Dietro la “rivolta” di Avellino, le criticità delle nostre carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2023 La protesta nel carcere di Bellizzi Irpino, ad Avellino, ha attirato l’attenzione di media e opinione pubblica sui problemi quotidiani che i detenuti affrontano dietro le sbarre. Contrariamente alla narrazione diffusa inizialmente dalla polizia penitenziaria e dai loro sindacati, l’episodio non è stato caratterizzato da violenze fisiche o dall’utilizzo di oggetti pericolosi. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, ha smentito tali affermazioni e fornito una visione più chiara dei motivi reali che ci sono dietro la protesta. Il tutto si è svolto al primo piano di una sezione vecchia del carcere, che ospita i detenuti comuni. In questa sezione risiedono circa 50- 52 carcerati, e solamente 4-5 di loro hanno partecipato attivamente alla protesta. Secondo il garante Ciambriello i motivi della protesta erano diversi per i vari detenuti coinvolti. Due, infatti, hanno manifestato la loro insoddisfazione dopo le sanzioni disciplinari ricevute in risposta ad atti di aggressione a un medico e al possesso di un cellulare in cella. Altri due detenuti, invece, stavano richiedendo un trasferimento da mesi. Questi detenuti cercavano di mettere in luce le problematiche quotidiane che affrontano dietro le sbarre, evidenziando la necessità di figure sociali competenti in carcere, come ad esempio uno psichiatra, che possano ascoltare, dialogare e comprendere le loro esigenze. Sull’episodio è intervenuto il sottosegretario alla Giustizia, senatore Andrea Ostellari: “Esprimo profonda solidarietà agli agenti feriti da alcuni detenuti nel carcere di Avellino e ringrazio il Provveditore, il Direttore, il Comandante, il personale e quanti, a tutti i livelli, hanno collaborato per far rientrare la protesta. Lo Stato ha il dovere di garantire dignità, sicurezza e operatività a chi lo rappresenta. Stiamo lavorando ad un dispositivo di legge che istituisca una circostanza aggravante per chi aggredisce gli agenti della Polizia Penitenziaria all’interno dei nostri Istituti di pena, così come è già prevista per chi introduce o cede sostanze stupefacenti”. Dopo la protesta la maggior parte dei detenuti presenti al primo piano della sezione comune è rientrata nelle proprie celle. Nel frattempo i 4- 5 detenuti protagonisti della protesta verranno trasferiti nelle prossime ore. È importante sottolineare che nessuno di loro ha fatto uso di oggetti contundenti o olio bollente per minacciare gli agenti penitenziari, contrariamente alle prime informazioni fornite. Questo episodio nel carcere di Bellizzi Irpino ci porta a riflettere sulla realtà dietro le sbarre e sulla necessità di un’analisi più approfondita dei problemi che i detenuti affrontano quotidianamente. Mentre la polizia penitenziaria è importante per garantire la sicurezza all’interno delle strutture carcerarie, è altrettanto cruciale l’arrivo di figure sociali competenti che possano supportare i detenuti nel loro percorso di reinserimento sociale. La presenza di uno psichiatra, ad esempio, potrebbe contribuire notevolmente a comprendere e affrontare le problematiche mentali che spesso affliggono i detenuti. La protesta nel carcere di Bellizzi Irpino ha messo in evidenza la necessità di prestare maggiore attenzione alle condizioni di vita dei detenuti e alle loro richieste legittime. Mentre i dettagli specifici di questo episodio possono variare da caso a caso, è importante ricordare che i detenuti sono individui che hanno bisogno di sostegno, rieducazione e opportunità di cambiamento. Le carceri italiane affrontano diverse sfide, tra cui sovraffollamento, carenza di risorse, assistenza sanitaria inadeguata soprattutto sul versante della salute mentale, mancanza di personale qualificato e attività lavorative che tengano impegnati i detenuti e volti ad acquisire qualifiche utili per trovare un lavoro quando ritornano in libertà. Questi fattori possono contribuire a una situazione di tensione e insoddisfazione tra i detenuti, aumentando il rischio di proteste e disordini. “Nordio su ergastolo e carceri come Dr. Jekyll e Mr. Hyde, perché ha accettato di fare il ministro?” di Angela Stella Il Domani, 19 maggio 2023 Il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, ha assistito, con il collega professore Francesco Centonze, Marcello Dell’Utri nel processo sulla Trattativa Stato Mafia. Inoltre è un acuto osservatore delle dinamiche di politica giudiziaria. Ecco la nostra lunga chiacchierata. Antonio Ingroia commentando la decisione della Cassazione sulla “Trattativa” (che non fu) ha detto “Lo Stato assolve se stesso”. Come commenta? Questa dichiarazione mi ha profondamente sconcertato. Ad intenderla per quel che essa dice si dovrebbe scomporre il ragionamento in queste proposizioni: la Cassazione impersona lo Stato, una entità indifferenziata che si può frazionare, in una serie di frattali, ciascuno dei quali riproduce l’insieme. Ora, siccome la Trattativa avrebbe coinvolto lo Stato nel suo insieme, un frattale dello Stato, che è la Cassazione, decide di assolvere dalla colpa che è stata denunciata e perseguita. In sostanza lo Stato ‘criminale’ assume il potere di assolversi. Ma come possono dire certe cose? Addirittura come si possono pensare? Evidentemente bisogna essere all’altezza del dott. Ingroia per pensarle e per dirle. In un colloquio con il Foglio il Ministro Nordio ha detto: “è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso? È difficile esprimere un giudizio su un Ministro che opera solo da pochi mesi. Teniamo conto che è la prima volta che Nordio è Ministro e deve prima conoscere bene la macchina complessa del Ministero che deve governare, e che io conosco almeno in parte, avendo collaborato da consulente esterno per 25 anni: non è cosa semplice. Tuttavia, qualche segno preliminare, che non so se attribuire a Nordio, stona vistosamente rispetto alla sua figura. A cosa si riferisce? Pensiamo alla disciplina contro i rave-party: ha suscitato più di qualche perplessità. Per verità, si tratta di disposizioni letteralmente incredibili. Mi rifiuto di pensare che siano state da lui condivise, forse da lui subìte. Non sarebbe Nordio; in altri tempi avrebbe scritto articoli durissimi contro certe iniziative. Continuo tuttavia a manifestare, per ora, fiducia nei suoi confronti: non credo voglia compromettere la fama, che si è meritatamente conquistata, assecondando la deriva giustizialista di una parte del Governo. Andrea Natale, dell’Esecutivo di Magistratura democratica, scrive: “Si verifica l’ennesima tragedia legata all’immigrazione, con un naufragio a poche centinaia di metri dalle nostre coste? Ecco che il ministro ritiene necessario sottoscrivere l’ennesima legge che inasprisce ulteriormente le (già draconiane) pene da infliggere agli scafisti”... Sono davvero forme di distrazione di massa. Significa voler distogliere lo sguardo dalla reale natura del problema. L’immigrazione è un fenomeno non governabile con muri, blocchi navali e sanzioni penali a raffica. Questo tipo di provvedimenti sono come un urlo, un grido nella notte, che non servono a nulla se non a simulare un Governo presente e vigile. È la stessa cosa che accade con gli stupefacenti: giri di vite e incrementi sanzionatori. Ma questo non solo non ha mai contrastato il traffico di droga ma lo ha in realtà incrementato, potenziando il monopolio criminale delle mafie sul traffico. Esso si ferma soltanto in un modo: prendendo la strada della legalizzazione, altrimenti si continuerà solo a saturare le carceri con le ultime ruote del carro. A proposito di carcere, Nordio si è detto contrario all’ergastolo. Eppure il primo provvedimento che ha illustrato in una conferenza stampa è stato quello dell’ostativo. Ha sempre sostenuto che il carcere deve essere extrema ratio, ma poi propone di usare le caserme dismesse per combattere il sovraffollamento. Non le sembra contraddittorio? Certo. Il problema carcerario non si può affrontare in questi termini. D’altra parte abbiamo democraticamente eletto un Governo che da sempre ha proclamato una politica per cui se non bastano le carceri, bisogna aumentarle. Quindi, è difficile pensare che il Ministro della Giustizia possa distaccarsi a tal punto da questa linea da dare subito le dimissioni. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi perché abbia accettato di far parte di questo Esecutivo. Se tutta la politica di Nordio in tema di esecuzione penale si risolvesse nell’aumentare la disponibilità di posti letto per i reclusi avrebbe fatto ben poco, anzi avrebbe percorso il cammino inverso rispetto alla direzione corretta. Anche in questo caso: non sarebbe Nordio. Avremmo a che fare con Mr. Hyde, dopo aver conosciuto il Dr. Jekyll. Non conosco le dinamiche dei rapporti interni alla maggioranza: posso immaginare che Nordio non possa non muoversi in una logica fatalmente condizionata dalla politica. Del tipo: cedo su una cosa per ottenere altro? Non posso dichiararmi d’accordo con una linea politica di questo tipo, però possiamo sperare che il vero Nordio emerga su altri fronti, dopo di che faremo un bilancio. Un compromesso per arrivare ad ottenere la separazione delle carriere? Eppure ci sono segnali che Meloni vorrebbe frenare... Questo è un tema per il quale il Governo dovrebbe accettare uno scontro duro con la magistratura. E non so se sarà in grado di farlo. In Italia non la magistratura nella sua interezza, ma i Pubblici Ministeri godono di un potere politico molto elevato, suscettibile di esprimersi con pressanti interdizioni. Quindi ho i miei dubbi: la voglio proprio vedere questa separazione delle carriere. Il problema rischia di scomparire dietro una cortina di fumo, con la semplice introduzione di separazioni più rigide rispetto ai limiti attuali. In realtà il nodo del problema è un altro. Quale professore? Per impostare tale riforma bisogna prendere le mosse dall’unità del ceto forense che attualmente non esiste. Chi si occupa di attuare il diritto - accusa, difesa, giudice - deve provenire da una matrice unitaria. Si diventa abilitati ad un tipo di professione legale in modo indifferenziato. Poi i percorsi si dividono. L’interscambio tra difesa e accusa dovrebbe essere assicurato in modo molto ampio. E questo presuppone anche la riforma dell’Avvocatura. Questo è il sostrato su cui dovrebbe reggersi un codice di tipo accusatorio. Noi lo abbiamo impostato per modo di dire, in realtà... Io ricordo bene quello che disse il grande giurista Mahmoud Cherif Bassiouni a Siracusa durante un convegno incentrato sul tema dell’esame incrociato, che rappresenta il cuore