauree di via Conservatorio 7, è un ricco convegno su don Lorenzo Milani a cent’anni dalla nascita. Il titolo è “Quel prete che scrisse alla professoressa”, con interventi, fra gli altri, di don Gino Rigoldi, della vicesindaca di Milano Anna Scavuzzo, del direttore della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti, del sociologo Alessandro Cavalli. Terza iniziativa, il 26 maggio, quella su Carcere e teatro: “Un’esperienza speciale: il carcere di alta sicurezza di Vigevano”, con una presentazione di Nando dalla Chiesa e Martina Panzarasa. Intervengono il regista Mimmo Sorrentino e le detenute ed ex detenute del penitenziario lombardo (in Aula Magna, via Festa del Perdono 7). L’efficacia delle condotte riparatorie non può essere estesa anche ai correi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2023 Con la sentenza n. 20210 la Corte di cassazione ha stabilito che la causa di estinzione del reato, introdotta nel 2017, non si applica ai correi. La causa estintiva favorisce il risarcimento del danno e chi ripara interamente il danno causato dalle proprie azioni od omissioni rende manifesto il ravvedimento e la minore pericolosità sociale. La sentenza conferma la condanna per truffa a uno dei corresponsabili. La difesa aveva sollevato questioni di disparità di trattamento, ma la Cassazione respinge tali argomenti. La causa estintiva ha una natura soggettiva e non può essere paragonata alla causa di non punibilità per tenuità del fatto. Le norme che prevedono un’efficacia oggettiva della causa estintiva non sono un termine di paragone adeguato. Il diritto di difesa non viene compromesso e può essere pienamente applicato. Ravenna. Detenuto 35enne si toglie la vita in carcere Corriere della Romagna, 20 maggio 2023 Arrestato lo scorso 6 maggio in seguito alla condanna per maltrattamenti nei confronti della compagna, Onofrio Pepe, 35enne originario di Bari, si è tolto la vita ieri pomeriggio in carcere a Ravenna. L’uomo si è impiccato. Ritrovato agonizzante in cella verso le 16, il detenuto è morto poco dopo in ospedale. A darne notizia il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: “Caso drammatico di una rapida successione di fatti per questo 35enne. Condotto in carcere lo scorso 6 maggio, collocato in isolamento per il tipo di reato commesso, si è tolto la vita nel pomeriggio di oggi”. Il Garante, sentite le autorità penitenziare e sanitarie, rileva che il detenuto non aveva propositi autolesionistici e nei giorni scorsi era stato visto anche dallo psicologo del carcere: “Dai primi riscontri emerge che gli operatori penitenziari in questi 12 giorni di detenzione si erano attivati nella gestione di questa persona, che non aveva palesato intenti suicidari”. Napoli. Giacomo stava male, ha preferito togliersi la vita in cella nel silenzio di Rossella Grasso L'Unità, 20 maggio 2023 In carcere e di carcere si continua a morire. A metà maggio 2023 arriva la triste notizia che un altro detenuto si è tolto la vita in carcere. È successo a Napoli, nel carcere di Secondigliano, dove Giacomo M.I., 65enne, si è tolto la vita. Aveva 65 anni e apparentemente nulla lasciava immaginare che avrebbe potuto ricorrere al gesto estremo. Dopo l’anno orribile del record di 84 suicidi nel 2022 la notizia arriva come un pugno nello stomaco. Una morte che fa riflettere: “Uno dei pochi casi in Italia di suicidi in carcere di persone ancora in attesa di giudizio per fatti gravi. Bisogna agire prima che il disagio porti all’estremo gesto”, ha detto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania. Già il giorno prima l’avvocato di Giacomo M.I., siciliano, aveva dato la triste notizia della morte in carcere del suo assistito annunciando azioni per sapere precisamente cosa fosse successo al 65enne morto mentre era nelle mani dello Stato. L’avvocato aveva raccontato le precarie condizioni di salute di Giacomo che soffriva di “disturbi depressivo maggiore gravi con caratteristiche melanconiche e anoressia nervosa in soggetto con psoriasi e altre patologie”, ha detto all’Ansa. Il penalista, il 6 maggio scorso, aveva chiesto al gip la sostituzione della misura cautelare in carcere con una meno gravosa per il suo assistito sottolineando che “l’ulteriore repentino aggravamento del quadro clinico palesa in tutta la sua drammaticità l’impossibilità di fronteggiare le gravi patologie da cui l’imputato è affetto in ambiente carcerario, pur attrezzato di centro clinico”. Il giudice per le indagini preliminari, condividendo il parere contrario della Procura, ha rigettato, a seguito di una perizia medica, la richiesta sei giorni prima della notizia della morte di Giacomo. All’indomani della morte del 65enne, Samuele Ciambriello in una nota ha rivelato la triste verità: “Giacomo s’è lasciato morire per sua volontà”. “L’uomo, sul cui capo pesava un processo per associazione mafiosa - continua la nota di Ciambriello - perché ritenuto attiguo ai clan di Cosa Nostra, soffriva di diverse patologie e le sue condizioni di salute erano davvero precarie, tanto da averlo portato lentamente a sprofondare nella depressione. Nelle settimane scorse, aveva richiesto di poter aver un supporto psicologico, forse perché intenzionato a superare questo suo periodo buio e, proprio qualche giorno fa, avrebbe incontrato lo psicologo, oltre che essersi sottoposto a visita medica odontoiatrica. Nonostante tutto, però, ha deciso di farla finita, senza neppure voler attendere che vi fosse la pronuncia di primo grado”. Questo suicidio è il secondo in Campania dall’inizio dell’anno. Ciambriello racconta che Giacomo era in infermeria, aveva soccorso medico e psicologico a portata di mano ed era maggiormente sotto osservazione. Nulla lasciava immaginare che il male invisibile che aveva dentro avrebbe preso il sopravvento. “Era stato lui stesso a chiedere l’intervento di uno psicologo”. Ma evidentemente nemmeno questo è bastato per salvargli la vita. “So che il detenuto viveva una situazione di salute molto difficile - ha continuato Ciambriello - per questo, non appena venuto a conoscenza del decesso, ho provveduto a scrivere sia alla