Primo maggio. “Non c’è libertà e democrazia senza giustizia sociale” di Giancarlo Governi globalist.it, 1 maggio 2023 Le parole di Sandro Pertini erano e restano valide. Ora occorre conservare la memoria delle lotte di coloro che hanno conquistato i diritti per i più deboli. Ho parlato del 25 aprile e ora voglio parlare del 1 maggio: due feste strettamente collegate fra di loro, non soltanto per motivi di calendario ma anche perché ci ricordano due conquiste: la prima la conquista della libertà per tutti i cittadini e la seconda la conquista della dignità e dei diritti per i lavoratori. Non a caso l’articolo 1 della nostra Costituzione, nata dalla Resistenza dice che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quando penso alla libertà, alla democrazia mi vengono in mente l’aria, l’acqua, la corrente elettrica, beni essenziali della cui esistenza e della cui importanza ci accorgiamo soltanto quando ci vengono a mancare. Per molti giovani che non sanno o non vogliono sapere ma anche per molti adulti che sono stati resi immemori da troppi anni di bieco consumismo, la libertà e la democrazia sono beni di cui non si avverte neppure più la presenza, per cui non si colgono più le connessioni storiche e morali e non sanno distinguere più fra coloro che si batterono, e morirono, per assicurare a loro stessi, ai loro figli e ai loro nipoti, questi beni fondamentali e coloro che invece li osteggiarono. Io penso che ci voglia tanta pazienza e tanto lavoro, in tutti i settori e in ogni momento della vita per far prendere di nuovo coscienza di quelli che sono i valori fondanti del nostro consorzio civile, libertà e democrazia, che però senza giustizia sociale, come diceva Sandro Pertini, sono valori vuoti di significato. Per un giovane che si affaccia nel mondo del lavoro è normale sapere che in quanto lavoratore ha dei doveri ma anche dei diritti codificati, nelle leggi, nello Statuto dei Lavoratori (che anni fa è stato modificato e chiamato Statuto dei Lavori, e non è la stessa cosa), nei contratti collettivi e quindi non sa, non vuole sapere e non pensa neppure che dietro questi diritti conquistati c’è tanto sudore, ci sono tante fatiche, ci sono tante lotte e persino tanto sangue. La stessa festa del Primo Maggio ricorda un terribile fatto di sangue nella Chicago di fine Ottocento. La festa del Primo Maggio oggi viene celebrata con naturalezza, come è giusto, ma non è stato sempre così. Il Primo Maggio fu per tanti anni, negli anni della dittatura ma anche del capitalismo più bieco, il sogno, il miraggio, la speranza di riscatto. “Vieni, o Maggio, ti aspettan le genti, dolce Pasqua dei lavoratori…” cantava il poeta anarchico Pietro Gori sull’aria del “Va pensiero” di Verdi. Ed erano gli anni in cui si lottava per poter lavorare soltanto otto ore al giorno (“Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar e proverete la differenza di lavorare e di comandar”), per proibire il lavoro notturno dei bambini (sì, proprio dei bambini) e delle donne, per rendere meno insalubre e più dignitoso il lavoro delle mondine, per creare le prime organizzazioni di solidarietà, in soccorso dei lavoratori malati e anziani e delle loro famiglie. La storia è lunga e io la finisco qui, però voglio chiedere a chi mi legge: il Primo Maggio dedicatelo pure alla festa, alla famiglia, alla scampagnata e alle fave con il pecorino, però per un momento pensate a questa storia lunga più di un secolo, che ha portato i lavoratori dalla condizione di schiavi a protagonisti della vita civile. Soprattutto ora che il lavoro è diventato non più un diritto ma un privilegio. Soprattutto ora che il lavoro è tornato ad essere merce che può essere comprata o lasciata o lasciata a marcire nei magazzini, che sono i grandi serbatoi della disoccupazione. Soprattutto ora che i sindacati sembrano aver perso la loro identità. Soprattutto ora che a noi più vecchi torna prepotente alla memoria la forte faccia bruciata dal sole che sembrava scolpita nella pietra di Peppino Di Vittorio, il bracciante pugliese che dette tutto se stesso per la difesa dei lavoratori e per la loro unità. Soprattutto ora che diventa sempre più struggente il ricordo di quando bambino andavo accompagnato da mio Padre al comizio oceanico di Di Vittorio, che precedeva sempre il gusto inconfondibile delle fave accompagnate con il pecorino romano. O delle vigilie passate a Castiglioni in Val d’Orcia quando si veniva svegliati nel cuore della notte dal canto dei maggiaioli, che portavano a tutti la lieta novella: maggio è ritornato, la natura, dopo il duro inverno, è risorta e promette ricchi raccolti. Sembra una metafora dell’Italia di cui tutti aspettiamo trepidanti la resurrezione portata dal più radioso Primo Maggio. Primo maggio: è ora di dare priorità alla giustizia sociale di Gilbert Fossoun Houngbo* Corriere della Sera, 1 maggio 2023 Il Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL): dopo i tre anni di pandemia a livello globale, i salari reali sono diminuiti, la povertà è cresciuta e le diseguaglianze sembrano persistere più che mai. Il 1° maggio è la Festa del Lavoro, un giorno in cui si celebra nel mondo il ruolo e il contributo fondamentale dei lavoratori. È un momento di orgoglio, di celebrazione e di speranza. Abbiamo un gran bisogno di celebrare per oltrepassare i tre anni di crisi legate alla pandemia di Covid-19, seguita da inflazione, conflitti, crisi energetiche e alimentari. Le promesse di rinnovamento fatte durante la pandemia di ricostruire un mondo migliore, tuttavia, non sono state finora mantenute nei confronti della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici del mondo. A livello globale, i salari reali sono diminuiti, la povertà è cresciuta e le diseguaglianze sembrano persistere più che mai. Le imprese sono state duramente colpite da queste crisi. Molte di esse, soprattutto quelle di piccole dimensioni, non hanno potuto far fronte agli effetti negativi di questi eventi e hanno cessato di operare. Le persone hanno la sensazione che i sacrifici fatti per superare la pandemia non siano stati riconosciuti. Le loro necessità non vengono ascoltate a sufficienza. Questa sensazione, unita alla percezione di mancanza di opportunità, ha creato un livello di sfiducia preoccupante. Lo stato delle cose non è una fatalità: rimaniamo padroni del nostro destino. Se vogliamo dare forma a un mondo nuovo, più stabile ed equo, dobbiamo scegliere un percorso alternativo che dia priorità alla giustizia sociale. Credo che questo sia non solo fattibile, ma anche indispensabile per la costruzione di un futuro stabile e sostenibile. Come realizzare questo obiettivo? Innanzitutto, le nostre politiche e le azioni devono essere incentrate sulla persona, al fine di consentire a tutte e tutti di perseguire il proprio benessere materiale e lo sviluppo spirituale in condizioni di libertà e dignità, sicurezza economica e pari opportunità. Questo approccio non è nuovo. Esso è stato disegnato dalla Dichiarazione di Filadelfia, sottoscritta dagli Stati membri dell’OIL nel 1944. La Dichiarazione fissa con lungimiranza i principi per guidare lo sviluppo dei nostri sistemi economici e sociali che devono realizzare le esigenze e le aspirazioni delle persone piuttosto che perseguire il mero raggiungimento di tassi di crescita o di altri obiettivi statistici. È necessario concentrarsi sulla lotta alle diseguaglianze, sulla riduzione della povertà e sul rafforzamento delle fondamenta dei sistemi di protezione sociale. Il modo più efficace per farlo è puntare al lavoro di qualità, in modo che le persone possano realizzarsi e costruire il loro futuro attraverso il “lavoro dignitoso per tutti” che è parte dell’Obiettivo 8 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Per raggiungere questo Obiettivo bisogna affrontare in modo concreto le trasformazioni strutturali di lungo periodo; garantire che le nuove tecnologie creino occupazione; gestire le sfide del cambiamento climatico e sostenere l’offerta di lavoro, formazione e sviluppo di competenze per una transizione ecologica che permetta a lavoratori e imprese di trarre vantaggio da un nuovo modello di sviluppo basato sulla bassa emissione di carbonio; gestire i cambiamenti demografici come un’opportunità piuttosto che come un problema; e costruire delle società più solidali e resilienti. È necessario ridefinire l’architettura dei nostri sistemi sociali ed economici in modo che questi possano concorrere al cambiamento di rotta verso la giustizia sociale, piuttosto che intrappolarci nel vortice delle diseguaglianze e dell’instabilità. Bisogna rinvigorire le istituzioni e le organizzazioni del lavoro, in modo che il dialogo sociale sia forte ed efficace. Dobbiamo rivedere e attualizzare la legislazione che ha un impatto sul mondo del lavoro, al fine di mantenere la sua rilevanza ed efficacia rispetto alla protezione dei lavoratori e delle imprese sostenibili. Affinché tutto questo si concretizzi, occorre rinnovare il nostro impegno a favore della cooperazione e della solidarietà internazionale. Dobbiamo intensificare i nostri sforzi e rafforzare la coesione delle politiche, in particolare all’interno del sistema multilaterale come richiesto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Per queste ragioni, abbiamo bisogno di una Coalizione mondiale per la giustizia sociale. La Coalizione sarà una piattaforma per riunire il numero più ampio possibile di organismi e attori internazionali. La giustizia sociale sarà posizionata come la chiave di volta della ripresa mondiale e come priorità delle politiche e iniziative nazionali, regionali e globali. In breve, la Coalizione dovrà garantire che il nostro futuro sia incentrato sulla persona. Abbiamo la possibilità di ridisegnare il mondo in cui viviamo, sia in termini economici che sociali e ambientali. Cogliamo questa opportunità e andiamo avanti nella costruzione di società eque e resilienti che possano sostenere la pace duratura e la giustizia sociale. *Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) Viaggio nella Repubblica fondata su disoccupazione, precariato e contratti pirata di Cecilia Ferrara Il Domani, 1 maggio 2023 Negli ultimi vent’anni i salari sono diminuiti e i diritti dei lavoratori sono stati erosi, proiettando l’Italia stabilmente in fondo alle classifiche europee sull’occupazione. Le riforme del governo Meloni promettono di aggravare le malattie croniche del sistema, scaricando i costi su chi disperatamente insegue un lavoro che non c’è. “Il diritto al lavoro, diceva Norberto Bobbio, come i diritti di prima e seconda generazione, non è un diritto assoluto, ma cambia in funzione di quello che succede nella società: se nella società non succede niente anche i diritti più elementari si perdono”. Questo ci spiega Roberto Romano, economista dell’associazione Està (economia e sostenibilità). E in Italia dal 2000 ad oggi non è successo niente. “Mentre negli Stati Uniti in Cina, Germania, Francia - continua Romano - all’aumentare degli investimenti delle imprese aumentava anche il contenuto tecnologico, perché la domanda evolveva, cambiava. Si pensi alle automobili di oggi, non sono in nessun modo associabili ad automobili del 1990, hanno un contenuto tecnologico estremamente più alto si pensa il software la guida assistita eccetera. Quindi chi produce l’automobile ha bisogno di maestranze di forza lavoro con competenze più alte”. Ecco l’Italia questa dinamica non l’ha colta. “Dal 2000 in poi, le imprese italiane hanno fatto più o meno la stessa quantità degli investimenti di quelle tedesche e francesi, ma l’intensità tecnologica è sempre stata, e ormai lo è strutturalmente, la metà di quella degli investimenti dei paesi cugini”. L’Italia insomma produce beni e servizi che non necessitano di ricerca e sviluppo, la forza lavoro è per due terzi formata da persone con competenze tecnologiche basse e il valore aggiunto prodotto è inferiore rispetto agli altri principali paesi europei. Secondo le teorie dell’economista è questo che comprime verso il basso i diritti dei lavoratori. “Settori con competenze più alte vengono remunerati di più, è logico, e la tendenza italiana che porta alla precarizzazione, a salari bassi secondo me non è casuale”. Il profitto, insomma, le imprese, lo fanno sul lavoro. È per questo forse che il salario medio in Italia è uno dei pochi ad essere più basso nel 2022 che nel 2008? (Con noi, va ricordato, anche se in misura minore, c’è anche la Gran Bretagna). Primo maggio 2023, cosa segna il termometro del lavoro in Italia? Ancora febbre si direbbe, nonostante il governo di Giorgia Meloni abbia scelto proprio il giorno di festa dei lavoratori come data simbolica per emanare il “decreto lavoro”. O forse proprio per questo, visto che alcuni la vedono come provocazione nei confronti dei sindacati che oggi festeggiano in tutta Italia e considerato che ai sindacati, il decreto, Meloni lo ha fatto leggere in un incontro alle 19 di ieri. Tra le ultime indiscrezioni ci dovrebbe essere sì un taglio del cuneo fiscale (molto misero per la verità), ma anche una maggiore flessibilità per i contratti a tempo determinato e un taglio del reddito di cittadinanza che si chiamerà d’ora in poi “assegno di inclusione”. Contratti pirata - “Il fatto è che l’Italia dagli anni Novanta ha un andamento molto deludente della produttività rispetto agli altri paesi europei”. Il professor Pietro Reichlin, che insegna economia e finanza all’Università Luiss di Roma, conferma le conclusioni di Romano dove produttività è il valore aggiunto. L’Italia è ancora all’ultimo posto in Europa per i livelli di occupazione (60,2 per cento contro il 69,9 per cento europeo). “Uno dei motivi che si danno è quella relativa alle dimensioni imprese, che in Italia sono medio piccole, quindi poco capaci di aumentare la proprio tecnologia e di aumentare la produttività”, continua il professore. Per il professore della Luiss un altro motivo però è la contrattazione che è centralizzata. “Abbiamo dei contratti nazionali collettivi appiattiti, quando il costo della vita è molto diverso da zona a zona”. Ritorno alle gabbie salariali? “No, no, ma va ricordato che in Germania la contrattazione avviene a livello regionale ed è molto più efficace”. Dopo di ché il problema vero è che in Italia la contrattazione collettiva non sta tanto bene, a fine 2021 il numero dei contratti depositati presso lo Cnel erano 992 di cui almeno un terzo contratti pirata (fonte Sole24ore/Cnel) ovvero contratti siglati da sindacati poco significativi se non farlocchi che portano a condizioni peggiorative per i lavoratori. “Ci vorrebbere un salario minimo nazionale che potrebbe correggere quel problema dei lavoratori poveri”, conclude Reichlin, “i sindacati non riescono a coprire tutti”. Il primo maggio non è festa - “Noi riusciamo a fare festa il primo maggio solo perché viene convocato lo sciopero e abbiamo la copertura, altrimenti con la liberalizzazione del decreto Monti sarebbe obbligatorio lavorare qualora ce lo chiedessero”. Marco Cataldo, 43 anni, lavora da 16 anni per H&M, Rsa FILCAMS CGIL, magazziniere per il negozio. “Certo se hai la fortuna di avere una compagna o un compagno che lavora nello stesso settore va bene si può decidere di lavorare entrambi, altrimenti c’è una perdita di socialità importante con la famiglia, con gli amici, con i figli. Cosa che si può capire per settori essenziali