pulsante del processo accusatorio. Lui disse in quella circostanza: voi in Italia siete come quello che ha sposato una donna che ha conosciuto solo attraverso qualche cartolina postale. Dopo di che se l’è trovata in casa e ha constatato che non era quella che pensava. Bassiouni voleva dire che il processo vive in un sostrato culturale, che non può ridursi ad un pugno di norme. Con un sostrato come il nostro non è possibile attuare seriamente il processo accusatorio. Difatti lo abbiamo abbandonato: abbiamo una specie di mostro che appesantisce la durata del processo in un defaticante travaso a specchio delle indagini preliminari nel dibattimento. Quindi? Quindi separazione delle carriere non può implicare soltanto la selezione di quelli che faranno i giudici e quelli che faranno i pm. Forse non sarebbe neanche un passo avanti perché con i poteri dell’accusa di oggi un pubblico ministero isolato non so quanto altro potere potrebbe addirittura accumulare. Ultima domanda: Report ha lasciato intendere che i radicali e Nessuno Tocchi Caino, di cui lei è anche Presidente d’onore, sarebbero inconsapevolmente lobby delle mafie. E hanno contestato loro e quelle cooperative che offrono una seconda possibilità agli ex detenuti neofascisti... Chi propone una visione di questo tipo si ispira evidentemente a questo schema: la pena inflitta seleziona e individua una volta per tutte i nemici, i malvagi, i reprobi degni dello stigma di Satana. Una volta impresso esso non si cancella più, in nessun caso. Alla funzione rieducativa della pena questi propagandisti non solo non credono, ma la escludono in radice. Perciò anche chi ha scontato la propria pena ed ha dato prova di potere e volere partecipare alla vita sociale, dovrebbe continuare a rimanere escluso. Sarebbe quindi scandaloso se partecipasse ad attività di sostegno, di aiuto, di tutela di chi langue in carcere o ne è uscito smarrito. Propongo di considerare questi atteggiamenti per quello che sono: reviviscenze sussultorie e veri e propri rigurgiti dell’antico regime. Riforma in arrivo: freno al carcere preventivo per i reati di Pa e finanza di Francesco Bechis Il Messaggero, 19 maggio 2023 Interrogatorio di garanzia obbligatorio per i crimini che non destano allarme sociale. Abuso d’ufficio verso l’abolizione, ma FdI e Lega resistono: trattativa nel centrodestra. Stop alle intercettazioni selvagge. Dimezzato il traffico di influenze. E un freno alla custodia cautelare in carcere: sarà ristretta ai reati di grave allarme sociale. Mentre sull’abuso di ufficio è stallo nel centrodestra, tra chi vuole abolire e chi solo ridimensionare il reato più odiato dai sindaci italiani. È in dirittura d’arrivo la riforma della giustizia del governo Meloni. Manca un testo definitivo, le riunioni proseguono però febbrili a via Arenula per portare un disegno di legge in Cdm entro fine maggio. Tra le novità nel pacchetto, frutto di una mediazione non sempre facile tra le forze di maggioranza, c’è la riforma della carcerazione preventiva che d’ora in poi, ha anticipato il ministro Carlo Nordio alla Camera, sarà “l’eccezione dell’eccezione”. Un fronte delicato per il governo, finito al centro delle cronache del caso di Artem Uss, il trafficante russo ricercato dagli Stati Uniti evaso dagli arresti domiciliari dalla sua abitazione in provincia di Milano, lo scorso 23 marzo. Nella riforma saranno tuttavia previsti paletti stringenti per il carcere preventivo, “ce lo chiedono l’etica, la razionalità e la presunzione di innocenza”, ha detto il Guardasigilli in Parlamento. Tra le novità, la previsione di rendere obbligatorio l’interrogatorio di garanzia per chi è indagato per reati minori, che non destano allarme sociale né presentano un chiaro pericolo di fuga o inquinamento probatorio, come invece succede per i reati di mafia, droga e terrorismo. Limature in corso per definire la lista. Saranno inclusi i reati contro la Pubblica amministrazione ma potrebbero rientrare anche, stando alle indiscrezioni, reati finanziari come la bancarotta fraudolenta o il falso in bilancio. Un’ipotesi è prevedere l’interrogatorio anche per i reati di tossicodipendenza anche se sul punto Lega e FdI sono scettiche. Non si tratta comunque di un dettaglio: oggi l’interrogatorio preventivo non è obbligatorio e per ottenerlo dal Pm gli avvocati devono faticare non poco. L’altro pilastro della riforma della custodia cautelare in carcere a cui lavora il ministero è affidare il potere di arrestare a un giudice collegiale composto da tre magistrati, riservando al giudice monocratico i casi di flagranza e i provvedimenti d’urgenza. Idea che trova concordi i partiti di maggioranza ma si scontra con i cronici problemi di organico della giustizia italiana. Del resto un magistrato che giudica sulla richiesta del carcere preventivo non può pronunciarsi nello stesso caso nei gradi successivi. Un rebus ancora da sciogliere. Sempre per la parte procedurale, la riforma interviene sull’avviso di garanzia con l’obiettivo di rendere più circoscritto e chiaro il fatto contestato all’indagato. Non si è ancora trovata invece la quadra per la riforma dell’abuso di ufficio. Due riunioni del ministro tra mercoledì e ieri mattina con i sottosegretari Sisto (Fi), Ostellari (Lega) e Delmastro (FdI) non hanno sbloccato lo stallo. Se infatti l’opzione più quotata rimane l’abolizione tout-court del reato, la Lega spinge per ridimensionarlo, ad esempio cancellando l’abuso di vantaggio. Ad offrire una via mediana è Azione che ieri con il deputato Enrico Costa ha chiesto a Nordio di depenalizzare l’abuso di ufficio trasformandolo in una semplice sanzione amministrativa, “una battaglia di civiltà”. Costa ha consegnato nelle mani di Nordio un dossier sui “danni” dell’abuso di ufficio e la “paura della firma” dei sindaci e il ministro sarebbe propenso a prendere in esame la proposta, di fatto riducendo all’osso l’estensione del reato. Per il momento l’impasse resta - anche FdI è divisa tra un’ala che tifa per l’abolizione e un’altra più prudente - e potrebbe far slittare l’intero pacchetto anche se dal governo minimizzano, “entro fine maggio avremo una proposta”, ha detto ieri il ministro dei Trasporti e vicepremier Matteo Salvini. Tra i nodi della riforma anche la revisione del reato di traffico di influenze. Sul tavolo di Nordio c’è l’ipotesi di distinguere tra mediazione “illecita” e “lecita”. Così da far ricadere nella seconda fattispecie quelle attività legali - è il caso della rappresentanza di interessi o lobbying - che troppo spesso finiscono impigliate nelle maglie larghe del reato nella sua attuale formulazione. Un altro paletto consiste nel circoscrivere il reato alle relazioni “effettive” utilizzate per la mediazione illecita, escludendo dunque le relazioni “vantate” e non veritiere. Nordio e la maggioranza divisi dall’abuso di ufficio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 maggio 2023 Niente di fatto in una riunione al ministero. Posizioni distanti tra i partiti e dei partiti con il ministro. Intanto le audizioni alla camera confermano: il perimetro del reato è già stato ridotto e l’Italia ha obblighi internazionali da rispettare. La maggioranza non è d’accordo, la riunione di ieri al ministero della giustizia è stata inutile, continua la storia del reato di abuso di ufficio e delle sue modifiche. Storia infinita: modificato cinque volte in trent’anni, le ultime tre (1990, 1997 e 2020) per restringerne sempre più l’applicazione, l’articolo 323 del codice penale non va mai bene a chi governa. L’ultimo a cambiarlo era stato Giuseppe Conte, che nel luglio 2020 si presentò con tanto di slide per spiegare che il suo “decreto semplificazioni” avrebbe cancellato per sempre la “paura della firma” che blocca sindaci e altri amministratori pubblici. Persino la Corte costituzionale, fatto insolito, ha citato quella conferenza stampa per giudicare legittima l’ultima modifica: oggi perché ci sia abuso d’ufficio occorre che il pubblico ufficiale violi precise norme di legge con dolo e procurando a sé o ad altri un effettivo vantaggio, come ha ricordato ieri in audizione alla camera il professore di diritto penale Gian Luigi Gatta. Perché, altra stranezza, il parlamento sta lavorando da tempo sull’abuso d’ufficio, esaminando (seconda commissione camera) diverse proposte di legge di Forza Italia e Azione. Puntano all’abolizione secca del reato o, quella del calendiano Costa, alla sua depenalizzazione (sarebbe punito con una multa). Ma è quasi un esercizio retorico, perché si aspetta da un momento all’altro la proposta del governo, al solito lungamente annunciata dal ministro Nordio. Fosse per lui, lo ha detto, l’articolo 323 del codice penale andrebbe solo abolito: impossibile restringere ulteriormente la fattispecie. Ma non la pensa così il partito che lo ha fatto eleggere in parlamento, Fratelli d’Italia, né la Lega, che preferiscono un intervento più morbido, un ritocco che possa però avere lo stesso effetto dell’abolizione. Forza Italia invece sta con lui. Il vice ministro della giustizia Sisto e i due sottosegretari Delmastro e Ostellari rappresentano tutte e tre le forze politiche di maggioranza, per cui ieri si sono riuniti a via Arenula con i tecnici per concludere che le distanze tra loro restano. La promessa di portare questa riforma e poi anche le altre del pacchetto annunciatissimo (intercettazioni, custodia cautelare) deve attendere. Anche sé, come ha ricordato ieri Gatta, l’Italia è vincolata dalla convenzione dell’Onu di Merida che esclude la possibilità di rinunciare del tutto al controllo di legalità sui pubblici ufficiali. I dati però segnalano da tempo un problema. Se l’abuso d’ufficio viene contestato abbastanza facilmente (non solo ai sindaci, che insistono per un nuovo intervento, ma anche ai magistrati per esempio) perché ha una fattispecie generica, poi in circa l’80% dei casi viene archiviato. I procedimenti avviati sono però in calo (-40% dal 2016 al 2021), pochissime le condanne (una sessantina, patteggiamenti compresi, nel 2020). “Certo che è fastidioso finire sotto processo e poi essere assolto, ma sono le regole del gioco”, ha detto anche lui in audizione l’ex giudice Davigo (attualmente sotto processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio). L’Anci che rappresenta i sindaci insistono, M5S è contrario a ogni modifica, il Pd è prudente e preferisce la via della correzione della legge Severino. Ma i problemi sono soprattutto nella maggioranza. Per quanto Salvini possa, ancora, promettere: “La riforma arriverà entro maggio in Consiglio dei ministri”. “Fuori i magistrati dal Ministero, solo così si salva