direzione del carcere che alla direzione sanitaria. La sua storia drammatica si somma a quella di tanti altri, che preferiscono la morte piuttosto che sopravvivere dietro le sbarre con malattie e, in alcuni casi, con la consapevolezza di non poter essere curati a tal punto da superare quel momento complicato”. La vicenda di Giacomo, che ancora non aveva incassato alcuna condanna definitiva - conclude Ciambriello - deve indurre a riflettere ancor di più: quanto malessere e solitudine deve sentire dentro un uomo che, senza sapere ancora se verrà assolto o dovrà scontare una pena, decide di compiere il folle gesto? Le motivazioni del perché si arriva a compiere il suicidio sono molteplici e difficilmente elencabili. La vita di Giacomo sembrava normale, infatti, tanto che qualche giorno fa ha addirittura incontrato tranquillamente un odontoiatra. Il dramma va intercettato, attraverso piccoli segnali, che se ben colti potrebbero salvare vite e restituire speranza”. Pescara. Detenuti a scuola di cucina con i professori dell’Alberghiero virtuquotidiane.it, 20 maggio 2023 Migliorare le competenze nella preparazione dei pasti, oltre che incoraggiare, coloro che lo desiderano, ad acquisire una qualifica professionale alberghiera come privatisti, favorendo così anche l’inserimento lavorativo futuro nel settore. È l’obiettivo del progetto “Le basi dell’enogastronomia”, in corso di svolgimento presso la casa circondariale di Pescara, che vuole fornire le competenze sulle diverse professionalità che possono operare in cucina. Il corso, promosso in collaborazione con l’Istituto Alberghiero De Cecco diretto dalla preside Alessandra di Pietro, è condotto dal prof. Quintino Marcella, docente della scuola e volontario dell’Istituto penitenziario insieme ai colleghi Giulio Borriello e Amedeo Prognoli e agli chef dell’Associazione Cuochi di Pescara Giuseppe Agnellini e Luca Spinosi. L’iniziativa, accolta con entusiasmo dal nuovo direttore dell’Istituto, Armanda Rossi, è stata sostenuta con il contributo dalla Coop Alleanza 3.0, già impegnata in precedenti iniziative di solidarietà nella casa circondariale di Pescara. Il corso si concluderà con una gara enogastronomica sul tema “Il tiramisù di Valentino”, dedicato a Valentino Bartolomeo, storico comandante della casa circondariale e per anni presidente dell’Anppe (Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria). L’evento verrà realizzato presso la sala teatro del carcere il 23 maggio alle ore 15,00 e sarà presentato dal comico abruzzese ‘Nduccio, ospite d’eccezione dell’evento. Una giuria selezionata premierà il miglior tiramisù, realizzato dagli ospiti del penitenziario di Pescara, per concludere il corso di formazione in un evento all’insegna del dono e della condivisione. Catanzaro. Ergastolo ostativo, percorsi e strategie nel libro di Curatolo Quotidiano del Sud, 20 maggio 2023 È in programma per oggi, con inizio alle ore 15.45, nella sala del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Catanzaro, la presentazione del libro "Ergastolo ostativo, percorsi di strategie e sopravvivenza" di Salvatore Curatolo. L'evento, voluto e organizzato dalla Scuola Territoriale di Formazione della Camera Penale "Alfredo Cantafora", di Catanzaro, diretta dall'avvocato Danilo Iannello, e dall'Osservatorio carcere, il cui responsabile è l'avv. Orlando Sapia, si pone l'obiettivo di affrontare il sempre più attuale problema del rapporto tra la funzione rieducativa della pena e la concreta possibilità della sua attuazione. In particolare, il riferimento è a soggetti condannati alla pena dell'ergastolo per taluni delitti, nei cui confronti vi è l'ostatività per la concessione di determinati benefici. Il testo che verrà presentato, pubblicato da Rubettino, è stata scritto da Curatolo che è un "ergastolano ostativo", ovvero ristretto da trent'anni all'interno dei circuiti di alta sicurezza delle carceri italiane e laureatosi in Sociologia presso l'Università di Catanzaro con una tesi avente ad oggetto la realtà del cosiddetto "carcere duro". Difatti, il libro si concentra sulla descrizione e sull'analisi sociologica del carcere duro enucleandone culture, stratificazioni e norme sociali. Su questo sfondo si dipana la vicenda personale di Curatolo che, tra le possibili strategie per il proprio percorso di recupero sociale, ha scelto lo studio, attraverso cui ha costruito una nuova chiave di lettura della propria storia e del proprio futuro. Nel corso dell'incontro, i relatori si soffermeranno anche sulla recente riforma dell'art. 4 bis dell'Ordinamento Penitenziario, che, benché formalmente diretta al superamento delle preclusioni assolute all'accesso ai benefici in caso di condanna per delitti "ostativi", appare per certi versi travalicare le indicazioni fornite in materia dalla Corte costituzionale e, a ben vedere, anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Dopo i saluti istituzionali del Presidente della Camera Penale, avv. Valerio Murgano, del Presidente dell'Ordine degli Avvocati, avv. Vincenzo Agosto, i lavori saranno introdotti dall'avv. Danilo Iannello. Seguiranno gli interventi dei relatori avv. Luca Muglia (Garante dei Diritti delle Persone Detenute per la Regione Calabria), avv. Francesco Iacopino (Segretario della locale Camera Penale) e del Prof. Charlie Barna, o (Ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso UMG). I lavori saranno moderati dall'avv. Orlando Sapia. Palermo. “Nuovo mondo”: storie di migranti e di persone che li hanno accolti di Fabio Gigante ilmoderatore.it, 20 maggio 2023 La drammatica condizione che vivono i migranti nelle carceri, i traumi fisici e psichici vissuti durante il viaggio e che continuano a turbare la vita di molti di loro sono tra i temi che saranno approfonditi nel corso del dibattito che seguirà al docufilm "Nuovo Mondo, storie di migranti e di persone che li hanno accolti". A parlare di questi argomenti così scottanti, e che quasi mai entrano nel dibattito sul fenomeno migratorio, saranno il garante per i detenuti Pino Apprendi e la dottoressa Patrizia Politi, coordinatrice medica a Palermo di