come la sanità o la sicurezza, ma per il commercio francamente no”. Uno dei metodi che utilizzano i grandi magazzini per non chiudere nei festivi sono i contratti a chiamata. “Dopo ilCovid sono un po’ diminuiti, ma prima per H&M erano il 20 per cento dei lavoratori”. Come funziona? “Vengono chiamati contratti intermittenti, che però nel CCLN non sarebbero previsti”. In pratica si assume una persona, si prendono i dati per il contratto e da quel momento in poi l’unico obbligo che l’azienda ha è quella di dare 24 ore di preavviso per il prossimo turno lavorativo, che però non è garantito. “Non c’è un monte ore minimo, prima c’era un’indennità di 3/400 euro anche se non ti chiamavano, adesso non c’è più. Si può chiamare una persona da 3 ore di lavoro in su, conosco persone, tra cui la mia compagna, che per fare 3 ore di lavoro si sono fatte due ore con i mezzi all’andata e due ore al ritorno”. Non si trovano camerieri! Simone (nome di fantasia) ha 24 anni e la passione per i sonetti. “Ne ho tanti nel cassetto, se si potesse guadagnare da questo farei solo questo”. Invece dopo il liceo linguistico ha lasciato gli studi: “Non avevo le idee chiare per l’Università e non volevo perdere tempo, avevo l’ansia di aiutare in famiglia. Avevo ben presente mio padre che ha fatto il magazziniere per anni a 500 euro al mese fregato dal suo datore d i lavoro”. Simone va prima a lavorare in un’officina fa un anno di apprendistato ma poi gli dicono che il lavoro è diminuito e l’ultimo arrivato, lui, se ne deve andare. Trova un cartello “cercasi personale” in un bar bistro del suo quartiere, si propone e inizia a lavorare. “I primi tre mesi ho lavorato in nero prendendo 7/800 euro, ho fatto il banchista, il cameriere e poi sono andato in cucina”. Poi arriva la proposta con contratto sempre da apprendista. “Ti dico la verità, ci ho pensato un po’ perché non volevo un altro contratto di apprendista, non ero al primo lavoro”. Alla fine Simone accetta e inizia a lavorare 40 ore da contratto, che è 1.100 euro al mese più 8 in nero che lo fanno arrivare a 1.250. Le otto ore in nero quindi vengono pagate 4,70 euro l’una. “Guarda che in busta paga vengo pagato 5,96 euro l’ora”. “Siamo sei persone tutte abbiamo 40 ore settimanali e ne lavoriamo 48, abbiamo un giorno di riposo che è sempre settimanale, il weekend è escluso. Ma non è tanto quanto vengo pagato o le ore di lavoro il fatto è quanto devo fare in quelle ore, dal macellaio agli ordini dai fornitori”. Chiedo a Simone se non si sia pentito a non provare neanche a fare l’Università. “Guarda ti dico la verità, la maggior parte dei miei amici ha fatto l’università ma non è che sia andata benissimo: il mio amico che ha fatto fisioterapia sta faticando per aprire il suo studio, la mia amica che ha fatto legge sta lavorando in nero in un’agenzia immobiliare...”. Precariato totale - Lucia (nome di fantasia) è una diversamente giovane, 35 anni, precaria privilegiata. “Sono il prodotto della borghesia decaduta, di quelli che guadagnano meno dei genitori - scherza - La mia famiglia mi supporta, mia madre era psicologa per la Asl e mio padre insegnante, quindi ho potuto studiare avere una casa e continuare a studiare anche dopo l’università”. Privilegiata sì, ma la sua storia lavorativa è emblematica, laureata al DAMS fa due anni di tirocinio gratuito in una ditta che faceva effetti speciali per il cinema: “Solo tardi ho capito che quest’azienda non aveva commesse dagli anni Settanta”. Poi fa la scuola del fumetto, e, tramite conoscenze, inizia a lavorare come grafica per gli archeologi. “In pratica vai sul sito e devi disegnare delle proiezioni, disegno tecnico, ma è bello perché frequenti gli scavi. Avevo iniziato come lavoretto estivo e in realtà sono 15 anni che me lo porto dietro”. Questo lavoro però è saltuario, si lavora sui sei mesi l’anno, quindi cerca altri lavori. “Ho lavorato per parecchio tempo in una pescheria - racconta - poi ho fatto la rider per Deliveroo per un paio d’anni, che era molto comodo si lavorava il weekend e più o meno si guadagnava 400 euro al mese. Poi è sempre andato peggiorando e ora non conviene più”. Poi ha lavorato in un forno. “Tre notti a settimana, ma il proprietario voleva che lavorassi lì tutta la settimana e per me era poi difficile mantenere l’altro lavoro”. E poi di nuovo in pescheria da Eataly. “Lì mi piaceva proprio, ma mi hanno fatto solo un contratto da un mese sotto le feste e poi mi hanno detto che non ero adatta. Se era vero? Non lo so francamente mi sembrava di aver imparato abbastanza”. Adesso è approdata ad un lavoro in mensa. “Sono 15 ore a settimana, che andrebbe bene per me - dice Lucia - il problema è capire dove. Durante il colloquio mi avevano detto che sarebbe stata in zona Monteverde, in realtà mi stanno mandando anche molto lontano. Se devo andare fuori raccordo metterci due ore di viaggio più la benzina, quanto mi conviene?”. Lavoratori? Prrrr! - E poi ci sono le crisi famose, le aziende “troppo grandi per fallire” o le truffe vere e proprie che hanno lasciato a casa 50enni troppo giovani per andare in pensione e troppo vecchi per lavorare. Gianluca Usliga dice che lui andrà comunque al corteo del primo maggio: “Gli striscioni ce li ho ancora”. Come ex Embraco? “Ho tolto l’ex, noi siamo Embraco ma la casa madre era Whirlpool”. Il 5 aprile c’è stata la fine del processo che ha riguardato quella che era l’Embraco di Riva presso Chieri (Piemonte), il giudice per le udienze preliminari hanno accolto la richiesta di patteggiamento dei dirigenti della Ventures la società italo-israeliana che avrebbe dovuto rilanciare l’Embraco con la produzione di pannelli solari e invece ha “distratto, occultato, dissimulato e dissipato” parte dei soldi destinati alla reindustrializzazione del sito. Gaetano Di Bari, la figlia Alessandra, il figlio Luigi e il procuratore speciale Carlo Noseda hanno preso 4 anni per bancarotta fraudolenta. “Una vergogna - ringhia Gianluca - questi ci hanno truffato e se la cavano così. Forse non avremmo dovuto sederci al tavolo quando sono arrivati, ma quando mai un ministro (Carlo Calenda, ndr) viene in fabbrica per fare un accordo? Ci siamo fidati”. Invece dal 2018 al 2019 questi soldi non sono mai finiti nella fabbrica e alla fine, dopo anni, sono rimasti a casa 400 lavoratori la maggior parte dei quali ha patteggiato un risarcimento di 7 mila euro, Gianluca non ha firmato con un altro gruppetto sta continuando la causa civile. Usliga si sente fregato da tutti, sindacati politici: “Io sono leghista da sempre, ho strappato la mia tessera di fronte a Salvini”. Adesso ha ancora la Naspi, fino a gennaio 2024, nel frattempo cerca lavoro. “Ho fatto 100 colloqui, tramite agenzia interinale, sono formato, ho trent’anni di esperienza, ma quello che capisco è che sopra i quaranta non assumono”. Se la cava perché ha casa di proprietà e non ha famiglia: “Certo non faccio vacanze da non so quanti anni”. Per ora prende 800 euro al mese e se la cava, ma poi? Volare via dall’Italia - “Le mie figlie le sono terrorizzate dall’opzione di restare in Italia, una ha fatto l’Università in Olanda, l’altra sogna di andare negli Stati Uniti”. Elena Mombelli, 56 anni, come tanti dipendenti Alitalia vive al mare a Fregene, per 27 anni ha lavorato come coordinamento terra per il traffico domestico. In pratica organizzava orari e destinazioni degli aerei, non un lavoro da poco. “Mi piaceva il lavoro e tutti noi ancora sentiamo una forte appartenenza all’azienda”. Nel 2014 arriva Etihad in Alitalia e ci sono 1800 licenziamenti. “Abbiamo fatto causa perché erano stati fatti proprio in maniera vergognosa”. Non tutti hanno fatto causa, l’azienda ha giocato sulla paura di perdere l’occasione di andare via con qualche soldi e molti hanno firmato prendendo 10 mensilità. Elena ed altri no e hanno vinto in molti. “Io sono stata fortunata sono stata reintegrata dopo il primo grado e 5 anni di processo”. In questi 5 anni Elena è stata coperta con un sussidio di disoccupazione del Fondo di trasporto aereo, due anni dalla mobilità e un anno non ha preso niente. Per fortuna il marito, pilota per Alitalia, lavorava. “Mi hanno reintegrato nel novembre 2019 fino al 15 ottobre 2021 quando è arrivata ITA che ha mandato a casa quasi 4000 persone”. La beffa vera non deriva neanche dall’ennesima cassa integrazione. Il problema è che nel 2020 le arriva una cartella INPS in cui si richiedono indietro i 4 anni di contributi sociali che aveva ricevuto. Circa 100mila euro “è tutto quello che mi hanno dato negli anni, tra l’altro lordo”. Il motivo lo spiega Antonio Amoroso della CUB trasporti: “La riforma Fornero del 2012, tra le altre cose, ha cambiato le modalità per il reintegro di lavoratori che vincono le cause per licenziamento per giusta causa”, e dopo il jobs act, continua, ottenere reintegri per giusta causa è quasi impossibile. “Prima se si veniva reintegrati venivano versate tutte le mensilità, con la Fornero il datore di lavoro versa solo un anno di mensilità, ma è rimasta la parte della vecchia legge che impone al lavoratore in caso di reintegro di restituire il sostegno sociale ricevuto”. Il problema è che con gli stipendi riavuti indietro era possibile, senza no. “L’idea era quella di far durare i processi un anno, ma evidentemente non è così”. Epopea dei percettori di RdC - “L’Italia non può essere una Repubblica fondata sul Reddito di Cittadinanza” sentenziava recentemente la presidente del Consiglio e nel Decreto di oggi una larga parte è destinata alla ridefinizione, verso il basso, del RdC che verrà chiamato “assegno di inclusione”.n”Io ho fatto la domanda nel 2019 - racconta Pasquale D’Amato, Palermo - appena è stato possibile. Facevo il venditore di frutta abusivo, prendevo la frutta al mercato alle 5 del mattino e fino alle 9 di sera la vendevo per strada. Ogni giorno guadagnavo dai 20 ai 25 euro”. Pasquale ha smesso di studiare presto ed è andato subito a lavorare per gli orto frutta da ragazzino, si è fatto anche un po’ di prigione ma assicura: “Dal 2006 sono a posto”. Ma il lavoro oltre a quello lì non ce n’è, tanto che nel 2018 ha subito anche uno sfratto esecutivo, lui la moglie e il figlio piccolo. “Quando ho iniziato a prendere il reddito, insieme ad altri percettori abbiamo fondato un’associazione “Basta volerlo” e ci siamo messi a fare volontariato in città. Puliamo le strade, facciamo lavori nelle scuole, ci autotassiamo per comprare il materiale e paghiamo un’assicurazione. Ci sentivamo di dover restituire alla società quello che ricevevamo”. In questi tre anni nessuno l’ha chiamato per un lavoro, ha fatto tre corsi di formazione come carrellista, inglese per il business e sicurezza sul lavoro. “Questo governo conosce benissimo la situazione in Sicilia, la destra ci governa da che io ricordo. Qui lavoro non c’è, è inutile che mi si dica che sono occupabile”. Martina, Lucia e le donne violentate: ferite e lasciate senza cure di Flavia Amabile La Stampa, 1 maggio 2023 In Italia psicologi meno presenti rispetto alla media Ue. In prima linea resta il personale dei centri antiviolenza. “Le ferite interiori sono più difficili, a quello devi pensare da sola”, ha detto Martina Mucci, in un’intervista rilasciata a Filippo Fiorini sulla Stampa di due giorni fa. Per superare il trauma delle violenze subite dal suo ex fidanzato ha provato a rivolgersi a un’associazione contro la violenza di genere ma - ha spiegato - l’associazione le ha consigliato uno psicologo a pagamento e lei non può permetterselo. In realtà l’assistenza esiste ma bisogna rivolgersi ai centri antiviolenza, spiegano le persone che si occupano di questo da anni. Chi sceglie percorsi diversi si trova di fronte al sistema sanitario nazionale con tutte le sue eccellenze ma anche le carenze. “In Italia la psicologia è un lusso - conferma David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi -. La carenza denunciata dalla donna non è un caso raro, purtroppo nel servizio sanitario pubblico accade di frequente che non si riesca ad accedere a una prestazione psicologica per tutte le necessità di assistenza, non solo quelle delle donne che hanno subito violenze. L’Italia ha uno standard di presenza di psicologi e psicoterapeuti che è un terzo di quella degli altri Paesi europei. È una carenza grave, ma non è stato preso alcun provvedimento per questo fenomeno che è sotto gli occhi di tutti”. Una carenza grave. Come scrive l’opinionista Michela Marzano nel commento pubblicato sul giornale di ieri, “nulla sarà a posto finché lo Stato non prenderà in carico, oltre alle cure mediche, pure l’accompagnamento psicologico delle vittime”. Non sarà facile. Roberta Bommasar, consigliera dell’Ordine degli psicologi: “I servizi di assistenza psicologica dei centri antiviolenza sono distribuiti in Italia a macchia di leopardo. Possiamo trovare situazioni dove questa reazione è rapida e adeguata e altri in cui i servizi invece non danno le risposte che dovrebbero”. Valeria Valente, ex presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni violenza di genere, sottolinea quale dovrebbe essere il percorso da seguire: “Una donna che ha subito violenza dovrebbe rivolgersi innanzitutto a un centro antiviolenza. Sono le strutture che possono offrire l’assistenza mirata, specializzata e sempre gratuita. Se, per qualche motivo, una donna non vuole rivolgersi a un centro antiviolenza può fare riferimento alla sanità pubblica. In quel caso l’assistenza psicologica è una prestazione sanitaria come le altre, quindi si va dal medico di famiglia, si spiega qual è il problema, si ottiene l’impegnativa per fare la prenotazione di una visita specialistica e si paga soltanto il ticket come per ogni altra visita”. Lo stesso consiglio arriva da Luisanna Porcu, psicologa, operatrice di un centro antiviolenza della rete D.i.Re. “Non tutte le psicologhe possono sostenere donne sopravvissute alle violenze ci vuole una formazione specifica. Come non si va a farsi curare un problema all’occhio da un ortopedico così per i traumi dovuti alle violenze c’è bisogno di una figura specializzata che nei centri antiviolenza opera in modo del tutto gratuito”. Le associazioni: “Non servono militari a ogni angolo, ma lampioni e mezzi pubblici h24” di Viola Giannoli e Miriam Romano La Repubblica, 1 maggio 2023 Dopo il caso della donna violentata in ascensore alla stazione Centrale, le proposte del gruppo Non una di meno di Milano: “Sportelli antiviolenza in tutte le stazioni, corsi su stalking e molestie, spazi dove rifugiarsi in caso di pericolo”. Le telecamere ok, ma servono solo dopo, per inchiodare gli stupratori. Le forze dell’ordine sì, ma non possono essere ovunque. Lo spray al peperoncino va bene, ma non è detto che si riesca a tirarlo fuori dalla borsa. I dispositivi che suonano a tutto volume in caso di pericolo certo, ma non possiamo tenerli sempre in mano. “Per sentirci sicure non vogliamo solo i militari all’angolo, ma una città dove i servizi in stazione siano aperti anche la notte, dove i mezzi pubblici funzionino h24, dove la sicurezza sia prevenzione, educazione sessuale, al consenso, al rispetto, formazione degli operatori pubblici, dei gestori e dei lavoratori dei locali e del personale del trasporto pubblico, dove il numero antiviolenza 1522 sia affisso dappertutto”, dicono le transfemministe di Non una di meno di Milano. “Viola walk home” - Da qui e dalla Lombardia sono arrivate la maggior