Reato di tortura: l’Italia non merita passi indietro di Mauro Palma lavialibera.it, 18 maggio 2023 Ridimensionare il reato di tortura metterebbe a rischio i processi in corso e diffonderebbe una percezione di impunità, sostenendo la cultura della chiusa appartenenza ai corpi. Il commento di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Era una tragica ironia che il Paese culla di Cesare Beccaria non chiamasse la tortura con il suo vero nome e cioè non avesse introdotto nel proprio Codice penale una fattispecie relativa specificamente a questo delitto. Nel 2017, con la promulgazione della legge numero 110, questa situazione al tempo stesso paradossale e imbarazzante - vista anche la ratifica quasi trenta anni prima, da parte dell’Italia, della convenzione Onu contro la tortura - è stata sanata. A distanza di più di cinque anni da questa importante modifica normativa il bilancio è positivo e chi aveva espresso un legittimo scetticismo nei confronti di un testo legislativo non certo perfetto si è il più delle volte dovuto ricredere. Il merito è stato soprattutto della magistratura giudicante che ha saputo distinguere fra reati gravi ma minori e quelli riconducibili alla tortura, fortunatamente pochi, come per esempio fatto di recente dal tribunale di Siena (che ha condannato cinque agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto avvenuto nel 2018, ndr). Eppure, negli ultimi tempi sono circolate ipotesi di un ridimensionamento parlamentare di questo reato, per esempio trasformandolo in una semplice aggravante, magari bilanciabile con attenuanti. Il nostro Paese, e la sua cultura civile, non meritano passi indietro come questo. Non solo perché così potrebbero essere a rischio i processi in corso, alcuni dei quali relativi a fatti che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica, che si aspetta che venga fatta pienamente luce, senza scorciatoie, dopo aver visto, per esempio, in video ufficiali, le violenze contro le persone detenute nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Ma anche perché occorre porre attenzione a non diffondere nel Paese una percezione di impunità e un sostegno a quella cultura della chiusa appartenenza a corpi, aggregazioni, che ne costituisce il fondamento, sfociando in una implicita omertà o nella sostanziale iniquità, come avvenuto dopo le violenze al G8 di Genova del 2001, quando all’accertamento di comportamenti penalmente e professionalmente molto gravi di alcuni esponenti delle forze dell’ordine non seguirono conseguenti provvedimenti sul piano penale, disciplinare e delle relative carriere. Le nostre forze di polizia, intese nel loro complesso, hanno una cultura solidamente democratica e dunque non devono temere nulla dalla promozione di un maggiore senso di accountability (responsabilizzazione, ndr), che comporta la distinzione tra i molti che fanno il proprio lavoro in modo professionale, rendendo ogni azione compiuta verificabile sul piano delle responsabilità e i pochi che cercano di coprire con un velo di opacità il proprio agire. Per questo non credo che le forze di polizia del nostro Paese temano la previsione della fattispecie introdotta e che solo una esigua minoranza sostenga la necessità di cambiamento, accreditandosi in modo piuttosto strumentale come portavoce di un mondo che in realtà non rappresenta. Una minoranza che neppure per calcolo strumentale deve essere inseguita da chi ha il compito di rappresentare il Paese attraverso la propria funzione legislativa. Sarebbe peraltro molto miope sposare posizioni che potrebbero riportarci al passato, quando l’Italia venne sanzionata dalla Corte europea dei diritti umani per la sostanziale impunità garantita agli autori di episodi che il giudice aveva definito come tortura, nella sua sentenza, ma che non aveva potuto sanzionare come tali, in assenza della fattispecie specifica e che pertanto non potevano essere sanzionati se non ricorrendo ad altre fattispecie, meno identificative della gravità di quanto commesso e con previsioni di pena che determinavano nei fatti un forte rischio di prescrizione. L’impunità era così nella realtà, l’atto sanzionatorio diveniva finzione formale. Merita un’attenzione diversa l’altra considerazione sollevata dallo stesso ministro della Giustizia rispondendo alla Camera dei deputati: è relativa al passaggio dal “dolo generico”, che caratterizza l’attuale formulazione del reato di tortura, a quello “specifico”, cioè nel prendere in considerazione non solo la volontà nel commettere un determinato atto, ma anche il fine che si intendeva raggiungere nel compierlo. Tuttavia, a mio parere, sorgono due questioni rispetto a questa osservazione, qualora indicasse la volontà d’intervenire per cambiare l’attuale norma. Il primo è che l’accentuazione sulla finalità può ridurre la rilevanza della gravità dell’atto in sé, soprattutto all’interno di un sistema in cui le persone sono private della libertà e affidate alla responsabilità diretta di chi le detiene e dove, conseguentemente, vi è sempre l’implicita finalità di inviare il segno della loro irrilevanza e della loro soggezione a chi esercita il potere. Anche la recente affermazione della Cassazione relativa alla fisionomia propria che acquista la violenza verso persone private della libertà da parte di chi esercita tale potere nei loro confronti, credo debba essere letta in tal senso. Il secondo è che il testo è stato frutto di un lungo e faticoso percorso che ha coinvolto le assemblee parlamentari che si sono succedute negli anni e, conseguentemente, richiede una valutazione di più lungo periodo. Le sentenze definitive che verranno potranno essere indicative e guidare eventualmente verso eventuali aggiustamenti normativi o consolidare, come io credo, la validità dell’attuale testo. La giurisprudenza sarà indicativa in tal senso. Certo, non c’è bisogno, invece, di colorare tale percorso con un ambiguo segnale per avere il consenso di coloro che quella sensazione d’impunità non l’hanno mai vista o non l’hanno mai considerata come un problema. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Il garantismo è lotta di classe di Iuri Maria Prado L’Unità, 18 maggio 2023 Le nostre prigioni sono piene di poveri e di emarginati. La riduzione del carcere a “discarica sociale” non è un’aberrazione del sistema. È il sistema. Vittime del nostro sistema penale e carcerario sono perlopiù le persone povere ed emarginate. E, salvo credere che una generalizzata attitudine criminale contrassegni i ranghi derelitti della società, quell’evidenza statistica dimostra che, tra le tante sciagure, la pretesa di giustizia sociale perseguita per via giudiziaria produce anche questa: la povertà e l’emarginazione in galera. È questo un profilo dell’ingiustizia italiana di cui si fa fatica a parlare così a destra come a sinistra. A destra, in primo luogo, perché si tratterebbe di rivendicare (e sarebbe imbarazzante) un modello che dopotutto è abbastanza aderente all’idea di giurisdizione simpaticamente diffusa da quelle parti, e cioè che il carcere è penoso e bisogna semmai andarci cauti quando c’è di mezzo la gente dabbene, ma è il posto giusto per la canaglia. E a sinistra, dove spesso si trascura che la mancata tutela dei diritti individuali e di libertà ha un ricasco primario e tanto più devastante proprio a carico dei più bisognosi. A sovraffollare le carceri non è l’emergenza di una pericolosità sociale opportunamente messa in condizione di non nuocere: è in gran parte un’altra specie di “carico residuo”, il prodotto di normative - non solo, ma innanzitutto in materia di droga e di immigrazione - che con il proposito di proteggere la società dal male in realtà lo producono e poi se ne assolvono chiudendolo in una cella. La riduzione del carcere a quel che si dice una discarica sociale non è un’aberrazione del sistema: è il sistema, cioè il frutto della sistematica incapacità di cui fa mostra un ordinamento sociale quando costruisce immense zone di illegalità e poi si lamenta se ad occuparle va chi è escluso da qualsiasi altra parte. I delitti legati all’immigrazione clandestina non sono dovuti all’immigrazione, ma alle norme che la fanno clandestina: e in carcere non ci sono i cosiddetti trafficanti di esseri umani, ma i senza-diritti sbarcati qui e ai quali si offre l’alternativa di essere smistati verso le piantagioni schiaviste o, appunto, verso gli uffici di collocamento della criminalità. I reati connessi alla droga non dipendono dalla droga, ma dal regime proibizionista che la presidia: e in prigione non c’è il plenipotenziario del cartello, ma il ragazzo magrebino preso in un parco con una manciata d’erba. L’adolescente emarginato pizzicato a rubare ha un omologo che invece rispetta la legge, ma rinfacciare al primo la probità del secondo non ha nessun senso quando l’uno e l’altro vivono in un ambiente in cui si può solo “sperare” che un giovane non delinqua. Garantismo, in una situazione come questa, è anche più che ripristino di una giustizia decente: è lotta di classe. “Vi sbattiamo in galera per 5 minuti”. Perché bisogna aver visto... di Gianni Alati Il Dubbio, 18 maggio 2023 Cinque minuti in cella per sperimentare la vita in carcere. Ecco la sfida che Il Dubbio lancia al Salone del Libro di Torino: dal 18 al 21 maggio tutti i visitatori avranno la possibilità di provare la “detenzione” nello stand allestito dal quotidiano e dal Consiglio nazionale forense (T138- Padiglione Oval), al cui interno è stata riprodotta una vera e propria cella. Uno spazio angusto, con tutte le limitazioni e le condizioni di vita tipiche di un ambiente penitenziario. L’obiettivo principale dell’esperienza è promuovere la consapevolezza e stimolare il dibattito pubblico sulla necessità di riformare il sistema carcerario, migliorando le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena e promuovendo l’adozione di misure alternative. Oggi, come ha sancito anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, la gran parte delle carceri italiane è in condizioni inumane a causa del sovraffollamento e di un’edilizia penitenziaria del tutto inadeguata. Non è un caso che di anno in anno aumentino i suicidi tra i detenuti e tra gli stessi agenti di polizia penitenziaria, vittime gli uni come gli altri - di questo stato di degrado. I “detenuti per un giorno” subiranno una perquisizione, e saranno invitati a indossare abiti abitualmente utilizzati in carcere. Entreranno nello spazio arredato come una vera prigione, rumori inclusi. Perché, come scrisse Piero Calamandrei, presidente del Consiglio nazionale forense dal 1946 al 1956, “bisogna aver visto il carcere da recluso”. Ad accompagnare i visitatori sarà una guida speciale: Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Sorbara, 57 anni, a fine luglio 2022 è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa inesistente di concorso esterno in associazione mafiosa. In carcere ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, per poi vedersi concedere i domiciliari, prima di essere assolto anche dalla Cassazione. “Ero in una cella dove contavo cinque passi per quattro, dove avevo solo l’acqua fredda, senza radio, con una tv che non si vedeva, un letto in ferro e un materasso impossibile per riposare - racconta oggi -. Ma gli agenti non potevano farci nulla. Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi. Dopo due settimane ho provato ad uccidermi. Ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita”. “Io, recluso con le mie paure in 8 metri quadri”, di Marco Sorbara Marco Sorbara ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente, di cui 45 giorni in isolamento. 23 gennaio 2019, ore 3.15 di notte. Suona il citofono: “Carabinieri”. Ho pensato subito che fosse successo qualcosa ai miei fratelli. Ma loro entrano in casa dicono che devono perquisire la casa. Chiedo perché, e loro mi rispondono: “Siamo venuti per lei, Sorbara”. Poi scendono in garage, in cantina, nella macchina. “Dobbiamo portarla in caserma”. Mia mamma urla, non capisce cosa stia succedendo. Una volta arrivato in caserma, è il momento delle foto. Mi prendono le impronte digitali e poi mi portano in carcere a Biella. Un portone enorme si apre e poi mi si richiude alle spalle: è l’ultima volta che vedo le montagne. Mi portano in una cella, io aspetto. Dopo mi portano in un’altra cella, che si trova alla fine di un lungo corridoio. Vengo spogliato completamente: succede così, ti tolgono tutto cintura, braccialetto, collana, lacci delle scarpe, e anche la poca dignità che ti è rimasta. Quindi mi portano in una cella di quattro passi per due. Sono da solo, ci sono dei ragni, è sporco, puzza. Ma non me ne frega nulla perché voglio solo uscire. “Non è possibile”, penso. La testa non si ferma, mi sembra un terribile incubo, e invece è realtà. Poi diventa buio, passo la notte sveglio, non arriva nessuno. Sono da solo. Sento le celle aprirsi e chiudersi. Sento delle voci, sento chiacchierare. Sono spaventato, ho paura. E ho freddo: nella mia cella c’è solo un piccolo termosifone, una turca per fare i bisogni, un piccolissimo lavandino con solo l’acqua fredda, un letto in ferro, cementato nel pavimento, niente radio, niente televisione. Niente, niente, niente. Un detenuto passa davanti alla mia cella e mi dice che assomiglio a Enzo Tortora, ma non capisco. Non riesco a mangiare nulla, mi danno due piatti in plastica e delle posate in piombo. Il giorno dopo incontro un’educatrice. Non ricordo cosa mi abbia detto, ma sicuramente per lei sarò stato un delinquente come tutti gli altri. Rientro in cella d’isolamento e trovo una giacca, un paio di pantaloni, uno sgabello. Gli agenti di polizia penitenziaria sono gentili, non mi parlano, ma trasmettono umanità con lo sguardo. Mentre qui dentro è tutto disumano. Il giorno dopo, di pomeriggio, mi portano in un’altra zona del carcere, in una cella con muraglioni in cemento armato, da cui si vede solo il cielo: questa volta conto dieci passi per cinque. Rientro in cella e mi dicono che posso acquistare dei biscotti, due bottiglie d’acqua. Mi danno uno straccio, una scopa e una spugna, così posso togliere le ragnatele e il sangue che è sul muro. Il dramma è pulire il bagno, mi viene da vomitare dallo sporco e dalla puzza, ma alla fine ho fatto un bel lavoro, mi dico: è servito aver fatto le pulizie nelle case con mia mamma. Il tempo passa, ma non passa mai. Devo organizzarmi mentalmente, altrimenti impazzisco. Inizio con degli esercizi, che ho imparato facendo hockey su ghiaccio: tre serie di flessioni da venti ripetizioni, poi esercizi per le braccia e addominali. La mente naviga, la paura ti avvolge, sei da solo. Finalmente incontro l’avvocato, mi consegna un fascicolo di ben 920 pagine, che leggo rileggo e rileggo fino allo sfinimento. Ma su di me c’è poco. Assurdo. Mi accompagnano in un’altra cella dove c’è una doccia, ma l’acqua è troppo bollente. Riesco solo a lavare calze, mutande e la canottiera. Arriva la cena: carote, wurstel, riso bollito. Ma non riesco a mangiare. Passo la notte senza dormire, faccio colazione con del tè. Non ho idea di che ora sia, o che giorno sia. So solo che sono dietro le sbarre, al freddo, in una cella piccolissima. La sequenza si ripete. Leggo, penso, faccio esercizi e mangio dei mandarini. Mi danno tre coperte pesantissime, le avevo in caserma al militare. Dormo vestito, rimango sempre con gli stessi vestiti, giorno e notte, fa freddo. Faccio esercizi, balzi sul posto, flessioni. Perdo le forze, non ce la faccio più. Penso a chi è fuori, ai miei fratelli, a mia mamma, agli amici. L’accusa contro di me è devastante, sono finito. Si avvicina un detenuto, nel corridoio di fronte alla porta a sbarre della mia cella, inizia a parlare, non capisco cosa stia dicendo, mi parla di omicidi, violenze, rapine. Non è il mio mondo. Passano i giorni ma non cambia nulla, il tempo non passa, non capisco, impazzisco. Perché tutta questa violenza? Mi danno un libretto su cui segnare la spesa per la prossima settimana: caffè, biscotti, dentifricio. Poi c’è un rumore fisso, notte e giorno, che non potrò mai dimenticare: il suono del battere a macchina. Finalmente faccio una doccia, ma è bollente, vapore ovunque, è ustionante. Riesco però a farmi la barba, che bella sensazione. La mia vita è cambiata per sempre. Ripercorro la mia storia, le parole dette, li atteggiamenti. Penso: “Avrò fatto qualcosa di male?”