Medici senza frontiere, che si occupa da svariati anni di alleviare e curare le ferite delle violenze subite da ragazzi e ragazze extracomunitari. Il dibattito è moderato dal giornalista Vittorio Corradino. L’appuntamento è per domani, sabato alle ore 17,30 a Villa Zito (via Libertà n. 52), nell’ambito della rassegna Settimana delle Culture. Si inizia con la proiezione del docufilm, autore il giornalista Rino Canzoneri, regia di Rosario Neri. Il filmato è prodotto dalle associazioni “Prima gli ultimi. Nessuno è straniero”, “Di Sana Pianta” e “Le Donne Musulmane Fatima”, con il supporto del Cesvop. “Un docufilm - dice l’autore Rino Canzoneri, che è anche presidente dell’associazione Prima gli Ultimi - che ci emoziona e ci commuove, che ci fa scoprire nuovi orizzonti, oltre quelli che vediamo nei piccoli recinti che ci siamo costruiti. Che ci fa conoscere da vicino il senso, il valore e la bellezza dell’accoglienza, il piacere di donare qualcosa di noi agli altri e ricevere da questo straordinarie emozioni. Ci fa sentire l’orgoglio per aver contribuito a tirare fuori dal buco nero chi era senza futuro e senza speranza, che ci fa incontrare culture, usanze e conoscenze che arricchiscono il nostro bagaglio culturale, che ravviva l’umanità che non si è perduta e che dà linfa alla nostra anima”. Nel docufilm dalla viva voce dei protagonisti, chi è stato accolto e chi ha accolto, si scoprono storie ricche di solidarietà ed emozioni che solo i rapporti umani possono dare. Non si è fatto ricorso ad attori professionisti perché si è voluto riportare anche attraverso la voce, gli sguardi e il modo di esprimersi, l’essenza reale e profonda di questi rapporti. Il filo conduttore è il valore dell’accoglienza, con tutto il bene che ci sta dentro. E dimostra che anche un piccolo aiuto cambia il percorso di vita di persone che altrimenti non riuscirebbero ad integrarsi o lo farebbero in modo marginale. Per quanto riguarda i salvataggi a mare si è voluto evitare scene cruente di persone che stanno per annegare o annegano per non urtare la sensibilità dei bambini o di chi ha vissuto questa esperienza. Gli autori si sono limitati a riportare le immagini dei gommoni a mare e del trasbordo nelle navi che hanno prestato soccorso. Il titolo “Nuovo Mondo” vuole dire che l’arrivo dei migranti in Italia è come passare da una realtà, quella dei propri Paesi, ad un’altra completamente diversa, piena di incognite, per certi versi misteriosa, da cui non si sa come andrà a finire. Il sottotitolo, “Storie di migranti e di persone che li hanno accolti”, sintetizza la trama del docufilm e serve anche a differenziarlo dal film di Trialese che si intitolava soltanto “Nuovo Mondo”. L’obiettivo, attraverso il racconto di queste storie, è quello di far vedere quanto bello ed entusiasmante sia donare qualcosa di noi agli altri, ai più deboli e ai più fragili. E quanto bene può fare ad entrambi, un esempio che dovrebbe essere seguito da tanti altri. Legge Basaglia, dopo 45 anni i servizi di salute mentale sono ancora inadeguati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2023 A 45 anni della legge Basaglia, ancora permangono problemi. Non dalla legge che fu un atto rivoluzionario, ma dalla mancata realizzazione della riforma fino in fondo. Non se ne fece più nulla del ddl “Disposizioni in materia di Salute mentale”, depositato in Senato da Nerina Dirindin nel settembre del 2017. Tra i primi firmatari vi furono Luigi Manconi, Sergio Zavoli e altri. Nella successiva legislazione fu depositato alla Camera da Elena Carnevali e al Senato da Laura Boldrini. Anche in questo caso nulla. Ora il ddl è stato depositato alla Camera da Debora Serracchiani e al Senato da Filippo Sensi. Se ne farà qualcosa? Cosa prevedeva il ddl del 2017 ora riproposto in Parlamento? Partiamo dal fatto che la legge n. 180 del 1978, conosciuta come Legge Basaglia e successivamente confluita nella legge n. 833 del 1978, ha segnato un momento decisivo nella legislazione sociale italiana. Questa legge non si è limitata a eliminare gli ospedali psichiatrici come luoghi di cura per i disturbi mentali, ma ha introdotto in modo pionieristico un sistema di servizi di assistenza psichiatrica che va oltre il manicomio. Ha istituito una rete di assistenza basata sul territorio, con i dipartimenti di salute mentale come pilastri organizzativi dell'assistenza psichiatrica e di un settore significativo del sistema di welfare italiano. Questa legge ha superato l'approccio precedente che associava la malattia mentale alla pericolosità sociale e allo scandalo pubblico. Ha radicalmente cambiato il sistema dei trattamenti sanitari obbligatori, spostando l'assistenza psichiatrica verso i diritti sociali e il diritto fondamentale alla salute mentale garantito dall'articolo 32 della Costituzione. Ha eliminato le implicazioni di sicurezza pubblica legate ai trattamenti sanitari obbligatori e ha posto l'accento sulla tutela dei diritti dei pazienti. Nonostante l'importanza di questa legge, la sua attuazione è stata ostacolata e rallentata nel corso degli anni. Ci sono state interpretazioni ambigue e resistenze che hanno compromesso l'effettiva realizzazione degli obiettivi della legge. Solo nella seconda metà degli anni 90, con l'adozione dei progetti obiettivo per la salute mentale, si è raggiunta una maggiore attuazione e si è completata la chiusura degli ospedali psichiatrici. Negli ultimi anni, c'è stata una crescente preoccupazione per lo stato dei servizi di salute mentale in Italia. Le associazioni di familiari e persone con disturbi mentali hanno denunciato l'inadeguatezza dei servizi e chiesto maggiori attenzioni, risposte concrete e durature. Si è verificata, in diversi casi, una frammentazione dei percorsi di cura, l'uso di pratiche segreganti e contenitive e il ritorno di approcci basati sul modello bio-farmacologico. Questo ha evidenziato la necessità di politiche innovative e di un rinnovato impegno per garantire la salute mentale come diritto fondamentale. Per questo la proposta di legge per la promozione e la garanzia della salute mentale è diventata urgente. Il