parte delle 9mila risposte a un ricerca di “Viola walk home”, startup italiana che si occupa di violenza di genere che racconta come 9 donne su 10 non si sentano sicure sulle banchine e nei vagoni e una su 4 qui abbia subito molestie. Per questo alle Ferrovie dello Stato una delle fondatrici della startup, Ilaria Saliva, ha proposto “formazione sulle violenze sessuali allo staff delle stazioni e l’istituzione di Punti Viola, presidi sicuri nei bar e nei negozi accanto ai binari dove le donne possano rifugiarsi se si sentono in pericolo, insegnando ai dipendenti cos’è lo stalking, cosa una molestia e come comportarsi con vittime e abusanti”. Intanto “Viola walk home” le donne le accompagna a destinazione appena scese dai treni con una videochiamata gratuita grazie a una rete di volontari pronti a rispondere dalla pagina Instagram della startup, un deterrente immediato per gli aggressori. I City Angels le accompagnano invece sottobraccio, dal vivo, e negli ultimi giorni, dopo lo stupro in Centrale, “le chiamate di aiuto di donne per farsi portare a casa o per un breve tragitto dalla stazione sono triplicate”, racconta Mario Furlan, volontario che prova a essere dappertutto, ma non è un supereroe. È che di servizi così ce ne vorrebbero un’infinità, come le luci, le telecamere collegate al pronto intervento, le pattuglie, il personale o un centro anti-violenza, come chiedono le attiviste, in ogni stazione: che però in Italia sono più di duemila. “Lanciamo una campagna che comunichi con la città” - “Una città come Milano dev’essere in grado di creare un contesto sociale di sicurezza: bisogna individuare i luoghi che possono essere pericolosi e tenerli d’occhio”, dice Manuela Ulivi, avvocata della Casa delle donne maltrattate di Milano. “È il momento di fare rete, di creare un filo diretto tra tutte le realtà del territorio e di formalizzare un patto tra le associazioni, lanciando una campagna di comunicazione per la città che spieghi quali sono gli strumenti a disposizione di tutte per sentirsi più sicure”, rilancia Diana De Marchi, presidente della commissione Pari opportunità del Comune. “Quel che serve sono processi rapidi e condanne importanti” - Altro che opuscoli antistupro. “I numeri aumentano anche perché ora le donne chiedono aiuto più frequentemente, hanno più coraggio di parlare - spiega Alessandra Kustermann, oggi presidente di Svs Donna aiuta donna - Ma dirci di stare in casa o di non camminare libere per strada non fa altro che aumentare i sensi di colpa e di vergogna delle vittime. Quel che serve sono processi rapidi, condanne importanti, per gli stupratori non dev’esserci più impunità”. Lucia Annibali: “Serve anche un sostegno economico, le vittime devono ricostruire la loro vita” di Maria Berlinguer La Stampa, 1 maggio 2023 L’ex parlamentare di Italia Viva: “Investire su prevenzione e protezione. Un pronto soccorso psicologico? Sì, ma con interventi strutturali”. Martina Mucci, massacrata di botte da due sicari ingaggiati dall’ex fidanzato per 400 euro, dice che è più difficile guarire dal trauma psicologico che dalla violenza fisica. Un centro anti violenza le ha consigliato uno psicologo, ma a pagamento, e lei non crede di poterselo permettere. Possibile che le donne non abbiano diritto all’assistenza psicologica gratuita? “Non sarei così drastica”, dice Lucia Annibali, ex parlamentare di Italia Viva, che ha raccontato la sua terribile storia di violenza in un libro scritto con Giusi Fasano, “La mia storia di non amore”. “Ci sono certamente dei centri che aiutano e che danno anche un sostegno psicologico. È vero però che il percorso di recupero alla fine si deve fare un po’ da soli. Le forze per reagire bisogna trovarla sostanzialmente dentro di sé. C’è chi può avere bisogno di sostegno psicologico, però la solitudine la si sente”. Lei, dopo essere stata sfregiata con l’acido dai sicari assoldati dal suo ex fidanzato, ha avuto bisogno di un sostegno psicologico? “In ospedale, al Centro grandi ustionati dove sono stata ricoverata, avevo la possibilità di un sostegno psicologico. Durante la degenza c’era una psicologa che mi veniva a trovare e con la quale mi confrontavo. Dimessa dall’ospedale ci ho provato, ma non mi sono trovata bene. Non è facile trovare un interlocutore che sia adeguato rispetto a questi casi. Io ero impegnata soprattutto sul fronte fisico a recuperare, ma non è detto che dall’altra parte ci sia sempre qualcuno che è in grado di capirti e di capire le tue caratteristiche. Non tutte le vittime reagiscono allo stesso modo di fronte a un trauma”. Però dovrebbe essere giusto poter scegliere... “Sì certo, un percorso terapeutico può servire. Trovare qualcuno che sia capace di farti capire cosa stai vivendo e qual è la situazione ancora di più. Ma quello che davvero servirebbe è un’azione di prevenzione e di protezione. Ci sono i centri antiviolenza che sono un punto importante, ma sono ancora troppo pochi e non sono raggiungibili per tutte. C’è un problema territoriale”. Una violenza dentro la stazione di Milano si può e si deve prevenire, potenziando i controlli, ma come si fa a prevenire la violenza cieca di un ex fidanzato che fa sfregiare una donna? “Quando vivi una storia così complicata potersi confrontare con qualcuno servirebbe molto. Se per esempio una ragazza potesse rivolgersi prima a un centro antiviolenza questo sarebbe importante. Spesso le donne tendono a sottovalutare i segnali di pericolo. Non è facile distaccarsi da un sentimento emotivo e spesso l’altra persona non lo permette. E vorrei aggiungere che non serve solo un sostegno psicologico ma anche un supporto economico. Rispetto al dopo manca ancora qualcosa di più strutturato”. Sostegno economico per affrontare le cure fisiche? “Il sostegno economico serve anche per trovare una casa, cambiare lavoro. Questa ragazza per esempio è stata aggredita nell’androne della sua casa. C’è spesso una ricostruzione complessiva della propria vita che si è costretti a fare per questo sarebbero necessari aiuti più complessi. Su tutti i fronti. Psicologico, emotivo, economico”. Quando legge queste storie cosa prova? “Sono sempre storie che mi colpiscono tantissimo per questa violenza sempre più forte. Vivo queste vicende con sofferenza, dispiacere e partecipazione”. Non si potrebbe immaginare un soccorso di emergenza psicologica come quello proposto per i ragazzi dopo il Covid? “Si. Però l’investimento dovrebbe essere strutturale”. Come si fa? “Intanto studiando questo tema e poi imparando molto dalle esperienze delle donne”. Questo governo le sembra attento al tema della violenza? “Spero di sì, ma l’importante è reperire risorse perché senza risorse non si riesce a realizzare nulla”. La parentela mafiosa è insufficiente a negare il controllo giudiziale di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2023 I legami familiari di soci e amministratori con soggetti collusi con la criminalità organizzata non rendono di per sé l’impresa “irredimibile” e il Tribunale sezione misure di prevenzione non può respingere una richiesta di sottoposizione al controllo giudiziario volontario avanzata da una società colpita da interdittiva, affermando che i rapporti di parentela prefigurano non un rischio di infiltrazione ma una più grave condizione di intraneità alle dinamiche mafiose. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n.15156 dell’11 aprile scorso. Secondo la Cassazione “l’equazione tra rapporto familiare e comunanza degli interessi economici, in assenza di indicatori di conferma, ammette deroghe e finisce con il risultare meramente congetturale”. E necessaria, quindi, verificare in concreto e in modo specifico l’influenza del soggetto pericoloso sulla attività economica. E sulla base dell’intensità, eventuale, maggiore o minore, di questa influenza stabilire se l’impresa sia “bonificabile” o imponga più gravosi interventi preventivi. L’imprenditore colpito da un’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto può chiedere al Tribunale sezione misure di prevenzione - dopo avere impugnato il provvedimento prefettizio dinanzi al Tar - di proseguire la sua attività sottoponendosi a controllo giudiziario ai sensi dell’articolo 34bis del decreto legislativo n.152 del 2011 (codice antimafia). L’istituto, introdotto con la legge di riforma del 17 ottobre 2017 n. 161 e oramai oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, comporta, come ha affermato Cassazione con la sentenza 9122/2021, una moderna “messa alla prova aziendale” per una tutela recuperatoria contro le infiltrazioni mafiose. Il controllo giudiziario delle aziende può essere disposto dal Tribunale, anche d’ufficio, per un tempo non inferiore ad un anno e non superiore a tre, quando l’agevolazione ai soggetti pericolosi sia occasionale e sussistano circostanze di fatto da cui desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività. Il sesto comma dell’articolo 34bis prevede anche il controllo giudiziario volontario, applicabile su richiesta di chine sarà destinatario. Vi può fare ricorso l’imprenditore che non abbia subito e non possa subire l’applicazione di una misura di prevenzione più grave ma che patisca gli effetti di un’interdittiva antimafia (o anche del diniego di iscrizione alle white list, come ha di recente affermato Cassazione 2156/2023). Milano. Ragazzi dentro. Viaggio nel carcere minorile Beccaria di Luca Fazzo Il Giornale, 1 maggio 2023 La cosa peggiore? “Il cibo. Però qui non è che ci hanno invitato loro. Ci siamo invitati da soli”. Il ragazzo è rasato, i muscoli che guizzano sotto la maglietta. Nel cortile polveroso del carcere, sfaccenda insieme a un coetaneo intorno agli attrezzi da giardiniere. Dieci del mattino di un giorno qualunque, nella sfilza di giorni tutti uguali che dà la prigione. Il Beccaria, il carcere minorile di Milano, non fa eccezione. A tutte le latitudini, a tutte le età, dare un senso al tempo è la sfida dell’istituzione carcere. Lo è di più qui dentro, dove arriva la prima risacca del disagio e del degrado della metropoli, e dove costruire una ipotesi di futuro per il “dopo” è l’unica chance per non ritrovare gli stessi ragazzi tra qualche anno a San Vittore o a Opera, transitati senza soluzione di continuità dal reato occasionale al mestiere di delinquere. Per questo serve imparare a fare andare le mani, a cucinare, a curare un prato. “Ma soprattutto mi serve imparare a parlare”, dice K., senza alzare gli occhi dal bancone dove cabla interruttori per ascensori. Parlare, comunicare, interagire. È anche questo che è mancato fuori. La incapacità di relazioni reali ne ha fatto dei fragili: “Sono dei fragili - racconta chi lavora dentro il carcere - e la loro impulsività, la loro aggressività, è l’altra faccia della fragilità”. Accadono cose terribili, come il ragazzo arrivato con i barconi dalla Libia, finito qui in cella e torturato e abusato in agosto da tre coetanei. E cose insensate, come i sette che a Natale evadono senza troppo sforzo e poi fuori non sanno cosa fare, due di loro si ripresentano al portone blindato per riconsegnarsi al carcere, gli altri vengono inevitabilmente ripresi. “L’impulsività, l’incapacità di affrontare le minime contrarietà, è sempre pronta a esplodere”. E su questo mix aleggia la solita domanda: a cosa serve, tutto questo carcere? Dissuasione, vendetta, recupero? “A me la galera è servita, se no sarei ancora fuori a fare il coglione - dice R. - la galera è il male, ma dal male io ricavo il bene. Quello che facevo fuori è tutta colpa mia, il contesto sociale non c’entra”. Accanto a lui, M: “Fuori ci sono la libertà, la ragazza, gli amici. Te ne rendi conto quando sei qui dentro. E impari anche a riconoscere i veri amici”. Qual è la cosa peggiore? “La cosa peggiore l’ho già fatta”. È un piccolo mondo, il Beccaria di oggi. Tre quarti di carcere sono chiusi per lavori, riapriranno forse a luglio. Ventuno posti di capienza ufficiale, venticinque detenuti: sold out, non ci sono più letti, gli altri minorenni arrestati a Milano vengono spediti qua e là. Dei venticinque del Beccaria venti sono stranieri o italiani di seconda generazione. Come si convive tra etnie diverse? “Io sono italiano: ma meglio gli stranieri di certi italiani”. Non ci sono ragazze: il “femminile” più vicino è a Pontremoli, se una minorenne viene arrestata a Milano la spediscono lì, a duecento chilometri di distanza. Al Beccaria gli agenti non hanno divisa, con i ragazzi si danno del tu, l’unica a dare e ricevere il “lei” è il direttore. Reato prevalente: la rapina aggravata. Comune denominatore: droga alle spalle, pesante o pesantissima, quasi per tutti. Quando si legge sui giornali di rivolte, di materassi incendiati, a innescare la rabbia è quasi sempre la richiesta di farmaci. Se questo è il flusso in qualche modo inevitabile di quanto accade fuori, l’approdo di una metropoli dove viene arrestato un minorenne al giorno e dove le comunità di accoglienza rimbalzano o sono sature, ad aggravare il tutto ci sono le assurdità del sistema. C’è un principio apparentemente sensato: chi ha commesso un reato quando era minorenne può scontarlo qui anche se è maggiorenne, fino al compimento dei venticinque anni. La conseguenza concreta è che detenuti poco più che bambini - a oggi, il più giovane del Beccaria ha appena quattordici anni e mezzo ed è appena entrato - convivono con uomini fatti. Alcuni di loro tra il reato e la condanna hanno commesso altri reati, sono stati a San Vittore tra gli adulti, poi sono tornati al Beccaria a espiare la vecchia pena: ma si sono portati dietro l’esperienza, la cultura e i modi del carcere per adulti. Qui hanno fatto da scuola, che è proprio ciò che andrebbe impedito. La convivenza tra età diverse ha anche aspetti positivi. Mentre lavora in falegnameria P., che ha ventitré anni, racconta: “Con i ragazzini cerco di rapportarmi, di spiegare come si vive in carcere, di fargli capire che accumulare denunce e rapporti disciplinari non è una bella idea”. Anche la storia di P., a ben vedere, è una storia assurda: “La mia infanzia era da criminale, sono entrato qui a diciassette anni. Dopo un anno sono uscito, da allora non ho più commesso neanche un reato, per cinque anni ho fatto il regolare. Ma quando la mia condanna è diventata definitiva mi hanno riportato qui a scontarla. Purtroppo c’è qualche giudice che vive ancora nel suo mondo, e se non ci creiamo problemi da soli ci pensa lui a crearli”. Entrate al Beccaria, e dimenticatevi Mare fuori, la serie tv sul carcere minorile. Qui l’hanno vista tutti, e tutti concordano: “Magari il carcere fosse quello, sempre in giro, a fare quello che si vuole, a picchiarsi tutti i giorni, a uscire in taxi. Ci sono persino le ragazze”. Qui è tutto più semplice, più noioso, più brutto. G. ha i baffi alla Clark Gable, diciannove anni, sul dorso delle mani già il tatuaggio con i cinque punti della malavita: “D’altronde quella è una serie televisiva, non la realtà. La realtà è dura”. Fuori c’è una città che produce disagio, gli ultimi dati dicono che a Milano diecimila adolescenti sono in carico ai servizi sociali, e da lì al Beccaria il passo a volte è breve. Da una realtà dove quasi tutto è permesso si approda dove quasi nulla lo è; dalla vita attaccata allo smartphone si entra in un universo parallelo dove ogni telefono è vietato, e per ascoltare musica ci si affida alle chiavette infilate nel televisore. “Eppure - dice M. mentre