l’indipendenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 maggio 2023 Il costituzionalista Sabino Cassese: “Non possono esserci dei magistrati al vertice del potere esecutivo. Non solo a via Arenula, lo stesso vale per gli altri ministeri”. Ieri mattina abbiamo aperto la nostra terza esperienza al Salone internazionale del Libro di Torino con una intervista al costituzionalista Sabino Cassese. Con lui abbiamo parlato di riforme costituzionali e di giustizia e come le prime possono influenzare la seconda. Al termine dell’intervista, che potete rivedere sulla nostra pagina Facebook, abbiamo invitato il professor Cassese a visitare la cella di isolamento che abbiamo allestito nel nostro stand. Dopo averla vista ha dichiarato: “A guardarla, bisogna invece ispirarsi a quella in cui è recluso Anders Behring Breivik”, l’autore della strage sull’isola di Utøya il 22 luglio 2011. Lei in una intervista a Repubblica ha ricordato che il nostro Paese ha avuto 68 governi in 75 anni. Abbiamo un problema. È l’ora di riforme costituzionali? In realtà esistono tre questioni da affrontare e risolvere: durata, coesione e poteri del Governo. Rispetto a quest’ultimo in questo momento il Governo ha sufficienti poteri soprattutto ora per la concentrazione di potere del presidente del Consiglio nei rapporti internazionali. Inoltre il Governo è diventato il vero legislatore nel nostro Paese: un decreto legge a settimana. E poi si raddoppiano durante il passaggio parlamentare alla conversione. I problemi riguardano invece la durata e la coesione. Per la prima basta stabilire una durata, salvo una sfiducia costruttiva. Per quanto concerne la coesione dando la possibilità al presidente del Consiglio di mettere in riga i ministri recalcitranti, cioè mandarli a casa. C’è a suo parere un atteggiamento conservativo e in parte anche impaurito da parte del centro-sinistra verso le riforme costituzionali? Darei una diagnosi di questo tipo: lo Stato è una macchina che non funziona. Tutti quelli che vanno alla sua guida cercano di modificarla per migliorarne il funzionamento. Ma tutti quelli che non hanno il volante in mano si interessano un po’ meno del funzionamento della macchina e qualche volta sono anche contenti che non funzioni se al comando della macchina c’è qualcuno che a loro non garba. “L’attrazione del Presidente della Repubblica nell’agone politico e il radicale mutamento della sua fisionomia istituzionale avrebbero immediate ricadute sui poteri che attualmente la Carta costituzionale gli attribuisce nell’area del giudiziario: la presidenza del Csm, la nomina di cinque membri della Corte costituzionale, il potere di grazia”. Lo ha evidenziato un articolo pubblicato su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, a firma del direttore Nello Rossi. Lei condivide? Senza ombra di dubbio ogni riforma costituzionale ha delle implicazioni su altri rami della Costituzione. La Costituzione ha affidato alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura al Presidente della Repubblica perché considerato organo di persuasione. È chiaro che se il Capo dello Stato, nella forma massima del presidenzialismo, diventa la persona che determina l’indirizzo politico non può presiedere il Csm. Debbo aggiungere però un piccolo dettaglio. Prego professore... Tutti i nostri presidenti della Repubblica hanno presieduto molto poco il Csm, con una eccezione che lascio a lei indovinare. In un colloquio con il Foglio il ministro Nordio ha detto: “È ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso? Nordio, proprio in un convegno nel quale eravamo entrambi ospiti poco dopo la sua nomina, ha detto chiaramente che le sue posizioni personali vanno poi ponderate con le opinioni dell’organo collegiale di cui fa parte. E mi sembra giusto. Avrei però qualche riserva su tutto quello che ha fatto fino ad ora. Come mai? Mi è sembrato, come dire, un Nordio a rallentatore, mi è sembrato paradossale, per una persona che ha parlato per tanto tempo di depenalizzazioni, che si sono aggiunti nuovi reati e perché continua l’occupazione del ministero della Giustizia. Diciamo la verità. Assolutamente... Il nostro ordine giudiziario non sarà veramente indipendente fino a che nel ministero della Giustizia ci saranno dei magistrati. Non possono esserci dei magistrati al vertice del potere esecutivo. E lo stesso vale per gli altri ministeri. Quindi da questo punto di vista c’è stata anche una regressione. Sono stati nominati altri magistrati a via Arenula anche in posti prima occupati da funzionari amministrativi. Ribadiamolo questo punto: in un ordinamento nel quale c’è a) la separazione dei poteri b) il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura che ogni giorno i magistrati mangiano a colazione, pranzo e cena riempendoci la testa con l’indipendenza della magistratura, una magistratura indipendente vuol dire una magistratura che non dipende dal potere esecutivo. Il tema dei fuori-ruolo è un cavallo di battaglia dell’Unione delle Camere Penali e del deputato di Azione Enrico Costa. Un altro è quello della separazione delle carriere: secondo lei si riuscirà a raggiungere questo obiettivo? La classe politica italiana sostanzialmente vive nel terrore del potere giudiziario. All’interno di esso poche persone dal momento in cui sono mutate le norme costituzionali, cioè da 30 anni, tengono sotto scacco la classe politica italiana. E quindi c’è molta timidezza nell’affrontare questo problema che deriva implicitamente dalla riforma Vassalli. Io non sono molto fiducioso. Vorrei farle una domanda sulla Corte Costituzionale. Qualche mese fa Quaderni Costituzionali, diretti da Marta Cartabia e Andrea Pugiotto, hanno organizzato un dibattito sulle nuove forme di consultazione della Consulta. Si è discusso anche di dissenting opinion. Lei sarebbe favorevole? Non solo sono favorevole ma ne ho anche scritto nelle appendici del mio libro “Dentro la Corte”. Ho organizzato anche dei seminari alla Corte quando ero giudice costituzionale. Ho fatto venire dei giudici americani della Corte Suprema a parlare alla Corte Costituzionale su questo tema. E durante il mio mandato in Corte, la Consulta ha discusso per la terza volta di questo argomento. La prima volta i favorevoli erano due, la terza volta tre, quando c’ero io eravamo in quattro. Quindi, lentamente, può darsi che ci arriveremo. Non so quando. Caro Nello Rossi, riformare non vuol dire “sfregiare” la Costituzione di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 19 maggio 2023 L’equilibrio tra politica e giustizia esistente oggi, non è l’unico possibile né il migliore. È molto preoccupato Nello Rossi, Direttore della Rivista di Magistratura democratica, su Il Dubbio (che riprende un più ampio contributo sulla menzionata rivista), per le conseguenze che potrebbe avere in Italia l’introduzione di un sistema presidenziale, semipresidenziale o di premierato. Ed è, giustamente, preoccupato che una soluzione la quale modifichi la forma di governo potrebbe avere riflessi sul meccanismo dei pesi e contrappesi dell’intero sistema. Sin qui direi, non c’è la notizia. Il costituzionalismo ha il proprio codice genetico esattamente in questa consapevolezza: il potere, anche quando non è assoluto, come nell’Ancien Régime, è fatto di rapporti di forza in cui ciascun titolare tende ad abusarne. Ed è proprio per questo motivo che nasce il costituzionalismo: creare gli anticorpi equilibrando i rapporti di forza tra i poteri. Lo scriveva Montesquieu più di duecento anni fa, aggiungendo che persino “la virtù ha bisogno di limiti”. Per il costituzionalismo, insomma, non ci sono cavalieri senza macchia e senza paura; tutti sono sotto l’impero del diritto, anche quando sono virtuosi o agiscono con le migliori intenzioni. Ci sono invece due notizie che mancano nell’argomentato e, per molti versi condivisibile, articolo di Rossi. La prima: segnalare che riformare comporti rischi non può risolversi nel rinunziare alle riforme se queste sono necessarie, ma semmai nel considerare i rischi e predisporre gli anticorpi. E dunque una proposta (soprattutto quando proviene dall’esperienza di democrazie ben più antiche e consolidate della nostra) non può essere criticata solo perché il cambiamento è foriero di rischi (quale cambiamento non lo è?). La vera critica, se fondata, sarebbe quella che dimostrasse che i rischi non sono adeguatamente compensati da check and balances. Il che è difficile da dirsi nel nostro caso, perché non ci sono ancora né testi e né proposte da valutare. La seconda notizia che manca nell’articolo di Rossi è che l’equilibrio nel rapporto tra sistema giudiziario e sistema politico oggi esistente secondo le norme della Costituzione italiana vigente non è l’unico possibile o comunque il migliore. Rossi parte dal presupposto che lo sia e ripropone, mi pare, una versione elegante e sofisticata del noto argomento della “Costituzione più bella del mondo”. Argomento che però prova troppo, anche in questo caso. Innanzitutto perché noi non sappiamo cosa i costituenti avrebbero fatto oggi, in un contesto epocale lontano anni luce da quello del 1946. Forse, chissà, avrebbero dato retta a Calamandrei, che in Assemblea costituente si spese apertamente per il presidenzialismo. E a quanto pare non era il solo a pensarla così. Meuccio Ruini ne La Costituzione della Repubblica italiana (1966) precisava che sull’idea, da lui condivisa, dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica “in colloquio consentivano De Gasperi, Piccioni, Saragat, Calamandrei e altri del governo e della costituente”, pur convenendo “vi erano tuttavia in membri dell’Assemblea dubbi e incertezze”. Ma soprattutto se fosse vero quanto ritiene Rossi, e cioè che il rapporto tra magistratura e politica è nella nostra Costituzione costruito in base a un equilibrio millimetrico e perfetto, così che, modificando un tassello tutto il sistema cadrebbe, egli dovrebbe diventare il massimo sostenitore della reintroduzione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari, abrogata nel 1993. Tassello che certamente contribuiva, per i costituenti, a evitare il doppio rischio di abusi reciproci tra magistratura e democrazia. Rossi aggiunge un ulteriore argomento contro il presidenzialismo: sottrarrebbe necessariamente al Presidente della Repubblica la Presidenza del Consiglio superiore della magistratura. Ciò finirebbe per rompere l’equilibrio di quell’organo, a danno della politica. Ricostruendo, il dibattito costituente, Rossi opina che la presidenza del CSM al Capo dello Stato sarebbe stata la “compensazione” per la riduzione della rappresentanza laica nello stesso consiglio a seguito dell’approvazione dell’ordine del