ddl del 2017 puntava su questo. È necessario fare costante riferimento al rapporto della Commissione parlamentare del 2013 sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale, che ha evidenziato la necessità di aggiornamenti continui nelle organizzazioni e nelle politiche sociali di prevenzione, nonché interventi a sostegno delle famiglie. Nonostante le sfide e le disuguaglianze regionali nella realizzazione dei servizi di salute mentale, le esperienze positive dimostrano che è possibile realizzare modelli di cura efficaci. Molti paesi e comunità hanno sviluppato programmi innovativi che hanno dimostrato di migliorare la qualità della vita delle persone con disturbi mentali. Uno dei modelli di cura di successo è rappresentato dalla 'comunità terapeutica', in cui le persone affette da disturbi mentali vivono in una comunità strutturata e ricevono supporto e trattamento dal personale specializzato. Questo modello si basa sull'idea che un ambiente terapeutico positivo e un sostegno sociale adeguato siano fondamentali per il recupero e il benessere delle persone con problemi di salute mentale. Altri modelli promettenti includono l'approccio 'housing first', che si concentra sulla fornitura di alloggi stabili e sicuri per le persone senza dimora affette da malattie mentali, garantendo loro un ambiente sicuro e la possibilità di accedere a cure e servizi di supporto. Questo modello ha dimostrato di ridurre l'incidenza delle ricadute e di favorire un miglioramento significativo nella qualità della vita delle persone coinvolte. Inoltre, sono stati sviluppati modelli di cura basati sull'uso delle nuove tecnologie, come le applicazioni mobili per la gestione dei sintomi e il monitoraggio dei progressi, e le terapie online che consentono alle persone di accedere alle cure anche a distanza. Questi approcci possono essere particolarmente utili per le persone che vivono in aree remote o che hanno difficoltà di accesso ai servizi tradizionali. Per la realizzazione di modelli di cura efficaci richiede però un impegno a livello politico e finanziario, nonché una collaborazione tra i vari attori del settore della salute mentale, compresi i professionisti sanitari, e i dipartimenti locali. Inoltre, è fondamentale combattere ogni forma di discriminazione, stigmatizzazione ed esclusione nei confronti delle persone con disagio e disturbo mentali. Migranti. Grecia, il fiume della morte di Letizia Tortello La Stampa, 20 maggio 2023 Le acque dell’Evros, al confine turco, trascinano i corpi gonfi di chi non ce la fa. Passare di lì è l’unica via rimasta verso l’Europa, mentre Atene alza il suo muro. Cadavere A.1, cella 15. Quel che resta di un uomo è scritto su un foglietto bianco in plastica attaccato al fondo del sacco blu, dove ci sono i piedi: numero identificativo 1019/27/270. Non c’è nome, quell’uomo è “Nessuno”, mai nessuno saprà la sua storia o il nome del Paese europeo in cui sognava di scappare. È annegato senza aiuti, perché non sapeva nuotare, nelle acque gelide tra Grecia e Turchia, quella porta di casa nostra verso cui tutti chiudono gli occhi. Il fiume Evros, trappola di morte. All’obitorio dell’ospedale pubblico di Alexandroupoli, il professor Pavlos Pavlidis è l’ultimo che li guarda in volto, questi fantasmi, migranti dimenticati, oggi per lo più giovani tra i 20 e i 25, in cerca di un lavoro. «Questo era un ragazzo, lo ricordo», dice, aprendoci il frigo. Cadavere A.1 è steso lì da metà ottobre dell’anno scorso. È uno dei venti corpi senza vita di richiedenti asilo attualmente conservati nella struttura sanitaria. Andati a fondo con tutti i loro tanti vestiti uno sopra l’altro, perché sui gommoni di tre metri per tre condivisi con altre 10 persone, non si possono portare valigie. Giusto un borsello, una busta di plastica con sigarette, qualche euro, e medicine, un portafortuna. Il fiume li inghiotte. «Li troviamo anche dopo settimane», continua il medico legale. Gonfi da testa a piedi, sfigurati dall’acqua dolce e dai pesci, di molti non si legge neanche più il volto. Se “va di lusso”, hanno il giubbetto di salvataggio, ma non è servito a niente. Invece, quelli morti di ipotermia sì, li riconosci ancora, il freddo non gli ha cambiato i connotati. E poi ci sono gli effetti personali: una catenina, un braccialetto con il cuore e la bandiera della Siria, una pinzetta azzurra come quella che salta fuori dalle scatole che Pavlidis caccia da sotto la scrivania. Appartenevano a una migrante di 12 anni, morta il 16 aprile scorso. Spogliandoli di quel che hanno addosso, è più facile procedere con il protocollo di identificazione: prima si fa la foto, poi si preleva il Dna, se si può le impronte digitali, per ricostruire il Paese di origine. A quel punto, si contatta l’ambasciata e si spera che qualche parente abbia seguito il viaggio e li abbia reclamati. I migranti dell’Evros pagano 1000 euro ai trafficanti per passare il fiume che porta di qua. In questo angolo di Grecia che nel mito antico era la terra degli dei, Orfeo e Dioniso, e dell’eroe Spartaco, e che oggi è la frontiera tra due Stati dai rapporti diplomatici tesissimi fino a poche settimane fa. Quando c’è stato il terremoto, ed è scattata la solidarietà e una specie di pacificazione elettorale. Ankara andrà al ballottaggio la prossima settimana, Atene è chiamata alle urne domani, per rinnovare il Parlamento. La parola d’ordine della campagna elettorale è “muro”. Dalla sinistra di Syriza a Nuova Democrazia, l’immigrazione è tradotta con la dottrina della sicurezza e della chiusura dei confini. «Nessuno in Grecia vuol più sentir parlare di diritti umani e del problema degli immigrati, interessano solo gli stipendi, la riforma delle pensioni e la crisi sociale», spiega Lefteris Papagiannakis, capo della Ong Human Rights 360, che opera sull’Evros e di continuo riceve segnalazioni di migranti alla deriva, picchiati, denudati, forzati a partire, respinti. La polizia greca pattuglia h24, lo stesso fa Frontex, per conto della Ue. «Il dramma nel dramma è che questa gente non ha nessun documento con sé. Li gettano in mare, perché se capiscono da dove