prepara le orecchiette nel laboratorio di cucina - anche se è brutto dirlo sento che il carcere mi è servito, mi ha dato chance che prima non avevo”. H. ha diciassette anni, ha appena finito la lezione di matematica: “Fuori ho fatto degli sbagli, ma dovevo farli per forza perché non avevo niente, nessuna compagnia, non avevo da vestirmi o da fumare. Oggi sento di saper usare di più la testa”. Tutti uguali, tutti diversi, i ragazzi del Beccaria: l’abulico, lo sbruffone, il cupo. A dispetto di tutto sopravvive l’allegria incontenibile dell’adolescenza, la passione per la battutaccia, la sfida a calciobalilla con il giornalista e il fotografo, la playstation, e Povero gabbiano del cantante neomelodico Gianni Celeste a fare da colonna sonora delle pene d’amore reali e immaginarie. Ma la scorza del buonumore è sottile, e basta una parola sbagliata, una domanda inattesa a farli rabbuiare di colpo. Venti giorni fa il Garante comunale dei detenuti, Francesco Maisto, ha avuto parole pesanti per il Beccaria, “i ragazzi che sono in isolamento pranzano col piatto sulle ginocchia”. Dal carcere gli hanno risposto che i tavoli ci sono, e che quello visitato da Maisto è solo un reparto di transito. Ma - tavoli o non tavoli - tutti sanno che il problema vero è il dopo, e la vera domanda da fare ai venticinque del Beccaria è: hai un progetto, per quando sarai fuori di qui? C’è chi vuole fare il barbiere, il pasticcere, il rugbista. “Ma il mio vero progetto è non tornare qui dentro”. Maria Carla Gatto: “Impennata di arresti, solo a Milano 33 in un mese. I reati sempre più violenti” di Luca Fazzo Il Giornale, 1 maggio 2023 “Non si può più parlare di emergenza, ormai il disagio è diventato strutturale”: così il mese scorso Maria Carla Gatto, presidente del tribunale per i minorenni di Milano, aveva lanciato l’allarme sulla crescita esponenziale degli arresti tra gli under 18 nel capoluogo lombardo: in un solo mese trentatré minorenni finiti dietro le sbarre, più di uno al giorno. Confrontato con lo stesso periodo dell’epoca precedente alla pandemia, significa una impennata del 136 per cento. Un dato che da un lato porta a domandarsi cosa stia accadendo ai ragazzi di Milano, e dall’altro a prendere atto della insufficienza delle strutture destinate alla devianza minorile. Presidente Gatto, una crescita del 136 per cento in pochi anni è un dato impressionante. Ci sono speranze di invertire il trend? “La speranza di invertire il trend - risponde il giudice - sta nella nostra capacità di riuscire ad intercettare precocemente il disagio. Costruire alleanze per la prevenzione è l’obiettivo su cui tutti insieme dobbiamo puntare: tribunale, operatori sociali, servizi psicologici e sanitari, agenzie educative, forze dell’ordine e terzo settore”. Però nel frattempo i minori che incappano nel sistema penale devono fare i conti con strutture insufficienti e inadeguate. Il Beccaria ridotto a una capienza di 21 posti costringe a mandare molti ragazzi in carceri a grandi distanze da casa, rendendo quasi impossibili i rapporti con la famiglia di origine. Pensa che sia accettabile? “Quanto all’annoso problema connesso al ritardo nel completamento dei lavori dell’Ipm (Istituto penale per i minorenni, ndr) oggi posso dire che si vede finalmente la possibilità di riattivare, prima dell’estate, la struttura nel suo complesso e questo potrà garantire ai ragazzi di permanere nel territorio di appartenenza, di studiare progetti che coinvolgano più ragazzi e quindi rafforzare la rete tra dentro e fuori, indispensabile per favorire rieducazione, formazione e inserimento sociale. Naturalmente per realizzare progetti occorrono educatori e agenti in numero sufficiente ed adeguatamente formati”. La stragrande maggioranza dei minorenni detenuti al Beccaria è in attesa di giudizio. Non significa che dalla parte della magistratura c’è attualmente un uso eccessivo della custodia cautelare? “Purtroppo non c’è nessun eccesso nell’utilizzo della custodia cautelare: si riscontra sempre maggiore violenza nella commissione dei reati e la crescente dipendenza dei ragazzi dall’utilizzo di sostanze unita al disagio psichico rende gli interventi sempre più complessi”. Rimini. “Una giustizia che ricrea”. Intervista a Fiammetta Borsellino di Emanuele Polverelli buongiornorimini.it, 1 maggio 2023 Poco prima del commiato dalla città di Rimini, durante il pranzo finale con gli organizzatori, abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, protagonista, insieme a don Claudio Burgio e al dott. Roberto Di Bella, di due incontri decisamente toccanti il 26 e il 27 aprile. Fiammetta, i due incontri qui a Rimini, tra i tanti in cui sei protagonista in tutta Italia, cosa ti hanno lasciato? Per prima cosa ho trovato una comunità che vive un percorso molto intenso di vita. Lo dico per come sono stati preparati gli incontri ma anche per le esperienze sul territorio che ho avuto modo di conoscere, esperienze virtuose. E questo sicuramente il segreto dell’altissima partecipazione ed anche del livello degli interventi e delle domande durante i due incontri. Poi va detto che l’incontro con gli adulti ha permesso una riflessione più tecnica, sul tema della pena e del carcere, mentre con i ragazzi mi ha colpito la vivezza e la profondità delle domande, che volgevano più sugli aspetti umani implicati dal sacrificio di uomini come mio padre. Eri insieme a don Claudio Burgio e al magistrato Roberto Di Bella. Mi pare ci sia stata una bella sintonia con gli altri relatori... Sì. La magia di questi incontri è che a volte, pur non conoscendosi di persona ma perseguendo obiettivi comuni, quando ci si incontra è come se ci si conoscesse da sempre. C’è quell’essere veramente coordinati nel discorso che può sembrare preparato, ma non lo è. Nasce spontaneo, quando si va nella stessa direzione. Fiammetta, la tua vicenda è stata al centro della storia italiana e ancora presenta dal punto di vista giudiziario molte macchie, molti vuoti. La tua battaglia per una ricerca della verità, cosa ha da dire oggi, per le vicende odierne, per le problematiche del nostro paese? Purtroppo ciò che ha caratterizzato la strage di via D’Amelio, dove mio padre ha perso la vita insieme alla scorta, è molto simile a tanti eventi che sono caratterizzati dalle stesse oscurità, ovvero dall’impossibilità di raggiungere la verità sui mandanti. È un po’ come una storia che si ripete e tanti mi dicono “è successo sempre”. Ebbene, io questa cosa non l’accetto. Proprio perché si ripete, dobbiamo riflettere sul perché questo paese ha la memoria corta e soffre di amnesie. Proprio per i tanti depistaggi accaduti, si dovrebbe essere più attenti, ricordare, insistere. ?Non possiamo rinunciare al diritto alla verità. Rassegnarsi, per me sarebbe una sconfitta, sarebbe far morire mio padre una seconda volta. Il tema della ricerca della verità è un diritto irrinunciabile, che ci appartiene e che non può essere sepolto né dalle difficoltà, né dal tempo che passa. Molti tra i ragazzi, i quali peraltro hanno fatto tantissime domande (ben 94 prima dell’incontro ed altre 40 durante l’incontro, inviate agli organizzatori grazie ad un Qrcode), sentono una profonda sfiducia nei confronti della possibilità di “ripartire”, sia per quel che riguarda i carnefici, ma anche per se stessi. Si può cambiare? Gli assassini di suo padre potranno pentirsi? Certi cambiamenti avvengono, e avvengono indipendente dalla propria omertà. Non si è pentiti solo se si collabora fattivamente. Io credo nel cambiamento anche senza collaborazione. Tante volte uno non ce la fa a collaborare perché ha paura, paura per i figli, per se stesso, oppure perché non si libera da certi schemi. Ma questo non vuol dire che non ci sia in atto un percorso interiore. Questo percorso l’ho percepito in uno sguardo, in una compostezza di atteggiamento, da piccoli dettagli che vanno colti. I ragazzi fanno fatica a crederci, perché certe situazioni vanno sperimentate. Per questo l’impegno nel volontariato, confrontandosi con situazioni difficili, di disagio, aiuta moltissimo. Si comprende che il proprio darsi agli altri, ai fragili ai deboli a chi ha sbagliato, incide, è importante, opera il cambiamento che tutti desideriamo. Ma bisogno capirlo sul campo, non a parole. Capisco la loro fatica, dunque, e li invito all’impegno lì dove sono, nelle città, nelle scuole. Infine, con una battuta, cosa ti ha colpito di più durante i due incontri? Conoscere Di Bella e don Claudio è stato importante. Ho intravisto in don Claudio un sacerdote e in Di Bella un giudice dotati di un valore umano che è la vera origine del successo delle loro opere. Ma è impagabile la sincerità dei ragazzi. Loro, in maniera semplice e diretta non chiedono altro se non conoscere, nel senso più vero del termine. Vogliono quella sincerità che poi ricevono e offrono in momenti come questi. ? Spoleto (Pg). La parabola del tribunale: uffici deserti e la giustizia affonda di Francesco Grignetti La Stampa, 1 maggio 2023 Dodici anni fa la battaglia per conservare la sede, ora competente sull’Umbria centrale. Ma il ministero ha sbagliato del tutto i conti e non ha previsto forze adeguate ai compiti. Non sempre piccolo è bello. Nel caso dei tribunalini, ad esempio, gli indici dicono che le performance sono deludenti. E non è certo colpa di chi ci lavora, ma del sovrano disinteresse che li circonda. Si prenda il caso di Spoleto. Dodici anni fa, ai tempi del governo Monti, la sorte di questo ufficio di giustizia divenne un caso. Il taglio degli uffici minori sembrava condannarlo alla chiusura; così volevano il ministero e l’Associazione nazionale magistrati. L’idea era di concentrare gli uffici giudiziari nei capoluoghi di provincia e chiudere tutto il resto. Ma ci fu un parlamentare di qui, l’avvocato Domenico Benedetti Valentini, di Alleanza nazionale, che fece il diavolo a quattro e alla fine quaranta piccole sedi sopravvissero. Spoleto assorbì le competenze di Todi e Foligno, diventando il tribunale dell’Umbria centrale. Da 80mila a 217mila cittadini serviti. Peccato che contestualmente non abbiano adeguato le piante organiche, però. Chi lavorava a Todi e Foligno fu spostato a Perugia. “Per di più - racconta il presidente dell’Ordine degli avvocati, Pierino Morichelli - a fronte di una pianta organica sbagliata in partenza, sono subentrati gravissimi vuoti tra il personale amministrativo. Per molti anni chi è andato in pensione non è stato sostituito”. E così ormai la sede di Spoleto annaspa in un arretrato crescente. Merita di essere raccontata, la parabola di Spoleto, sopratutto ora che la maggioranza di destra-centro vuole rimettere mano alla geografia giudiziaria. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, ascoltatissimo dalla premier, lo teorizza: “C’è una chiara volontà del Governo di rivedere la scellerata ed infausta riforma della geografia giudiziaria”. Conferma il ministro Carlo Nordio, perplesso “sull’esito dell’operazione di “spending review” che ha portato alla riduzione degli uffici giudiziari sul territorio e che vorrei paragonare a quella negativa di alcune Regioni quando, in tema di sanità, si è privilegiata l’eccellenza di alcune strutture trascurando la medicina di prossimità”. Parliamone con chi è nella prima linea di questa giustizia di prossimità, allora. Si è accolti da una sede splendida, l’antico palazzo cinquecentesco Martorelli Orsini. Un fiore all’occhiello. Restauro da urlo. Ma bellezza architettonica non necessariamente fa rima con efficienza degli spazi. E poi mancano le forze. Anche se i magistrati ci sono, e anzi sono arrivati i rinforzi nelle ultime settimane, la macchina non può camminare alla velocità necessaria perché non c’è chi fa le fotocopie, controlla l’agenda, scartabella negli archivi, tiene in ordine la cancelleria, conteggia le liquidazioni, compila le schede, scarica dal sistema i provvedimenti, lancia gli applicativi. Su 19 assistenti previsti in pianta organica, ce ne sono 8 in servizio. Su 7 ausiliari previsti, sono appena in due. Racconta un pm che viene da una sede molto più grande: “Nel vecchio ufficio, ognuno di noi aveva una piccola squadra a disposizione. Qui facciamo noi magistrati il loro lavoro, per dare una mano”. Mancano i cancellieri, ed è un vero guaio perché per legge è indispensabile che nelle udienze penali il cancelliere sia presente in aula. Così il calendario delle udienze penali è scandito dalle presenze dei cancellieri, con buona pace della celerità della giustizia. “È tutto clamorosamente fermo - denuncia Felicia Russo, che coordina l’area giustizia per la Cgil. Le assunzioni dei nuovi cancellieri e direttori sono ancora bloccate. Ci dicono che si è in attesa di un Dpcm della Funzione pubblica”. Siccome poi i magistrati sono troppo pochi, a Spoleto si va avanti ancora con le sezioni promiscue. A seconda dei giorni, gli stessi giudici fanno il civile o il penale. Alla faccia della specializzazione. Si accumulano ritardi nel trasferimento dei fascicoli dal primo grado all’Appello. Il problema è perfino banale da raccontare: mancano le braccia. Commenta amaro il presidente degli avvocati, Morichelli: “Se si fanno le riforme e poi non si prevedono gli investimenti, è tutto inutile”. Eppure gli avvocati difendono le ragioni che hanno tenuto in vita Spoleto: “I colleghi delle città vicine, che all’inizio avevano visto in maniera non positiva questo tribunale dell’Umbria centrale, magari fanno un po’ più di strada, ma stanno apprezzando un tribunale a dimensione umana”. Se si scorre l’ultima relazione del procuratore generale dell’Umbria, Sergio Sottani, ogni volta che si tocca Spoleto è un pianto. “Mentre la Procura di Perugia nell’ultimo anno ha ridotto le pendenze nella fase delle indagini, una tendenza inversa si nota a Terni e più accentuato a Spoleto”. “Ufficio Gip: appare notevole l’aumento di pendenze dell’ufficio a Spoleto”. “Tribunale Collegiale: grave la situazione del Tribunale di Spoleto, dove l’aumento di pendenze si è maturato nell’anno 2020/2021 e, soprattutto, nell’ultimo anno”. “La durata dei processi nei tribunali di Spoleto e Perugia seguita a rimanere inquietante”. Ha annotato il procuratore uscente, Alessandro Cannevale a proposito della durata dei dibattimenti: “Può essere stata alimentata dalla gravissima carenza nell’organico dei Vice Procuratori Onorari (3 unità per 6 magistrati togati), e dai conseguenti, serratissimi ritmi di lavoro, che rendono difficile assicurare un approfondito contributo tecnico dell’ufficio requirente nella selezione dei temi e dei mezzi di prova rilevanti nel processo”. Un vero disastro di prossimità. Milano. Nel carcere di Opera dibattito su ergastolo ostativo e riforma Cartabia Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2023 Nicola Gratteri torna in Lombardia. Il procuratore di Catanzaro sarà a Milano, in alcuni comuni dell’hinterland, a Bergamo e Brescia per presentare “Fuori dai confini”, il suo ultimo libro firmato con Antonio Nicaso, edito da Mondadori. Il saggio sarà presentato il 15 maggio al liceo Bottoni di via Mac Mahon 96 a Milano, alle ore 14 e 30, e a Bergamo alle ore 20 e 30. Nella stessa giornata, alle ore 16 e 30, il magistrato sarà nel carcere di Opera per partecipare a un dibattito su ergastolo ostativo e riforma Cartabia, insieme a Piera Aiello, testimone di giustizia ed ex deputata e a Michele Di Sciacca, segretario generale aggiunto del Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria. A moderare il dibattito il giornalista de ilfattoquotidiano.it, Giuseppe Pipitone. Durante la sua trasferta lombarda Gratteri riceverà inoltre la cittadidanza onoraria dei comuni della provincia di MilanO: Canegrate, Albairate, Corsico e Vimodrone. Tutti gli eventi sono promossi ed organizzati dall’associazione culturale Su la Testa, presieduta da Luigi Piccirillo, ex consigliere regionale del Movimento 5 stelle. Collaborano all’organizzazione anche l’associazione Peppino Impastato e Adriana Castelli, presieduta da Silvia Gissi, Rete Antimafie Martesana, presieduta da Giovanna Brunitto, Tavolo AntiMafie di Canegrate e d’intorni e Rete Antimafia Brescia. Milano. La scomparsa di mons. Caniato, una vita al servizio dei carcerati chiesadimilano.it, 1 maggio 2023 Si è spento all’età di 95 anni nel reparto che ospita i preti anziani alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. I funerali saranno celebrati il 3 maggio. È scomparso nella notte tra sabato 29 e domenica 30 aprile, nel reparto che ospita i preti anziani alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone, mons. Giorgio Caniato all’età di 95 anni. Originario di Milano, don Giorgio aveva iniziato il suo ministero come prete dell’oratorio, prima a Casoretto e poi a Sant’Eustorgio. A soli 27 anni è diventato anche cappellano al carcere di San Vittore, ma aveva dovuto aspettare l’arrivo in Diocesi di mons. Montini, perché il cardinal Schuster lo considerava troppo giovane per quel delicato incarico. Dai racconti e dalla conoscenza dell’allora cappellano monsignor Cesare Curioni (in seguito ispettore generale delle carceri italiane), don Giorgio si era lasciato affascinare da quel ministero così particolare rivolto alle persone recluse. Un ruolo che fin dal 1955 ha svolto con passione, determinazione e severità. La lunga esperienza (42 anni) nell’istituto di pena di San Vittore, nel cuore di Milano, lo porterà, nel 1997, ad assumere l’incarico di ispettore dei cappellani, con nomina da parte della Cei, e a trasferirsi a Roma. Un impegno che lascerà solo a 83 anni, con tanto di lettera di ringraziamento verso tutti coloro con cui ha collaborato nei decenni. Mons. Caniato si è dedicato per oltre mezzo secolo alle persone che avevano commesso reati, ma di una cosa si era convinto: “Il carcere è una struttura anti-umana e anti-cristiana”. Se da un lato toglie la libertà, dall’altra nega anche “i diritti inalienabili e fondamentali”. E aggiungeva: “È vero che l’uomo è condannato alla pena del carcere perché ha commesso dei reati e anche gravi e ripugnanti, ma tuttavia rimane uomo e persona”. Quindi insisteva nel dire che “il carcere dovrebbe restare l’estrema ratio per chi non volesse riparare, restituire, ricostruire e volesse continuare a delinquere e quindi non volesse cambiare vita”. Nel 2000, in qualità di ispettore generale, mons. Caniato ha partecipato al Giubileo delle carceri celebrando la Messa accanto a papa Giovanni Paolo II nell’istituto di pena Regina Coeli. A ricordarlo oggi è anche don Raffaele Grimaldi, a sua volta ispettore generale dei cappellani in Italia: “Ha svolto con amore e passione il suo servizio accanto ai ristretti e a tutti noi cappellani. È stato un punto di riferimento per l’Amministrazione penitenziaria e in questa domenica, primo giorno della settimana, nel radunarci attorno alla Mensa del Signore, lo ricordiamo con la nostra fiduciosa preghiera… possa il Signore dare a lui il premio dei giusti e ricompensarlo per le sue fatiche”. Solo un mese fa don Raffaele e don Marco Recalcati, attuale cappellano di San Vittore, sono andati a fargli visita alla Sacra Famiglia dove risiede dal 2019. “È grazie a don Giorgio che è iniziato il servizio dei seminaristi a San Vittore”, racconta don Marco. La spinta è venuta proprio da lui e da altri tre compagni di teologia (Paolo Steffano, Enzo Barbante e Michele di Tolve), che fin dai primi anni di Seminario hanno voluto interessarsi alla vita del carcere. “Don Giorgio è venuto a trovarci in Seminario e così in seguito, in IV Teologia tre miei compagni hanno iniziato il servizio che continua tuttora”, assicura don Recalcati che solo anni dopo diventerà cappellano a San Vittore. Ancora oggi, quattro seminaristi varcano il portone di piazza Filangieri e affiancano don Marco e don Roberto Mozzi nella pastorale carceraria, sia nella liturgia, sia incontrando direttamente in colloquio le persone detenute nei reparti maschili e femminile. “Don Giorgio - conclude don Recalcati - è stato il cappellano che per la prima volta ha accolto 35 anni fa, i seminaristi in carcere, consapevole che fosse un’esperienza di servizio non a margine della vita del sacerdote”. Quando è diventato cappellano don Recalcati ha voluto incontrare don Giorgio e gli ha raccontato quanto tenesse, non solo al rapporto con i detenuti, ma anche con le istituzioni, che ancora oggi - chi lo ha conosciuto - ricorda la sua stretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria. I funerali di monsignor Giorgio Caniato saranno celebrati mercoledì 3 maggio alle 9 presso la chiesa dell’Istituto Sacra Famiglia a Cesano Boscone. Brescia. Una pizza al “gusto” di rinascita di Roberta Barbi vaticannews.va, 1 maggio 2023 La storia di Ciro Di Maio, originario di Frattamaggiore in provincia di Napoli, oggi titolare della pizzeria San Ciro di Brescia, che da qualche mese insegna ai detenuti della casa circondariale di Canton Mombello il mestiere di pizzaiolo, tra i più richiesti nel mondo. Il profumo è quello del lavoro sano, fatto di puntualità, dedizione e, perché no, anche un pizzico di fatica; il gusto è quello della soddisfazione di riprendere in mano la propria vita e poter dire, un giorno, di avercela fatta. È questa la pizza - rigorosamente napoletana - che Ciro Di Maio serve ogni settimana a sette allievi pizzaioli un po’ speciali, cioè i detenuti di casa Canton Mombello: “Lo faccio perché anche loro hanno diritto a una possibilità - racconta a Vatican News - io pure vengo dal nulla, da un contesto di case popolari in cui avevamo poco o niente, ma pian piano ce l’ho fatta”. Ma non è solo per questo che Ciro si è rimboccato le maniche e ha deciso di sporcare di farina il grembiule anche in carcere oltre che davanti al suo forno a legna; lo fa per rendere onore alla memoria del padre: “Mio papà in gioventù è stato una testa calda, poi ha incontrato le suore di Madre Teresa di Calcutta e ha iniziato a occuparsi con loro dei ragazzi difficili e dei tossicodipendenti - continua - ora non c’è più, ma è stato lui, con il suo esempio, a insegnarmi l’importanza di prendersi cura dei più fragili”. E per farlo Ciro ha scelto quello che meglio sa fare: la pizza. “Napoletana, mi raccomando - scherza - che va tanto anche a Brescia, ma in realtà va in tutto il mondo, anche per questo per i detenuti imparare a fare i pizzaioli è importante: così non saranno più numeri, magari in un’azienda qualunque, ma saranno padroni di se stessi, avendo una professione da spendere in tutto il mondo”. E infatti molti ristretti in più dei sette posti disponibili per il corso di Ciro, ne avevano fatto richiesta: “Ora sto valutando due giovani, un bresciano e un genovese, per il mio locale - ammette - ma naturalmente lo faccio assieme agli operatori del carcere che li conoscono meglio”. L’idea di Ciro, infatti, non si ferma qui: vorrebbe fare rete con gli altri esercenti della città non solo, per creare un sistema stabile di inserimento lavorativo per i ragazzi che escono, perciò lancia un appello accorato ai suoi colleghi: “Il problema della carenza di personale nel settore della ristorazione è una realtà da tempo e questo sarebbe anche un modo per risolverlo - afferma - io mi metto a disposizione, assieme al carcere, per fare da tramite tra questi giovani e le pizzerie. In merito sono già stato contattato da un mio collega di Brescia e da un’associazione di Roma”. L’esperienza di Ciro in carcere è molto positiva e ha contribuito ad abbattere anche qualche pregiudizio, in primo luogo i suoi: “Tutti quelli che stanno dentro hanno voglia di cambiare - è la sua testimonianza - sanno che imparare un lavoro dignitoso per poi cambiare vita è la cosa giusta da fare”. Non si sente migliore di loro, Ciro, e anche per questo il suo lavoro è molto apprezzato dai ragazzi: “Li guardo negli occhi, vedo i loro sbagli - conclude con la voce imbevuta di commozione - ma sono convinto che debbano avere un’opportunità, che anche per loro che non hanno avuto nella vita la fortuna di avere una famiglia che li guidasse, deve esserci qualcosa di bello là fuori”. Come una pizza che sa di rinascita. “Noi, 27 anni in carcere a lottare per la verità”. Così Sky riapre il caso dei “mostri di Ponticelli” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 1 maggio 2023 Tre bravi ragazzi, oppure i tre “mostri di Ponticelli”? Il riscatto che Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo vanno cercando da quarant’anni può passare soltanto dalla revisione di una sentenza che li ha condannati all’ergastolo con il sigillo della Cassazione, nel 1987: per i giudici furono loro gli assassini di due bambine di 7 e 10 anni, Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, abusate e uccise il 2 luglio 1983. Una vicenda che sconvolse l’opinione pubblica, e che oggi Sky racconta nella docu-serie “Il delitto di Ponticelli. L’ombra del dubbio”. I corpicini di Barbara e Nunzia furono trovati semi carbonizzati, l’uno sopra l’altro, come in un abbraccio. La ricerca durò solo un giorno: il terribile odore condusse subito all’alveo del fiume Pollena, nella periferia di Napoli, dove il delitto si manifestò in tutto il suo orrore. Chi poteva aver commesso una simile atrocità? L’autopsia evidenziò segni di violenza sessuale, i corpi riportavano ferite da arma da punto e taglio. “Opera di un sadico”, sentenziò il medico legale. E anche la caccia ai mostri partì subito: negli anni ‘80 i morti ammazzati dalla camorra erano all’ordine del giorno, ma quella notizia squarciò come un fulmine il Rione Incis di Ponticelli, dove le bimbe vivevano ed erano state avvistate per l’ultima volta. A Napoli lo conoscono tutti, il Rione Incis: è quel quartiere alle porte della città dove tutti sono figli di tutti, ci si dà una mano a vicenda. La brava gente imbottiglia le conserve di pomodoro o cuce i guanti per le signore della Napoli alta. Tutto per mettere insieme il pranzo e la cena, mentre i bambini scorrazzano liberi giocando a palla o alla campana. Non in quei giorni, però. Finché i mostri erano a piede libero bisognava tenere al sicuro i più piccoli, la tv fissa sul telegiornale. Fuori le sirene risuonavano ad ogni ora, si passava al setaccio il quartiere e quelli limitrofi. Posti di blocco ad ogni angolo, con la pesca grossa trascinata in caserma per i primi interrogatori. La prima pista - Furono in tanti a parlare, e all’inizio soprattutto i più piccoli: la prima pista arrivò da Antonella Mastrillo, che aveva visto Nunzia e Barbara per l’ultima volta alle 18 di quel tragico pomeriggio, mentre salivano a bordo di una 500 blu. Ad aspettarle c’era Gino, detto Tarzan, un tizio biondo e “tutte lentiggini”. Le piccole lo avevano già incontrato altre volte, come raccontò un’altra bimba, Silvana Sasso, che a quell’appuntamento del 2 luglio avrebbe dovuto partecipare. La famiglia però la tenne a casa, salvandole di fatto la vita. La caccia entrò nel vivo, gli inquirenti avevano finalmente un identikit. Che all’inizio sembrò corrispondere con quello di Corrado Enrico, un venditore ambulante noto nel quartiere. All’interrogatorio disse di essere solito adescare bambine, di avere problemi con l’alcol, il cui abuso lo portava “a compiere degli atti abnormi (atti osceni)”, come si legge nel verbale dell’interrogatorio. Ai piccoli del quartiere l’uomo dice di chiamarsi “Luigi” e offre loro “caramelle e gomme da masticare” allo “scopo di poter familiarizzare “. Barbara e Nunzia? “Ho appreso dal giornale circa 10 giorni fa della morte di due bambine uccise da un maniaco e bruciate. Sulla fotografia del giornale, o il Mattino o il Roma, ho visto la fotografia dei corpi delle due bambine che si presentavano abbracciate. Erano annerite dal fuoco e bruciate con la benzina...”, raccontò ancora Corrado descrivendo con dovizia di particolari il luogo del ritrovamento. Pur ammettendo di non saper leggere. E nonostante la foto dei corpicini delle due bimbe non sia mai stata pubblicata dai giornali. L’auto? Corrispondeva, una 500 blu. Ma non fu mai sequestrata, e l’uomo se ne sbarazzò subito dopo. Lasciando per sempre aperta una pista che oggi ancora tormenta Ciro, Giuseppe e Luigi. Furono loro a finire in manette, alla fine: chi si aspettava di acchiappare un mostro, si trovò davanti tre guagliuncelli tra i 19 e i 20 anni. La mano della camorra - La camorra entra in questa storia due volte. La prima sulla caserma Pastrengo di Napoli, dove furono interrogati anche i ragazzi per tre volte: la stampa lo definiva il “pentitificio”, per quell’andirivieni di collaboratori di giustizia che in questa vicenda hanno un ruolo centrale. “Tutto è cominciato lì sopra: le indagini avevano preso tutta un’altra piega, ma in quei quattro giorni cambiò tutto. Da testimoni, Giuseppe e Luigi divennero accusati”, racconta al Dubbio Ciro Imperante, che si trovò coinvolto nel caso per ultimo. A fare i loro nomi fu un altro ragazzo, Carmine Mastrillo, che raccontò di aver ricevuto la confessione da uno dei tre la sera del 2 luglio in discoteca. Nel giro di un’ora Giuseppe, Luigi e Ciro avrebbero quindi commesso il fatto, si sarebbero sbarazzati del corpo senza lasciare nessuna traccia, per poi vuotare il sacco. Tutto da soli? No, con l’aiuto di Salvatore La Rocca, il fratello di Giuseppe. Che alla fine confessò di aver avuto un ruolo nella vicenda, inchiodando i tre ragazzi alla loro condanna. Ma come si era arrivati a quel punto? Solo dopo si seppe che a parlare in realtà era stato il pentito Mario Incarnato, ex boss di Ponticelli, a cui Mastrillo avrebbe raccontato tutto. Parliamo del grande accusatore di Enzo Tortora, che in manette ci era finito nello stesso anno del delitto, il 1983. Fu proprio il giornalista a riproporre il caso anni dopo, una volta tornato in tv. Come Tortora anche i tre ragazzi avevano subito la “passerella della vergogna”: uscirono in fila davanti alle telecamere dopo aver passato un’ora in piedi, faccia al muro, “massacrati di botte, ridotti in stracci”. “Facemmo un giro in macchina prima di arrivare in carcere - racconta Ciro - io ero in stato confusionale. La gente ci sputava addosso, una cosa inumana”. La storia dei ragazzi proseguì in carcere, dove si allestì un processo “parallelo” che si risolse nell’assoluzione. Lo raccontano loro: “Ci fu una riunione tra camorristi, per decidere la nostra sorte: morire o campare”. Camparono. Intanto Salvatore La Rocca aveva ritrattò la sua confessione: disse che gli era stata estorta con la violenza. E anche gli altri tre parlano di “tortura”, delle pressioni subite sulla caserma Pastrengo, da cui uscirono mezzi rotti: lo certifica anche un referto medico del 5 settembre 1983, al primo ingresso nel carcere di Poggioreale. Anche Mastrillo ritrattò in aula, per poi ritrattare nuovamente subito dopo, con un incredibile colpo di scena che segnò la fine del primo capitolo giudiziario. La pressione mediatica - “Ergastolo per i