. Non so rispondermi, non capisco. Mi contestano le parole. Perché sono in carcere, in isolamento? Il 41 bis non sarebbe una Guantánamo ma “un pentitificio”? Gratteri smentito dal giudice Sabella di Tiziana Maiolo L’Unità, 18 maggio 2023 “Il 41 bis non è un sistema penitenziario tipo Guantanamo”. Le immagini ci rimandano un Nicola Gratteri in maglioncino blu, dedito all’attività di “firmacopie” dell’ennesimo libro sempre uguale, che deve dare parecchia soddisfazione all’editore Mondadori, vista la quantità di tour promozionali che il giro propagandistico dell’antimafia militante garantisce a ogni uscita al prestigioso autore. Il procuratore capo di Catanzaro non dimentica però il proprio ruolo. Che è politico, forse suo malgrado. Perché lanciare un allarme come quello dei giorni scorsi dal carcere di Opera, e non solo, mentre raccoglieva cittadinanze onorarie in qualche piccolo paese lombardo, suona come attacco al governo Meloni, ma anche a quello presieduto da Mario Draghi e chissà quale altro. “Da un po’ di anni - ha detto il procuratore - è in corso una sorta di smobilitazione della legislazione antimafia e del sistema carcerario, partendo dal mantra che le mafie non ci sono più, Cosa Nostra non c’è più, e che quindi non c’è più pericolo e bisogna abolire il 41 bis”. Sempre senza rendersene conto, crediamo, mentre è concentrato sul proprio ruolo di scrittore, colui che sperava di eguagliare e forse superare Giovanni Falcone con il maxiprocesso in corso nell’aula-bunker di Lamezia, ha tirato stilettate in un colpo solo, più che ai governi, alla Corte Costituzionale e alla Cedu. Cioè ai due organismi che hanno messo in discussione la legittimità di un certo tipo di detenzione, quella del carcere impermeabile che nel tempo è diventata sempre più forma di tortura. Non più solo isolamento per impedire contatti diretti del detenuto con il mondo esterno, ma una serie di regole finalizzate solo a fiaccare la resistenza umana fino a lobotomizzare la mente e uccidere il corpo. Ma il dottor Gratteri sembra quasi scherzarci su, quando arriva a sostenere che in fondo l’isolamento, e il poter vedere i figli solo dietro a un vetro e tutte le altre limitazioni sono solo carcere. Come quello di tutti gli altri, sia del circuito alta sicurezza che di quello ordinario. E certo, non era lo stesso procuratore, del resto, che aveva definito l’istituto di Bollate “uno spot”? E non era lo stesso magistrato, nel 2014, quando era ancora procuratore aggiunto a Reggio Calabria e quando era Presidente del consiglio Matteo Renzi, colui che aveva proposto di riaprire la struttura dell’Asinara? È impossibile dimenticare quel che accadeva negli anni novanta alla famigerata sezione Fornelli del carcere speciale dell’isola, e neanche le tante denunce per cui l’Italia è stata anche condannata in Europa per comportamenti disumani e degradanti. La bella isola degli asinelli bianchi, che sarà restituita alla natura e ai sardi nel 1997 dal governo Prodi, era per l’appunto chiamata la Guantánamo italiana. Le torture furono accertate, e il dottor Gratteri, che era stato incaricato dal governo Renzi, insieme ai magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di presentare un progetto di riforma del sistema penitenziario, non poteva ignorarlo. Per fortuna il sogno di riaprire la piccola Guantánamo svanì in seguito alle proteste della Sardegna intera. E all’Asinara son tornati gli asinelli. E magari le lucciole, care a Pier Paolo Pasolini. Ma la dichiarazione più grave del dottor Gratteri, sempre dovuta alla distrazione del suo impegno di scrittore, immaginiamo, è ancora un’altra. E riguarda la stessa finalità dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che fu istituito nel 1992, dopo le uccisioni di giudici Falcone e Borsellino, con lo scopo di impedire che i boss di Cosa Nostra potessero, tramite i contatti con l’esterno del carcere, continuare a dare ordini e commissionare stragi. Secondo il procuratore Gratteri invece “chi è al 41 bis sceglie di continuare a stare lì perché ha la possibilità collaborando, di uscire subito”. Quindi il 41 bis sarebbe il pentitificio? Sarebbe questo lo scopo del carcere duro? Lasciamo la parola al dottor Alfonso Sabella, oggi giudice e ieri pm “antimafia” a Palermo, intervistato da “La Notizia” proprio sulle affermazioni del procuratore Gratteri. “Il 41 bis - dice - tutto può essere tranne che uno strumento per indurre la gente a collaborare, quello equivarrebbe a dire che il 41 bis è tortura e darebbe ragione a chi vuole abrogarlo”. E poi ancora, dopo aver sostenuto che se quello fosse lo scopo quell’articolo sarebbe “incostituzionale”, la stoccata finale. “Abbiamo troppi detenuti al 41 bis, quando c’erano le guerre di mafia e lo Stato in ginocchio erano 600, oggi siamo oltre 800, un numero decisamente elevato. Chi usa il 41 bis come mezzo per ottenere confessioni snatura quello che volevano Falcone e Borsellino”. Se lo dice lui. Essere mamma in carcere, storie di donne e bambini in cella di Rossella Grasso L’Unità, 18 maggio 2023 Secondo i dati del ministero della giustizia, il 31 marzo 2023 le donne nelle carceri italiane erano 2.477. Poco più del 4 per cento del totale della popolazione detenuta, una quota da sempre molto bassa che ha fatto immaginare il carcere prettamente al maschile. Ma per una donna la detenzione è una condizione assai differente. La sua condizione di donna rischia continuamente di essere snaturata, compreso il suo essere mamma. In Italia esistono gli Icam, Istituto di Custodia Attenuata, dove le mamme possono scontare la loro pena con i figli a seguito. Al 31 marzo 2023 il sistema penitenziario italiano conta 25 detenute madri con 28 bambini. Ventuno di loro, con 23 bambini al seguito, si trovano nei cinque Icam operativi. Una situazione che pone le donne dinanzi a una serie di difficoltà Essere donna in carcere - Il carcere per una donna non è un’esperienza facile. “La detenzione al femminile è tutta di risulta”, ha detto Micaela Tosato tra le fondatrici di Sbarre di Zucchero, un gruppo di attiviste e attivisti che hanno deciso di mettere insieme le forze per divulgare e sensibilizzare tutti sul mondo del carcere soprattutto al femminile e sulla difesa dei diritti. Il sottotitolo del gruppo nato su Facebook ma presto diventato operativo de visu, è emblematico: “Quando il carcere è donna in un mondo di uomini”. Secondo Micaela che il carcere lo ha vissuto in prima persona, la detenzione al femminile è ‘di risulta’ sotto tanti punti di vista: “Innanzitutto in Italia esistono pochi istituti prettamente femminili - spiega - sono quasi tutti ricavati dal maschile, in spazi dunque ‘di risulta’. Per le donne viene fatto il minimo, persino le attività si fanno se avanzano dal maschile”. Micaela, che da mesi raccoglie le testimonianze sul carcere al femminile spiega che visto che le donne sono poche, per gli istituti mettere in piedi attività ad hoc non solo è più complicato ma ha costi anche solo organizzativi troppo elevati. E quindi non si fanno. “In carcere ho incontrato per la prima volta l’analfabetismo - continua Micaela - anche l’istruzione è poco o nulla. Eppure anche in carcere uomini e donne hanno gli stessi diritti e doveri”. Ma per donne e uomini la detenzione ha un peso diverso: “Non sai com’è lavarsi con l’acqua fredda tutti i giorni o poter sentire tuo figlio solo una volta a settimana. In più non si capisce perché ma non c’è divisone a seconda delle esigenze ad esempio di persone con disagio psichico. In carcere non sei più femmina, ti tolgono anche l’identità”. Il gruppo di Sbarre di Zucchero è nato dopo il drammatico suicidio di Donatella Hodo, che si è tolta la vita a 27 anni nella sua cella. Così le amiche di Donatella sentirono il bisogno di parlare di carcere e diritti soprattutto per le donne. “Donatella avrebbe avuto bisogno di maggior cura - continua Micaela - aveva avuto una vita difficile, fatta di violenze e le avevano anche tolto un bambino, era tossicodipendente. In carcere non c’è rieducazione ma nemmeno ricostruzione, come quella di cui avrebbe avuto bisogno Donatela”. Essere mamma in carcere - “Mi manca proprio fare la mamma. Se io sto qua con mia figlia io credo che è per continuare a fare la mamma però poi non ci danno la possibilità di farlo”, racconta una giovane mamma che sta scontando la sua pena nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino. Chi scrive ha avuto la possibilità di trascorrere una giornata con le donne detenute insieme ai loro bambini e toccare con mano la sofferenza di queste donne che da una parte possono tenere accanto i loro bambini, dall’altra sono come ‘amputate’ della loro prerogativa di essere madri. Il problema non è certamente l’Icam di Lauro, dove gli operatori fanno di tutto per cercare di rendere la vita di mamme e bambini più serena possibile, ma un sistema che genera “un ossimoro: mamme e carcere”, come ha detto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della regione Campania. Gli Icam sono stati introdotti dalla legge 62 del 2011 e prevede che i bambini possano stare accanto alle loro madri fino a 8anni. L’ambiente cerca di essere un po’ più familiare e meno duro per non far sentire ai bambini il peso di trovarsi in carcere. Sui muri ci sono disegni, le celle sono una sorta di piccoli appartamenti composti da una camera da letto, una cucina e il bagno. Sulle pareti le mamme appendono foto e disegni per far sentire i loro bambini più a casa. Ma alle finestre ci sono le sbarre e le porte alla sera vengono chiuse con pesanti chiavi e riaperte al mattino dopo, perché l’Icam resta pur sempre un carcere. “Nei periodi invernali i passeggi sono chiusi presto - racconta una mamma - i bambini sanno già cosa vuol dire ‘assistente’, ‘apertura’, ‘chiusura’. Quando sentono il rumore delle chiavi hanno paura”. I bambini sono liberi: ogni giorno vanno a scuola e potenzialmente fare tutte le attività pomeridiane che farebbe qualunque bambino, dallo sport al gioco a casa di un amichetto, ad esempio. Il problema è che non sempre c’è chi può accompagnarli e i bimbi finiscono per andare a scuola alle 8 e tornare all’Icam alle 16. La giornata poi è finita qui. “Io e mia figlia qui dentro passiamo il tempo da detenute, entrambi. Non facciamo nulla o quasi dalla mattina alla sera. Penso che non è giusto: non è il modo per educare noi o i bambini”, racconta ancora un’altra mamma. La vita di questi bambini e delle loro mamme trascorre come in un eterno lockdown, limitato allo spazio di una cella. A questo si aggiunge il disagio per le mamme di non poter uscire nemmeno per andare a parlare con una maestra o andare a vedere una recita, ad esempio. “Mia figlia ha fatto la prima recita della sua vita all’asilo. L’ho preparata io da qui, nella nostra stanza. L’ho dovuta salutare sull’uscio dell’Icam. Nonostante siano venuti i nostri familiari dalla Puglia per non farle mancare l’affetto, lei si è rifiutata di farla. Voleva la sua mamma e non poteva averla”. “I nostri sono ‘i bambini reclusi’e vittime di pregiudizio fuori da qui - continua la mamma - Sono figli di detenuti e devono essere messi da parte. C’è una bambina che ha sentito parlare del panino del McDonald’s da uno degli ‘amici liberi della scuola’, come li chiamiamo noi, e voleva mangiarlo. Come fai a spiegarle che non lo può avere?”. C’è un’altra cosa che le mamme proprio non sanno come spiegare ai loro figli: “Ogni mese abbiamo i colloqui con i familiari e due telefonate a settimana - spiega una mamma - quando mio figlio piange che vuole parlare con il papà come faccio a dirgli che mamma ha finito il tempo? È giusto che il bambino debba aspettare?”. “Per noi è come una terza carcerazione qui dentro perché vedi tuo figlio soffrire e non puoi fare niente”, racconta una madre. Una mamma racconta la sua vicenda che ha reso sua figlia di 3 anni tragicamente vittima delle lungaggini della giustizia. La donna sta scontando un reato commesso 13 anni fa “quando io ero una persona diversa e mia figlia non era nemmeno in calendario”. Tredici anni dopo aver commesso il fatto arriva poi la condanna che deve scontare: “se avessi potuto scontare all’epoca la pena, ora mia figlia sarebbe a casa sua in grazia di Dio, non con me in carcere. Perché questo è un carcere, non una casa famiglia come tanti credono”. La mamma racconta che, per cercare di evitarle un trauma, a sua figlia ha detto che insieme dovevano andare al campeggio per un certo periodo. “Ho cercato in tutti i modi di non farle pesare questa situazione raccontandole che era solo una vacanza in un posto dove c’erano anche altri bambini - continua - All’inizio ci ha creduto, credo. Poi qui ha parlato anche con altri bambini che sono più grandi che sanno dove si trovano. Purtroppo tra di loro se ne parla. Io spero che con il lavoro che sto facendo riuscirò ad annebbiare il ricordo di mia figlia di questo posto. Ho provato a dirle che io devo restare qui per lavorare. Lei mi ha detto che vuole andare a casa dai fratelli e che soldi non ne vuole. A volte non so cosa dirle. Io ringrazio l’Icam perché da una parte mi ha dato la possibilità di essere qui con mia figlia ma davvero non so se un domani mia figlia mi potrà perdonare”. L’alternativa possibile - Antigone nel suo report sul carcere al femminile sottolinea come oggi la quasi totalità delle donne si trova in carcere per piccoli reati contro il patrimonio o per droga. Un quarto di loro ha addirittura un residuo pena di meno di un anno. “Servirebbero politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione delle donne, sarebbe una soluzione al problema della detenzione femminile in Italia. Tuttavia già da 10-15 anni e ancora di più oggi l’accento è tutto sulla sicurezza e la punizione invece che sulla riabilitazione. Un cambiamento delle cose resta un miraggio”. Samuele Ciambriello da tempo si batte insieme a Paolo Siani per l’eliminazione di luoghi di reclusione come l’Icam. Per quanto nell’istituto si veda lo sforzo enorme per rendere la vita delle detenute madri e dei loro figli più vivibile e meno traumatica, resta una situazione paradossale e problematica nella sua concezione. “Può continuare a esistere la maternità in carcere? Come cresce un bambino in carcere? Che tipo di affetto e di relazioni potrà mai avere? È vero, possono andare a scuola. Ma non è meglio per loro un luogo alternativo al carcere? Una non deve venire in carcere con i figli. L’anno scorso il parlamento ha approvato una legge per far uscire dal carcere i bambini, creando delle comunità di accoglienza. Ebbe solo 6 voti contrari. Quest’anno è stata bloccata al Senato”. In Italia non c’è più né fascismo né comunismo, c’è il giustizialismo che fa più morti alcune volte - continua Ciambriello - Il populismo politico e penale vuole che se una ha sbagliato deve andare in carcere. Peccato che qui ci sono anche persone accusate di piccolo spaccio con una condanna a tre anni. Perché non fargli vivere una misura alternativa al carcere? L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. Chiediamoci perché stanno qui loro con i figli. E chiediamoci perché 12mila minori in Italia e 6.400 in Campania vivono una disgregazione familiare, affettiva, familiare, economica. Quando ci occupiamo di loro? Quando commettono un reato grave? Non vorrei che la pubblicistica comune porti a non dare speranza a queste persone. Dico ‘No ai bambini in carcere’ e quindi liberando i bambini dobbiamo liberare anche le mamme. Lo so a volte la politica tra il dire e il fare ci mette il mare. Io chiedo di mettere il coraggio. Dobbiamo intervenire per ricucire queste vite disgregate altrimenti queste lacerazioni crescono. E i ragazzi che vivono qui dentro che idea si fanno? Non solo dei genitori ma dello Stato. Uno Stato vendicativo? Occorre liberare i minori ed educare gli adulti”. Nordio: su intercettazioni e carcere preventivo bozza entro fine mese di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2023 Le risposte del Ministro al question time della Camera. Sulla piattaforma digitale per la raccolta delle firme per i referendum e le Pdl popolari altri dodici mesi di tempo. Intercettazioni, carcere preventivo, geografia giudiziaria e piattaforma digitale per la presentazione di referendum e proposte di legge popolari online. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto oggi al question time della Camera annunciando che entro fine mese sarà pronto un pacchetto di misure su custodia cautelare e intercettazioni ma anche l’intenzione di rivedere il taglio dei cd “tribunalini” che non ha dato i risultati sperati in termini di risparmi ed efficienza. Il Governo rallenta invece sui referendum e proposte di legge popolari digitali annunciando un “piano di lavoro” di 12 mesi. E l’interrogante Riccardo Magi si dice “sconcertato”. Intercettazioni - “La segretezza delle conversazioni è l’interfaccia della nostra libertà. In tempi brevissimi presenteremo un progetto in questa direzione”. Così il ministro della Giustizia che poi ha aggiunto: “Sin dal primo abbiamo posto in rilievo la fondamentale necessità di rivedere completamente la disciplina della segretezza degli atti istruttori, e in particolare delle intercettazioni. Il cronoprogramma del governo e di questo ministero prevede, entro la fine di questo mese, la redazione di una bozza da presentare al Consiglio dei ministri e successivamente la sua discussione”. “Per quanto riguarda la violazione di queste norme - ha proseguito - ho dovuto constatare con rammarico durante i quarant’anni di esercizio della magistratura, che la violazione risiede in parte nella ambiguità delle norme stesse, sulla differenza tra la segretezza e la non pubblicazione, e in parte dal fatto che non si è mai individuato l’autore della diffusione illegittima di questi atti coperti da segreto. Per quanto ci riguarda noi stiamo lavorando in due direzioni; proprio questa mattina abbiamo terminato una prima fase di studio che sarà completato domani mattina al ministero. Proprio in questo ambito, comprenderà un pacchetto di norme che riguarderanno anche altri settori ma questo secondo noi è il fondamentale”. “La segretezza delle conversazioni soprattutto è l’interfaccia della nostra libertà - ha ribadito Nordio - l’articolo 15 della Costituzione dice che la segretezza e la libertà sono indissolubili. Quindi noi promettiamo solennemente che entro brevissimo tempo presenteremo un progetto in questa direzione”. Carcere preventivo - “Entro la fine del mese - ha detto Nordio - presenteremo una serie di progetti che avranno come contenuto non solo la tutela della riservatezza delle comunicazioni ma anche la carcerazione preventiva, che deve essere la eccezione delle eccezioni, come ci richiede l’etica, la razionalità e la Costituzione”. E ci sarà una “rimodulazione procedurale sulla competenza dell’ordinanza che fissa la custodia preventiva. Tutto questo sarà fatto in brevissimo tempo”. Geografia giudiziaria - “Una revisione delle circoscrizioni giudiziarie è allo studio del nostro ministero: vi è una giustizia di prossimità che è venuta a mancare e rischiamo di fare la fine degli esiti negativi della sanità che abbiamo visto durante il Covid, quando per accentrare la specializzazione in alcuni settori abbiamo visto la sanità di prossimità vicina al cittadino venire meno, con degli effetti funesti”. “L’obiettivo della legge delega del 2011, che era quello, nell’ottica di una spending review, di allocare al meglio le risorse e di velocizzare i processi non ha avuto gli effetti sperati”, ha evidenziato Nordio, spiegando che “confliggono interessi molto diversi: ogni volta che si toccano le circoscrizioni giudiziarie emergono contrasti dalle une e dalle altre parti che noi cerchiamo di risolvere”. Il governo, ha ricordato, “ha già prorogato alla data del 1° gennaio del 2025 il rinvio della soppressione dei tribunali dell’Abruzzo e ha appunto all’esame la possibile riapertura degli uffici giudiziari già soppressi, anche con eventuale rimodulazione delle competenze territoriali. La priorità del nostro intervento ha quindi imposto l’inserimento di un disegno di legge già collegato alla legge di bilancio 2023, e quindi nel documento di economia e finanza licenziato dal consiglio dei ministri”. Nonostante “la particolare complessità dei conflitti di interessi che esistono quando si toccano queste materie sensibili” Nordio ha infine assicurato “che il governo pone la massima attenzione alle difficoltà che sono emerse dopo la legge del 2012”. Referendum, piattaforma digitale raccolta firme - Il Ministro ha comunicato che è in corso un piano per le attività di completamento, attivazione e passaggio delle competenze relative alla gestione della piattaforma referendum, attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro misto con rappresentanti della presidenza del Consiglio dei ministri, della Sogei Spa, attuale gestore della piattaforma, del ministero della Giustizia, che è il futuro gestore della piattaforma e della Corte di cassazione, che è chiamata per legge alla verifica delle sottoscrizioni referendarie. “Questo piano di lavoro - ha affermato Nordio - avrà una durata non superiore a 12 mesi e prevede che siano realizzate tutte le attività volte a implementare gli interventi necessari a garantire la conformità della piattaforma alle disposizioni normative vigenti e alle prescrizioni contenute nel parere reso dall’autorità Garante per la protezione dei dati personali”, ha spiegato il ministro. Poi “la piattaforma sarà trasferita dalla presidenza del Consiglio dei ministri al nostro ministero mediante sottoscrizione di apposita convenzione, e solo allora il ministero della Giustizia sarà individuato quale gestore della piattaforma”. Intervenuto in replica, l’interrogante Riccardo Magi, deputato e segretario di +Europa, si è detto “sconcertato” dalla risposta del ministro Nordio: “Qui non parliamo della realizzazione del ponte sullo Stretto ma di una piccola infrastruttura digitale che consenta ai cittadini italiani di sottoscrivere, identificandosi attraverso SPID, proposte di referendum. Il ministro ha parlato di un piano di 12 mesi di lavoro, quindi sostanzialmente 3 volte tanto quelli che alcune settimane fa la Sottosegretaria all’Interno ci aveva informato fossero necessari”. “Ricordo a tutti noi e al paese che i cittadini italiani hanno potuto già sottoscrivere dei referendum con una modalità transitoria approntata in poche settimane dai comitati promotori in accordo con delle società private e che le firme sono state depositate e ritenute valide dall’Ufficio Centrale per i referendum della Cassazione. È inaccettabile che il governo ci venga a dire che siano necessari ancora 12 mesi, perché la legge italiana prevede che entro la fine di settembre di ogni anno vengano depositate le richieste di referendum e quindi il Ministro oggi ci sta dicendo che quest’anno non sarà possibile firmare per i cittadini, come la legge prevede, dei referendum con modalità digitale”. Giustizia, la stretta: meno carcere preventivo e atti più segreti di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2023 Il ministro in aula: “Custodia cautelare sarà eccezione”. Divieti sulla pubblicazione di carte e intercettazioni. La carcerazione preventiva? Deve diventare l’eccezione dell’eccezione. E il governo non trascurerà neanche un altro “settore fondamentale”. La carenza di personale nei tribunali? Le aule di giustizia a pezzi? Il carico di fascicoli e i processi lumaca? No. La pubblicazione di atti di indagine segreti, problema che evidentemente attanaglia il Paese intero. Il ministro Carlo Nordio, ieri nel corso di un question time alla Camera, ha annunciato che il pacchetto di riforme sul tema giustizia sarà presentato entro fine mese al Consiglio dei ministri. Si comincia dunque da quello che per Tommaso Calderone (Forza Italia) rappresenta un “danno per migliaia di cittadini”, ma che in realtà sembra preoccupare di più politici e potenti. Ossia la pubblicazione di intercettazioni e atti segreti, fatto già disciplinato dall’articolo 114 del Codice di procedura penale e dal 684 del Codice penale che prevede la sanzione dell’ammenda. Ma non basta. E ora potrebbero essere previste pene più dure per il giornalista che - per diritto di cronaca - pubblica quegli atti e per le fonti. “Abbiamo posto in rilievo la fondamentale necessità di rivedere completamente la disciplina della segretezza degli atti istruttori, e in particolare delle intercettazioni”, ha detto ieri Nordio. Il quale ha spiegato di aver constatato “durante i 40 anni di esercizio della magistratura, che la violazione risiede in parte nella ambiguità delle norme stesse, sulla differenza tra la segretezza e la non pubblicazione, e in parte dal fatto che non si è mai individuato l’autore della diffusione di questi atti coperti da segreto”. La riforma riguarderà poi anche la carcerazione preventiva che, ha detto chiaramente il ministro, deve diventare “l’eccezione dell’eccezione” “non solo perché ce lo richiede la normativa comunitaria, ma perché ce lo chiede l’etica, la razionalità e la Costituzione”. In brevissimo tempo, dunque, verrà presentato un “progetto di rimodulazione procedurale sulla competenza all’emanazione dell’ordinanza di custodia cautelare che fissa la custodia preventiva”. L’idea è di far valutare le richieste di custodia cautelare non più al singolo giudice (tranne per alcuni casi come l’arresto in flagranza), ma a un organo collegiale come il Tribunale del Riesame. Una richiesta che mal si concilia con il problema della carenza di personale nei tribunali. Vedremo il pacchetto che verrà presentato in Cdm. Di certo gli interventi anticipati dal ministro non vanno nella stessa direzione delle richieste delle toghe, che invece puntano a ottenere maggiori investimenti economici per far funzionale la macchina della giustizia. Come è emerso anche nel corso delle verifiche dei membri della Commissione Giustizia alla Camera, che nelle scorse settimane hanno visitato le sale intercettazioni delle Procure di Roma e Milano: nel capoluogo lombardo è stata rilevata qualche criticità nei server che raccolgono le conversazioni; in quello laziale non sono pochi i problemi strutturali della sala intercettazioni e che possono essere risolti solo con maggiori fondi. Intanto allo studio del ministero della Giustizia c’è anche un progetto di revisione delle circoscrizioni giudiziarie: l’indirizzo è riaprire alcuni uffici giudiziari soppressi, mentre è già stato prorogato al 1º gennaio 2025 il rinvio della soppressione dei tribunali dell’Abruzzo. E se il pacchetto con le misure arriverà entro fine mese, molto più tempo ci vorrà invece per la realizzazione della piattaforma digitale per la raccolta firme per i referendum. Sarà “costituito un gruppo di lavoro misto”, ha spiegato Nordio, con rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei ministri, della Sogei Spa (attuale gestore della piattaforma), del ministero della Giustizia che la gestirà in futuro e della Corte di Cassazione. Le tempistiche lasciano allibito Riccardo Magi (+Europa): “È una piccola infrastruttura digitale” mica “il ponte sullo Stretto…”. Il guardasigilli assicura: nessuna giustizia postale di Dario Ferrara Italia Oggi, 18 maggio 2023 Nessuna “giustizia postale”. Lo chiarisce il guardasigilli Carlo Nordio, riscontrando l’interrogazione a risposta scritta rivoltagli in commissione a Montecitorio dal deputato Devis Dori (Avs): nel mirino c’è la convenzione sottoscritta con Poste Italiane nell’ambito del progetto Polis dai ministeri della Giustizia e delle Imprese per facilitare l’accesso alla volontaria giurisdizione ai cittadini svantaggiati o poco &ldquotecnologici&rdquo iniziativa che ha destato la reazione di Cnf, Ocf e del Movimento forense, che chiede di vedere gli atti dell’accordo anche nella forma dell’accesso civico: procedure come l’amministrazione di sostegno, nota l’atto di sindacato ispettivo, “dovrebbero essere affidate a soggetti qualificati”, altrimenti si rischiano “abusi” su “soggetti più fragili già bisognosi di protezione”. Ma attenzione: “Poste Italiane non effettua alcun trattamento di dati”, replica il ministro. E la spa non ha alcuna “delega di funzioni” nel progetto Tribunale on line che consentirà “il deposito telematico di alcuni atti di volontaria giurisdizione direttamente da parte del cittadino”. Invio semplificato - Finanziato dal Pnrr, Polis riguarda il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno e il rendiconto che l’Ads o il tutore presentano periodicamente. L’ufficio postale “si limita a ricevere la documentazione cartacea e a spedirla all’ufficio giudiziario”, spiega Nordio: il servizio tracciato consente la ricezione “in tre giorni lavorativi”. L’operatore predispone il plico e fa firmare all’utente l’informativa privacy “senza trattamento di dati” trattamento che invece può essere effettuato “solo da un avvocato con mandato”, rileva Dori. L’obiettivo è evitare a chi risiede in Comuni sotto i 15 mila abitanti di dover andare nel capoluogo di provincia dove c’è il Tribunale per compiere una mera attività materiale. Sono al momento attivi per il servizio otto uffici postali in Italia. Il Movimento forense, intanto, invita il Garante privacy a valutare l’esercizio dei poteri ispettivi ex art. 58 Gdpr a tutela dei soggetti deboli laddove il personale di Poste avrebbe “la possibilità di leggere i contenuti” dei documenti cartacei per il ricorso per Ads. Il Cnf chiedeva di specificare che la semplificazione sta soltanto “nell’inoltro alla cancelleria”. Era “urgentissimo”: il ddl “anti-Cartabia” passa dopo 5 mesi di Simona Musco Il Dubbio, 18 maggio 2023 Approvati solo ieri i correttivi sulla procedibilità a querela dei reati minori. Nordio: ora riforme su carcere e “ascolti”. Ci sono voluti cinque mesi per una modifica considerata urgente. Urgentissima, tanto da aver indotto alcuni esponenti del governo a gridare allo scandalo, ma non al punto da doverla introdurre con un decreto legge e mettere così subito una “toppa” a quello che veniva considerato, sostanzialmente, un regalo ai mafiosi. E così, dopo i primi giorni di terrore a seguito della scarcerazione di ladri d’auto, sequestratori “semplici” di persona e boss accusati di lesioni, la furia di giornali ed esponenti politici si è ridimensionata, tant’è che nessuno ha più gridato allo scandalo. A finire nell’occhio del ciclone era stata quella parte della riforma Cartabia che prevedeva, per una serie di reati punibili fino a due anni, l’obbligo di querela e non più la procedibilità d’ufficio. Un tentativo di semplificare la giustizia e alleggerire i tribunali da procedimenti considerati minori, ma che aveva fatto alzare le barricate a magistrati e anche alle stesse forze di maggioranza, convinte di dover agire con celerità per evitare disastri. La modifica è arrivata però solo ieri, con il via libera definitivo del Senato al ddl ( non certo un decreto legge, va ribadito), che ha registrato il voto favorevole espresso dal Pd assieme alle forze di maggioranza. La nuova norma prevede la procedibilità d’ufficio per tutti i reati procedibili a querela nei casi in cui ricorra l’aggravante della finalità di terrorismo, eversione dell’ordine democratico o quella mafiosa, nonché per il reato di lesione personale quando è commesso da persona sottoposta a una misura di prevenzione personale, fino ai tre anni successivi al termine della misura stessa. Infine, è consentito l’arresto in flagranza obbligatorio, anche in mancanza di querela, nel caso in cui la persona offesa non risulti prontamente reperibile. La querela, in questi casi, deve comunque essere presentata entro 48 ore dall’arresto. La maggioranza esulta, le opposizioni - Pd escluso - un po’ meno, per la scarsa incisività dell’intervento. Che ha comunque fatto rientrare, a detta della maggioranza, il pericolo di agevolare le associazioni criminali. Una considerazione che non tiene conto del chiarimento fornito, nell’immediatezza della polemica, da Gian Luigi Gatta, professore di Diritto penale dell’Università di Milano ed ex consigliere della ministra Marta Cartabia: “La riforma - aveva spiegato all’Ansa - non ha reso procedibili a querela “reati contro il patrimonio in contesti mafiosi”“ e nemmeno “ha toccato gli altri classici reati di criminalità organizzata, diversi da quelli contro il patrimonio, che restano procedibili d’ufficio”, così come “la minaccia e la violenza privata commesse valendosi della forza intimidatrice delle associazioni criminali. Tutti reati che erano e restano procedibili d’ufficio anche dopo la riforma, senza alcuna implicazione su arresti e scarcerazioni”. Oltre quaranta reati, infatti, tra i quali furto, percosse, lesioni personali, violenza sessuale e stalking erano già procedibili a querela prima della riforma Cartabia. Ed essendo reati comuni, aveva aggiunto, “potevano e possono essere commessi in qualsiasi contesto, compreso quello mafioso, e possono essere aggravati dal metodo mafioso”. Insomma, il problema esiste “da trent’anni”. E forse proprio per questo la corsa annunciata dal governo non è stata poi così affannosa... Pubblicazione di atti segreti - Poche ore dopo l’approvazione del ddl, il guardasigilli si è presentato alla Camera per rispondere al question time. Due i punti fondamentali del suo intervento: intercettazioni e misure cautelari. In aula, Nordio ha ribadito che il pacchetto di riforme della giustizia in chiave garantista più volte annunciato è in dirittura d’arrivo ed entro fine mese verranno presentati i ddl sui temi segnalati. Con la promessa “solenne” di intervenire sulla pubblicazione di atti coperti da segreto, in particolare le intercettazioni, e la volontà di rendere le misure cautelari effettivamente extrema ratio. A intervenire in aula sul primo tema è stato Tommaso Calderone, di Forza Italia, secondo cui la pubblicazione abusiva di atti di indagine “non è un problema, è il problema”. Tale abitudine, ha sottolineato, “ha determinato danni inestimabili per migliaia di cittadini italiani” e nonostante esista nel nostro ordinamento una norma - l’articolo 114, comma 2, del codice di procedura penale che vieta la pubblicazione anche a stralcio di atti di indagine fino alla conclusione delle indagini preliminari, “vi è una disapplicazione interpretativa da parte di tutti. Non c’è un procedimento penale che sanzioni chi viola sistematicamente, tutti i giorni, tale norma in danno del cittadino italiano e violando un diritto di rango costituzionale, l’articolo 15”. L’intento del governo, ha chiarito Nordio, è quello di “rivedere completamente la disciplina della segretezza degli atti istruttori e in particolare delle intercettazioni”. E proprio ieri mattina è terminata una prima fase di studio che verrà completata oggi per stabilire il cronoprogramma, che prevede entro la fine del mese la redazione di una bozza da presentare in Consiglio dei ministri e poi in Parlamento. “Per quanto riguarda la violazione di queste norme, che ho dovuto constatare con rammarico durante i 40 di esercizio della magistratura - ha evidenziato - la violazione stessa risiede in parte nella ambiguità delle norme stesse, sulla differenza tra la segretezza e la non pubblicazione, e in parte dal fatto che non si è mai individuato l’autore della diffusione illegittima di questi atti coperti da segreto. La segretezza delle conversazioni è l’interfaccia della nostra libertà - ha dunque aggiunto Nordio. L’articolo 15 della Costituzione dice che la segretezza e la libertà sono indissolubili”. Custodia cautelare - A interrogare il ministro sul secondo tema, quello che riguarda la custodia cautelare, è stato Pino Bicchielli, di Noi Moderati, che partendo dai ritardi cronici della giustizia italiana ha ricordato la raccomandazione con la quale la Commissione europea, l’ 8 dicembre del 2022, ha ribadito la necessità di ricorrere alla carcerazione preventiva solo “se strettamente necessario e come misura di ultima istanza”. Misura che invece, secondo i dati del ministero della Giustizia, nel corso del 2021 è stata adottata in 32.805 casi. Nordio ha annunciato che alcune modifiche allo studio del ministero saranno presentate nel pacchetto in arrivo a fine mese, con un ddl che prevede la custodia in carcere come “eccezione dell’eccezione, non solo perché ce lo richiede la normativa comunitaria - ha sottolineato - ma perché ce lo richiedono l’etica, la razionalità e soprattutto la Costituzione, quando afferma la presunzione d’innocenza”. Una strada che il ministro vuole perseguire anche attraverso “una rimodulazione procedurale sulla competenza anche dell’emanazione dell’ordinanza di custodia cautelare che fissa la custodia preventiva”. Insomma, l’idea di un gip collegiale, lontano da chi ha richiesto la misura, per evitare superficialità e garantire maggiore indipendenza. Almeno stando agli annunci. Il Pd contro Delmastro, ma per la prima volta non lascia la commissione Giustizia di Liana Milella La Repubblica, 18 maggio 2023 Dopo quattro mesi i dem accettano che il sottosegretario meloniano rappresenti il governo, ma chiedono che si discuta subito in aula l’attacco di FdI contro di loro per il caso Cospito. Dopo quattro mesi di sistematici abbandoni dell’aula, sia alla Camera che al Senato nelle rispettive commissioni Giustizia, non appena arrivava lui, il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove, per conto del governo, oggi per la prima volta i deputati del Pd non hanno lasciato l’aula della commissione. Ma hanno appena chiesto che il suo caso, e la mozione di censura presentata per il suo comportamento contro di loro nel caso Cospito, venga discussa immediatamente in aula. Come spiegano fonti dei dem “non si tratta di una decisione definitiva nei confronti di Delmastro, la cui posizione va chiarita definitivamente di fronte all’intera Camera, ma della sollecitazione che si discuta dopo molti mesi la nostra mozione”. Da parte di Fratelli d’Italia sarebbe giunta la disponibilità a non opporsi alla discussione del caso in aula, che ovviamente sarà decisa dalla conferenza dei capigruppo. A spiegare la posizione del Pd in commissione è stato il capogruppo Federico Gianassi, il quale ha chiarito che, qualora l’impegno ad affrontare la questione non venisse attuato, lo stesso Pd riprenderebbe la sua protesta. La vicenda Cospito - Delmastro - Donzelli - Ma nel frattempo, visti anche gli importanti argomenti che la commissione si appresta a trattare, a partire dalla maternità surrogata per cui oggi scadono gli emendamenti, i dem ritengono di compiere questo atto politico volto a sollecitare il definitivo chiarimento su Delmastro e sul suo comportamento nella vicenda Cospito. Perché è stato proprio lui, a febbraio, a chiedere al Dap i rapporti del Gom e del Nic - i due “servizi segreti” che operano nei nostri penitenziari - redatti dopo la visita del 12 gennaio dei dem nel carcere di Bancali a Sassari per incontrare l’anarchico Alfredo Cospito in quel momento in sciopero della fame dal 20 ottobre. Rapporti che poi sono passati dalla mani di Delmastro a quelle del capogruppo di FdI alla Camera Giovanni Donzelli - peraltro suo compagno di abitazione a Roma - che il primo febbraio ne ha fatto oggetto di un intervento fortemente accusatorio nei confronti dello stesso Pd in aula quando era in discussione la relazione su Cospito del Guardasigilli Carlo Nordio. I dem a quel punto hanno chiesto un Giurì d’onore per chiarire il caso, concluso con un’assoluzione di Donzelli, che però - anche se lui lo contesta - interrogato dallo stesos Giurì aveva ridimensionato la portata politica delle sue parole contro il Pd. Resta sul tavolo la mozione di censura dello stesso Pd contro Delmastro che tuttora è indagato dalla procura di Roma - e il caso è seguito dal procuratore aggiunto Paolo Ielo - per rivelazioni di segreto d’ufficio proprio per aver diffuso la relazione di Gom e Nic. Il punto dell’inchiesta è quale qualifica di segretezza avessero quelle carte. Adesso la richiesta del Pd di calendarizzare subito la mozione di censura da oggi è sul tavolo del presidente della Camera Luciano Fontana. Napoli. Muore in carcere, era malato e aveva chiesto un alleggerimento della misura cautelare La Sicilia, 18 maggio 2023 Giacomo Maurizio “Iano” Ieni, 65 anni, ritenuto il reggente della cosca mafiosa catanese Pillera-Puntina, è morto ieri sera nel carcere campano di Secondigliano. Era malato e detenuto in attesa di un’udienza davanti al gup di Catania nel procedimento nato dall’operazione “Consolazione” nei confronti di 16 persone indagate, a vario titolo, per associazione di tipo mafioso, estorsione e usura. Era stato arrestato dalla polizia nel gennaio del 2022. La notizia del decesso è stata confermata da uno dei suoi legali, l’avvocato Salvatore Silvestro, del foro di Messina, che ha annunciato la presentazione di esposti sulla morte del suo assistito. Il penalista, il 6 maggio scorso, aveva chiesto al gip la sostituzione della misura cautelare in carcere con una meno gravosa per il suo assistito sottolineando che “l’ulteriore repentino aggravamento del quadro clinico palesa in tutta la sua drammaticità l’impossibilità di fronteggiare le gravi patologie da cui l’imputato è affetto in ambiente carcerario, pur attrezzato di centro clinico”. Il giudice per le indagini preliminari, condividendo il parere contrario della Procura, ha rigettato la richiesta sei giorni fa. La salma, secondo quanto riferito dall’avvocato Silvestro, è stata già trasferita al Policlinico di Napoli. Nel 2009 il presunto boss Giacomo Maurizio Ieni, poiché ritenuto fortemente depresso fu posto agli arresti domiciliari nonostante fosse detenuto in regime di 41 bis nel centro clinico del carcere di Parma. La decisione fu adotatta dalla terza sezione penale del Tribunale di Catania per “gravi motivi di salute”. Durante un’udienza, precedente alla decisione del Collegio, in uno stralcio del processo Atlantide, Ieni era scoppiato in lacrime davanti ai giudici sostenendo di “essere fortemente depresso e di non riuscire a stare in carcere”. Augusta (Sr). Sovraffollamento al 140%, carenze sanitarie e di organico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2023 Il garante Santi Consolo, nella visita al penitenziario in cui sono morti due detenuti in sciopero della fame, ha fermato la protesta di altri due reclusi: uno rifiutava le terapie, l’altro l’alimentazione. Santi Consolo, il neo garante regionale delle persone private della libertà, ha fatto visita al carcere siciliano di Augusta, dove recentemente sono morti, nel giro di un mese, due detenuti a causa dello sciopero della fame. A seguito della visita, sono emersi dettagli preoccupanti su questo istituto che si trova al centro di una profonda crisi strutturale e umanitaria. Secondo il garante Consolo, la struttura ospita attualmente 476 detenuti, nonostante la capienza regolamentare sia di soli 364 posti. Ciò ha portato a un tasso di sovraffollamento del 140%, ben al di sopra della media nazionale. Una delle maggiori criticità riguarda le condizioni delle celle, molte delle quali fatiscenti e prive di bagni con doccia. In particolare, una sezione del carcere presenta un ambiente in notevole degrado destinato a docce comuni, mentre molte altre sezioni sono sprovviste di stanze con servizi igienici adeguati. Questo stato di cose ha generato profondo malcontento tra i detenuti costretti a vivere in queste condizioni. La carenza di personale è un altro grave problema che affligge il carcere di Augusta. L’organico previsto per la polizia penitenziaria è di 251 unità, ma attualmente operano solo 181 agenti, a causa di missioni e distacchi. Di questi, ben 12 assenti per la loro candidatura alle prossime elezioni amministrative. Ciò ha portato a un coefficiente personale presente/ detenuti ristretti pari a circa lo 0,38, significativamente inferiore alla media regionale. Anche la presenza di educatori è nettamente insufficiente rispetto al fabbisogno. Nonostante la dotazione organica preveda almeno 9 educatori, attualmente se ne contano solo 6. Queste carenze - sottolinea il garante regionale - hanno determinato un carico di lavoro eccessivo per il personale e una implementazione compromessa delle attività trattamentali destinate ai detenuti. La situazione sanitaria nel carcere di Augusta è altrettanto allarmante. Nonostante sia presente una guardia medica permanente 24 ore su 24, la presenza di uno psicologo è garantita solo per 3- 4 ore al giorno, escludendo la domenica. Questo livello di assistenza è inadeguato considerando il fatto che molti detenuti presentano gravi problemi di disagio psicologico e psichiatrico. Durante la visita del garante, sono stati riscontrati casi di detenuti che lamentavano gravi disagi, tra cui uno che rifiutava la terapia e un altro che aveva intrapreso uno sciopero della fame. Questi episodi evidenziano la necessità urgente di migliorare le condizioni all’interno del carcere di Augusta, garantendo un’assistenza adeguata e rispettosa dei diritti umani. Per Consolo è assolutamente necessario un intervento tempestivo da parte delle autorità competenti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e promuovere un ambiente carcerario più umano e sicuro. In primo luogo, è indispensabile affrontare il problema del sovraffollamento. La capienza regolamentare del carcere deve essere rispettata, e devono essere adottate strategie per ridurre il numero di detenuti al di sotto delle sue attuali dimensioni. Ciò potrebbe prevedere l’implementazione di programmi di reinserimento sociale, l’uso di alternative alla detenzione per determinate categorie di reati non violenti e la revisione delle politiche di carcere preventivo. Per quanto riguarda le condizioni strutturali, è necessario avviare un programma di ristrutturazione e manutenzione delle celle, garantendo bagni con doccia adeguati in tutte le sezioni. Ciò non solo promuoverebbe un ambiente igienico, ma anche la dignità dei detenuti. Per affrontare la carenza di personale, è fondamentale aumentare il numero di agenti di polizia penitenziaria e di educatori in base alle necessità effettive. È importante fornire un adeguato supporto e formazione al personale, al fine di garantire un ambiente di lavoro sicuro ed efficiente, che possa svolgere appieno il proprio ruolo nel trattamento e nella riabilitazione dei detenuti. Riguardo all’assistenza sanitaria, è essenziale garantire la presenza costante di personale medico e psicologico qualificato. Dovrebbero essere istituiti servizi di assistenza psicologica e psichiatrica adeguati, in grado di affrontare le necessità dei detenuti con problemi di disagio mentale. Inoltre, dovrebbe essere garantito un accesso regolare alle cure mediche, inclusa l’attenzione ai detenuti che rifiutano la terapia. Al fine di prevenire situazioni di emergenza come gli scioperi della fame, è fondamentale promuovere un dialogo costante e aperto. Questo consentirà di individuare tempestivamente le problematiche e di adottare misure adeguate per affrontarle, nel rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Infatti, nel corso della visita il garante si è trovato davanti “due detenuti che accusavano gravi disagi, uno dei quali rifiutava la terapia, mentre l’altro aveva anche intrapreso lo sciopero della fame”, che ha interrotto dopo il colloquio con Consolo e i magistrati di sorveglianza Monica Marchionni e Alessandra Gigli che lo hanno accompagnato durante la visita. Ricordiamo che Consolo è stato un magistrato di sorveglianza per poi diventare un pm antimafia. Si occupò, da procuratore generale, anche del processo d’appello del maxiprocesso. Così come, da ricordare, il processo sull’omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli. Furono indicati come colpevoli, e condannati in primo grado, dei presunti stiddari. Santi Consolo era a un passo nel chiedere la conferma delle condanne, quando chiese di fermare il processo, ormai giunto in conclusione, perché voleva conoscere delle nuove rivelazioni fatte dai pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca. Inizialmente furono ambigui, ma Consolo riuscì a far emergere la verità: Guazzelli fu ucciso da Cosa nostra. Chiese e ottenne l’assoluzione dei presunti stiddari e nel contempo fece emergere la verità. Una verità non di poco conto, perché premia l’intuizione che ebbero Falcone e Borsellino proprio per quell’omicidio. Da dicembre 2014 al 4 luglio 2018 è stato Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e emerse la sua sensibilità su temi impopolari. Promosse le iniziative per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, così come, durante i suoi impegni, riuscì a scongiurare delle rivolte in carcere, semplicemente attraverso il dialogo e l’ascolto. Durante l’iniziativa organizzata da Nessuno Tocchi Caino e condotta da Umberto Baccolo e Elisa Torresin per chiedere la tutela dell’anarchico Alfredo Cospito che era in sciopero della fame - con il serio rischio di morire - contro il 41 bis nel quale era sottoposto, Consolo è intervenuto non contro il regime che sulla carta non dovrebbe essere duro, ma per chiedere il rispetto dei principi della nostra costituzione dove è prevalente il diritto alla salute. “L’esecuzione della pena deve essere improntata a principi di umanità, deve tendere alla riabilitazione e non punire per avere come risultato la radicalizzazione”, ha sottolineato. Un intervento importante e significativo, perché lo stesso Consolo, quando era capo del Dap, fu raggiunto da un plico esplosivo proveniente dagli anarchici che chiedevano la liberazione di Cospito. Avellino. Il Garante regionale Samuele Ciambriello: “Nessuna rivolta, ma una protesta” di Adriana Pollice Il Manifesto, 18 maggio 2023 Una ventina di detenuti si è asserragliata per un paio d’ore, rotte suppellettili. Samuele Ciambriello: “I quattro da cui è partito tutto sono stati trasferiti. È stata l’esplosione di un disagio, basterebbero più figure sociali”. Alle 16 di ieri erano tutti rientrati nelle celle i detenuti del carcere di Avellino che per un paio d’ore hanno messo in atto una protesta. Agenti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e municipale hanno cinturato nel primo pomeriggio l’intera area esterna della casa circondariale. La scintilla è partita al primo piano, dove ci sono 52 detenuti: i primi a protestare sono stati quattro reclusi a cui sono state fatte delle contestazioni, l’aggressione ai danni del medico del carcere la più grave. I quattro sono diventati una ventina: c’è stata la distruzione di suppellettili della sezione mentre si asserragliavano all’interno. L’incontro con le autorità ha riportato la calma e alle 16 era tutto rientrato. I sindacati di polizia hanno diffuso la notizia di una “vera e propria rivolta” e a ruota sono partite le ricostruzioni con agenti feriti e “detenuti che si stanno organizzando con olio bollente ed altro materiale atto ad offendere pronto a essere usato contro il personale di Polizia penitenziaria”. Spiega il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello: “La tensione è rientrata. Il procuratore capo di Avellino Domenico Airoma, la magistrata di sorveglianza Francesca De Marinis, il provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria Lucia Castellano, la direttrice dell’istituto Concetta Felaco e io abbiamo parlato con i detenuti. Ci sono state quattro contestazioni, una per l’aggressione al medico, un altro è stato trovato con un telefonino. Ma non c’è stato nessuno scontro con gli agenti, piuttosto un confronto: alcuni chiedevano di essere trasferiti, altri volevano avvicinarsi alla famiglia. La stragrande maggioranza ha chiarito di non voler entrare nella spirale della rivolta e quindi tutto è rientrato. I quattro da cui è partita la protesto nel pomeriggio sono stati trasferiti in altre strutture. Nessun olio bollente ma l’esplosione di un disagio, solo 15 giorni fa un detenuto qui ad Avellino è salito sul tetto. Basterebbe più dialogo, più figure sociali”. Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio del sindacato di polizia penitenziaria Uspp commentano: “I poliziotti penitenziari della Campania sono in uno stato di abbandono ed è inaccettabile l’inerzia dei vertici dell’amministrazione rispetto alle nefaste condizioni lavorative del personale: più volte abbiamo denunciato la situazione del carcere di Avellino dove, oltre al sovraffollamento, mancano sessanta agenti dalla pianta organica”. Avellino. La protesta dopo le sanzioni disciplinari. Ciambriello: “Qui non c’è uno psichiatra” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 18 maggio 2023 Rivolta carcere Avellino, smentita propaganda penitenziaria: “Niente olio bollente, erano in 4-5. Mancano figure di ascolto”. Altro che guerriglia. Altro che olio bollente e oggetti contundenti. Ancora una volta la propaganda della polizia penitenziaria e dei loro sindacati viene smontata dalle persone presenti sul posto. In questo caso, nel carcere di Bellizzi Irpino, ad Avellino, il garante dei detenuti Samuele Ciambriello ridimensiona quanto avvenuto nel pomeriggio di oggi nel corso di una protesta andata in scena al primo piano di una sezione vecchia dove sono reclusi i detenuti comuni. Un piano dove sono presenti 50-52 carcerati e dove “4-5 di loro hanno inscenato una protesta per motivi diversi”. “Due detenuti - spiega Ciambriello - hanno protestato dopo aver ricevuto una sanzione disciplinare nei giorni scorsi”. Relazione comminata in seguito a un’aggressione a un medico e a un cellulare trovato in cella. “Altri due chiedevano invece di essere trasferiti da mesi” in un carcere dove più che il rafforzamento dell’organico degli agenti di polizia penitenziaria serve l’arrivo, come il pane, di figure sociali (a Bellizzi non c’è uno psichiatra) capaci di ascoltare, dialogare e capire le problematiche quotidiane che si vivono dietro le sbarre. Tornando alla “rivolta”, la quasi totalità dei detenuti presenti al primo piano della sezione comune è rientrato in cella poco dopo. I 4-5 protagonisti invece della protesta verranno invece trasferiti nelle prossime ore. Nessuno di loro, tuttavia, avrebbe utilizzato oggetti contundenti o olio bollente per minacciare gli agenti penitenziari. Tutto è nato quando sono state notificate ai pochi detenuti in questione le sanzioni disciplinari relative ai comportamenti scorretti dei giorni scorsi. Ne è scaturita una protesta all’interno delle stesse celle poi estesa nel corridoio esterno ma non sarebbe stata registrata alcuna colluttazione con gli agenti presenti. Due poliziotti, tuttavia, stando a quanto riferito dai sindacati di polizia penitenziaria sarebbero rimasti feriti e portati in ospedale. Sul posto, oltre a un gran dispiegamento di forze dell’ordine (polizia, carabinieri e guardia di finanza) e al garante regionale Ciambriello anche il procuratore di Avellino Domenico Airoma, il magistrato di Sorveglianza Francesca De Marinis, il provveditore campano delle carceri Lucia Castellano. “Il vero malessere in questo carcere, dove 15 giorni fa un detenuto che chiedeva il trasferimento è salito sul tetto in segno di protesta, è che mancano figure di ascolto” osserva Ciambriello che ricorda come lo scorso anno sono stati registrati ben 1200 episodi di autolesionismo all’interno delle carceri. La notizia della conclusione della rivolta è stata confermata dalla direttrice dell’istituto, Concetta Felaco, che ha portato avanti la trattativa con i detenuti. Dopo le notizie sulla rivolta, numerosi familiari degli ospiti del carcere sono giunti ad Avellino. Santa Maria Capua Vetere (Ce). In tribunali i video dei detenuti fatti inginocchiare e picchiati di Anna Santini Corriere del Mezzogiorno, 18 maggio 2023 Al processo nell’aula bunker del tribunale sammaritano la testimonianza di un carabiniere: “Ma nei video ci sono anche agenti che non commettono violenze, tuttavia imputati”. Detenuti picchiati da agenti penitenziari, alcuni dei quali muniti di casco e manganello, mentre percorrono il corridoio che dalla loro cella porta all’area di socialità - uno con la felpa rossa pestato con violenza - quindi fatti mettere in ginocchio con faccia al muro, e uno in particolare, il marocchino Faqiri Marouane, costretto a muoversi sulle ginocchia a piccoli passettini per raggiungere il suo posto. Prosegue così il processo per i pestaggi dei detenuti, in corso all’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con la proiezione delle immagini choc delle violenze avvenute il 6 aprile 2020 estratte dalle telecamere interne del carcere sammaritano. Oggi sono state proiettate le immagini relative al primo piano del padiglione “Nilo”, quelle in cui i detenuti vengono fatti uscire dalle celle e portati nell’area socialità, dove c’è il biliardo e i reclusi possono svagarsi. Ovviamente quel giorno per i detenuti non ci furono momenti di svago, ma tante botte, come si vede dalle immagini. Dall’area socialità alle celle, nel percorso a ritroso, i detenuti sono stati costretti a passare tra due ali di poliziotti che li picchiavano, molti con caschi e mascherina e ancora non identificati. Ma il detenuto Marouane, dice il brigadiere dei carabinieri Vincenzo Medici, che dalla scorsa udienza del 10 maggio sta ricostruendo con l’aiuto delle immagini quanto accaduto più di tre anni fa, “è stato particolarmente attenzionato”. In effetti Marouane resta da solo nell’area socialità, dove viene colpito con il manganello in testa, quindi fatto alzare e inginocchiare nuovamente ad altezza di un agente e alla fine riportato in cella tra gli agenti che lo pestano. “Lei ha visto immagini di detenuti che hanno fatto resistenza?”, chiede al teste il sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere Daniela Pannone. “No, solo un detenuto si è avvinghiato alla grata della cella per evitare di essere trasferito in un altro reparto, ma è stato picchiato con violenza e lo hanno comunque portato via”. Il sottufficiale dell’Arma ha poi fatto i nomi di alcuni agenti - oltre dieci - che sono stati riconosciuti tramite le immagini ma per i quali “non sono emerse condotte violente”, pur essendo imputati. Intanto la Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere preannuncia un’assemblea contro il calendario delle udienze predisposto dal collegio di Corte d’Assise presieduto da Roberto Donatiello, che per velocizzare il maxi-processo dovrebbe prevedere da metà giugno due udienze a settimana. Palermo. Parlamentari regionali ispezionano il Malaspina: “Carenza di personale e sporcizia” palermotoday.it, 18 maggio 2023 Il parlamentare regionale del Pd Tiziano Spada, con i colleghi deputati Ismaele La Vardera (Sud chiama nord), Valentina Chinnici (Pd) e Roberta Schillaci (M5S), ieri ha organizzato una visita a sorpresa all’interno dell’istituto penale per minorenni “Malaspina” di Palermo, riscontrando non poche criticità. “Tra queste - spiega Spada - carenza di personale, locali sporchi e un ambiente poco adatto a ospitare un carcere minorile”. “Quando ci hanno mostrato la palestra - continua il parlamentare dem - abbiamo subito notato che è per molti aspetti inutilizzata. Siamo dell’idea che lo sport possa fare da deterrente per tutti quei giovani che si avvicinano alla malavita e sapere che neanche un insegnante di scienze motorie vada lì è sconcertante”. Il deputato regionale aggiunge: “Questa ispezione coincide quasi, tra l’altro, con la visita del garante della Sicilia per i detenuti al carcere di Augusta dove mi ero recato, con il senatore Antonio Nicita, lo scorso dicembre. E le criticità che avevamo rilevato erano le stesse del garante della Sicilia per i detenuti: strutture fatiscenti con docce in comune, carenza di personale e quasi totale assenza di psicologi”. “Tutto ciò - conclude Spada - ci suggerisce che è ormai necessario e non più rinviabile un intervento, da avviare in sinergia con istituzioni, comunità e territorio, per ribaltare una situazione inaccettabile per una società che possa definirsi civile”. Roma. Al via i “Dialoghi sulla giustizia” promossi dal Seac agensir.it, 18 maggio 2023 Si svolgerà a Roma sabato 20 maggio, alle 9.30, al cinema Intrastevere (vicolo Moroni 3) il primo dei “Dialoghi sulla giustizia” promosso da SEAC - Coordinamento nazionale enti e associazioni di volontariato penitenziario. Un ciclo di incontri articolato in diverse città per sensibilizzare cittadinanza e comunità dei fedeli sulla centralità della condizione penale nelle relazioni sociali. Ci si confronterà su quale significato dare al senso di umanità indicato dall’articolo 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”), quali interrogativi esso ponga alle coscienze dei cittadini e del legislatore, quali stimoli nuovi provengano da una Chiesa attenta fin dalle origini alla condizione dei carcerati (Ebrei 13,3 “ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere”). Tra domande antiche e risposte urgenti alla luce del Vangelo e della Costituzione i volontari saranno stimolati dalle riflessioni di padre Francesco Occhetta (teologo, studioso di diritto, docente università Gregoriana), Daniela de Robert (Collegio dell’autorità garante detenuti e persone private della libertà personale), Antonella Patrizia Mazzei (magistrata con lunga esperienza nel processo penale). “Ricominciamo dal senso di umanità nelle pene - commentano Carlo Condorelli e padre Vittorio Trani, presidente e assistente ecclesiastico di SEAC - perché avvertiamo urgente trasmettere, soprattutto alle nuove generazioni, il patrimonio di valori e buone pratiche maturato in oltre mezzo secolo di volontariato. Aprendosi alla ricerca di nuovi approcci e stili di servizio a fronte degli orientamenti della recente riforma Cartabia. Bisogna evitare - concludono - che prevalga ‘una lettura di pancia’ della condizione penale”. Modena. Festival Giustizia Penale: il vice ministro Valentini ospite negli spazi Florim Il Resto del Carlino, 18 maggio 2023 È ai nastri di partenza la quarta edizione di Festival della Giustizia Penale, che si tiene a Modena e provincia da domani a domenica. Ma già oggi è previsto un pre-event presso gli spazi messi a disposizione da Florim, con la presenza del Viceministro alle Imprese e Made in Italy, Valentino Valentini e del Presidente della Regione Stefano Bonaccini, che interverranno per un saluto insieme al direttore scientifico del Festival, il professor Luca Lupària Donati, al presidente di Fgp, Guido Sola e a Roberto Ricco, presidente della Camera Penale di Modena e tra gli organizzatori della kermesse dedicata alla giustizia penale, che quest’anno ha come tema ‘Impresa, lavoro, giustizia’. Domani l’avvio ufficiale con un vero e proprio parterre de roi: a Modena, al mattino, interverranno tra gli altri il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto che parlerà della sicurezza sul lavoro tra rispopsta punitiva e riduzione premiale dell’area penale, il senatore Matteo Renzi, il presidente di Assicurazioni Generali Andrea Sironi che discuterà col professor Mitja Gialuz di finanza internazione e legalità d’impresa. Nel pomeriggio di domani, sempre a Modena, ospiti internazionali tra cui spicca il professor Brendon Garrett della Duke University (una delle più prestigiose e antiche università statunitensi) e in orario preserale, in pieno centro a Modena, si parla di edilizia per la giustizia con tre architetti di fama mondiale, Andrea Boschetti, Alfonso Femia, Luca Zevi. A Carpi un interessante dialogo sulle nuove povertà tra Pier Luigi Bersani e l’arcivescovo Erio Castellucci mentre a Sassuolo presso Confindustria Ceramica, dialogo tra ‘Sostenibilità, Ambiente, Giustizia Penale’ tra il vice presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, il senatore Andrea Ostellari e la vice presidente della Regione Emilia-Romagna e assessore alla Transizione ecologica Irene Priolo. Tutti gli eventi del Festival sono in diretta streaming, programma completo e dirette sul sito www.festivalgiustiziapenale.it. La manifestazione gode del patrocinio del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Corte Costituzionale, Ministero della Giustizia, Regione Emilia Romagna, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dei comuni di Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo nel Frignano, delle Università di Modena e Reggio Emilia, dell’Università degli Studi di Milano Dipartimento di Scienze Giuridiche ‘Cesare Beccaria’. Cuneo. Carceri e diritti a 20 anni dalla nascita dei Garanti dei detenuti di Massimo Iaretti giornalelimonte.it, 18 maggio 2023 È dedicata al rapporto tra carcere e diritti, a vent’anni dalla nascita dei Garanti dei detenuti, la conferenza in programma martedì 23 maggio alle 11 nel palazzo della Provincia di Cuneo (Sala Giolitti). L’iniziativa, promossa dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, si svolge in collaborazione con la Provincia. Era il 14 maggio 2003 quando la Città di Roma deliberava l’istituzione della prima figura di garanzia dedicata alle persone detenute in Italia, mentre era 6 ottobre dello stesso anno la Regione Lazio approvò la legge n. 31 intitolata “Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. La presenza di Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio e portavoce nazionale dei Garanti territoriali, sarà l’occasione per una riflessione pubblica a distanza di 20 anni dalla nascita dei garanti. Dopo i saluti istituzionali di Luca Robaldo, Presidente della Provincia di Cuneo, interverrà Stefano Anastasia e sono previsti gli interventi Paolo Allemano (Garante della Città di Saluzzo), Paola Ferlauto (Garante della Città di Alba e Garante della Città di Asti), Michela Revelli (Garante della Città di Fossano), Alberto Valmaggia (Garante della Città di Cuneo). Hanno assicurato la presenza e prenderanno la parola Rita Monica Russo Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, il Direttore dell’Uepe Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Cuneo Elena Boranga, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cuneo Alessandro Ferrero, la rappresentante della Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta Dora Bissoni, Mario Tretola, Presidente regionale delle Acli Piemonte, Paolo Romeo Presidente dell’Associazione “Ariaperta” e Carla Vallauri Presidente dell’Associazione “Sesta Opera”. Coordina e modera Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Sono stati invitati i magistrati di Sorveglianza dell’Ufficio di Sorveglianza di Cuneo. Palermo. I detenuti di Pagliarelli mettono in scena l’inferno della solitudine di Paola Pottino La Repubblica, 18 maggio 2023 Nello spettacolo della regista Daniela Mangicavallo, le grida di dolore dei carcerati attraverso le lettere scritte durante la pandemia. “Mi sembra di essere all’inferno”. Il grido di dolore lanciato dai detenuti del penitenziario Pagliarelli quando, nel corso della pandemia, la solitudine diventava insostenibile e il migliore antidoto per combatterla era la scrittura. Dalle loro lettere strazianti è nato lo spettacolo “Creatura”, diretto da Daniela Mangiacavallo, andato in scena nel teatro della casa circondariale diretta da Maria Luisa Malato, interpretato dai detenuti-attori della Compagnia Evasioni con i costumi di Roberta Barraja e la partecipazione delle attrici Fabiola Arculeo, Oriana Billeci e Marzia Coniglio. “Quando è scoppiata la pandemia - racconta la regista - e ci hanno comunicato che ogni contatto con i detenuti sarebbe stato interrotto, avevamo iniziato a lavorare al progetto teatrale. La notizia ci ha preoccupato molto perché il teatro per queste persone significa vita, contatto, emozione. L’unica soluzione era quindi prendere carta e penna e iniziare a scriverci. Dallo scambio epistolare, durato più di un anno, è emerso un mondo infernale nel quale vivevano i detenuti, che più di tutti hanno sofferto la solitudine”. E sono state proprio quelle lettere, involucri devastanti di paure e ansie, a fare da canovaccio per la drammaturgia di “Creatura”, dove il riferimento all’Inferno è una costante, ma, al contrario del girone dantesco in cui la condanna è eterna, l’inferno vissuto dai detenuti tende verso una strada illuminata di stelle, dove dal dolore si può sempre uscire, anche attraverso l’ironia e il gioco. Ecco perché circensi e acrobati, maghi e burattinai abitano le fantasie dei personaggi rappresentati. “Di gomma, di acqua, zucchero e farina. Sono dentro ogni rumore, ogni battito, ogni respiro mi avvolge, mi culla e sento che pian piano questo dolce suono trova il suo posto dentro di me. Respiro, aria fresca, argentata”. Avrebbe voluto trasformarsi in acqua, zucchero o farina, l’uomo Argilla, i cui granelli, quasi invisibili, oltrepassano sbarre e confini. Ruotano come automi i teatranti, un coro di voci di anime in pena vestite di stracci e colori. Ecco Ulisse che con il suo grande cappello rosso viaggia nelle acque agitate del mare che lo porta lontano da Itaca. Da chi fugge se non da se stesso? I colori - Cambiano i colori, le movenze, la musica. Tutto torna a incupirsi “Dove ho sepolto il mio tempo migliore?” “Perché questo fuoco nei tuoi occhi?” “Rimarremo per sempre intrappolati in questo inferno”. Ma la condanna non è eterna grida qualcuno “perchè anche nell’inferno esiste qualcosa di non infernale”. Curato dall’associazione di promozione sociale “Baccanica”, lo spettacolo rientra nel progetto della Fondazione Acri, intitolato “Per Aspera ad Astra” e “finalizzato a portare il teatro in carcere - spiega Mangicavallo - per contribuire al recupero dell’identità personale e alla socializzazione dei detenuti”. Giunto quest’anno alla sua quinta edizione, oggi il progetto vede in rete ben quattordici istituti di pena italiani; capofila con la Compagnia della Fortezza, il carcere di Volterra, dove nel 1994 grazie al regista Armando Punzo è iniziata questa avventura”. Castrovillari (Cs). Copie 3D dei reperti archeologici di Sibari realizzate da studenti e detenuti calabriadirettanews.com, 18 maggio 2023 Con l’ultima lezione che s’è tenuta in settimana nelle sale del modulo Ippodameo del Museo nazionale archeologico della Sibaritide prende ufficialmente il via la seconda fase di “Copycat - speranze replicabili”. Un progetto nel corso del quale i ragazzi dell’Istituto professionale dell’Erodoto di Thurii di Cassano all’Ionio, guidati dai loro professori e dal personale del Parco, hanno insegnato ai detenuti del carcere di Castrovillari le tecniche di riproduzione con la stampante 3d mentre il personale del Museo ha spiegato i reperti a tutti, inquadrandoli nel loro periodo e raccontandone le funzioni ed il valore, i detenuti hanno ascoltato le spiegazioni, realizzato le copie, parlato con i ragazzi, visitato il Museo, imparato cose. Anche i ragazzi, a loro volta, hanno imparato cose nuove così come i loro professori e gli operatori museali. Una organizzazione mastodontica che nemmeno la burocrazia ha fermato e che ha coinvolto sei detenuti della casa circondariale di Castrovillari, sei studenti dell’Ipsia dell’Istituto superiore secondario dell’Erodoto di Thurii di Cassano all’Ionio e sei professori della stessa scuola, un’archeologa e - a turno - tre assistenti all’accoglienza, fruizione e vigilanza, due coraggiosi direttori carcerari, un coraggioso funzionario e una coraggiosissima preside, quindici reperti originali datati tra il VI e il III secolo a.C., tre “formatori” della onlus “Maestri di Strada”, tre seminari per un totale di sedici ore di formazione preliminare rivolta a docenti e operatori museali, un autista ed un pulmino messo a disposizione dal comune di Cassano all’Ionio per collegare anche fisicamente carcere e museo. Questi, nel dettaglio, i numeri di “Copycat - speranze replicabili” ideato, prodotto e realizzato dal Parco archeologico di Sibari - istituto autonomo del Ministero della Cultura guidato dal Ministro Gennaro Sangiuliano - che ha visto concludersi ieri anche i quattro appuntamenti da quattro ore ciascuno in Museo. Quattro brevi fughe da una dura realtà, sulle ali della cultura, mirando al riscatto personale e sociale, che danno ora il via alla seconda fase. “Copycat si avvia alla conclusione - ha esordito il direttore del Parco di Sibari Filippo Demma - ma siamo tutti contenti, perché siamo tutti un po’ più ricchi. Dopo il completamento di questa parte formativa, ora le copie degli oggetti antichi realizzate durante le attività saranno esposte in carcere e poi utilizzate in altri laboratori con persone cieche e ipovedenti, che non potrebbero toccare i delicatissimi originali, ma attraverso le copie potranno almeno percepire la forma degli oggetti antichi. Altro dettaglio, non di poco conto, è che la stampante 3d, acquistata dal Parco espressamente per il laboratorio, è stata donata all’IPSIA Erodoto di Thurii, perché il coraggio - ha chiuso Demma - trova sempre la sua ricompensa”. “La proposta di aderire a Copycat - ha spiegato Anna Liporace, dirigente dell’Iiss Erodoto di Thurii - è stata subito accolta con favore non solo da me ma in particolare dai docenti dell’indirizzo “Robotica e automazione” perché il percorso progettuale corrispondeva allo studio, alle azioni e alle attività che confluiscono in questo indirizzo di studio. Parliamo di un processo di trasmissione del sapere che ha raggiunto varie fasce sociali e dove il rapporto con i detenuti ha portato molti spunti di riflessione sia ai docenti che agli studenti senza che siano mancati momenti emozionanti e toccanti. Mi piace - ha concluso - sottolineare questa alleanza educativa messa in piedi per offrire ai giovani un vero e proprio percorso di formazione. Ringrazio perciò i miei studenti per l’impegno e la dedizione con le quali hanno portato avanti il progetto, i responsabili del carcere di Castrovillari Giuseppe Carrà e il suo successore Mario Antonio Galati per aver aperto a noi e ai ragazzi le porte, il sindaco di Cassano Giovanni Papasso per l’aiuto nelle questioni logistiche, e, soprattutto, il direttore Filippo Demma per i suoi collaboratori per la brillante idea di coinvolgerci in un percorso tanto appassionante quanto formativo non solo per i ragazzi ma anche per gli adulti”. “Siamo molto convinti dell’utilità dell’iniziativa - ha commentato dal canto suo il direttore della “Rosetta Sisca” Mario Galati - perché ci permette di dare ai detenuti una vera opportunità per il reinserimento nella società e di creare una utile osmosi tra il dentro e il fuori, tra carcere e città”. Il costo della vita è la prima preoccupazione per GenZ e Millennial: 1 su 2 in difficoltà economica di Paolo Baroni La Stampa, 18 maggio 2023 Per 7 su 10 difficile mettere su casa e famiglia: il caro-prezzi rappresenta il problema numero uno per quasi la metà dei Millennial in Italia (46%) e per il 38% della GenZ intervistata. La grande inflazione degli ultimi mesi spaventa anche i giovani e, sia per i Millennial, ovvero i nati tra il 1980 ed il 1996, che per la Generazione Z (1997-2012), rappresenta infatti la preoccupazione numero uno, sia a livello mondiale che in Italia. Stando all’ultima edizione della “Deloitte Global GenZ and Millennial Survey” condotta su un campione di oltre 22 mila persone in 44 Paesi del mondo e su oltre 800 giovani in Italia, la preoccupazione per il caro vita svetta tra tutte le altre problematiche. Il caro-prezzi rappresenta il problema numero uno per quasi la metà dei Millennial in Italia (46%) e per il 38% della GenZ intervistata. Valori molto elevati che confermano il trend di un’inflazione a livelli record in tutto il mondo: anche per il 42% della media globale dei Millennial e per il 35% della GenZ il caro vita è la prima preoccupazione. In seconda posizione, ma non meno rilevante, c’è poi la questione climatica, che dovrebbe essere la priorità da affrontare secondo il 37% dei Millennial italiani e il 34% della GenZ. Significative anche le percentuali di chi teme la disoccupazione: si tratta del 29% della GenZ e il 26% dei Millennial italiani. Oltre a questi tre grandi temi, gli intervistati puntano il dito sulla “scarsità delle risorse”, la “disuguaglianza e discriminazione”, la stagnazione della “crescita economica” e l’aumento delle disuguaglianze sociali. In linea con la media globale, il 50% della GenZ e il 47% dei Millennial vive di stipendio in stipendio e teme di non riuscire ad arrivare a fine mese. In particolare, i GenZ e Millennial italiani mostrano elevati livelli di preoccupazione per l’impatto che la stagnazione economica sta avendo su di loro, incidendo sulla possibilità di creare una famiglia e di acquistare una casa. Se l’economia non migliorerà nel prossimo anno, quindi, il 71% dei Millennial e il 63% della GenZ nel nostro Paese pensa che sarà molto difficile o impossibile metter su famiglia (contro il 47% e il 50% della media globale). Significativamente più elevati della media globale anche i timori sulla casa: il 71% della GenZ e il 73% dei Millennial pensa che sarà impossibile comprarne una nel prossimo anno se lo scenario economico non migliora. Per fare fronte alla instabilità economica, il 37% della GenZ e il 23% dei Millennial in Italia ha almeno un secondo lavoro con cui cerca di integrare la prima fonte di reddito. In linea con i risultati globali, amici e famiglia sono ciò che dà più “senso di identità” alla GenZ e ai Millennial italiani. Per il 68% della GenZ e il 71% dei Millennial questi due fattori sono più importanti della carriera, che, comunque, rimane un fondamentale elemento di identità per il 49% della GenZ e per il 62% dei Millennial. E se è vero che la vita extra lavorativa è molto importante per i giovani, non sorprende che la maggioranza di GenZ (80%) e Millennial (79%) lascerebbe il proprio lavoro se costretta a tornare in ufficio a tempo pieno. Interrogati sulla modalità lavorativa ideale, la soluzione più desiderata (27% Millennial e 24% GenZ), infatti, è la piena flessibilità, ovvero la possibilità di stabilire in autonomia se lavorare da casa o da remoto. A fronte di questo desiderio, tra gli intervistati oggi il 12% dei Millennial e il 13% della GenZ lavora completamente da remoto, il 19% dei Millennial e 21% della GenZ ha piena libertà di decidere dove lavorare, il 18% dei Millennial e il 23% della GenZ lavora sia da remoto che in ufficio secondo regole fissate dal datore di lavoro, il 10% dei Millennial e il 12 della GenZ è tornato in ufficio anche se potrebbe svolgere la propria mansione da remoto, il 41% dei Millennial e il 30% della GenZ svolge un lavoro che richiede la presenza fisica. I GenZ e i Millennial italiani danno grande valore al tempo extra-lavorativo e hanno meno “problemi di disconnessione” rispetto ad altre generazioni. Più di un terzo controlla raramente o non controlla mai le e-mail al di fuori dell’orario di lavoro. Al desiderio di disconnessione dei giovani si accompagna la attenzione sempre più forte verso il tema della salute mentale: in Italia la GenZ risulta meno “stressata e in ansia” della media globale (44% ita vs 46% global), mentre i Millennial si dichiarano più ansiosi e stressati della media globale (42% ita vs 39% global). A pesare sullo stato di salute mentale sono soprattutto le preoccupazioni sul proprio futuro economico e sul benessere della propria famiglia: ne sono preoccupati il 45% della GenZ e il 47% dei Millennial nel primo caso, il 38% della GenZ e 41% dei Millennial in Italia nel secondo. Per garantire un migliore work-life balance il 38% dei Millennial e 39% della GenZ vorrebbe la settimana lavorativa da 4 giorni mentre il 32% dei Millennial e il 28% della GenZ insiste sull’importanza di garantire la possibilità di lavorare da remoto. In generale, il 73% della GenZ e il 78% dei Millennial in Italia dichiara che il tema della salute mentale è rilevante quando prende in considerazione un nuovo datore di lavoro. “Dai dati emerge con chiarezza che Millennial e GenZ hanno subito duramente l’impatto dell’inflazione scatenata da pandemia e guerra - commenta il ceo di Deloitte Italia, Fabio Pompei -. Si tratta di un fenomeno che non riguarda solo questa fascia di popolazione, ma che preoccupa particolarmente i più giovani sia nel nostro Paese che nel resto del mondo. Anche sul fronte del lavoro si consolidano trend molto significativi. Flessibilità, salute mentale, attenzione all’impatto ambientale e sociale sono sempre più importanti per GenZ e Millennial alla ricerca di un lavoro. Molti giovani, inoltre, hanno messo in discussione la gerarchia di valori che dà senso alla loro vita: in Italia 7 intervistati su 10 affermano che famiglia e amici sono più importanti della carriera - conclude. Un dato che si riflette nella grande importanza attribuita al work-life balance e al lavoro ibrido, ormai considerato new normal”. Giornata contro l’omotransfobia, Italia sempre più indietro. di Pasquale Quaranta La Stampa, 18 maggio 2023 L’allarme di Arcigay: “Un’aggressione ogni tre giorni”. Il 41% si sente discriminato a lavoro, il 62% evita di tenersi per mano in pubblico. I fondi che finanziano i centri antiviolenza (4 milioni l’anno) stentano ad arrivare. I leoni sono usciti dalle gabbie. La violenza esce dai social e diventa coltello. I morti non sono più casi isolati. I dati di Arcigay, anticipati in anteprima a La Stampa per la Giornata contro l’omobitransfobia che si celebra oggi, mostrano un susseguirsi di eventi tragici per le persone gay, lesbiche, bisessuali, transgender (lgbt). Più di un’aggressione ogni tre giorni in Italia, quasi 200 episodi in un anno. Non c’è molta differenza nel numero di casi, equamente distribuiti tra Nord, Centro e Sud Italia. La cronaca degli ultimi dodici mesi riporta storie terribili di transfobia, una è forse tra le più tristi per il nostro Paese. Lo scorso giugno Cloe Bianco, professoressa, viene allontanata dall’insegnamento perché transgender. Si dà fuoco nel suo camper, in provincia di Belluno, di lei resta un cadavere carbonizzato. “Ora sono libera”, aveva scritto in un blog lasciando le proprie volontà testamentarie. I più giovani non muoiono solo perché il peso dei pregiudizi diventa insostenibile, e non scappano via solo dagli estranei: devono difendersi, nelle case in cui sono cresciuti, da chi li ha messi al mondo. Gli aguzzini diventano i genitori, chi più di tutti dovrebbe difenderli. Così a Salerno, lo scorso agosto, un padre accoltella la figlia insieme alla fidanzata: “Morite insieme”, dice loro. Un ritornello alimentava l’incubo quotidiano: “Ma non ti fa schifo stare con una donna? Non ti fa schifo baciarla?”. Se fino ad ora i centri antiviolenza davano un’opportunità di rinascita ai giovani lgbt cacciati di casa, aggrediti o licenziati, i fondi che li finanziano (4 milioni l’anno) stentano ad arrivare. A quanto si apprende, l’Ufficio antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio ha sbloccato quelli relativi al 2021 mentre restano nella disponibilità quelli del 2022-23 che, secondo le previsioni, saranno utilizzabili entro un anno. Il picco di aggressioni si è verificato lo scorso febbraio in corrispondenza con la disinformazione su ciò che volgarmente viene chiamato “utero in affitto”. In generale, la Fondazione Diversity denuncia che le notizie nei telegiornali su temi arcobaleno sono diminuite di oltre il 50% rispetto al 2021. Se negli Stati Uniti la morte di un giovane gay americano, Matthew Shepard, suscitò un’indignazione tale da portare il presidente Obama, un anno dopo, a firmare una legge contro l’omofobia nel nome di quel giovane, in Italia la politica è come anestetizzata. Non c’è stato ancora nel Paese un livello di indignazione tale da proporre un’azione capace di un cambiamento reale. Eppure, secondo i dati dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali (Fra), il 62% delle persone lgbt evita di tenere per mano la persona amata in pubblico. Il clima è tossico: un po’ come ai tempi dell’Aids, perfino il monkeypox, il vaiolo delle scimmie, è diventata un’occasione per additare la comunità lgbt. “Il vaccino dei gay” scrivono i giornali, e così si alimenta lo stigma. I luoghi di “battuage”, pseudo-francesismo coniato all’interno della comunità gay per definire i luoghi frequentati (battuti) da persone in cerca di rapporti sessuali occasionali, tornano pericolosi. Per non parlare della prostituzione. Il rapporto di Arcigay è chiaro: non stiamo parlando più di un tema culturale ma di incolumità nella stragrande maggioranza dei casi. Un altro fenomeno che aggrava la situazione è quello dell’under reporting, la mancata denuncia. “Chi esita - spiega l’associazione - teme ritorsioni come la perdita del lavoro, complice il Jobs Act che rende più facile il “Ti licenzio perché sei gay”. Le vittime possono provare imbarazzo o vergogna nel rendere pubbliche le loro esperienze”. Lo dimostra il mese di agosto, dove sembra che l’omobitransfobia non sia mai esistita, mentre in realtà mancano le antenne per intercettarla. I pochi dati sicuri arrivano da una ricerca realizzata nel 2022 dall’Istat e dall’Unar: su un campione di 1.200 persone omo-bisessuali, il 41% si sente discriminato sul posto di lavoro, mentre 8 su 10 hanno sperimentato almeno una micro-aggressione sul lavoro legata all’orientamento sessuale. Il 61,2% degli occupati o ex-occupati ha detto di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale e circa una persona su tre ha evitato di frequentare colleghi nel tempo libero. Intanto, il nuovo rapporto Ilga Europe sull’uguaglianza delle persone lgbt in Europa fotografa un’Italia che va sempre più indietro, dal 33 al 34esimo posto su 49 Paesi, tra la Repubblica Ceca e la Georgia. Lo scorso anno eravamo 33esimi. Nel 2018 32esimi. “Non rientra nel rapporto per ragioni cronologiche l’attaccosubito di recente dalle famiglie arcobaleno - fa notare Rosario Coco dell’associazione Gaynet - con il blocco del riconoscimento degli atti di nascita a livello comunale, la stigmatizzazione pubblica della genitorialità omosessuale e la violazione dei diritti di bambine e bambini, ignorando gli appelli della Corte Costituzionale e delle Istituzioni Ue. Tenendo conto di questi elementi l’Italia è destinata probabilmente a un ulteriore declassamento”. Migranti. Il nuovo rapporto dalla frontiera alpina occidentale, attraversata da 145.600 persone La Repubblica, 18 maggio 2023 Il dossier MEDU torna a chiedere alla autorità italiane e francesi che vengano garantiti i diritti fondamentali dei migranti. La città di Oulx rappresenta una delle ultime tappe di un lungo viaggio, che può durare dai 2 ai 6 anni e che può costare dai 2 agli 8 mila euro. Un viaggio che collega l’Afghanistan, la Siria, l’Iran e molti Paesi africani con quelli del Nord Europa e dell’Europa centrale, attraverso valichi alpini che superano i 1800 metri di quota. Dall’inizio del 2022 Medici per i Diritti Umani (MEDU) dà assistenza medica alle migliaia di migranti diretti in Francia nell’ambulatorio allestito dall’associazione Rainbow for Africa presso il rifugio Fraternità Massi, nella cittadina di Oulx, nell’area metropolitana di Tornino, in Alta Val di Susa. Nel corso del 2022 la rotta dei Balcani occidentali è stata attraversata da circa 145.600 persone. Siriani, afgani e tunisini insieme hanno rappresentato il 47% di questo flusso. Ad inizio 2023 si assiste invece ad un costante aumento delle persone in arrivo dall’Africa centrale e occidentale. Nei nove mesi presi in considerazione dal report - dal luglio 2022 al marzo 2023 - sono transitate al rifugio Fraternità Massi 8.928 persone. Di queste, 633 erano donne, 1.017 erano minori. L’aumento nel 2023. Nel corso del 2023 si è assistito ad un significativo aumento dei migranti provenienti dalla rotta del Mediterraneo centro-meridionale con imbarco dalla Tunisia, che sempre più si configura come un Paese sia di emigrazione che di transito, dove violenze e abusi ai danni dei migranti vengono perpetrati in modo drammaticamente ricorrente.In aumento risulta inoltre il numero di donne provenienti dall’Africa sub-sahariana, soprattutto dalla Costa d’Avorio. Un aumento che, ad una prima osservazione degli indicatori di tratta, fa temere l’esistenza di una rete di sfruttamento capillare e strutturata. Si susseguono inoltre gli arrivi di donne in stato di gravidanza - solitamente rimaste incinte durante il viaggio, senza aver effettuato alcun controllo lungo la rotta- e di donne che hanno abortito o sono accompagnate da neonati e bambini nati in viaggio. Tutti i rischi che si corrono. Per tutti, il viaggio migratorio è foriero di rischi legati sia alla natura che alla condotta dei corpi militari, paramilitari e di polizia addetti al controllo delle frontiere di diversi stati dei Balcani che spesso si rendono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Se attraversare i confini di Bosnia, Croazia, Serbia e Slovenia spesso significa andare incontro ad abusi e violenze di diverso tipo, i rischi non terminano una volta entrati nel territorio dell’Unione Europea. La militarizzazione della frontiera alpina rappresenta infatti un ulteriore fattore di rischio per l’incolumità delle persone, ormai a un passo dalla meta. Le particolari difficoltà dei più vulnerabili. Le difficoltà sono ancora maggiori per alcune categorie di persone vulnerabili, tra cui le persone con problemi di salute e disabilità e i minori. Questi ultimi spesso vengono respinti dalla polizia di frontiera francese, nonostante affermino di aver dichiarato la minore età. Sono state 4.193 le persone che hanno avuto accesso a un triage presso l’ambulatorio del rifugio - allestito e messo a disposizione dall’associazione Rainbow for Africae 1.214 quelle visitate in modo approfondito dal team di Medu. Le principali patologie trattate all’interno della clinica di frontiera sono malattie sviluppate durante il viaggio quali infezioni cutanee - in primis scabbia -, micosi, ferite infette, bronchiti, ustioni da congelamento o da carburante, traumi fisici e lesioni ai piedi. Nessuna assistenza in Turchia, Serbia, Bosnia, Libia e Tunisia. Nei paesi attraversati - Turchia, Serbia, Bosnia per la rotta balcanica o Libia e Tunisia per quella mediterranea - i migranti non ricevono assistenza, a causa dell’assenza o carenza di personale nei campi profughi informali e istituzionali o dell’impossibilità di accedere alle strutture sanitarie pubbliche e private. Elevata inoltre è la percentuale di persone con sintomi da stress post-traumatico quali insonnia, pensieri disturbanti e intrusivi, incubi, attacchi di panico, inappetenza, astenia, cefalea e difficoltà di concentrazione, esito dei trattamenti inumani e degradanti subiti, nella maggior parte dei casi ad opera del regime talebano, dai gendarmi libici e dalle autorità tunisine. La dipendenza dai farmaci. Particolare rilievo assume poi il tema delle dipendenze, in particolare da farmaci quali il Pregabalin (Lyrica) e il Clonazepam (Rivotril), spesso sovra-prescritti lungo il viaggio o in luoghi di detenzione quali carceri e CPR per la gestione dell’insonnia, dell’agitazione e dello stress. Meno rilevante numericamente ma degna di particolare rilievo è la presenza di persone con vulnerabilità sanitarie e disabilità, spesso preesistenti nel paese di origine, che si sono messe in viaggio con la speranza di trovare assistenza e cure adeguate. Difficile chiedere la protezione internazionale. Restano da menzionare le difficoltà che incontra chi intende chiedere protezione internazionale in Italia: presentare domanda di asilo presso la Questura di Torino è una procedura dalle modalità e tempistiche estenuanti: dai 2 ai 6 mesi per poter prendere un appuntamento ed ulteriori 4-5 mesi per formalizzare la domanda di asilo. Mesi nei quali non è possibile accedere ai diritti fondamentali e al sistema nazionale di accoglienza. Le richieste di MEDU. A fronte del quadro descritto, MEDU torna a formulare alcune raccomandazioni, chiedendo con forza che venga garantita la tutela dei diritti fondamentali - in particolare il diritto alla salute e l’accesso alla protezione - delle persone migranti e richiedenti asilo nei paesi di transito e in particolare nelle zone di frontiera, a prescindere dalla loro condizione giuridica. Calais, l’assistenza, le cure mediche e il supporto psicologico per i migranti al confine tra Francia e Regno Unito La Repubblica, 18 maggio 2023 Il lavoro delle équioe di Medici Senza Frontiere. Attualmente sono tra 400 e 600 le persone ferme nella città francese. Un numero inferiore rispetto agli anni scorsi, per le politiche francesi che disperdono e rendono invisibili le persone. Alla frontiera franco-britannica ogni giorno centinaia di persone cercano di raggiungere il Regno Unito, rischiando la vita per l’assenza di prospettive in Francia o per raggiungere parenti o amici nell’Isola. Attualmente sono tra 400 e 600 le persone ferme a Calais, un numero più basso rispetto agli anni scorsi, da una parte perché sono aumentati gli attraversamenti, ma anche perché le politiche francesi (note come “Zéro point de fixation”) disperdono e rendono invisibili le persone lungo la costa settentrionale della Francia. La mancanza di servizi da parte delle autorità francesi, l’isolamento da parte delle comunità locali e le barriere linguistiche indeboliscono ulteriormente queste persone, che hanno subìto violenze e traumi durante il percorso migratorio. E’ questa la ragione per cui le équipe di Medici Senza Frontiere (MSF) sono tornate ad operare a Calais, fornendo cure mediche e supporto psicologico alle persone in movimento. Il lavoro negli insediamenti informali. “Gli sgomberi sistematici da parte della polizia, a volte attuati con la violenza, la confisca degli effetti personali, l’emarginazione e gli ostacoli posti al lavoro delle organizzazioni di volontariato - dice Pauline Joyau, coordinatrice del progetto di MSF a Calais. - hanno portato a una situazione sempre più precaria per le persone in movimento, contribuendo al deterioramento del loro stato di salute”. Per rispondere ai bisogni di salute e facilitare l’accesso all’assistenza sanitaria, l’équipe di MSF è in azione negli insediamenti informali, nei centri diurni e nei rifugi a Calais. È qui che vengono identificati i casi più vulnerabili che poi vengono indirizzati nei centri medici che offrono cure gratuite o in ospedale, in piena collaborazione con gli operatori sanitari pubblici. Gravi problemi respiratori. La maggior parte presenta problemi respiratori legati all’esposizione al freddo e alla mancanza di cure per infezioni o soffre per le ferite provocate dalle cadute dai camion usati per attraversare la Manica. L’équipe di MSF ha assistito anche persone vittime di violenze fisiche durante il viaggio o sopravvissute a esperienze traumatiche, come il naufragio nella Manica. “Ogni giorno la polizia sequestra le coperte e le tende fornite dalle organizzazioni di volontariato. Ho dormito sotto la pioggia, al freddo” racconta Abu Qasim, nato a Yarmouk, un campo profughi palestinese situato a sud di Damasco. Aumento il numero delle tragedie personali. La riduzione di canali legali e sicuri verso il Regno Unito non fa che aumentare il numero di tragedie lungo questa frontiera. Secondo l’Observatoire des migrants morts à Calais, tra il 1999 e il 2023 più di 350 persone hanno perso la vita in Francia, Belgio, Regno Unito o in mare mentre cercavano di raggiungere l’Inghilterra. Altre migliaia vivono con ferite fisiche e psicologiche a causa delle politiche dei governi francese e britannico. La collaborazione con i volontari. L’équipe di MSF collabora con organizzazioni di volontari che operano da tempo nella zona. “È grazie a loro e alla generosità di alcuni cittadini solidali che le persone migranti sono in grado di soddisfare i loro bisogni primari” conclude Joyau di MSF. “Tuttavia, sono in aumento gli ostacoli al lavoro delle associazioni e la pressione sui volontari. Nonostante le denunce e gli appelli, le pratiche della polizia e delle autorità locali non sono cambiate”. Le storie di due pazienti di MSF a Calais Abu Ahmad. “Mia moglie è in Sudan, ma so che non potrò rivederla”. Abu Ahmad è fuggito dal Sudan, dove è stato detenuto arbitrariamente all’età di 15 anni a causa della sua affiliazione tribale. “Ho passato 13 anni in prigione senza motivo - ha raccontato - sono stato picchiato con manganelli e talvolta con tubi di gomma e ferro. Mi hanno rotto un piede, provo ancora dolore e porto i segni della tortura sui piedi e sulle gambe. Sono riuscito a fuggire dalla prigione e mi sono rifugiato in Ciad, dove ho lavorato in una miniera d’oro a Kouri, a pochi chilometri dal confine libico. Dopo aver raccolto 700 grammi d’oro, il capo si è rifiutato di pagarmi e mi ha minacciato di morte. Così ho preso la strada per la Libia, ma un trafficante ha rubato tutti i miei soldi e mi ha venduto come schiavo. Sono stato sfruttato per oltre un anno. Alla fine, sono riuscito a fuggire dalla Libia via mare per rifugiarmi in Europa. Sono sposato con una donna in Sudan, ma so che non potrò mai più rivederla”. Abu Qasim. “Ogni giorno la polizia sequestra le coperte che ci donano le associazioni”. Abu Qasim è nato a Yarmouk, un campo profughi palestinese situato a sud di Damasco. Per molto tempo il campo è stato assediato dalle forze filogovernative siriane, privando la popolazione di cibo e beni di prima necessità. Abu Qasim ha perso una gamba a causa dell’esplosione di un mortaio. “Ogni giorno la polizia sequestra le coperte e le tende fornite dalle organizzazioni di volontariato. Ho dormito sotto la pioggia, al freddo. Abbiamo cercato di riscaldarci accendendo un fuoco, ma la polizia è venuta a spegnerlo con gli estintori e ci ha gettato acqua addosso. “Ho seppellito 18 persone”. Con la mia disabilità, ogni piccolo compito è complicato, che si tratti di lavarsi, andare a prendere il cibo o anche solo sedersi. In Siria ho sofferto molto e a volte mi tornano ancora in mente brutti ricordi. Il campo di Yarmouk è stato a lungo assediato dalle forze filogovernative siriane. Ho seppellito 18 persone e ogni giorno perdevo qualcuno vicino a me per fame o malattia. Ho perso una gamba in un’esplosione che ha ucciso cinque miei amici. Dopo di che ho deciso di lasciare la Siria per raggiungere la mia famiglia in Europa”.