arrivi, ti rispediscono a casa più facilmente», commenta il professor Pavlidis. Alto, secco, giacca e cravatta e jeans, volto scavato dalle tante disgrazie a cui ha dovuto assistere, nei ventitré anni di servizio all’ospedale di Alexandroupoli. «Sì, faccio tutto da solo, certo». Dal 2000, ne ha recuperati e analizzati 670, di cadaveri. Solo dal lato greco, perché con i colleghi turchi non c’è alcuna collaborazione. L’anno scorso, erano 63. Mentre da inizio gennaio, con l’avanzamento del muro che Atene sta costruendo a sue spese per bloccare gli ingressi, «ne abbiamo trovati 11». Ma non sono morti di ipotermia, con temperature che d’inverno raggiungono i -18°. Nemmeno affogati. «Sono morti in un frontale, un incidente stradale - spiega il medico -, mentre tentavano di sfuggire alle guardie». Se Cadavere A.1 è il più vecchio nelle celle dei “signori nessuno” arrivati senza vita dalla Turchia, la bimba della pinzetta azzurra è l’ultima vittima del fiume Evros. Risale al 16 aprile scorso. Era in fuga dalla Siria, con altri cinque uomini, forse parenti. I migranti di quella guerra, negli ultimi mesi, si vedono meno. Vengono piuttosto da Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq, Kurdistan, Marocco, Somalia. Sakis Attanasios, un pescatore 43enne dell’Evors, conosce volto per volto i disperati che battono questa rotta mortale. Vive lì, in mezzo alle anse del fiume in una capanna di legno e lamiere, col cane, il padre e l’aiutante. Ci fa fare un lungo giro sulla sua barca. È lui la triste enciclopedia delle tragedie: sa come cambiano le rotte che gli smugglers costringono chi parte a seguire. E ce le illustra: «Una volta arrivavano i trafficanti da Atene fare da traghettatori, oggi no. Oggi gli danno un foglietto, un gommone che se ti muovi si ribalta, gli dicono dove l’acqua è bassa per portarlo a mano, li fanno salpare quasi all’alba, alcuni ci mettono anche due giorni per passare, si nascondono sugli isolotti per paura di essere presi». Se sopravvivono a questo inferno, gli viene inviato un altro link con una posizione su Google Maps sul cellulare, dove possono trovare un’auto rubata e continuare il viaggio. Se arrivano fino ad Atene, poi, manderanno un video ai familiari, in cui dichiarano di essere vivi, e che possono far partire il bonifico ai trafficanti. Quante volte le chiedono aiuto, Sakis? «Sempre - ci dice, con lo sguardo rassegnato, offrendoci un caffè greco, che è molto simile a quello turco - mi urlano “help!”. Ma io devo seguire le regole, chiamare la polizia, aspettare dieci minuti, e poi li carico sulla barca e glieli consegno. Altrimenti mi accusano di traffico di esseri umani». I 37,5 chilometri su 140 di muro - alto tre metri, in acciaio, inavvicinabile, ogni 200 metri una torretta con telecamere termiche - ha ridotto i passaggi dell’80%. Ma quando non è il fiume a uccidere, al confine dell’Evros c’è qualcos’altro: «Una bambina è finita sotto un treno - racconta il professor Pavlidis -. Camminava lungo i binari. In Pakistan, i treni vanno piano, pensavano di saltarci su». La destinazione era la Germania, probabilmente. Il sogno europeo si è schiantato ai confini dell’umanità, all’obitorio di Alexandroupoli. Migranti. Respingimenti illegali in mare: governo greco sotto accusa di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 maggio 2023 Il video del New York Times mostra i migranti catturati a terra e abbandonati nell’Egeo. Alla vigilia del voto, cosa propongono i diversi partiti in materia di immigrazione. Dodici persone - uomini, donne e anche bambini molto piccoli - rintracciati a terra sull’isola di Lesbo, chiusi in un furgone, imbarcati su un gommone, trasferiti su una motovedetta della guardia costiera greca e poi abbandonati su una zattera gonfiabile in mezzo al mar Egeo, davanti alle coste turche. Questo mostrano le immagini girate da Fayad Mulla, un operatore umanitario che ha lavorato per quasi due anni sull’isola greca, e pubblicate ieri dal New York Times. Prove evidenti che gettano lugubri ombre sull’operato del governo di destra di Nea Dimokratìa (Nd) a meno di 48 ore dalle elezioni politiche. Il giornale statunitense ha verificato il video attraverso diversi sistemi ed è riuscito a intervistare i migranti in un centro di detenzione nella città turca di Smirne, dove sono stati portati dopo il soccorso della guardia costiera di Ankara. Il respingimento, che viola qualsiasi convenzione internazionale, è avvenuto l’11 aprile scorso. Le interviste dieci giorni dopo. I richiedenti asilo - provenienti da Somalia, Eritrea ed Etiopia - hanno confermato la ricostruzione dei giornalisti e raccontato la loro fuga da guerre e dittature. Il leader di ND Kyriakos Mitsotakis, invece, ha rifiutato di commentare l’episodio. Durante la campagna elettorale il primo ministro uscente, e ricandidato, ha definito l’approccio governativo al tema «duro ma giusto», rivendicando di aver ridotto degli arrivi del 90%. Mitsotakis non dice, però, che una parte di questo calo è dipeso negli anni scorsi alla ridotta mobilità causata dal Covid-19 e soprattutto che è stato ottenuto attraverso violenze e azioni illegali sia nell’Egeo che lungo il confine di terra del fiume Evros. La portavoce della Commissione Ue Anita Hipper ha espresso «preoccupazione per il video» rispondendo al New York Times che la Grecia «deve rispettare pienamente gli obblighi che derivano dal diritto europeo e internazionale sull’asilo, compreso l’accesso alle procedure». Dichiarazioni di circostanza. Non è la prima volta che sono rese pubbliche prove dei respingimenti collettivi da parte di Atene. A ottobre 2021 la rete di giornalisti Lighthouse Reports aveva consegnato alla commissaria Ue per l’immigrazione Ylva Johansson un dossier voluminoso e ricco di immagini su episodi simili. Un anno fa le evidenti violazioni dei diritti umani sul confine greco-turco hanno contribuito alle dimissioni del presidente dell’agenzia europea Frontex, accusata di complicità. Soprattutto, di fronte ai gas lacrimogeni sparati contro i rifugiati che tentavano in massa di superare la frontiera terrestre ad aprile 2020, quando