mostri”, tuonava la stampa ricalcando la richiesta dell’accusa al processo. Era partito il circo mediatico: i giornali non risparmiarono nulla ai tre ragazzi dopo quel tragico ‘83, e quelle accuse ora tornano sui media in forma di dubbio, come un boomerang. “È successo per colpa vostra, voi avete manovrato l’opinione pubblica”, scandì Ciro La Rocca parlando coi giornalisti dopo la condanna in primo grado. Già allora sembrò impossibile credere che tre ragazzi di buona famiglia avessero commesso un delitto simile: del maniaco non avevano l’aspetto. Ma era una ragione valida per dubitare? La caccia aveva dato i suoi frutti, e la fretta di braccare il colpevole - complice l’imperativo dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini - giustificava qualche leggerezza. Perché la pista di Corrado Enrico, e le altre che seguirono, non furono battute fino in fondo? Solo con la lente di oggi certi errori nelle indagini sembrano evidenti. Per come li mette in fila la docu-serie Sky Original, prodotta da Sky e Groenlandia e scritta da Matteo Billi, Emanuele Cava e Shadi Cioffi, per la regia di Christian Letruria. Sono in tutto quattro episodi, disponibili dal 22 aprile su Now, che ripercorrono con grande accuratezza l’intera vicenda giudiziaria su cui ora pende un terribile interrogativo: e se quei ragazzi fossero davvero innocenti, come si proclamano da quarant’anni? Potrebbe trattarsi di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia del nostro paese, come suggerisce anche la serie tv attraverso le voci dei protagonisti e delle figure che via via hanno seguito il caso, dalla stampa alla difesa, fino all’allora magistrato e senatore Ferdinando Imposimato, che persuaso dell’innocenza dei ragazzi portò avanti la battaglia per la prima revisione del processo. Un istituto posto a tutela dell’innocente, come spiega nella serie tv lo stesso avvocato di parte civile Alfonso Furgiuele, “a condizione che in via del tutto eccezionale emergano elementi che abbiano la forza probatoria per screditare totalmente un accertamento realizzato secondo le regole del processo dell’epoca”. Una nuova vita - Dal 2015 Giuseppe, Luigi e Ciro sono uomini liberi. Hanno pagato il loro conto con la giustizia, dopo 27 anni di carcere. Hanno un lavoro e una famiglia tutta loro. E mai, in questi anni, hanno messo in dubbio l’amicizia che ancora li unisce. Neanche nei momenti peggiori, quando il tempo in cella non passava mai e la prospettiva della morte sembrava migliore della morte in vita, dell’ergastolo. Hanno patito insieme anche la fame, nei venti giorni di digiuno che in nome della battaglia per la verità li ha ridotti in fin di vita. “Se dovessi rivivere tutto quello che ho passato non ce la farei, mi toglierei la vita. È stato un inferno”, dice Ciro. Che la forza di andare avanti l’ha trovata grazie alla “speranza che prima o poi la verità venga a galla”. Una speranza che i tre ragazzi, dopo tre richieste di revisione respinte, ora ripongono nella commissione parlamentare antimafia che si è occupata del caso nella scorsa legislatura: i lavori dovrebbero riprendere entro maggio, con l’audizione dei testimoni chiave. “Hanno ammazzato tre persone, anche se siamo vivi, dentro ci hanno ammazzato”, dice ancora Ciro. “Ho 60 anni, la mia vita va verso il tramonto - aggiunge -. Ho una moglie e un figlio che adoro. Avrei potuto lasciar perdere, che interesse avrei a tornare sui giornali? Ma fermarci è impossibile, abbiamo lottato per tutti questi anni e non possiamo smettere ora. Voglio giustizia: per la mia famiglia, e per mio padre, morto con la speranza che suo figlio finalmente ottenesse giustizia”. “Ipersonnia”. Quell’Italia distopica che lascia marcire i detenuti ci ricorda il dovere di una pena più umana di Shadi Cioffi Il Dubbio, 1 maggio 2023 Dopo aver visto Ipersonnia, prodotto da Ascent Film, Nightswim con Groelandia e disponibile su Prime Video dallo scorso gennaio, un senso di vertigine e vuoto pervade lo spettatore. Dopo aver realizzato che la sceneggiatura nacque, vincendo il premio Solinas 2011 nella categoria Experimenta, dieci anni prima della distribuzione del film, questo senso di vertigine si amplifica. L’attualità delle tematiche trattate non viene scalfita dal tempo, nonostante dieci anni siano tanti oggi come oggi nel mondo dell’audiovideo. Forse nel 2011 Mascia sarebbe passato per visionario, adesso invece la sua opera prima apre uno squarcio nella mente e ci costringe a fare i conti con un universo narrativo non troppo distante da ciò che viviamo ogni giorno. Come in un romanzo di Philip K. Dick, Ipersonnia racconta la manipolazione della società da parte del potere. Al centro del progetto c’è un genere monopolizzato o quasi dal cinema americano, ma con un attore protagonista, Stefano Accorsi, a muoversi su un terreno ancora inesplorato nella sua carriera: la distopia. Ed è un’Italia distopica appunto, seppur non ancora apparentemente così disastrata, quella proposta in questo gelido e orwelliano universo: un’Italia fredda, asettica, impersonale, nella quale, in un prossimo e tutt’altro che improbabile futuro, per far fronte alla piaga del sovraffollamento carcerario lo Stato pare aver deciso, sotto la guida del Ministro Costa (Tony Laudadio), di optare per il rivoluzionario programma Hypnos. Hypnos prevede la criogenizzazione forzata in sonno profondo dei detenuti, al fine di ridurne la recidività e i costi di mantenimento. Lo psicologo David Damiani (Stefano Accorsi), responsabile del risveglio periodico dei condannati, si innamora di Viola (Caterina Shulha), moglie del detenuto 517 (Paolo Pieribon), un neurologo accusato forse ingiustamente di omicidio che parrebbe aver raccolto prove schiaccianti circa l’oscura entità del programma di criosonno. E sarà proprio l’efficiente e ignaro David a sperimentare a proprie spese le nefaste e inimmaginabili conseguenze di questo apparente complotto governativo, dimostrando come, in nome della sicurezza e del benessere collettivo, gli uomini di potere paiono disposti a sacrificare ogni cosa, anche il più puro e inviolabile valore dell’umana natura. La prima parte del film mette in scena la materia fantascientifica all’italiana, con asciutto, composto e ben riuscito minimalismo, forse anche per motivi di budget. La seconda metà trasforma la pellicola in un contorto guazzabuglio di sogni e realtà, come se la trama fosse il riflesso di una mente annebbiata e vittima delle conseguenze del criosonno. Pratica evidentemente tutt’altro che innocua e che accende i fari sulla terrificante decisione di stato di addormentare in una vasca chi sbaglia, o si presume lo abbia fatto, per poi dimenticarsi di lui per sempre, o quasi. Una barbarie non troppo distante dal 41bis e che affonda le sue radici ideologiche nel sogno insensato, folle e pericoloso, di eliminare del tutto la criminalità annullando la dimensione sociale e civile dei condannati. Einstein, un’ottantina di anni fa, disse che la realtà è una semplice illusione, sebbene molto persistente. I colori, i sapori, gli odori hanno in effetti quella forma solo nelle nostre teste, e continuano ad averla anche quando non li percepiamo più. In Ipersonnia si avverte tutto ciò quando vediamo il nostro protagonista e antieroe camminare sperduto sui binari di una società in cui tecnologia e morale hanno preso da tempo strade diverse. Ma gli ideali e i valori non appartengono alla fisica. Appartengono all’essere umano. Ipersonnia ci ricorda in ogni minuto dei 100 complessivi che l’evoluzione, il miglioramento e la sopravvivenza della nostra specie deve passare per forza dal tentativo di salvare, aiutare, ascoltare e accettarle. Ma mai correggere con la forza. Altrimenti la distopia sarà presto realtà. Altrimenti chiusura, mitismo e intolleranza ci precluderanno il sogno più grande: il futuro. Imparzialità: un’invenzione, ma cambia il mondo di Kwame Anthony Appiah La Stampa, 1 maggio 2023 Giudici, scienziati o amministratori sono obiettivi come tendono a mostrare in pubblico? Difficile, ma la loro performance in scena è importante: praticare l’equità ci rende più equi. Al centro di una stanza elegante, antica, ordinata con scrupolo, Andrea De Carlo siede alle spalle di due grandi finestre. Fuori, Milano. E il grigio che soltanto a Milano fa luce, sottolinea la strada. Perlato, opposto al “grigio persecutorio” che lui raccontava, trentatré anni fa, in Due di Due, il suo romanzo più amato sulla scoperta dello scarto che c’è tra cosa vorremmo essere e cosa riusciamo a essere. Dice che a colpirlo di più sono gli alberi fuori: nessun’altra delle cose preziose, belle, intriganti che riempiono il salotto lo cattura altrettanto. Nella prefazione a Il treno di panna, il suo esordio, Italo Calvino scrisse che De Carlo, allora ventisettenne, era l’unico autore giovane che il dentro lo mostrava dal fuori, che era “proiettato sull’esterno” e aveva “una insaziabilità negli occhi che bevono lo spettacolo del mondo”. Quarant’anni e 21 libri dopo, nel suo nuovo romanzo, Io, Jack e Dio, in libreria dall’8 novembre per La Nave di Teseo, De Carlo cerca ancora di capire il dentro dal fuori, uscendo. E racconta la storia di un uomo e una donna che si erano persi e si ritrovano, lei ferita e smarrita, lui ferito e deciso, lei sola e lui in una comunità di frati che hanno fondato un ordine minore: non una setta di estremisti ma otto radicali puri che provano a costruire un rapporto migliore con dio, anziché inventarne un altro. La chiave della storia è in una frase attribuita ad Annibale, che si legge a poche pagine dalla fine: “Se non esiste una strada, ne costruisco una”. De Carlo, ha scritto d’amore o di fede? “Soprattutto d’amore. Così mi si è presentata la storia: un’amicizia che ci mette anni a diventare quello che è, a chiamarsi con il suo vero nome e però proprio a quel punto, quando si svela, incontra un terzo incomodo, Dio, che da una parte scombina tutto e dall’altra, invece, tiene insieme i due piani di questa relazione, li integra”. Se le dicessi che, invece, il suo sembra soprattutto un libro di fede? “Forse perché entrambi i protagonisti, Jack e Mila, i due amici che si amano, cercano la verità. E la cercano anche i frati, anche quelli che vanno ad ascoltarli e quelli che li insultano e minacciano: tutti, anche i più reticenti”. Anche lei? “Anche io” La fede non è la fine della ricerca? “Ne è la guida. E l’ho imparato documentandomi per scrivere questo libro, che ho iniziato da non cristiano e ho finito da non cristiano”. Ma? “Ma sono convinto che non siamo solo un ammasso di cellule: casualità e materialità non ci spiegano”. Dove sta la verità? “Nell’altro, che è sempre l’occasione di una domanda, quindi anche di una risposta”. Ma è anche un limite. O i limiti non esistono e li inventiamo? “Esistono, e servono a definire un territorio, come i confini geografici: senza, il mondo sarebbe troppo vasto, ne saremmo sopraffatti. Li abbiamo inventati perché siamo noi stessi a ricondurre le cose al loro interno: quando molti elementi li confermano, ci sembra che siano invalicabili, superabili soltanto con una crisi totale”. Aiutano la fantasia o no? “La imbrigliano. Tuttavia, per scrivere si deve scegliere una prospettiva attraverso cui raccontare una parte di mondo, e questo comporta, e anzi è, autolimitarsi”. C’è qualcosa che non riesce a portare nei suoi libri? “Non sempre i personaggi fanno quello che voglio io. Ed è in quel momento, quando mi dicono “io questa cosa non la faccio”, che capisco di avere la mia storia”. Cioè il personaggio funziona quando lo scrittore non si immedesima? “Io non penso mai a cosa farebbero loro. Agisco come se fossi loro. Per mesi, vivo come fossi loro”. Si è messo nei panni di una donna anche stavolta... “È sempre incredibilmente affascinante. È un esercizio mentale che cambierebbe il mondo, se ogni uomo lo facesse”. Scrive che le donne hanno un rapporto vitalissimo con il passato... “Ho amiche che hanno sempre conservato tutto: scontrini, nastrini di segreterie telefoniche. Si dice sempre che il passato deve servire a capire il presente, e pensiamo molto di meno al fatto che il presente ci aiuta a capire il passato. Le donne, invece, ci pensano eccome”. E gli uomini? “Tendono ad archiviare. Hanno bisogno di classificare gli eventi, dividerli in successi e fallimenti. Così, se alcune cose sono andate male, capitalizzano l’esperienza e dicono: cerco di non commettere di nuovo quell’errore”. Lei crede nella differenza tra donne e uomini? “Sì, ci credo. Molte le abbiamo inventate, le supereremo, ma credo che ne produrremo sempre di nuove, più o meno utili al nostro adattamento. Penso anche, però, che non esistano soltanto donne e uomini”. Nel suo libro c’è una rilettura esaltante e ragionevole della Bibbia... “Penso che rileggere le grandi opere sia importante, doveroso. Talvolta anche pericoloso, perché rischia di manometterle, ma forse dovremmo avere più fiducia nel fatto che il tempo ci regala sensibilità diverse, ulteriori, e uno sguardo più penetrante e consapevole”. E poi c’è la cancel culture: può essere che sia giusto cancellare alcune cose per levarcele di torno? “È difficile rispondere. Di certo se leggi un testo della Bibbia che trabocca di una cultura persecutoria, maschilista, opaca e ricattatoria, hai un bell’interpretare, trasporre, considerarlo in senso allegorico, ma è quello che vedi e leggi, è esistito, ed è stato orribile. Se lo leggi come Nostradamus, allora puoi pensare che vada reciso per evitare che si ripeta”. Lei crede che uno scrittore debba sempre scrivere di ciò di cui si vergogna? “Credo che uno scrittore debba mettersi in pericolo”. In che modo? “Onorando un patto di lealtà a se stesso e di onestà verso il lettore: io scrivo la storia che sento, e cerco di fare in modo che sia importante anche per te”. Sembra amore... “Perché lo è”. Due persone che si amano fanno bene al mondo? “Assolutamente. Producono e irradiano energia positiva. Creano luce, ottimismo, voglia di fare altre cose belle. E lo fanno anche le persone che amano loro stesse e sono contente di quello che fanno. Fa bene a tutti la contentezza di un artigiano, di un disegnatore, che mentre disegna ha la sensazione di decifrare il mondo”. Crede alle regole? “Per coabitare in spazi ormai quasi sempre non naturali sono necessarie. Senza, non ci ritroveremmo a vivere in una meravigliosa Woodstock dei primi anni ‘70 ma in un inferno di sopraffazione, dominati dagli istinti peggiori. L’essere umano non è bravo e bello. Basta guardare i bambini, la loro perfidia: è amorale e inconsapevole, certo, ma svela qualcosa della nostra natura, che contiene tanto il bene quanto il male”. Se il male esiste, come può scandalizzarci? “Infatti a me non scandalizza: ci faccio i conti”. Cosa, invece, la scandalizza? “Il fatto che esistano ancora persone convinte di poter risolvere qualcosa con la guerra. E poi la burocrazia”. Cosa la definisce? “La curiosità. Per contro, mi colpisce molto che la maggior parte delle persone che incontro non sia curiosa degli altri”. Si innamora di chi la incuriosisce? “Sì”. Si è innamorato molte volte?” “Non moltissime”. L’esperienza del mondo cosa dà e cosa toglie? “Dà l’antidoto al il centro dell’universo. Toglie energie. Non sempre recuperabili”. Fare lo scrittore è? “Un ruolo, anche”. Quindi ha dei doveri? “Certo. Se scrivi un libro che trabocca sentimenti deteriorati e violenti, un pochino