giorno Scalfaro che riduceva appunto la presenza dei membri di nomina politica dalla metà a un terzo del collegio. Insomma Rossi si preoccupa che il presidenzialismo finirebbe per accentuare la chiusura oligarchica della magistratura, ormai privata del “contrappeso” della presidenza del Csm del Capo dello Stato. Anche questo argomento, certamente suggestivo, prova troppo. Perché, si potrebbe replicare, c’è anche un altro modo per ovviare al rischio paventato. Basterebbe tornare al progetto originario di Costituzione, stabilire una composizione paritaria tra laici e togati nel CSM e abrogare l’emendamento Scalfaro, che peraltro fu votato dall’Assemblea costituente con una maggioranza molto risicata. Altro si potrebbe dire, ma forse non è necessario. Ci sembra sufficiente condividere con l’illustre esponente di Magistratura democratica l’unica vera notizia: quando si fanno le riforme, soprattutto se sono riforme che cambiano qualcosa e non sono solo un maquillage gattopardesco per salvarsi la coscienza… quando si fanno le riforme, dicevo… bisogna farle bene, con equilibrio, in modo che l’eventuale presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato (ognuno ovviamente è libero di preferire ciò che vuole) rimangano nel solco della tradizione del costituzionalismo, come accade in tante democrazie avanzate. Grazie. Duly noted. Al boss permesso per la messa. Anche a chi non si è pentito è concesso uscire dal carcere di Dario Ferrara Italia Oggi, 19 maggio 2023 Il boss non pentito può uscire dal carcere in permesso premio per andare a messa. Il tutto grazie alla Consulta: la Corte ha dichiarato illegittime sul punto le norme come l’ergastolo ostativo che escludevano i benefici al condannato per omicidio mafioso che non collabora con la giustizia non si può dunque negare il permesso al detenuto solo perché il clan cui apparteneva è ancora operante, se non ci sono ancora collegamenti con la cosca e il rischio che siano ripristinati. E ciò specialmente se il recluso sta compiendo un percorso risocializzante riconosciuto come esemplare e risulta convinta l’adesione ai principi della religione cattolica. Così la Cassazione nella sentenza 21355/23, pubblicata il 18 maggio dalla prima sezione penale. È accolto il ricorso presentato dal detenuto, un tempo ritenuto elemento di spicco di un clan della criminalità organizzata e condannato per un omicidio aggravato dal metodo mafioso, commesso nel lontano 1998. Sbaglia il tribunale di sorveglianza a confermare il no al permesso premio chiesto dal detenuto per partecipare a una funzione prevista in una diocesi calabrese. Non ci sono rischi che il condannato entri in contatto con attuali componenti del suo vecchio clan, che è radicato in un’altra regione meridionale. Ma soprattutto l’errore sta nel negare il beneficio sul mero rilievo che il clan sia ancora attivo, pur dopo aver dato un giudizio assolutamente positivo sul tratto personologico del recluso: dalla relazione del carcere emerge che il detenuto partecipa a molte attività e ha “intrapreso un serio percorso di istruzione”. E le informative di polizia escludono una possibile futura ripresa dei collegamenti criminali: il condannato non risulta raggiunto da alcuna misura custodiale da quando è in carcere. Negare il beneficio, in questo caso, equivale a reintrodurre in via surrettizia - sia pur parzialmente -la presunzione assoluta di pericolosità sociale dichiarata illegittima dalla sentenza costituzionale 253/19: l’unico modo per ottenere il permesso premio sarebbe collaborare con gli inquirenti, visto che fuori dal carcere il clan continua nelle sue imprese criminali. Parola al rinvio. Napoli. Respinta la richiesta di scarcerazione per il boss malato: è morto in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2023 Un’importante figura del clan Pilera-Puntina di Catania, Giacomo Maurizio Ieni, detto Nuccio, è morto nel carcere di Secondigliano a Napoli. La notizia è stata data dal suo difensore, l’avvocato Salvatore Silvestro del foro di Messina, che ha rivelato la richiesta di scarcerazione avanzata nelle settimane precedenti a causa delle gravi condizioni di salute dell’uomo. Richiesta respinta dal gip del tribunale di Catania. La morte di Ieni ha sollevato domande e i suoi legali hanno annunciato l’intenzione di presentare una denuncia per fare luce sulle circostanze del decesso. Sotto il controllo del boss Salvatore Pillera, conosciuto come Turi Cachiti, il clan Pilera-Puntina di Catania è stato protagonista di numerosi crimini e attività illecite. Nuccio, considerato uno degli elementi di spicco del clan, avrebbe dovuto comparire il 25 maggio all’udienza preliminare del processo ‘ Consolazione’, che riguardava le attività illecite del gruppo mafioso del Borgo, diretto proprio da Ieni in collaborazione con Fabrizio Pappalardo. La richiesta di una misura alternativa per motivi umanitari presentata dai legali di Ieni si basava sulle sue precarie condizioni di salute. Secondo il suo avvocato, soffriva di disturbo depressivo maggiore con caratteristiche melanconiche, anoressia nervosa, psoriasi e altre patologie. Nonostante la perizia medica a sostegno della richiesta di scarcerazione, il giudice per le indagini preliminari ha deciso di respingerla. La morte di Ieni solleva nuovamente importanti interrogativi riguardo alla gestione del sistema carcerario e alla tutela del diritto alla salute dei detenuti. Il fatto che un individuo con gravi problemi di salute non abbia potuto ottenere una misura alternativa all’ambiente carcerario del tutto incompatibile per la salute suscita interrogativi sul rispetto del principio della dignità umana, soprattutto il diritto alla salute che è primario rispetto all’esigenza della punizione. L’importanza di garantire cure sanitarie adeguate ai detenuti è stata sottolineata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo il principio di equivalenza delle cure, è stabilito che i detenuti debbano ricevere lo stesso livello di assistenza medica e psico- sociale garantito a tutti gli altri membri della società. I servizi sanitari devono quindi garantire l’equità del diritto alla salute e alle cure senza alcuna forma di discriminazione, compresa la condizione di detenuto. Questa garanzia vale per tutti i cittadini, senza distinzione. La Sanità Penitenziaria, riformata nel 1999 con il D. L. 203, si basa sul principio che i detenuti hanno gli stessi diritti dei cittadini liberi a ricevere prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, che devono essere efficaci ed appropriate. Questo principio si basa sugli obiettivi generali e specifici di salute e sui livelli essenziali e uniformi di assistenza stabiliti nel Piano Sanitario Nazionale, nei piani sanitari regionali e locali. Questa riforma ha reso necessaria un’interazione tra il sistema sanitario e il sistema di giustizia, condividendo linguaggi e strumenti per perseguire un obiettivo comune: garantire il diritto alla salute delle persone detenute. Tale diritto è stato stabilito già nel 1970 con la legge n. 740, che prevedeva che i cittadini detenuti avessero il diritto di ricevere cure mediche all’interno del carcere. La legge 354/ 1975 ha ulteriormente stabilito che le prestazioni sanitarie dovessero essere fornite da medici responsabili dell’assistenza di base, da medici specialisti e da infermieri che contribuissero anche all’osservazione scientifica della personalità del detenuto, valutandone lo stato psichico. L’articolo 11 di questa norma ha regolamentato l’assistenza sanitaria nelle strutture carcerarie, stabilendo che ogni struttura deve garantire la presenza di servizi sanitari adeguati alle esigenze della popolazione detenuta, compresi specialisti in psichiatria. È possibile inoltre avvalersi della collaborazione dei servizi pubblici sanitari locali, ospedalieri ed extra-ospedalieri, previa intesa con la Regione e in linea con gli indirizzi del Ministero della Salute. L’ordinamento giuridico offre alla magistratura diverse possibilità per tutelare la salute dei detenuti in caso di malattia grave. Secondo gli articoli 146 e 147 del Codice Penale, è possibile differire l’esecuzione della pena’ o addirittura disporre la scarcerazione in via di urgenza nel caso di grave malattia. Queste disposizioni sono applicabili quando si verificano condizioni particolari, come il rischio suicidario, il danno psichico o la sofferenza aggiuntiva causata dalla detenzione. Le ragioni di tali disposizioni, che rappresentano un’eccezione al principio che le pene inflitte devono essere espiate, si spiegano in base all’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono sempre avere una finalità rieducativa. Torino. Ragazzi in carcere, tante risposte all’appello de La Voce e il Tempo di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 19 maggio 2023 I lettori de “La Voce e il Tempo” stanno rispondendo con generosità all’appello per i ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti. Sono già numerose le offerte di denaro ricevute dopo l’annuncio che abbiamo pubblicato la scorsa settimana. I lettori de “La Voce e il Tempo” stanno rispondendo con generosità all’appello per i ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti. Sono già numerose le offerte di denaro ricevute dopo l’annuncio che abbiamo pubblicato la scorsa settimana. In occasione della visita dell’Arcivescovo all’Istituto di pena torinese, avevamo riportato un appello di Pasquale Ippolito, presidente dell’Associazione di volontariato “Aporti Aperte” che opera al “Ferrante”: “Stiamo allestendo per i ragazzi una sala per la ricreazione: abbiamo bisogno di un calcio balilla e giochi da tavolo, abiti maschili e prodotti per l’igiene personale. Grazie”. Nel giro di due giorni la generosità dei lettori, comunità parrocchiali e associazioni non si è fatta attendere: “Con la prima donazione” spiega Pasquale Ippolito, commosso per le numerose e insperate offerte ricevute, “abbiamo acquistato ben due calciobalilla nuovi che abbiamo già montato nella sala. E poi continuano ad arrivare molte mail e telefonate per informazioni sul materiale che manca e buste con offerte. Grazie ad un’altra donazione sono stati acquistati 5 borsoni per i ragazzi che, finita la pena, escono dall’Ipm (Istituto penale per i minorenni) e non hanno altro che un sacco nero per i loro effetti personali”. Un tam tam “solidale” che permetterà all’Associazione, che ha riaperto lo scorso sabato le attività ricreative e di socialità sospese per tre anni causa pandemia, di allestire una sala del “Ferrante” inutilizzata per offrire ai ragazzi reclusi momenti “sani” di aggregazione grazie ai giochi offerti dalla sensibilità dei lettori del nostro giornale. “Dopo la pandemia”, prosegue Ippolito anche responsabile della formazione professionale di Inforcoop nell’Ipm torinese, “‘Aporti Aperte’ ha proposto un corso per 30 volontari che si alternano nell’Istituto in compagnia dei ragazzi il sabato pomeriggio e qualche domenica. Prima del covid avevamo in dotazione solo due vecchi tavoli da ping pong: ora con le offerte che stanno arrivando potremo arredare la sala anche con giochi da tavolo e altri intrattenimenti indispensabili per interessare i ragazzi soprattutto nel periodo estivo quando le attività scolastiche e formative sono sospese e il tempo ‘vuoto’ è deleterio per i giovani ristretti. Ringraziamo in anticipo chi vorrà ancora aderire al nostro appello, così come hanno già fatto in una settimana tanti lettori: le donazioni serviranno anche per borse lavoro per i detenuti che si avviano al fine pena, per vestiti e prodotti per l’igiene personale che il carcere non fornisce”. Per informazioni e donazioni: scrivere a: aporti.aperte@gmail.com, tel. 335.6325109. Torino. Il convegno: “Mamme recluse con i bambini, non è dignitoso” di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 19 maggio 2023 “In carcere, mamme detenute con i loro bambini: i diritti non garantiti”: un tema “spinoso” per un convegno non a caso organizzato sabato 13 maggio, vigilia della Festa della Mamma, presso la Sala delle Colonne del Municipio di Torino. Organizzato dalla garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino, Monica Gallo, per richiamare l’attenzione sulle madri che scontano la pena in carcere insieme ai figli dai 2 ai 6 anni negli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), strutture dentro le mura carcerarie dei penitenziari italiani: una condizione difficile tanto per le madri quanto per i bambini. Durante lavori è stata anche presentata la campagna “Madre fuori” che nasce “da una risposta immediata di una rete nazionale di donne soprattutto rispetto alla proposta del senatore Cirielli, di Fratelli d’Italia, che prevede di negare la potestà genitoriale a tutte le donne che abbiano una sentenza definitiva: una violazione grave dei diritti delle donne e dei bambini” hanno evidenziato le promotrici. Ivano Bianco dell’Associazione “Sbarre di Zucchero” ha raccontato la sua penosa storia di bimbo incarcerato prima dell’entrata in vigore degli Icam (istituiti con la legge 62 del 2011, attualmente presenti in 5 penitenziari italiani tra cui il “Lorusso e Cutugno” di Torino). Bianco ha detto che ricorda nitidamente le perquisizioni di detenuto bambino, il suono secco dei cancelli che si chiudono, il bacio della mamma prima di uscire, l’abbraccio al rientro, l’odore del carcere, la presenza dei mitra e l’oscura tristezza della prigione. Un intervento che ha emozionato il pubblico accolto con caloroso applauso. Monica Gallo, ha ricordato che nel 2019 in carcere c’erano 11 mamme con 12 bambini. L’avvento del Covid ha ottenuto l’applicazione della raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità di privilegiare l’uscita dal carcere delle persone vulnerabili e in particolare delle donne con bambini. Ed è proprio durante la prima ondata che si è avuta la dimostrazione che le alternative agli Icam sono possibili. “A Torino” ha precisato Monica Gallo “abbiamo avuto una discesa consistente dal 2019 ad oggi proprio a causa della pandemia. Su 11 mamme e 12 bimbi è rimasta solo una mamma con la sua figlioletta”. Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte, che già nel 2020, in piena pandemia, aveva lanciato un appello per la realizzazione di una rete di Case famiglia per mamme in esecuzione penale con figli piccoli, ha evidenziato come “nel 2021 è stato dato un finanziamento straordinario alle regioni, compreso il Piemonte, per dotarsi di strutture adeguate per garantire una alternativa al carcere e all’Icam. Due le classi di finanziamento da 50 e 90 mila euro per realizzare queste strutture. Per rispondere alle esigenze diverse delle madri con bambini è stata creata una cabina di regia di cui fanno parte anche il Prap (Provveditorato Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta), Centro di giustizia minorile e l’Uepe, (Ufficio per le esecuzioni penali) per affrontare i singoli casi della madri detenute”. L’assessore comunale ai Diritti e Pari opportunità, Jacopo Rosatelli, ha sottolineato come “ci sia un principio di dignità da difendere. Una persona che finisce in carcere non è per forza un cattivo genitore, togliergli i figli sarebbe un’ulteriore pena afflittiva”. Anche l’assessore al Lavoro e Rapporti con il sistema carcerario, Gianna Pentenero, ha ribadito che “una sola detenuta nella struttura rischia di rendere ancora più pesante la reclusione in quanto vissuta come un isolamento”. Infine il senatore Andrea Giorgis e altri relatori intervenuti al convegno hanno ribadito la necessità, fatta salvo l’esecuzione della pena, di costruire spazi in cui mamme e bambini possano vivere affiancati da operatori, psicologi ed educatori, impegnati nella costruzione di progetti di vita. Progetti gestiti con fondi pubblici e coordinati e sostenuti dalla magistratura di Sorveglianza. Torino. Al Salone del Libro il carcere spiegato ai ragazzi iltorinese.it, 19 maggio 2023 Raccontare la vita delle persone private della libertà ai più giovani. Questo l’obiettivo dell’appuntamento che, questa mattina, ha aperto il calendario di eventi nello stand istituzionale di Città di Torino al Salone internazionale del Libro. La riflessione è partita dal volume “Il carcere spiegato ai ragazzi”, nato da un progetto dell’Associazione Antigone che si propone di far comprendere la quotidianità dei detenuti nella sua autentica e dolente realtà. Una realtà, questa, “di cui non si parla mai abbastanza” come si evince dalle parole di Monica Gallo, Garante della Città di Torino per i diritti delle persone private della libertà. “Le scolaresche - ha spiegato - visitano il carcere senza saperne molto prima” lasciando in queste visite poca dignità per i detenuti e poca attenzione verso i ragazzi. Per questo, spiega “da settembre abbiamo previsto cicli di incontri dedicati proprio ai ragazzi che decidono di entrare come visitatori negli istituti penitenziari”. Ospite d’eccezione il regista Davide Ferrario, che nel 2008 con la pellicola “Tutta colpa di Giuda”, girata nel carcere delle Vallette di Torino con protagonisti veri detenuti e agenti di polizia carceraria dell’istituto, aveva già provato a portare fuori dalle mura del carcere la realtà del “dentro”, parlando in particolare ai più giovani. La riflessione si allarga ovviamente al carcere come necessario luogo di riabilitazione sociale e non soltanto di pena. Susanna Marietti, coautrice con Patrizio Gonnella del libro edito per Manifestolibri, ha raccontato delle presentazioni del libro nelle scuole della Capitale dove “nessuno tra i ragazzi sa quante siano le carceri in Città, quali le differenze tra loro o dove si collochino” per significare quanto poco effettivamente si conosca questa realtà. “Eppure - ha aggiunto - rendere il carcere più trasparente è una necessità, dettata dal fatto che è uno dei luoghi con più bisogno di controllo sociale e, proprio in quanto luogo chiuso, con più facilità di abusi”. Michele Miravalle, coordinatore Osservatorio di Antigone sul carcere, ha invece evidenziato l’importanza di rivolgersi prima di tutto ai giovani per cambiare la percezione culturale del carcere perché - ha detto - “alla loro età ancora non hanno solidificato il pregiudizio e non vivono di stereotipi. Fondamentale - ha aggiunto - far passare il messaggio che il carcere non è uno stigma e i detenuti, una volta fuori, non devono trovarsi a pagare di più della pena che hanno già finito di scontare”. A chiudere i lavori l’intervento dell’Assessore della Città di Torino Francesco Tresso, che ha evidenziato come dalle carceri si noti il livello di avanzamento della società stessa. “La Città - ha detto - è costantemente al lavoro sul tema con la garante e l’Assessora alla Sicurezza Pentenero. Proprio recentemente è stata presentata un’indagine condotta proprio sulla popolazione giovanile del carcere ed è stato inaugurato uno sportello di accompagnamento al fine pena, momento delicato e fondamentale per il reinserimento sociale delle persone”. Il carcere e le difficoltà degli istituti penitenziari saranno al centro di altri tre incontri in programma nello stand della Città nei prossimi giorni. Tra i più attesi certamente quello di sabato 20 maggio, che vedrà ospiti alcuni membri del cast di Mare fuori, il grande successo di Rai Fiction che ha portato sul piccolo schermo le storie di vita quotidiana all’interno di un istituto Catanzaro. Carcere ostativo, l’argomento al centro del dibattito alla Camera penale lacnews24.it, 19 maggio 2023 Appuntamento per il 19 maggio quando verrà presentato il libro di Salvatore Curatolo. Si discuterà delle novità contenute nella riforma introdotta dal Governo. “In Italia è stata abolita la pena di morte, ma esiste ancora la “morte per pena”. Il “fine pena mai” è, oggi, al centro del dibattito pubblico, non solo per gli addetti ai lavori”. Lo scrive in una nota il segretario della Camera Penale di Catanzaro, Francesco Iacopino, annunciando l’argomento del prossimo evento. “Dopo la Sentenza “Viola” della Corte Europea e l’intervento della Corte Costituzionale è stata introdotta di recente una riforma dal Governo in carica. La novella, formalmente diretta al superamento delle preclusioni assolute che impediscono l’accesso ai benefici in caso di condanna per delitti “ostativi”, travalica in realtà le indicazioni fornite in materia dalla Corte costituzionale e, a ben vedere, anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, restituendoci un quadro normativo per molti versi deteriore rispetto al precedente. Ne parleremo venerdì 19 maggio, in occasione della presentazione del libro di Salvatore Curatolo, al fine di comprendere se il nuovo e intricato scenario che si dischiude davanti al condannato “ostativo” possa davvero garantire quel diritto alla speranza che una pena de iure o de facto irriducibile mira invece a cancellare”. Milano. Detenuti in scena raccontano la loro rinascita. Dalla caverna alla luce lacittadelnordmilano.it, 19 maggio 2023 Alle sette della sera inizia a piovere piano. C’è ancora molta luce nonostante le nuvole che rapide passano l’orizzonte e non promettono nulla di buono. In fila davanti al blocco centrale del carcere di Opera c’è una fila di persone in attesa di entrare. Nel teatro interno al penitenziario più grande d’Italia c’è uno spettacolo scritto e realizzato dai detenuti e la curiosità è tanta. Gli spettatori sono studenti, professori e laureati dell’Università Bocconi di Milano. Un pubblico raffinato, colto. Non è la prima volta che accade, i carcerati invitano i “civili”, offrono uno spettacolo, raccolgono offerte che poi devolvono a chi ne ha bisogno. E’ la politica del doppio binario, che pare funzionare ed appassionare, introdotta da Silvio Di Gregorio, direttore del carcere. Lui crede molto all’idea del recupero attraverso un constante scambio con chi sta fuori dalle sbarre. E alla restituzione benefica del lavoro dei reclusi a favore del mondo esterno. Sta di fatto che superati i controlli, il pubblico entra in galera a gruppi, accompagnato dagli agenti di polizia penitenziaria. Il teatro è una sala accogliente e piuttosto capiente, la si raggiunge una volta attraversato il grande cortile interno. Si passa a fianco del reparto più discusso e spaventevole, il 41 bis, ma in pochi sanno, che è proprio a qualche metro dai loro passi, che vivono in completo isolamento molti boss venuti agli onori delle cronache. La Galleria delle Opportunità invece è un lungo corridoio che porta ai reparti e proprio poco avanti sulla sinistra c’è il teatro. La sala si riempie in pochi minuti, l’atmosfera è quella delle grandi occasioni. Gli attori lo sanno, alcuni si aggirano nei dintorni del palco, altri uomini della compagnia stanno in fondo alla sala, saranno incaricati di gestire luci e suoni. Gli agenti, discreti e gentili, indirizzano subito chi arriva ad accomodarsi, per evitare che vengano a contatto coi detenuti. Dietro le quinte la compagnia è quasi al completo. Sorridono, qualche battuta per scacciar via la tensione, sono tutti di nero vestiti, per qualche ora hanno abbandonato i loro abiti comodi, le loro tute da ginnastica, il loro solito via vai negli spazi ristretti del reparto alta sicurezza. C’è Pasquale, 50 anni, studente proprio alla Bocconi e in cella da venti. Per lui è l’occasione per far notare a suoi professori in sala di aver la stoffa da vendere nel ruolo di manager. Organizzare un gruppo di detenuti con pene pesanti e molti anni passati dietro le sbarre, motivarli e farli recitare è cosa possibile. E infatti sta accadendo. Anche Luigi, un altro storico del gruppo conferma che tutto è possibile basta volerlo. Il gruppo (Anime SoSpese, così si chiama) si è formato durante il periodo del covid. Tutta l’Italia reclusa in casa e a loro non sembrò vero. E così hanno iniziato a pensare a qualcosa da fare per superare la crisi e per darsi qualche itinerario culturale che valesse la pena di essere vissuto. Sono una trentina di persone. Tutti insieme, per la statistica carceraria, corrispondono a di decine e decine di anni di reclusione. Come uomini, invece, sono protagonisti di infinite attese, di sofferenze, di tentativi di riscatto, di fallimenti e rinascite ma anche di tanta allegra speranza. Portano in scena il “Dramma della caverna”, un pièce che oltre a recitare hanno anche scritto di loro pugno. C’è Angelo, il filosofo del gruppo, non è sul palco ma nelle ultime file. Da lui passa gran parte della creatività di quest’opera introspettiva e potente. Le luci si spengono. Non recitano affatto male, alcuni sono facilitati dal fatto di essere napoletani, ritmo e gestualità non mancano. Il dramma è fresco, pieno di note di colore, a tratti divertente, per nulla ridondante o retorico. C’è tutto lì dentro. Hanno avuto un’idea semplice ma geniale i ragazzi, hanno raccontato di come nasce un gruppo del genere, di come si esce dal silenzio (dalla caverna) dei propri giorni tutti uguali e tristi, dalla rassegnazione e dall’oblio di una vita murata, alla creazione di qualcosa di nuovo. Del tentativo di tornare alla vita, di ridisegnarla e di usare la cultura come piccone salvifico. Scene evocative, canzoni toccanti, speranza e testi mai banali. Hanno fatto il miracolo i detenuti dell’alta sicurezza. Niente da dire. Domenico, Francesco, Daniele, Rocco, Angelo e molti altri, ognuno modo suo. Il pubblico applaude, nei tre atti non c’è stato spazio per la noia, per la delusione, per qualche distrazione. Gli occhi puntati sul palco e molti erano lucidi. E quando è così significa che è andata, anche parecchio bene. Foggia. Un orto da coltivare nel carcere, per il reinserimento sociale dei detenuti di Loris Castriota Skanderbegh ledicoladelsud.it, 19 maggio 2023 La coltivazione dei campi come strumento di rieducazione e di reinserimento sociale dei detenuti. L’importante progetto sperimentale, intitolato “Natura libera”, è partito ieri nel carcere di Foggia, con l’inaugurazione di un piccolo tenimento agricolo, affidato - almeno in questa prima fase dell’iniziativa- alle cure di cinque detenuti. A “tagliare il nastro”, alla presenza delle autorità istituzionali e ai rappresentanti del terzo settore del territorio, è stato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, che ha sottolineato rispondenza del progetto con la funzione rieducativa della pena sancita dalla Costituzione. La rilevanza fondamentale della collaborazione tra istituzioni, volontariato e mondo della scuola è stata rimarcata dalla direttora della Casa circondariale di Foggia, Giulia Magliulo. “Mi è piaciuta dal primo momento - ha detto - l’idea del valore terapeutico del lavoro agricolo. I detenuti sono coinvolti nel ciclo vitale dei frutti e, così come la terra si reinventa, possono trarre ispirazione per rigenerare se stessi, vedendo i prodotti crescere tra le proprie mani”. Ringraziamenti e riconoscimenti sono andati al personale del carcere di Foggia -tra cui il comandante Giovanni De Candia, la Capo area trattamentale, dott.ssa Valentini, la Capo area contabile dott.ssa Rubino - ma anche le istituzioni scolastiche. In particolare, Luigi Talienti, dirigente scolastico dell’istituto “Lecce” di S. Giovanni Rotondo, con uno dei suoi docenti, il professore Matteo Soccio che ha elaborato la parte tecnica del progetto. Dopo una formazione teorica, i detenuti hanno avviato, sui terreni incolti presenti all’interno dell’Istituto penitenziario foggiano, la coltivazione di ortaggi, oltre che l’allevamento di galline con la conseguente produzione di uova. I frutti del loro lavoro saranno venduti nello spaccio interno degli agenti penitenziari a prezzi contenuti, contribuendo anche al benessere loro e delle loro famiglie. Napoli. A Nisida un murale e un progetto di avviamento al lavoro per i giovani detenuti di Antonio Carlino cronachedellacampania.it, 19 maggio 2023 I giovani detenuti dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida sono i protagonisti del progetto promosso da Ripartiamo APS, in collaborazione con Sielte SpA e Maupal, che punta a far vivere ai ragazzi un’esperienza artistica e un percorso di avviamento al lavoro. Ier pomeriggio, giovedì 18 maggio, alle 16,30 ha preso il via il progetto “Sole in mezzo!”. Durante l’evento di presentazione l’Associazione Ripartiamo dedicherà ai giovani di Nisida il murale realizzato da Maupal, street artist romano, dal titolo “Ero, ora sono”. L’opera ra?gura un giovane di spalle che cammina in direzione del futuro: con la mano sinistra regge lo zaino del passato che non si può cancellare e con la mano destra innalza la palla incatenata, simbolo della condizione dei detenuti. La palla rappresenta il cambiamento, una metà è nera per ricordare “chi ero” e l’altra metà ha i colori del globo terrestre per sottolineare “ora sono”. Sulla maglietta del ragazzo il logo di Ripartiamo APS simboleggia una nuova opportunità da cogliere, per ricordare che è sempre il tempo di alzarsi e ripartire. “Uscendo dall’Istituto penitenziario, anche se con percorsi di reintegrazione, si resta comunque legati al mondo delle carceri. Ci si trova di fronte ad un bivio: chi ero e chi voglio diventare?” - spiega l’artista Maupal. Grazie alla preziosa disponibilità del Direttore Gianluca Guida, sarà possibile varcare la soglia del carcere per i volontari di Ripartiamo e per il Sales Area Manager di Sielte, Rino De Zotti. La società italiana leader nel settore delle telecomunicazioni, in virtù del protocollo d’intesa “Lavoro carcerario” sottoscritto a giugno 2022 tra il Ministero della Giustizia e quello per l’Innovazione tecnologica, o?rirà anche ai ragazzi di Nisida l’opportunità di realizzare un progetto che ha già portato buoni risultati in altri istituti penitenziari. “Dare competenze tecniche specialistiche vuol dire inserimento nel mondo del lavoro che, come ripete la nostra Costituzione, “nobilita l’uomo” - dichiara il Dott. De Zotti. “Attraverso un percorso formativo si vuole o?rire un nuovo ruolo nel mondo delle telecomunicazioni, con attività di help desk di primo e secondo livello ma anche di rigenerazione degli apparati di rete quali router, switch, apparati telefonici. Sielte è da tempo impegnata in progetti di rieducazione e di formazione dei detenuti perché crede fortemente che una possibilità di riscatto sociale debba essere data a tutti, anche a chi sbaglia. Il pregiudizio sui detenuti, soprattutto sui più giovani, va messo da parte, per consentire loro di ritornare a una routine ordinaria, a partire dal lavoro. Questa è la loro opportunità”. L’iniziativa, benedetta dalla guida spirituale di Ripartiamo APS Don Carmelo Terranova, vuole porre l’attenzione sulla riabilitazione e sull’inserimento sociale dei ragazzi del Nisida. “Lo sguardo di Ripartiamo è ?sso sul Cristo che cammina per le strade del mondo e dove ci conduce portiamo speranza. Questa volta coloreremo di gioia il Nisida” - ha dichiarato il segretario generale di Ripartiamo APS Mariacarmela Aragon Ma sei italiani su dieci non leggono di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 19 maggio 2023 Siamo tornati ai livelli di lettori di libri del 2000. Sotto il 40% della popolazione di 6 anni e più. Tre punti sotto il livello di 20 anni fa, secondo le statistiche dell’Istat. Non siamo mai stati grandi lettori come paese. E ci confermiamo a livelli bassi, nonostante la percentuale di diplomati e laureati sia cresciuta in questi 22 anni. Sono stati 20 anni di grandi trasformazioni soprattutto da un punto di vista dell’accesso alle nuove tecnologie. La lettura di libri era inizialmente cresciuta. Il trend era stato positivo fino al 2010 quando abbiamo raggiunto il massimo con il 46,8%. Ventisei milioni e mezzo di lettori nel tempo libero. Purtroppo, però, a un certo punto, si è avviata una vera e propria inversione di tendenza. E così in soli 6 anni, dal 2010 al 2016, ci siamo persi 3 milioni e mezzo di lettori. E quando parliamo di lettori ci stiamo riferendo a quelli che leggono 1 o più libri all’anno, non al mese. Questi ultimi sono pochissimi e sono più o meno stabili nel tempo, il 6% circa. I giovani da 11 a 24 anni sono coloro che leggono di più. Ma sono proprio loro che in quegli anni hanno perso più lettori. Mentre gli ultrasessantenni rimanevano stabili. Il calo è avvenuto in tutte le ripartizioni e il Centro-Nord si è collocato sotto al 50% di lettori nel 2016. Non tornerà più sopra quel livello. Le differenze con il Sud sono elevate, ma neanche il Centro-Nord brilla per numero di lettori. In quegli anni il calo ha riguardato gli uomini, ma anche le donne che leggono di più. Superato il 2016, il dato rimane stabile fino al 2019 come effetto di una diminuzione della lettura tra gli anziani e un nuovo aumento tra i giovani di 11-24 anni. Arriva il 2020 e grazie al lockdown la percentuale di lettori cresce di 1,4 punti percentuali. È stata però una breve parentesi. Perché nel 2021 e nel 2022 l’indicatore di lettura di libri diminuisce di nuovo. In due anni due punti in meno. Certo è che il piccolo picco del 2020 è stato riassorbito dal ritorno alla vecchia normalità di bassa incidenza di lettori e alta percentuale di lettori “deboli” che leggono da 1 a 3 libri l’anno. Un interrogativo dobbiamo porcelo. Quanto tutto ciò è legato alla pervasività della rete? Quanto all’utilizzo massiccio dei social network? Si legge tanto sulla rete ormai, cose “colte” e meno “colte”, informazioni di ogni tipo. Ci si diverte, ci si gioca, ci si relaziona. E si comunica in modo estremamente sintetico. Passando da un social all’altro, da un post a un twitter, a una storia su Istagram. Si leggono messaggi telegrafici sotto grandi immagini. È possibile che tutto ciò incida e inciderà sulla lettura di libri. Anche se va detto che sono sempre i giovani quelli che leggono di più, proprio coloro che utilizzano di più i social media. In particolare le ragazze. E guardate che non sempre è stato così. Prima erano gli uomini. Il sorpasso è stato registrato dall’Istat nel 1988. E il gap di genere a vantaggio delle donne è stato elevato e ora è di 10 punti percentuali. Neanche le donne in maggioranza leggono, solo il 44%. Le ragazze arrivano e superano il 60%. Il quadro non è affatto positivo e si affianca a quello delle basse competenze alfabetiche dei nostri ragazzi misurate dai test Invalsi ogni anno. Non basta applicare pedissequamente la nuova tecnologia ai libri potenziando l’offerta degli ebook che dai dati Istat sembrano essere utilizzati molto dagli stessi lettori di libri cartacei e non tanto da nuovi segmenti. Sarà necessario reinventarsi nuove forme comunicative dei libri stessi. Nuovi linguaggi, nuove forme di distribuzione. Gli editori sono al lavoro e cercano di interpretare le nuove tendenze, modificando l’offerta, adattandola alla nuova potenziale domanda. Non è facile caratterizzarla fino in fondo, ma è una sfida affascinante per loro e per il paese. Chissà come si riconfigureranno i libri del futuro. Servizi e politiche insufficienti: da anni la Campania è all’ultimo posto di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 maggio 2023 Indice regionale sul maltrattamento Cesvi 2022. 64 indicatori raggruppati in sei capacità, secondo la teoria di Amartya Sen. La curatrice del volume Valeria Emmi: “Va interrotta la trasmissione tra generazioni”. “Il bambino maltrattato o che assiste alla violenza domestica ha molte più probabilità di diventare un adulto maltrattante. Nel caso di una bambina che subisce o assiste, aumentano invece le probabilità di diventare un’adulta vittima di violenza”. È un dato “verificato attraverso studi e analisi di decenni”, spiega la ricercatrice Valeria Emmi, curatrice dell’”Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia 2022” del Cesvi, rapporto giunto alla sue quinta edizione. Obiettivo numero uno di chiunque si occupi di questa piaga: “Interrompere questa trasmissione intergenerazionale”, afferma. L’analisi del Cesvi (una fondazione internazionale laica “per la cooperazione e lo sviluppo”) è realizzata sia sui fattori di rischio che sui servizi e trova origine dalla selezione di 64 indicatori statistici, sulla base di quelli individuati dall’Oms, raggruppati in sei capacità secondo la teoria dell’”Approccio delle capacità nella prospettiva allo Sviluppo Umano” di Amartya Sen: cura di sé e degli altri (welfare e protezione), vivere una vita sana (salute), vivere una vita sicura (sicurezza e giustizia), acquisire conoscenza e sapere (istruzione), lavorare, accedere alle risorse e ai servizi. Sulla base di questi indicatori, il Cesvi stila una classifica delle venti regioni italiane, con una formula simile a quella applicata per la campagna “Sbilanciamoci”. “I fattori di rischio che analizziamo - spiega ancora Valeria Emmi - sono quelli strutturali, persistenti. Ci sono poi elementi di contesto che vanno ad aggravarli. La pandemia e tutta la crisi conseguente, con la difficoltà di accesso ai servizi e all’istruzione, ha esacerbato un gap già pre-esistente tra le regioni del nord e quelle del sud. Da cinque anni evidenziamo comunque un Paese spaccato in due, dove davvero chi nasce e cresce al sud ha maggiori possibilità di incorrere in casi di maltrattamento familiare. Perché i servizi che il sud riesce a fornire alla popolazione non permettono di abbattere questi fattori di rischio”. Il basso livello di istruzione dei genitori, e in particolare della madre, o la povertà sono fattori di rischio fondamentali perché “riducono fortemente le opportunità di accesso alle informazioni, e la problematica rimane confinata alle mura domestiche”. “Senza un sistema di welfare e servizi strutturati - aggiunge Emmi - noi non riusciamo, non solo a contrastare, ma neanche a intercettare le famiglie problematiche”. Come spiega il rapporto, “al di là della condizione socioeconomica delle famiglie, vivere in un quartiere povero può esporre a un maggiore rischio di maltrattamento: uno studio statunitense ha rilevato che una concentrazione di famiglie monoparentali, alloggi sfitti e alti tassi di disoccupazione in un quartiere erano associati in modo significativo (ma decrescente nel corso degli anni) a alti tassi di maltrattamento infantile”. Una novità del 2022, sottolinea Emmi, sta nell’”altissimo accesso da parte dei giovani ai pronto soccorso per tentati suicidi, episodi depressivi o per problematiche legate al cibo. Il Covid ha esacerbato una fragilità psichica che era latente e ha anche messo a dura prova gli operatori sanitari”. Scrive il Cesvi: “Tra le regioni con il più elevato livello di capacità di accedere alle risorse e ai servizi si rilevano il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige, la Toscana e l’Umbria. Tra le regioni con maggiori criticità si osservano invece il Molise, l’Abruzzo, la Sicilia e la Campania. Nel confronto con la precedente edizione dell’Indice, le variazioni di posizione sono minime e tutte comunque condizionate dall’unico indicatore aggiornato sulla povertà relativa. Unica osservazione degna di nota riguarda la Basilicata, scesa di tre posizioni a causa di un significativo peggioramento della povertà relativa, salita tra il 2019 e il 2020 dal 15,8% al 23,4%”. Le regioni virtuose sono quelle che “hanno sempre investito nei servizi e in politiche di protezione e welfare”, precisa Valeria Emmi, mentre “la Campania in tutte le edizioni si conferma ultima in graduatoria, a elevata criticità perché gli investimenti in istruzione, in salute, in welfare e nella capacità di muoversi sul territorio non sono sufficienti. E nel 2022 la Campania registra addirittura un peggioramento”. Fermare la povertà educativa con il sorriso di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 maggio 2023 Infanzia a rischio. Dispersione record e welfare assente, a San Pietro a Patierno la fondazione Cesvi ha aperto un centro per minori e famiglie. Vignola: “È un quartiere grigio, buio, senza spazi per la collettività. I bambini in questi contesti sono schiacciati sulla realtà contingente, sul tirare a campare”. La Campania è il posto in cui essere bambini è più rischioso in Italia. San Pietro a Patierno è incastrato tra Secondigliano e Poggioreale, l’aeroporto di Capodichino attraversa il quartiere in mezzo ai palazzoni dell’edilizia popolare post terremoto del 1980. Il comune di Napoli lo scorso ottobre ha aperto una piattaforma per individuare la dispersione scolastica, la municipalità più colpita era la settima con i rioni Miano, Secondigliano e San Pietro a Patierno. La fondazione Cesvi, dopo Bari, è qui che ha aperto una delle sue Case del sorriso dedicate ai minori in situazione di vulnerabilità per prevenire e contrastare povertà educativa e trascuratezza. “Sono diversi anni che lavoriamo nella zona di Capodichino, sappiamo che la condizione dell’infanzia è critica - spiega Roberto Vignola, vicedirettore generale di Cesvi -. La fondazione elabora un indice incrociando i fattori di rischio del territorio e i servizi presenti per famiglie e bambini: la Campania è il fanalino di coda nell’indice sul maltrattamento, ventesima in Italia, cioè è la regione in cui essere bambini è più rischioso”. A Napoli, secondo il Comune, il 39% dei 5.267 bambini e ragazzi assistiti dai servizi sociali ha subito maltrattamenti, spesso in famiglia. A San Pietro a Patierno si sommano la disoccupazione, le gravidanze precoci al 14,9%, l’alto tasso di dispersione scolastica. “Il nostro obiettivo è rafforzare i servizi per l’infanzia e per le famiglie” continua Vignola. Quali posso essere i risultati lo dimostra la storia di una delle bambine del quartiere: “Quando arrivò da noi le chiesi cosa volesse fare da grande, “nun o’ sacc”, “non lo so” mi rispose strafottente. Dopo tre anni ho ripetuto la domanda e ho trovato una bambina estremamente motivata, con un’ambizione rifiorita, voleva fare l’educatrice. In una realtà come questa, dove si tramanda una condizione di precarietà di padre in figlio, è fondamentale riuscire a stimolare il desiderio di crescere, di migliorare la propria condizione”. È successo che, durante le attività, gli operatori si sono accorti del malessere della bambina: “In maniera light abbiamo contattato la famiglia: è emersa un’incapacità della mamma, molto giovane, di seguire la bimba sia dal punto di vista dell’educazione che dell’igiene personale e affettività. Una trascuratezza emotiva che influiva molto negativamente sull’autostima della bambina”. Dai colloqui di operatori e psicologi con la mamma è venuta fuori una situazione familiare complessa: “Un marito autoritario, assente, con episodi di violenza verbale e fisica nei confronti della moglie ma anche del resto della famiglia. Non era una situazione estrema, di criminalità, ma comportamenti ripetuti che schiacciavano moglie e figlia. Attraverso la mamma siamo riusciti a interagire con il papà, piano piano c’è stato il coinvolgimento totale della donna e una nuova consapevolezza dell’uomo sul tema della violenza. Spesso un genitore maltrattante è stato un bambino maltrattato, non sempre sono consapevoli dell’incuria”. Un territorio ad alta povertà socioeconomica e l’assenza di servizi pubblici sono il macigno che pesa su cittadini senza diritti. Al Nord il tasso di occupazione tra i 25 e i 49 anni per le donne con figli piccoli è al 66% al Sud è al 38%. Meno del 25% degli alunni meridionali della scuola primaria frequenta scuole dotate di mensa; meno del 32% dei bambini nel caso delle scuole dell’infanzia. Le situazioni più deficitarie in Sicilia e Campania, con percentuali inferiori al 15%. Nel 2020 al Sud risultano investimenti pubblici per studente pari a 185 euro contro i 300 del Centro-Nord. Nel 2021 quasi 3 milioni di campani era a rischio povertà ed esclusione cioè il 50,2% della popolazione regionale, la percentuale più alta d’Italia; la media nel Mezzogiorno era del 41,1%, nel Centro Nord del 17,4%. “San Pietro a Patierno è un quartiere grigio, buio, senza servizi sociali e senza spazi per i minori - spiega ancora Vignola -. La grande difficoltà economica favorisce la possibilità di cadere in una rete deviante. I bambini in questi contesti sono schiacciati sulla realtà contingente, sul tirare a campare. Nella categoria del maltrattamento infantile vengono comprese tutte le forme di trascuratezza fisica ed emotiva, tutto quello che risulti potenzialmente dannoso per lo sviluppo dignitoso dei bambini: dall’abuso sessuale fino al non cambiare la biancheria ai propri figli. Il bambino non curato subisce la prevaricazione dei compagni, minando la sua capacità di progredire e svilupparsi. A Napoli lo scopo è intervenire quando ancora c’è una possibilità di recuperare ma è importante il coinvolgimento delle famiglie. Con la Casa del sorriso si cerca di dare una prospettiva: doposcuola, recupero anni scolastici, attività sportive, laboratori artistici o ludico-ricreativi, teatro e musica sono il veicolo per dare una prospettiva diversa”. Il Cesvi ha ristrutturato un campetto sportivo, sotto una strada provinciale: “Era in totale degrado ora si può utilizzare per calcio, basket, volley ed è a disposizione di tutta la comunità, la sera arrivano gli adulti per i loro tornei. C’è attenzione e rispetto da parte di tutti. Gli spazi che offriamo sono belli e curati, un elemento fondamentale per l’educazione dei minori. Ci sono bambini che vedono il mare solo quando partecipano ai nostri campi estivi”. I genitori spesso si fanno coinvolgere: “Con i papà ci impegniamo su percorsi di mascolinità diversa dal macho che lavora tutto il giorno, non si emoziona, non si prende cura dei figli. Offriamo un modello alternativo e una ridefinizione del proprio ruolo sociale, un uomo accudente. Abbiamo anche tanti padri abbandonati dalle mogli che seguono con i figli i nostri percorsi. Uno di loro ha tre figlie, la moglie ha un grave disagio psicologico, ha lasciato casa, attualmente è homeless. Condividere le esperienze con altri genitori aiuta a non estremizzare i disagi, anche quando sono importanti. Un mosaico che crea e rafforza il senso di comunità. Persino in una città come Napoli si rischia di perderlo”. Tutto questo può bastare? “Certamente serve un intervento strutturale che cambi le condizioni socioeconomiche - conclude Vignola -. I servizi sociali ci sono ma intervengono a spegnere l’incendio non a prevenirlo, il pregio di una fondazione o una onlus è la flessibilità nell’allocazione dei fondi. Esiste una lacuna importante dei servizi ma è proporzionale ai fattori di rischio di un territorio: i fattori che ci sono a Napoli non sono paragonabili a quelli di altre realtà. A Bari, ad esempio, i fattori di rischio sono simili ma è un passo avanti in termini di strutture e servizi. Per generare cambiamento devi lavorare con tutte le realtà del territorio”. Il corpo è tornato a essere uno strumento di lotta politica di Edoardo Novelli* Il Domani, 19 maggio 2023 Una mano incollata a un quadro, sdraiarsi in mezzo al traffico, una notte in tenda accampati nei giardini dell’università, sono alcune delle forme di lotta scelte dai più popolari movimenti di protesta giovanile degli ultimi tempi. Nel tempo della politica virtuale in cui si tende a misurare la popolarità di un partito dal numero di like e condivisioni ottenute, in presenza di leader sempre più digitali che si esprimono con tweet e video-social, sembrava non esserci più spazio per le forme tradizionali della protesta. Nel corso di pochi anni si è assistito ad un processo di progressiva virtualizzazione e smaterializzazione di una politica per la quale la componente fisica e biologica costituiva un aspetto fondamentale. Una mano incollata a un quadro, sdraiarsi in mezzo al traffico, una notte in tenda accampati nei giardini dell’università, sono alcune delle forme di lotta scelte dai più popolari movimenti di protesta giovanile degli ultimi tempi. Diversi negli obiettivi e nella natura, ma accomunati in una idea performativa dell’azione politica e nel ritorno al corpo come strumento di lotta e contestazione. Nel tempo della politica virtuale in cui si tende a misurare la popolarità di un partito dal numero di like e condivisioni ottenute, sembrava non esserci più spazio per le forme tradizionali della protesta incentrate sulla mobilitazione, la partecipazione reale, l’azione diretta. Man mano che i congressi, la piazza, la militanza, le manifestazioni sono venuti meno per una serie di ragioni connesse alle trasformazioni sociali, la secolarizzazione, la fine delle ideologie, i nuovi mezzi di comunicazione sono subentrati con una funzione di sostituzione e supplenza. Seguendo un inesorabile processo evolutivo, i cortei nei quali si misurava la forza di partiti e movimenti venivano sostituiti dalle petizioni online, il comizio dai video-social, le lunghe e fumose assemblee azzerate dai più comodi forum. Anche gangli fondamentali della vita politica e democratica quali i congressi e i momenti deliberativi di partito sono stati rimpiazzati dalle piattaforme di partecipazione online. Nel corso di pochi anni si è così assistito a un processo di progressiva virtualizzazione e smaterializzazione. Da questo scenario, per il quale è anche stata coniata l’espressione slackactivism (attivismo pigro ndr) per definire un livello di partecipazione minimale, limitato all’agire sui social network, si sono distinte, imponendosi all’attenzione del dibattito pubblico e politico, le azioni di Ultima Generazione e la protesta delle tende degli studenti universitari di varie città italiane contro il caro affitti. Due movimenti differenti fra loro. Più radicale il primo: fuori delle tradizionali appartenenze politiche, incentrato intorno a una frattura generazionale che echeggia slogan di anni passati (non fidatevi di nessuno che abbia più di 30 anni) e focalizzato su tematiche ambientali. Promosso e sostenuto da organizzazioni giovanili e sigle chiaramente collocate nello scacchiere politico il secondo. A dispetto della giovane e giovanissima età e del medio/alto livello d’istruzione dei loro esponenti e, dunque, di una loro predisposizione generazionale e culturale alla cittadinanza digitale e all’uso delle piattaforme partecipative, le azioni di Ultima generazione e la protesta delle tende, sono accomunate dal riproporre forme di lotta tradizionali. Non si tratta però di un anacronistico ritorno agli anni Sessanta o Settanta. La conoscenza dei meccanismi della comunicazione e la consapevolezza del ruolo assunto dalla dimensione rappresentativa sono evidenti nelle pratiche politiche messe in atto da questi soggetti. La forza e modernità di questi movimenti consiste nel saper dialogare con il moderno sistema dell’informazione riproponendo forme di azioni e partecipazione all’apparenza anacronistiche e superate, ma che rivelano ancora tutta la loro forza. Così, anche un contesto sempre più virtuale, quale quello attuale, assuefatto all’azione dei post, like e tweet, il corpo e la sua messa in scena, torna a essere un efficace strumento politico. *Sociologo Regno Unito. Sunak pagherà per rimandare in Albania i detenuti di Angela Napoletano Avvenire, 19 maggio 2023 Il sovraffollamento delle carceri ha spinto il premier a trattare con il collega Rama per i trasferimenti e incentivi economici da 1.500 sterline per i prigionieri. Trattative con il premier Rama per i trasferimenti e incentivi economici per i prigionieri Londra Biglietto aereo di sola andata per Tirana e “buonuscita” in denaro. È lo “svuota-carceri” all’inglese. Il governo di Rishi Sunak lo sta negoziando con il premier albanese Edi Rama nell’ambito dei colloqui sulla lotta al traffico di esseri umani che alimenta l’immigrazione irregolare nel Canale della Manica. Il confronto tra Sunak e Rama, suggellato a marzo da un faccia a faccia a Downing Street, era inevitabile. Al Paese delle aquile riconducono diverse indagini sui malavitosi che speculano sugli attraversamenti. L’Albania è anche la nazione più rappresentata dietro le sbarre di Galles e Inghilterra. L’intesa sul rimpatrio dei detenuti è maturata in questo contesto. L’esecutivo Tory ambisce a sgombrare almeno 200 detenuti albanesi. E non solo spacciatori. Nei Balcani potrebbero tornare anche 17 criminali di un certo peso come Koci Selamaj, condannato a 36 anni di Sabina Nessa. Il problema del sovraffollamento dei penitenziari non è nuovo. L’anno scorso il ministero degli Interni ha varato un programma per alleggerirli consentendo il rilascio anticipato, seguito da immediato rimpatrio, di stranieri chiamati a scontare pene limitate. Non terroristi, per intenderci, né omicidi seriali. La collaborazione che Londra e Tirana andrà oltre. Le deportazioni riguarderanno anche i detenuti condannati all’ergastolo. Per questi non è contemplato alcuno sconto di pena. Ma l’Albania ha chiarito che avrà bisogno di un contributo economico per coprire i costi della detenzione. A Sunak fa comodo. Secondo alcune stime un anno di galera costa 57mila sterline all’anno in Inghilterra e 10mila in Albania. Un bel risparmio. Un capitolo a parte riguarda i criminali di secondo livello, per esempio, i reclusi per violenza, armi e vandalismo. Per questi l’adesione al piano sarà volontaria. Ovvero proposta come una possibilità, non come un obbligo, incentivata da compenso economico che può arrivare a 1.500 sterline vincolato all’impegno a non tornare. Spetterà all’Albania valutare un’eventuale riduzione della pena.