Erdogan aveva deciso di fare pressione sull’Ue, la presidente della commissione Ursula von der Leyen volò nel paese ellenico per ringraziare Mitsotakis. «La Grecia è lo scudo d’Europa», disse in quell’occasione promettendo 700 milioni di euro e il rafforzamento di Frontex. Lo scoop del giornale statunitense arriva mentre la campagna elettorale volge al termine. Domenica il paese ellenico torna alle urne per decidere se rinnovare la fiducia a Nd o voltare pagina. Il tema dell’immigrazione è uno di quelli importanti sebbene, per calcoli elettorali di diversa natura, non sia stato tra quelli utilizzati maggiormente dalle forze politiche. Del partito di governo si è già detto, intende proseguire con la sua strategia. La principale forza di opposizione, Syriza, ha scelto di parlare meno di frontiere e più di integrazione. Ha confermato che se dovesse guidare il prossimo governo non eliminerebbe il muro di Evros. Promette però di accelerare le procedure per la cittadinanza e riconoscerla ai bambini nati nel paese da almeno un genitore legalmente residente con l’obiettivo di «passare gradualmente dallo ius sanguinis allo ius soli». Inoltre si propone di ripristinare, per alcuni casi, il permesso di soggiorno per motivi umanitari (che a differenza dell’Italia non ha un radicamento costituzionale) e insistere sui percorsi di integrazione. Anche il Pasok, che i sondaggi danno in terza posizione, vuole naturalizzare una parte dei cittadini stranieri, in particolare quelli con meno di 24 anni o una evidente integrazione nel contesto sociale. Intende inoltre rendere più semplice l’accesso ai permessi di soggiorno di lungo periodo. Le proposte del partito sottolineano la forte carenza di manodopera in alcuni settori dell’economia greca anche se il problema non sta solo nella carenza di vie di accesso legali. In Grecia il tema è che condizioni lavorative e salari non sono attraenti nemmeno per i migranti, soprattutto qualificati, che preferiscono recarsi altrove. Infine Mera25, il partito di Yannis Varoufakis che dovrebbe riuscire a entrare anche questa volta in parlamento, ha proposte più radicali ma di difficile realizzazione in un solo paese. Tra queste: cancellare l’obsoleta differenziazione tra migranti economici e rifugiati; annullare «l’inaccettabile e illegale accordo Ue-Turchia»; riconoscere un permesso di lavoro a tempo indeterminato a chi ha vissuto in Grecia due anni con un contratto di lavoro dipendente o dieci senza lavoro. Francia. «La democrazia vince se sceglie la via del diritto anche con i terroristi» di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 maggio 2023 «Questo processo mi ha lasciato un certo senso di disillusione nei confronti della giustizia, che ho scoperto non corrispondere all’ideale che avevo in mente. Il verdetto? È stato emesso fuori dal perimetro dello Stato di diritto». A parlare è l’avvocata Olivia Ronen, ospite del Dubbio al Salone del libro di Torino. La penalista francese ha difeso Salah Abdeslam, principale imputato nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Unico membro del commando rimasto in vita, Abdeslam è condannato alla pena più dura prevista dall’ordinamento francese: l’ergastolo “incomprimibile”. Quello che Robert Badinter - l’ex guardasigilli francese che portò avanti la battaglia per l’abolizione della pena di morte di morte nel 1981 - definì un «supplizio». Avvocata Ronen, ha avuto dei dubbi di natura “etica” o professionale prima di accettare l’incarico? Quando mi hanno affidato il dossier mi sono posta qualche dubbio sulla mia giovane età ma non ho mai avuto alcuna remora etica o professionale nell’assistere Salah Abdeslam. Quando ho scelto questa professione, e in particolare il diritto penale, sapevo bene che mi sarei potuta trovare a “difendere l’indifendibile” e lo ho anche sperato. Più un dossier sembra complesso, più la ricerca delle argomentazioni si “allontana” dall’evidenza, più l’esercizio è interessante. Un caso come questo rappresenta il parossismo della difesa penale. Per questo non ho avuto nessuna reticenza. Qual è stata la difficoltà più grande che ha incontrato? La difesa penale d’urgenza. Sono stata nominata soltanto nove mesi prima dell’apertura del processo, ho quindi dovuto organizzarmi in fretta e studiare cinquecento tomi, circa un milione di pagine, costituire una squadra difensiva (Martin Vettes, collega e amico ha accettato questa sfida). E imparare a conoscere il mio cliente. Ho dovuto fare tutto questo senza abbandonare altri casi che stavo seguendo, è stato un lavoro molto intenso. Sotto un altro aspetto che intreccia il lato professionale e quello personale, le cinque settimane di deposizione delle parti civili sono state estenuanti. Anche se non hanno scalfito la volontà di difendere Abdeslam, resteranno nella mia memoria per molto tempo. Un’esperienza umanamente ricca, molto forte e dura. Già dall’apertura del processo, dopo le prime dichiarazioni in aula di Abdeslam, si è parlato della cosiddetta “difesa di rottura” teorizzata dall’avvocato francese Jacques Vergès. Lei che ne pensa? Non sono affatto d’accordo con questa espressione. Una difesa di rottura è una strategia che consiste nel contestare la legittimità della Corte e dell’intero sistema giudiziario. Se Salah Abdeslam ha rivendicato nella prima udienza la sua affiliazione allo Stato islamico non ha mai negato la legittimità dei suoi giudici. Dal banco della difesa, io e Martin Vettes, siamo stati attenti a evitare connivenza e rottura. Volevamo una difesa efficace, umana e intransigente. Ciò non toglie, contrariamente a quanto affermato dal presidente della Corte d’assise durante i dieci mesi di udienze, che è stato un processo decisamente politico, come dimostra la sentenza emessa. La quale ignora a tal punto ciò che è stato detto e fatto durante il processo, che avrebbe potuto essere scritta prima. Difficile credere che tutto non sia stato deciso in anticipo. Lei che ricordo ha di quella notte del 13 novembre 2015? La mia storia è un po’ particolare, poiché all’epoca frequentavo ogni week-end i luoghi colpiti dagli attentati. Avevo 25 anni e stavo per prestare giuramento, ma prima di infilare la toga volevo conoscere un po’ il mondo e mi trovavo dall’altra parte del pianeta, ma l’ondata di choc è arrivata fino lì, e anche se ero lontana sono rimasta molto provata. Nel suo libro “V13” Emmanuel Carrère scrive: «Fra il momento in cui entreremo in quell’aula di tribunale e quello in cui ne usciremo, qualcosa in noi tutti sarà cambiato». Vale anche per lei? Sì, siamo usciti cambiati da quell’aula, da quei dieci mesi a porte chiuse. Per quel che mi riguarda è stata un’esperienza professionale preziosa, anche dal punto di vista umano. Ma quel si è radicato dentro di me è una specie di disillusione nei confronti della giustizia. Non corrisponde all’ideale che avevo in mente. Lei ha detto: «Non penso che questo processo sia una vittoria dello Stato di diritto o della democrazia sulla barbarie». Perché? Lo scopo delle organizzazioni terroriste è seminare il caos nelle democrazie, di far perdere loro l’equilibrio e i punti di riferimento allo scopo di farle crollare. Una vittoria della democrazia sarebbe stato un processo alla fine del quale fossero stati rispettati e riaffermati con forza i principi del diritto. La presunzione di innocenza, l’onere della prova che spetta all’accusa, la proporzionalità delle pene, l’interpretazione stretta delle leggi penali. Se queste regole fossero state applicate avrebbero portato la Corte a esprimere un verdetto diverso nei confronti di tutti gli imputati. Questi principi fondamentali, per alcuni una guida filosofica o semplicemente strumenti di buon senso, sono stati spazzati via dai magistrati. La sentenza è stata emessa fuori dal perimetro dello Stato di diritto. Riguardo alla sua difesa, invece ha detto: «Non si difende una causa, ma degli individui, anche se a volte si tenta di escludere qualcuno dall’umanità, questa persona ne fa parte quanto noi». E come è stato sottolineato, durante il processo si è sempre rivolta al suo assistito per nome... Non credevo che questo dettaglio sarebbe stato notato a tal punto, comunque sì, era una volontà di riumanizzarlo. Tutti lo conoscevano come Adeslam, il sopravvissuto del commando del 13 novembre 2015, la gente doveva abituarsi a parlare di Salah perché si era arrivati al punto di dimenticare che quell’uomo non aveva ucciso nessuno. Salah Abdeslam è l’unico membro del commando rimasto in vita. Secondo lei è diventato un “simbolo” per la giustizia? Certamente. Nel verdetto non si è tenuto conto delle irregolarità dell’inchiesta belga (che componeva il 90 per cento del dossier), delle affermazioni senza fondamento o ancora delle acrobazie dei giudici, oppure in modo più generale del fatto che le udienze erano riuscite a spezzare l’immagine del mostro sapientemente costruita durante sei anni di inchiesta. Salah Abdeslam è stato condannato a una pena esemplare, l'ergastolo “incomprimibile” (senza diritto alla libertà vigilata), perché è un simbolo. I magistrati si sono fermati lì, senza tentare di andare oltre, è un vero peccato. La pena all’ergastolo incomprimibile è stata pronunciata appena quattro volte dal 1994, Cosa pensa di queste condizioni di detenzione? Prima d’ora ha riguardato casi di violenza e omicidio di bambini, persone la cui psicopatia era dimostrata. Anche se mi aspettavo una pena pesante per il mio cliente, non credevo che saremmo arrivati a quel che Robert Badinter (avvocato ed ex ministro della giustizia di Mitterrand) aveva qualificato come “supplizio” durante il discorso in cui nel 1981 annunciava la fine della pena di morte. A processo speciale, pena speciale. Ed ecco che l’idea di giustizia scompare. Iran. Majid, Saleh e Saed: impiccati per i cortei contro gli ayatollah di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 maggio 2023 Le autorità iraniane hanno annunciato l'esecuzione di tre uomini, Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi. È stato il sito della magistratura, Mizan, a rendere nota la notizia dell'ennesima condanna a morte anche se non è ancora dato sapere in che modo gli è stata tolta la vita. I tre prigionieri erano stati arrestati perché secondo l'accusa avrebbero ucciso un agente di polizia e due membri del gruppo paramilitare Basij a Isfahan, la terza città più grande dell'Iran, nel novembre 2022 durante le proteste a livello nazionale scoppiate dopo la morte di Mahasa Amini, la ragazza curda morta nelle mani della polizia morale a Teheran lo scorso anno. Il reato ascritto agli uomini giustiziati è stato quello di moharebeh, un termine legale islamico che significa «fare guerra contro Dio». Avrebbero formato un gruppo per minare la sicurezza nazionale e collaborato con i Mujahedeen- e- Khalq (MEK), un gruppo con sede in Europa che Teheran considera un'organizzazione terroristica. La pena di morte è stata eseguita nonostante l'appello alla clemenza depositato presso la Corte Suprema che ha affermato di non vedere alcuna ragione credibile per accettare la richiesta in quanto i tre miravano a «rovesciare l'establishment della santa Repubblica islamica» macchiandosi di gravi reati. Il caso, nonostante la brutale repressione in atto ha suscitato numerose proteste, secondo le scarne notizie che riescono a penetrare la forte censura, all'inizio di questa settimana le famiglie dei tre uomini, che temevano una veloce esecuzione delle sentenze, hanno manifestato davanti alla prigione centrale di Isfahan dove erano detenuti Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi. I video girati dagli stessi familiari hanno testimoniato ciò che stava succedendo e invitavano a sostenere la loro causa. Nelle immagini pubblicate in rete si vedono molte auto che si radunano intorno all'area della prigione, con i conducenti che suonano il clacson e cantano slogan a sostegno della sospensione delle esecuzioni. Un breve messaggio presumibilmente scritto a mano e firmato dai tre uomini è stato ampiamente diffuso online, l'appello era inequivocabile: «Non lasciate che ci uccidano». Niente però è riuscito a salvare i condannati i quali si sono sempre dichiarati innocenti. La magistratura ha affermato che la pena di morte e stata giustificata dalle loro confessioni di colpevolezza, una versione che contrasta con quella delle organizzazioni dei diritti umani secondo le quali i prigionieri sarebbero stati torturati, costretti a confessare in diretta televisiva sotto la minaccia di violenze contro di loro e le famiglie oltre a essere stati rinviati di un’assistenza legale. In particolare Kazemi sarebbe riuscito a chiamare un parente dicendogli di essere stato sottoposto a violenze fisiche e morali. Gli aguzzini della prigione lo avrebbero appeso a testa in giù e colpito ripetutamente sulla pianta dei piedi, nel frattempo gli mostravano la finta esecuzione dei fratelli e lo minacciavano di violenza sessuale. La confessione dunque sarebbe stata rilasciata per sfinimento affinché tale trattamento potesse cessare. E quanto confermato da Hadi Ghaemi, direttore esecutivo del Centro per i diritti umani in Iran con sede a New York e Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa: «Il modo scioccante in cui il processo e la condanna di questi manifestanti sono stati accelerati attraverso il sistema giudiziario iraniano tra l'uso di 'confessioni' macchiate dalla tortura, gravi difetti procedurali e la mancanza di prove, è un altro esempio dello sfacciato disprezzo delle autorità iraniane per il diritto alla vita e a un processo equo». Siria. Il trionfo dell'impunità di Gianni Vernetti La Repubblica, 20 maggio 2023 La Lega araba riaccoglie Assad dopo dodici anni, e le colpe del presidente siriano così rischiano di essere dimenticate. A Jeddah, con la reintegrazione della Siria nella Lega Araba ed il palco concesso al satrapo Bashar al Assad, ha trionfato l’impunità. E sono bastati soltanto dodici anni per far dimenticare al consesso dei Paesi arabi una delle più grande tragedie che l’umanità ha conosciuto dal secondo conflitto mondiale: 500mila civili uccisi e altri 150mila scomparsi nelle carceri del regime; 6,6 milioni di rifugiati in Medio Oriente (di cui una parte rilevante in Turchia) ed altri 6 milioni di sfollati interni; 82mila barili bomba lanciati contro ospedali, scuole, edifici religiosi; Aleppo e decine di altre città rase al suolo; 340 attacchi documentati con armi chimiche; stupri ed eccidi di massa, torture; la nascita e la scomparsa del Califfato con la sua scia di morti e il genocidio degli yazidi; un economia in caduta libera e il 90% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà; metà degli ospedali e delle scuole distrutte; 70% della popolazione senza accesso all’acqua potabile. La Lega Araba accoglie fra le sue fila e legittima un brutale dittatore, che in dodici anni ha distrutto e svuotato il proprio Paese, trasformandolo anche in un narco-Stato, che detiene il triste record di essere il primo produttore ed esportatore mondiale di captagon, un’anfetamina estremamente potente, la cui rete produttiva e commerciale porta direttamente al fratello del satrapo: Maher el Assad. Di tutto ciò si è reso responsabile Bashar el Assad che regna ancora su uno stato fallito e in rovina, soltanto grazie al sostegno di altri due Paesi sempre più ai margini della comunità internazionale: la Russia di Vladimir Putin e l’Iran di Ebrahim Raisi. Senza l’intervento dell’esercito russo e senza il sostegno militare diretto dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah, il regime sarebbe probabilmente crollato. In più, il regime di Damasco riesce a controllare soltanto i due terzi del Paese: a nord dell’Eufrate la coalizione di forze curde, assire, yazide e arabe controlla un terzo del Paese e l’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria governa su sei milioni di abitanti, grazie all’impegno militare delle Syrian Democratic Forces, sostenute dalla Coalizione Globale contro l’Isis. A nord-ovest, la Turchia occupa con il proprio esercito la provincia di Afrin e quella di Idlib, grazie al sostegno ad una coalizione quelle ancora controllate da milizie estremiste sempre legate ad Ankara (Idlib). La Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stata fin qui largamente disattesa e nella Siria di Assad, pacificata con il terrore, gli alleati del regime di Damasco, Russia e Iran, non sono certo nella condizione di finanziare alcun progetto post-bellico di rinascita del Paese. Con la reintegrazione di Assad nella Lega Araba, si allontanano inoltre le possibilità di una transizione pacifica. La legittimazione del regime di Damasco non contribuirà a creare le condizioni di fiducia per il rientro dei profughi e neppure a realizzare quel percorso auspicato dalla comunità internazionale: una nuova costituzione per una Siria federale sotto la supervione delle Nazioni Unite, elezioni libere, giustizia per i crimini di guerra commessi. La permanenza di Assad al potere e insieme all’assenza di una prospettiva di una vera transizione politica a Damasco e le sanzioni ancora tutte in vigore, rendono praticamente impossibili investimenti diretti nel Paese da parte della comunità internazionale. La normalizzazione dei rapporti con il regime di Assad da parte della Lega Araba rischia dunque di creare un precedente pericoloso: garantire l’impunità a dittatori e regimi che si macchiano di crimini di guerra e contro l’umanità ed allontanare le speranze di giustizia dopo dodici anni di guerra e devastazione. Europa e Usa, che si sono espresse contro la normalizzazione dei rapporti con Assad, sono però chiamate ora a fare di più sul piano politico ed economico. L’Unione Europea ha presieduto lo scorso maggio a Bruxelles la sesta conferenza sulla ricostruzione della Siria raccogliendo 6,4 miliardi di dollari fra i Paesi donatori e ulteriori fondi sono stati allocati dopo il terremoto dello scorso febbraio, ma l’implementazione è resa difficile proprio dalla permanenza di Assad al potere. Serve più coraggio e si potrebbe cominciare ad aumentare la presenza nelle aree liberate del nord della Siria, finanziando progetti di ricostruzione, aumentando il sostegno politico all’Amministrazione del Nord e dell’Est della Siria (Rojava), incrementando il sostegno militare alle Syrian Democratic Forces.