contribuisci a peggiorare il mondo, a renderlo un luogo un po’ più brutto e squallido. Se invece vai nella direzione opposta, lo migliori, lo illumini. I libri che mi piacevano e appassionavano da ragazzo mi aiutavano enormemente a vivere, a capire le cose. E quando mi è capitato di incontrare lettori che mi abbiano detto di aver cambiato alcune scelte dopo aver letto i miei libri, è stato incredibile. Ecco, da quella cosa non si torna indietro. Non dimenticherò mai un uomo che una volta mi disse di aver evitato di diventare avvocato dopo aver letto Due di Due. Ora fa il liutaio in Liguria ed è contento. E poi c’è un patto di onestà da onorare: mai scrivere una cosa perché pensi che possa piacere. Conosco benissimo la tentazione di replicare uno schema che ha funzionato, specie quando quello che schema lo hai inventato tu. Ma i romanzi sono viaggi, non obiettivi”. I lettori se ne accorgono quando si cerca di compiacerli? “Sì. Imbrogliare o anche solo prevedereli è difficilissimo. Ed è la ragione per cui è impossibile sapere che destino avrà un libro”. A cosa pensa quando pensa e chi la legge? “A quello che so da lettore: esiste una specie di stranissima collaborazione tra chi legge e chi scrive un romanzo. Quando leggi, se non evochi delle sensazioni che sono dentro di te, dei ricordi, dei luoghi del tuo immaginario, il romanzo non si anima: la vita gliela dai tu leggendolo”. Si è mai sentito imprigionato dal successo? “Il successo di uno scrittore non è mai come quello di un attore o di un musicista. Non è così assillante, è molto più ragionevole. La cosa peggiore che può succedere è che non venga apprezzato il tuo libro migliore. Penso a Saint-Exupéry, che ha scritto cose eccezionali che nessuno ha letto: tutti conoscono solo Il Piccolo Principe”. E l’etichetta di scrittore giovane le è pesata? “Alla mia prima fiera di Francoforte, incontrai Antonio Tabucchi. Io avevo poco meno di trent’anni, lui più di cinquanta. Ci infilarono tra gli autori giovani italiani. Ridemmo moltissimo”. Scrivere la affatica? “Con un romanzo convivi e convivere è tanto difficile quanto inevitabile”. Si sente mai solo? “Ho a che fare molto con la solitudine: scrivere la richiede”. Non va in tv, non scrive sui giornali, anni fa s’è dimesso dallo Strega, con tanto di lettera di protesta. Lei è il solo radicale con successo di pubblico di questo Paese... “Non mi sento un radicale. Ma più che tenermi stretto il pubblico, l’ho sempre sfidato. Già scrivere un primo romanzo è un atto di incoscienza, perché se fossi consapevole pienamente dei rischi che corri, non lo faresti” Quali rischi? “Il rischio del ridicolo, e di pensare di dire delle cose che invece sono già state dette e anche molto meglio”. Ha fiducia nei suoi lettori? “Sì, ma sono anche disposto a rinunciarci. Sono capace di dirmi: se non andrà e non piacerà, non me ne frega niente. Quando ho conosciuto Ken Follett, che fa solo best seller tutti uguali, mi è parso di parlare con un bancario”. Che succede se fallisce? “Che cambio lavoro, e che sarà mai”. Droghe, alcol e paura del futuro: al pronto soccorso tra i ragazzi fragili di Elena Stancanelli La Stampa, 1 maggio 2023 Negli ultimi 20 anni le famiglie sono cambiate: “Ora servono centri aggregativi sicuri”. “Stanotte è arrivato un bambino di 10 anni in uno stato di agitazione importante. Soffre di un disturbo del comportamento con aggressività, non era la prima volta che lo vedevamo. Gli abbiamo dovuto somministrare dei farmaci. Io sono al Pronto Soccorso da tanti anni e ancora lo sguardo di questi bambini che arrivano in uno stato di agitazione psichica mi procura un dolore indicibile. Chiedono aiuto, piangono e se non piangono è anche peggio, ci maltrattano o ci vorrebbero maltrattare, si accaniscono contro i genitori e contro chi gli sta vicino. Sono in preda a un’agitazione incontenibile ma non è quello che fanno che fa male, è il loro sguardo. Uno sguardo pieno di sofferenza e vuoto. Come fosse separato dal corpo, da quello che accade. Lo sguardo di qualcuno a cui sta succedendo qualcosa di terribile dentro, qualcosa che non può essere raggiunto e procura a loro un dolore indicibile e indomabile. Noi qui al Pronto Soccorso vediamo tutto, anche bambini che stanno per morire, ma lo sguardo di un bambino prigioniero di una sofferenza psichica è insopportabile, non riesci a farci pace”. Anna Maria Musolino è responsabile, insieme alla dottoressa Mara Pisani, del Pronto Soccorso pediatrico del Bambin Gesù, a Roma. Le chiedo qual è il protocollo in questi casi. “Quando arrivano i ragazzi con problemi comportamentali assegniamo loro un codice di priorità più alto, che consente un accesso più rapido alla visita. Generalmente sono ragazzi e ragazze nella fascia pre-adolescenziale e adolescenziale. Vengono visitati da un pediatra, che poi chiama il neuropsichiatra per la consulenza. Ai pazienti più a rischio, di fare del male ma soprattutto di farsi del male, assegniamo una persona dedicata che sta sempre con loro, non li molla mai”. “I ragazzi oppositivi”, continua la dottoressa Pisani, “vengono accompagnati nella Consulta numero 1, la più vicina al team infermieristico, dove la finestra è chiusa a chiave e tutto è organizzato per salvaguardare la loro sicurezza. Abbiamo studiato la comunicazione, usiamo un atteggiamento accogliente, teniamo basso il tono della voce, evitiamo la sfida: cerchiamo di metterci in contatto con loro, quando è possibile”. Vengono dunque accolti, messi in condizione di non farsi male e di non poter scappare. Chiedo chi li accompagna qui. “Generalmente i genitori o i care giver in generale, oppure i responsabili delle case famiglia o delle strutture di accoglienza”, spiega la dottoressa Musolino, “per esempio le ragazze (sono quasi tutte femmine) che arrivano con bradicardie gravi a causa del rifiuto dell’alimentazione, arrivano sempre con un genitore. Loro sono quelle che meno di tutti chiedono di essere guardate e tutelate”. “Nel week end invece”, continua la dottoressa Pisani, “arrivano i ragazzi portati dal 118, in abuso di alcool o sostanze. La cosa che mi inquieta di più è che arrivano soli. Gli amici con cui erano fin quando non si sono sentiti male scompaiono. E sono prevalentemente donne. Hanno poca coscienza, spesso vomitano ed è pericoloso, rischiano di soffocare. Non le accompagnano, non si preoccupano di come stanno, le lasciano in mezzo alla strada, sole. Chiamano il 118 e se ne vanno. Quando questi ragazzi e ragazze arrivano qui al Pronto Soccorso noi offriamo un sostegno immediato. Vengono inseriti nella Consulta, lavati se c’è bisogno, reintegrati, ricevono supporti venosi e appena possibile contattiamo le famiglie. In questi casi, in emergenza, noi agiamo senza tutore. Ma per dimetterli, se sono minorenni, ci vogliono i genitori o un tutore legale. Io seguo un ragazzo da molti anni, è un ragazzo bellissimo e molto intelligente che, prima del Covid, ha avuto un abuso di sostanze molto pesante. Era ancora molto giovane e questo gli ha creato dei danni permanenti. Il suo potenziale non sarà mai più espresso, la sua intelligenza verrà coltivata, ma lo stile, la velocità di pensiero che aveva non ce li avrà più. Ha una risonanza cerebrale un po’ inficiata. Purtroppo l’abuso di sostanze nell’età di sviluppo dell’encefalo determina danni irreversibili. Interrompe il percorso dello sviluppo cerebrale, così come l’abuso di alcool. Il nuovo fenomeno che tutti sottostimano” continua la dottoressa Pisani che è specializzata in tossicologia “è quello delle bibite energizzanti. Contengono guaranà, caffeina e taurina in quantità tali da scatenare crisi di tachicardia. Vengono utilizzate dai ragazzi per riequilibrare il down da cannabinoidi e alcool. Prendono queste bibite e poi guidano la macchina e non si rendono conto. Ne bastano poche, un paio al giorno per un tempo prolungato, tipo un mese, e già diventano dannose. Il problema è che non c’è nessun controllo, perché sono legali, vengono vendute al supermercato. Del resto anche l’alcool è facile procurarselo, anche per minorenni”. Tra i casi che arrivano in Pronto Soccorso ci sono poi i tentativi di suicidio. “Prima erano tipici di un’età raramente inferiore ai 17/18 anni, quindi noi quasi non li vedevamo perché sono fuori da pediatria. Adesso invece capitano anche qui. Questo rifiuto alla vita, l’inedia di questa ragazzini che dicono “io desidero morire”, mi fa soffrire” racconta la dottoressa Pisani. “Mi ha colpito pochi giorni fa una ragazza di 16 anni che aveva assunto un cocktail di farmaci pauroso, una ragazza che non aveva mai dimostrato di avere un disturbo. È stata brava però, perché l’ha detto, ha chiesto aiuto alla madre e noi l’abbiamo salvata. Erano passate 24 ore dall’assunzione ma si trattava di farmaci che non agiscono in acuto. Ha cominciato a essere soporosa, a sentire mal di testa e ha capito, si è spaventata e lo ha detto. I medici hanno rotto questa matassa collosa di farmaci, 30/40 compresse diverse, l’esterno gelatinoso si era sciolto e aveva creato questo gomitolo nello stomaco. È andata in area rossa, le hanno fatto una gastroscopia, le hanno decontaminato tutto quell’ammasso, le hanno fatto il lavaggio renale. È andata bene, ma solo perché è stata lei stessa a dirlo. Queste situazioni mi danno un’enorme preoccupazione, non sappiamo da dove cominciare. I bambini hanno un pediatra di fiducia, di riferimento, ma dopo i 14 anni sono abbandonati a loro stessi”. Migranti. Nell’inferno dell’hotspot di Lampedusa di Niccolò Zancan La Stampa, 1 maggio 2023 Nel Centro di identificazione i migranti vivono tra rifiuti e materassi marci. Duemila ospiti per 400 posti. Ahmad, siriano: “Non ci aspettavamo che l’Italia fosse così”. Dentro. Nell’hotspot di Lampedusa. Ventisette bottiglie di plastica piene di piscio contro la parete, perché la coda per il bagno è troppo lunga. Coda per un lavandino. Coda per poter prendere da mangiare un panino nella plastica. Coda per fare il tampone. E coda, anche, per esistere in questa parte del mondo: “Avanti il numero 19 del sedicesimo sbarco del 27 aprile!”. Pre identificazione, identificazione, impronte digitali, foto segnalamento. È un giorno di ordinaria emergenza alla porta d’Europa: 400 posti, dentro 2 mila persone. E cosa ci fa qui, in mezzo al disastro, un ragazzino siriano con la faccia allegra e i modi gentili? Come ti chiami? “Mi chiamo Ahmad, ho 15 anni. Con mio padre siamo scappati da Latakia. C’è la guerra. Ci sono rapimenti continui. Da Damasco abbiamo preso un volo per Bengasi. Noi vorremo andare in Olanda da mio zio. E dopo il nostro arrivo, vorremmo fare partire mia madre e le mie sorelle Sahara e Mariam. Questo è il nostro secondo tentativo di attraversare il Mediterraneo. Nel primo la Guardia Costiera libica ci ha rimandato indietro. Nella prigione di Tripoli ci odiavano. Non hanno rispetto per nessuno. Ci hanno rubato i soldi e il telefono. Non c’era da mangiare. Ci hanno rilasciato dopo due mesi. Abbiamo pagato altri 7500 dollari per partire ancora nel mare, con altre 145 persone, su una barca di 11 metri”. Il ragazzino è candido dentro un mondo in disgrazia. Estintori abbandonati, cavi elettrici scoperti, tredici panchine di ferro arrugginito per tutte questa gente. E un rivolo marrone che corre in mezzo ai piedi nudi e alle ciabatte. Ma cos’è? “Sì, è quello che pensate”, dice il nostro accompagnatore. Abbiamo avuto il permesso di vedere da vicino questo disastro. I migranti stanno facendo le pulizie del campo, perché nessuno della cooperativa “Badia Grande” le fa al posto loro. È una cooperativa già sotto indagine a Trapani per un altro centro di accoglienza, su cui pendono diverse penali per inadempienza. Qui dovevano garantire il servizio di un infermiere per le prime cure, ma si è scoperto che quell’infermiere non era abilitato. Dovevano fornire dei mezzi di trasporto efficienti per i collegamenti con il porto, ma il pullman per portare via i migranti si è rotto diciassette volte negli ultimi tre mesi. È un paradosso. Questo è un posto dello Stato. Ma gestito da privati. In un conflitto tale di interessi, che persino la polizia ha denunciato l’ente gestore. Ci sarebbe da chiedere anche i danni d’immagine. Perché questo hotspot ormai è sotto gli occhi del mondo, stanno arrivando fotografi spagnoli e inglesi. Il nuovo questore di Agrigento, Emanuele Ricifari, come primo atto del suo insediamento ha annunciato un esposto in procura per segnalare tutte le irregolarità. Basta girare il lato visibile della struttura, quella che dà sulla strada, per rendersi conto. Cumuli di immondizia accatastati. Un furgone rotto abbandonato fra il cancello e la rete perimetrale. Una porta divelta, montagne di materassi marci e ancora utili, infatti vengono distribuiti. Non c’è un’area per i bambini, tantomeno per le donne in gravidanza. Per le persone fragili. Sono tutti indistintamente schiacciati dentro questa gabbia folle, sporca e esplosiva. Non solo i migranti, non solo la cooperativa che dovrebbe fare funzionare l’hotspot. Dentro c’è l’Esercito Italiano, primo container a sinistra. C’è l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Ci sono Frontex e l’Euaa, l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo che avrebbe il compito di velocizzare la pratiche. Ma “velocizzare” qui è una parola che non si può neppure pronunciare, per carità di patria. I migranti si mettono in coda alle 10 per potere prendere da mangiare alle 13. Ogni tanto scoppia un litigio. Sono tutti stanchi, stremati. I nuovi e i vecchi, quelli che ci sono, quelli che verranno e quelli che resistono da troppo tempo. Quindi: l’Italia e l’Europa e il disastro sono qui. Il container della Polizia di Stato può contare su sei postazioni per prendere le impronte digitali: 6 postazioni per una necessità che può arrivare a mille persone al giorno. “Se il mare si alza, tutti restiamo bloccati a Lampedusa”, dice un investigatore della Squadra Mobile. “Ma il problema è anche un altro. Facciamo fatica a trovare pullman e navi. Non ce li affittano perché sono per i migranti”. Non si era mai visto un ghetto così. Un ghetto ormai istituzionalizzato. Dove ogni giorno centinaia di persone cercano di fare la loro parte, pur nella consapevolezza di quanto sia impossibile. Nel grande affollamento, c’è uno spazio vuoto. Il padiglione posteriore, ultimo in fondo a sinistra, è inutilizzabile da quattro mesi: si sono rotti gli impianti idraulici, l’acqua arriva ai piedi dei letti. Così il rischio è un cortocircuito o peggio. Eppure servirebbero posti, servirebbero eccome, servirebbero manutenzione e cura. Anche oggi i bambini dormono per terra, proprio sull’asfalto. Alcuni ragazzi hanno messo dei teli di nylon, tirati fra i rami degli alberi, per ripararsi dalla pioggia. Sta piovendo forte e lo scarico della fogna si è preso il centro del campo, allagandolo. Un’altra ala dell’hotspot è quella ristrutturata recentemente, perché era stata distrutta in un incendio scoppiato durante una rivolta nel 2015. Questo non è mai stato un posto facile. Ma adesso porta il segno degli anni e della fatica di tutti. Sulla parete di una stanza, con quattro brande di ferro, qualcuno ha lasciato la mappa della sua vita. Ha scritto: “Sesta volta qui”. E poi: “Gorissia. Gervasio. Cpr Milo-Trapani. Djerba”. Entro due settimane la gestione dovrebbe cambiare. Verrà estromessa la cooperativa sotto inchiesta, subentrerà la Croce Rossa. Ma pur con le migliori intenzioni, un posto per 400 persone non può ospitarne 4 mila: questa è algebra. Il ragazzino siriano Ahmad sta al riparo sotto ai rami di una tamerice. “Non mi aspettavo che l’Italia fosse così. Ma è sempre meglio della Libia. Voi non ci avrete derubato, voi non ci odiate. Se con mio padre riusciremo nell’impresa di arrivare in Olanda, penserò a questo posto come il primo posto felice della nostra nuova vita”. Migranti. SeaWatch: “Da Roma hanno ordinato un respingimento in Libia” di Alessia Candito La Repubblica, 1 maggio 2023 Il mercantile Grimstad ha soccorso trenta persone. Secondo quanto comunicato via radio a SeaBird, dal centro di coordinamento e soccorso di Roma avrebbero ricevuto l’ordine di dirigersi verso Tripoli. “L’Italia ha delegato un respingimento in Libia. Violazione inaccettabile del diritto internazionale”. La denuncia arriva da SeaWatch che con il suo SeaBird, per oltre ventiquattro ore ha monitorato una piccola imbarcazione che con difficoltà tentava di attraversare il Mediterraneo centrale con trenta persone a bordo. Secondo le prime informazioni, viaggiavano al largo delle coste libiche, quando sono state soccorse dal mercantile Grimstad, che però non si sta dirigendo verso un “porto sicuro”. Secondo quanto comunicato via radio a SeaBird dall’equipaggio, su indicazione del centro di coordinamento e soccorso di Roma, la nave si sta dirigendo verso la Libia. Tecnicamente è un respingimento, significa riportare le persone in un Paese da cui sono fuggite e in cui non c’è alcuna certezza che i loro diritti umani vengano rispettati. Ed è illegale. Per casi simili, già in passato l’Italia è stata duramente sanzionata dalla Corte di Giustizia Europea. “È in corso una gravissima violazione del diritto internazionale. È inaccettabile”, denunciano da SeaWatch. Il rapporto Onu sulla Libia diffuso poco più di un mese fa documenta “la pratica diffusa” di detenzioni arbitrarie, omicidi, torture, stupri, riduzione in schiavitù e sparizioni forzate all’interno del Paese”. E sottolinea “la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando hanno generato entrate economiche significative per individui, gruppi e istituzioni statali”. Ma soprattutto tira in ballo e punta il dito sulle autorità libiche. Perché quei centri di detenzione in cui abusi, violazioni e torture avvengono “in modo sistematico”, si legge, sono “sotto il controllo effettivo o nominale” di diverse entità statali o parastatali come il Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM) e la Guardia costiera libica”. E anche per questo fra le raccomandazioni alla comunità internazionale c’è quella di ““cessare ogni sostegno diretto e indiretto agli attori libici coinvolti in crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti umani contro le persone migranti, come il Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), il Stability Support Apparatus (SSA) e la Guardia costiera libica”. “Addio mio Sudan”, Soryia e gli altri in fuga dall’inferno di Patrick Zaki* La Repubblica, 1 maggio 2023 In queste settimane ho analizzato a fondo la situazione attuale in Sudan. La condizione delle minoranze è sempre stata molto interessante, e pertanto ho cercato una donna che avesse intrapreso il pericoloso viaggio da Khartoum al Cairo. Questo mi ha condotto a piazza dell’Opera, una località nota per essere un luogo fisso di incontro per la comunità sudanese nel centro del Cairo. L’area è piena di bar e ristoranti sudanesi frequentati tutti i giorni da sudanesi, e sono andato lì. Soryia Hussin Al-Hussin, una farmacista 32enne di Omdurman - la città più popolosa del Sudan - mi ha raccontato la sua storia, condividendo i dettagli del suo pericoloso trasferimento al Cairo. Secondo lei, tutto è iniziato in un batter d’occhio. “Abbiamo sentito il rumore di alcune esplosioni e, di colpo, senza preavviso, è scoppiata la guerra”. Con le deflagrazioni che risuonavano in lontananza, Soryia e la sua famiglia hanno subito acceso la televisione per sapere che cosa stesse succedendo. È stato allora che hanno scoperto che le Forze armate sudanesi (Saf) erano nel pieno di un’aspra battaglia con le Rapid Support Forces (Rsf), poco più di due settimane fa. Soryia ha poi spiegato che, proprio quando pensava che fosse impossibile che la situazione si aggravasse, in cielo sono apparsi aerei da guerra che hanno iniziato a bombardare di continuo. A quel punto, lei e la sua famiglia hanno capito che la situazione era precipitata e che quello a cui stavano assistendo era l’inizio di una guerra. L’esercito sudanese aveva annunciato attraverso tutti i canali che le Rsf sono considerate milizie ribelli e che nel giro di 24 ore l’esercito si sarebbe liberato di loro. I combattimenti, invece, sono ancora in corso ed è improbabile che si fermino a breve. “Non riesco a lasciarmi alle spalle l’amarezza di aver dovuto abbandonare la mia casa”, ha detto Soryia. Da quello che ha raccontato, ho capito che con i suoi familiari è stata costretta a rimanere sotto i bombardamenti, tra ordigni e proiettili che cadevano ovunque nelle vicinanze. Le pareti di casa sua tremavano di continuo. Nessuno ha potuto dormire, mangiare o bere. L’acqua, infatti, è venuta a mancare fin dal primo giorno di scontri e non era ancora tornata quando ha lasciato il Sudan diretta al Cairo con i suoi cari. Come è iniziata la guerra - Nell’aprile di quest’anno, in Sudan 42 parti interessate - tra cui cittadini, partiti politici e gruppi della società civile - avrebbero dovuto firmare un accordo politico, un promettente passo avanti verso la democrazia. Pochi giorni prima della firma, però, le tensioni tra Saf e Rsf sono esplose e hanno portato all’esplosione della violenza. Probabilmente, le discussioni per raggiungere un’intesa hanno contribuito al conflitto, ma le radici del problema vanno cercate nel prolungato attrito tra i comandanti di Saf e Rsf. Nel 2019 i due contingenti militari si erano uniti per rovesciare l’ex presidente Omar al-Bashir e da allora hanno sempre collaborato. Fino alla rottura. La partnership era importante per entrambi, perché permetteva loro di guadagnare terreno, tutelare i loro interessi economici e mettersi al riparo da procedimenti giudiziari per le atrocità commesse in passato. Negli ultimi mesi, il contrasto tra i leader di Saf e Rsf è degenerato e li ha portati ad aggredirsi polemicamente l’un l’altro attraverso i media. Le ingerenze esterne non hanno fatto altro che aggravare le loro divergenze, con gli islamisti associati al regime di Bashir che hanno gettato altra benzina sul fuoco. Da lì si è arrivati a una guerra in piena regola. Questa tragica svolta ha mandato in frantumi la speranza di un governo di transizione e di poter far imboccare al Sudan la strada della democrazia. Il 15 aprile il Paese è precipitato nel caos quando fazioni rivali della giunta militare al governo si sono scontrate, provocando molti episodi di violenza e un conflitto armato che ha interessato in modo significativo la regione occidentale del Sudan, Khartoum, e la regione del Darfur. La capitale del Paese è stata presa di mira. Dalla mattina del 15 aprile, gli scontri hanno sconvolto le infrastrutture della città, privando gli abitanti dell’accesso ai beni di prima necessità. L’elettricità è intermittente, la città è precipitata nel buio, le scorte di cibo sono ridotte e i negozi sono chiusi. Come migliaia di altri sudanesi, Soryia Hussin Al-Hussin è uscita di casa lasciandosi dietro tutto. Con amarezza dice: “Tutte le mie esperienze, la mia infanzia, ogni singolo luogo conosciuto adesso sono soltanto ricordi”. Ha lasciato casa senza nemmeno cambiarsi i vestiti: “Indosso solo una tunica nera, nera come l’oscurità dell’ingiustizia che predomina nella mia terra”. Con i suoi familiari ha preso la decisione di andarsene dopo che alcune case vicine alla sua sono state colpite dai proiettili. Malgrado la difficoltà di dover affrontare digiuni di 14 ore, interrotti soltanto con datteri e acqua, si sono considerati fortunati ad avere almeno quelli. Costantemente a rischio per il pericolo che arrivasse qualche proiettile vagante, Soryia conferma che “restare vivi è stata una battaglia quotidiana e così, dopo otto giorni di reclusione, abbiamo deciso di andarcene”. Si riferisce al fatto di essere stati costretti a rimanere in casa per otto giorni di seguito senza elettricità e con poco cibo e acqua a disposizione, mentre fuori imperversavano i combattimenti. Quando spiega di aver dovuto lasciare lì i suoi fratelli e mettersi in viaggio con la sorella, i nipotini, le nipotine e la madre settantenne che soffre di ipertensione e diabete, le si spezza la voce. Gli abitanti di Khartoum fanno fatica a tirare avanti: l’acqua è scarsa e i disagi sono sempre più grandi. Con una situazione così disastrosa, migliaia di sudanesi stanno scappando verso i confini del Paese, alla ricerca di riparo e di stabilità. La crisi umanitaria - Soryia prova una sensazione di oppressione e di ingiustizia per quello che le è accaduto. Si è sentita morire quando è fuggita da casa. Si è rivolta molte domande: “La guerra finirà e ritornerò, oppure è l’ultima volta che vedo casa mia? Riabbraccerò i miei fratelli? Riuscirò a mettermi in salvo o morirò in cammino?”. Il viso di sua madre la convince che la donna avesse un bisogno assoluto di essere messa in salvo, non potendosi rivolgere all’ospedale, distrutto come molti altri. Anche quelli ancora in piedi non sono raggiungibili: non c’è benzina e in giro non si vedono automobili. Tutti i distributori di carburante sono chiusi. Tutti i negozi di alimentari vicini a casa sua sono sprangati. Per le strade non c’è nessuno, tranne i militari dell’Rsf o dell’esercito sudanese. Soryia ammette di essersi chiesta “se dovessimo restare e accettare una morte inevitabile, oppure andarcene con un briciolo di speranza di restare vivi”. Per capire meglio la situazione ho contattato il mio amico Hamid Khalafallah, ricercatore presso il Tahrir Institute for Middle East Policies, che mi ha confermato come a Khartoum la sicurezza versi in condizioni tragiche. Si combatte nelle aree residenziali e i civili sono usati come scudi umani, sia dagli uomini dell’Rsf che dell’esercito sudanese. Anche la situazione umanitaria è critica: Khalafallah conferma la testimonianza di Soryia, dicendo che il 65 per cento degli ospedali è fuori servizio, distrutto o perché si trova in aree a rischio. La scarsità di cibo e di carburante ha trasformato Khartoum in una città spettrale, senza mezzi di trasporto circolanti. Il denaro in contanti è sempre meno. Se questa situazione dovesse perdurare, il Sudan potrebbe avviarsi verso una catastrofe umanitaria. Il confine di Argeen - “Siamo partiti all’alba, alle cinque di sabato 25 aprile”, racconta ancora Soryia. Sotto i proiettili e con i bombardieri che sorvolavano la città, ha raggiunto la stazione Kandahar di Khartoum, da dove partono gli autobus per Argeen, il più importante valico di frontiera con l’Egitto. Ma con migliaia di persone in fuga e soltanto due autobus in servizio, pur avendo provato più volte, Soryia e la sua famiglia hanno dovuto aspettare giorni prima di trovare posto. La stazione di valico di Argeen e lo scalo di Qastal, che collega Sudan ed Egitto, al momento sono congestionati dall’afflusso di migliaia di automobili. Google Maps mostra numerosi autobus in fila in attesa di passare il confine per Assuan. La località del Basso Egitto, popolare meta turistica, è anche la prima città egiziana che incontrano i profughi in arrivo dal Sudan. Secondo Nour Khalil, direttore esecutivo dell’organizzazione egiziana Refugees’ Platform, la situazione sul versante sudanese della frontiera è drammatica: migliaia di persone aspettano da giorni, senza poter soddisfare i bisogni di base. Sono senz’acqua, senza cibo, senza bagni. Se non si farà qualcosa, la situazione umanitaria potrebbe precipitare. Al momento, sembra che i ritardi negli interventi nella zona internazionale tra Egitto e Sudan siano imputabili maggiormente al versante sudanese: a dirlo sono alcuni testimoni sul terreno. Ma è indispensabile agire subito per impedire una tragedia immane. Nour Khalil aggiunge che, sull’altro versante, l’Egitto ha preso alcuni provvedimenti per contenere il diffondersi delle malattie, mettendo a disposizione ambulanze e predisponendo aree di quarantena. Per ora, alcune organizzazioni internazionali sono state autorizzate a facilitare l’iter di ingresso in Egitto e a prestare aiuto. Purtroppo, entrare nel Paese continua a essere un’impresa, tenuto conto del requisito obbligatorio di un visto valido per sei mesi, salvo eccezioni per gli anziani e le donne. Malgrado tutti gli sforzi volti a migliorare la situazione, riuscire a procurarsi un visto è ancora molto complicato. Tutto l’iter dipende direttamente dagli uffici di Wadi Haifa, sul confine, a cui si sono rivolti migliaia di sudanesi. L’attesa del visto - Soryia torna a parlare delle difficoltà di trovare un posto sull’autobus per il confine, e che il costo dei biglietti è passato da 20mila a 120mila sterline sudanesi, poi addirittura a 480mila, un prezzo davvero esorbitante, più di venti volte quello normale. Mentre parla fa alcune pause poi, con voce soffocata, dice che il tragitto in autobus è durato cinque ore, ma che a lei è sembrato di cinque anni. Mentre viaggiava da Khartoum al valico di confine insieme ai suoi familiari, Soryia ha dovuto cercare riparo ogni volta che si sentiva l’assordante rumore dei caccia militari che bombardavano le aree nei dintorni: “Il terrore era tangibile, ci sentivamo di continuo a un soffio dalla morte”. Le loro peggiori paure si sono materializzate quando un gruppo di delinquenti, riusciti a evadere da un carcere subito dopo lo scoppio della guerra, li ha aggrediti impugnando coltelli. Con il cuore pesante, racconta che “l’esperienza è stata tremenda” e li ha lasciati “con una sensazione di grande vulnerabilità”. Con i suoi familiari è stata salvata da un compagno di viaggio che aveva una pistola ed è riuscito a sparare nella direzione dei malviventi, permettendo a tutti di sottrarsi all’aggressione. Nonostante i pericoli e l’insicurezza del viaggio, Soryia Hussin Al-Hussin e i suoi familiari sono rimasti fiduciosi, determinati a raggiungere la loro meta. La mia testimone conclude dicendo che la loro “sopravvivenza è la dimostrazione della loro forza e resilienza”. Insieme ai suoi familiari, Soryia Hussin Al-Hussin è rimasta al confine per quattro giorni in attesa dell’autorizzazione a entrare in Egitto. Le chiedo quali sono i suoi sogni per il Sudan: mi risponde che prima di ogni altra cosa le vengono in mente sicurezza e protezione per il suo Paese. Desidera ardentemente che prevalga la pace e che persone di nazionalità diversa riescano a convivere. Prova un dolore profondo e una paura indicibile per il fratello, di recente evacuato dalla sua casa. Alla fine, Soryia conclude: “Abitiamo in Egitto adesso, siamo ospiti di una gentile famiglia sudanese, ma purtroppo non abbiamo né soldi, né lavoro, né una fonte di reddito. Spero di ricongiungermi presto con tutta la mia famiglia e di tornare in un Sudan sicuro e in pace”. *Con questo articolo Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto in carcere nel suo Paese dal febbraio del 2020 al dicembre del 2021, inizia la sua collaborazione con Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti