Non è un paese per madri e donne detenute di Sofia Ciuffoletti Il Manifesto, 17 maggio 2023 Sulla genitorialità e soprattutto sulla maternità il dibattito pubblico è sempre pronto a dire la propria. Lo abbiamo visto recentemente con la vicenda delle mamme anonime, le cui lettere, destinate ai bambini che lasciavano (con uno dei gesti d’amore, ritengo, più grandi che si possano fare) alle cure pubbliche o agli operatori sanitari e sociali, sono diventate materiale di consumo mediatico e social-mediatico. D’altronde il nostro diritto sulla questione della maternità e in particolare sulla figura della “mamma” mostra una evidente distonia. Al modello giuridico del “buon padre di famiglia”, parametro secondo cui si valuta la diligenza richiesta nella gestione di una serie di situazioni giuridicamente rilevanti non corrisponde alcuna fattispecie al femminile e anzi, si contrappone lo stereotipo della “cattiva madre” (variamente, potremmo anche dire lombrosianamente, declinata: la prostituta, la tossicodipendente, la detenuta…) fino ad arrivare alla pericolosissima introduzione di categorie pseudo-scientifiche in ambito giuridico (si veda, per tutte, la fantomatica “alienazione parentale”, che punisce le madri allontanando forzatamente i figli da loro). E invece occorre lavorare per l’elaborazione di una prospettiva culturale che metta in crisi la la retorica della cattiva madre, l’altra faccia dell’icona patriarcale materna. E così, in un paese che ha costruito il mito socio-culturale della mamma, si sono rafforzate e alimentate le retoriche sulla devianza da quello stesso modello. La recente cronaca politica ha mostrato chiaramente la facilità con cui si costruisce il discorso pubblico e la gogna per le “cattive madri” nel caso delle mamme detenute. Dopo aver affossato con emendamenti che ne stravolgevano il senso, la proposta di legge a prima firma Serracchiani, volta a ampliare la creazione di case famiglia protette dove le donne con bambini piccoli potessero eseguire la pena, si sono avvicendate dichiarazioni sulla decadenza dalla “patria potestà” (che in Italia non esiste più dal 2013…ah la persistenza dei desideri), dimenticando che esiste già in Italia la pena accessoria della sospensione e della decadenza dalla responsabilità genitoriale e proposte di legge che intaccavano le misure di carattere umanitario volte a tutelare la maternità e introdotte nel nostro ordinamento penale dal legislatore fascista…fino ad arrivare al capolavoro di discriminazione e razzialismo di primo livello (oltre che di estrema malafede e ignoranza dei fenomeni) che è stato tacciare le norme a favore delle mamme detenute come leggi a favore delle donne rom che “usano” le gravidanze e i figli come strumenti per evitare l’esecuzione della pena. E invece conoscere le storie di vita delle mamme in carcere, sia quelle che vivono insieme ai propri figli e figlie nelle sezioni nido o negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata, ma pur sempre prigioni), i cosiddetti “bambini galeotti”, sia quelle che hanno i figli e le figlie all’esterno (della propria responsabilità, della propria cura), costituisce un argine culturale imprescindibile. Per questo la campagna “Madri Fuori. Dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”, promossa da La Società della Ragione societadellaragione.it/madrifuori) ha previsto incontri e confronti con le donne detenute, che si sono svolti il 14 maggio in moltissimi penitenziari in tutta Italia (fra gli altri Milano, Roma, Firenze, Bergamo, Genova, Reggio Emilia, Bologna, Trieste). La campagna continuerà nei prossimi mesi: è una preziosa occasione, principalmente per i decisori politici, per ascoltare e conoscere la quotidiana lotta delle donne recluse per mantenere le proprie responsabilità, per difendere l’unicità (e privatezza) del proprio affetto, per rivendicare la dignità della propria cura. Conoscere per legiferare. Fermiamo l’attacco del governo alle madri prigioniere di Grazia Zuffa L’Unità, 17 maggio 2023 Invece di risolvere il dramma dei minori in cella, la destra vuol togliere i figli alle detenute recidive perché indegne. Un doppio stigma che colpisce tutte le donne. Una “festa della Mamma” fuori dalla retorica, con un di più di pensiero solidale: questo l’intento della campagna a favore delle donne incarcerate (in particolare le detenute insieme ai loro piccoli) intitolata “Madri Fuori: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”. Fuori dallo stantio stereotipo del materno il 14 maggio scorso lo è stato davvero, nelle tante città e territori in cui la festa è stata occasione per andare in carcere per ascoltare la voce delle donne detenute. A Milano, Roma, Firenze, Bergamo, Genova, Reggio Emilia, Bologna, Trieste, Napoli e tante altre città, si sono recate in carcere parlamentari, consigliere regionali, garanti delle persone private della libertà, volontarie (le figure istituzionalmente abilitate a entrare in carcere); a loro si sono unite anche attiviste femministe e di movimenti e associazioni che si battono per i diritti. Si è discusso anche nei consigli comunali con ordini del giorno e mozioni di solidarietà (come a Roma e a Milano) e in tanti dibattiti per sensibilizzare al tema (come a Frosinone, Venezia, Torino). La campagna è una risposta alla provocazione lanciata dal viceministro Cirielli in sede parlamentare, quando di recente in commissione alla Camera si stava cercando di risolvere il dolente problema dei “bambini dietro le sbarre”, costretti alla detenzione insieme alle madri detenute. E’ una questione annosa, cui ben due interventi legislativi hanno cercato di porre rimedio, la legge Finocchiaro nel 2001 e poi la legge 62 del 2011. Senza mai eliminarla però: al 30 aprile di quest’anno sono ancora ventidue i bambini imprigionati con le madri. E c’è da chiedersi il perché, visto che le donne sono in larghissima maggioranza condannate per reati minori, e dunque la detenzione in carcere potrebbe facilmente essere commutata in pene alternative sul territorio. Ciò peraltro avviene in molti casi, e infatti il numero dei bambini in prigione è andato diminuendo negli anni. Ma la piaga rimane e ne sono affette proprio le madri più povere - prive di domicilio stabile e di rete familiare che le sostenga - a vedersi negate le alternative domiciliari e dunque ad avere necessità di portare con sé i bambini in carcere. Per tornare a quel dibattito in commissione parlamentare: proprio quando si sarebbe dovuto porre rimedio alla violazione dei diritti, dei bambini e delle madri, il viceministro Cirielli ha rilanciato in quella sede le norme più vergognose del disegno di legge da lui depositato nella precedente legislatura: che stabiliscono di togliere la responsabilità genitoriale (ancora denominata “patria potestà” nella lingua dei fautori di un passato patriarcale) alle donne condannate con sentenza definitiva. Con molti esponenti della maggioranza che si sono accodati, presentando emendamenti su quella linea. Non solo si è voltato il capo di fronte allo scandalo dei “bambini dietro le sbarre”, si è scelto quel pulpito per lanciare, materialmente e simbolicamente, un attacco alle loro madri: per il fatto stesso di aver commesso un reato, meritano anche lo stigma di “madri indegne” e “madri degeneri”. Che rimangano in carcere (insieme ai loro figli). E se sono recidive o “pericolose”, che stiano in prigione senza figli, con la minaccia della perdita della responsabilità genitoriale. Non è difficile rintracciare in questa rappresentazione l’impronta della cultura patriarcale circa la “missione materna”, che le donne criminali tradirebbero andando contro la “natura” femminile. Un “doppio stigma” legato al reato, insomma. Si capisce allora perché quanto è successo in parlamento colpisca tutte le donne, per tramite delle madri detenute. Sotto attacco è anche l’idea di pena che guarda al reinserimento del reo/a, per i quali è fondamentale mantenere i contatti con i figli e con altri affetti. Quanto allo stigma della “madre degenere”: se il segno del patriarcato appartiene alla storia “fuori le mura” (eccetto che in roccaforti di cultura maschilista reazionaria di cui il viceministro e suoi affini sono degni esponenti); “dentro”, dove il vento del cambiamento fatica a entrare, quel segno è più duro da sconfiggere. Perciò l’ombra della “cattiva madre” è una compagna persecutoria delle detenute, come testimoniano le voci dal carcere (raccolte nei volumi “Recluse”, 2014, e “La prigione delle donne”, 2020, Ediesse, Roma). Dicono ad esempio alcune educatrici, denunciando un clima a volte ostile nei servizi per l’infanzia: “Il fatto di aver compiuto un reato lo considerano una patologia da cui non si guarisce e per definizione equivalente a incapacità genitoriale” (La prigione delle donne, p.58). Colpiscono la profondità di “ragione e sentimento” con cui le detenute stesse si ribellano: “L’ho cresciuta per otto anni, adesso cos’è? Improvvisamente sono diventata una madre incapace?”; “Vogliono toglierci i figli che sono la nostra unica ragione di vita e l’unica speranza per un futuro diverso” (ibidem, p. 98). La risposta al tentativo di rilanciare il “doppio stigma” è stata immediata e forte. La campagna Madri Fuori è stata costruita con un appello (promosso dalle donne della Onlus Società della Ragione societadellaragione.it/madrifuori) che ha raccolto più di cinquecento adesioni di singole e singoli, ma anche di associazioni (dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, a Antigone, al Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza-CNCA, Altro Diritto, Sbarredizucchero). Le tante visite alle donne detenute nella giornata del 14 maggio dimostrano che combattere gli stereotipi si può, anzi si deve. E che “solidarietà” non è parola vuota. “Folli rei”: non più Rems ma più servizi di salute mentale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2023 Daniela Barbaresi, segretaria confederale Cgil, e Serena Sorrentino, segretaria generale Fp Cgil, sollecitano finanziamenti e assunzioni per la sicurezza degli operatori. Non servono nuove Rems per i ‘folli rei’, ma occorre soprattutto potenziare i Dipartimenti di salute mentale e i servizi sociosanitari, incrementarne le dotazioni organiche, garantire progetti personalizzati. La recente tragedia della morte di Barbara Capovani, una psichiatra aggredita e uccisa mentre svolgeva il suo lavoro a Pisa, richiama l’attenzione sull’importanza di restituire ai servizi pubblici della salute mentale il ruolo di baluardo del diritto alla salute. La segretaria confederale della Cgil nazionale, Daniela Barbaresi, e la segretaria generale della Fp Cgil, Serena Sorrentino, in una dichiarazione congiunta sottolineano la necessità di passare dalle mere dichiarazioni alla concretizzazione di interventi efficaci, attraverso finanziamenti e nuove assunzioni, per garantire la sicurezza degli operatori sanitari e la solidità del Servizio Sanitario Nazionale. Le dirigenti sindacali sostengono che l’adozione di misure precise per prevenire la violenza contro gli operatori del Ssn non possa più essere rimandata, un’urgenza che è stata sostenuta a lungo attraverso la campagna “STOP alle aggressioni al personale sanitario”. La condizione in cui gli operatori lavorano, spesso con carichi di responsabilità enormi ma senza le risorse e il supporto adeguati, crea situazioni di insicurezza che indeboliscono la qualità dei servizi e aumentano il rischio di relegare la psichiatria a un vecchio ruolo custodiale. La legge 180 del 1978, che ha decretato l’abolizione dei manicomi, è stata accompagnata dalla legge sanitaria 833 nello stesso anno. Quest’ultima riforma aveva l’obiettivo di creare alternative alla vita all’interno dei manicomi attraverso servizi socio- sanitari di prossimità, interventi per i diritti sociali e civili, lavoro, abitazione indipendente e tutela della salute e delle cure per le persone affette da disturbi mentali nei contesti della vita quotidiana, evitando così strutture speciali e coercitive. Nonostante la sfida sembrasse impossibile, grazie all’impegno di migliaia di lavoratori e lavoratrici, sono stati raggiunti numerosi successi in diverse esperienze. Tuttavia, l’attuazione della legge 180 ha incontrato ostacoli e battute d’arresto, lasciando molte persone e famiglie spesso sentirsi abbandonate, con difficoltà che sono state ulteriormente aggravate dai tagli alla sanità e ai servizi sociali pubblici. Le sindacaliste Barbaresi e Sorrentino ci tengono però a sottolineare la necessità di reagire e respingere il ritorno alla logica manicomiale. Inoltre, è importante completare la riforma che ha chiuso alcuni anni fa gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. In occasione del 45 º anniversario dell’approvazione della Riforma Basaglia, le due segretarie sostengono la mobilitazione promossa dal Coordinamento nazionale ‘ Salute Mentale per tutti: Riprendiamoci i diritti’. Secondo Barbaresi e Sorrentino, non sono necessarie nuove strutture di sicurezza per i ‘ folli rei’, ma è fondamentale proteggere i diritti alla salute e alle cure necessarie, evitando pregiudizi che alimentano lo stigma e negano la dignità delle persone. In questo contesto, è prioritario potenziare i Dipartimenti di Salute Mentale e i servizi sociosanitari, aumentando le risorse umane e garantendo la creazione di progetti personalizzati per ciascun individuo. È fondamentale evitare che tutte le responsabilità ricadano sul personale sanitario. Gli operatori devono essere adeguatamente supportati e dotati delle risorse necessarie per svolgere il loro lavoro in modo sicuro ed efficiente. Ciò richiede una maggiore attenzione agli aspetti organizzativi e una riduzione dei carichi di lavoro e delle pressioni che gravano sul personale. La salute mentale deve essere considerata un diritto fondamentale e deve essere garantita a tutti i cittadini. Questo implica la necessità di investire nella formazione e nella sensibilizzazione della società nel suo complesso, affinché si superino gli stereotipi e i pregiudizi associati alla malattia mentale. Solo attraverso un’azione congiunta di istituzioni, operatori sanitari, organizzazioni sindacali e cittadini è possibile promuovere una reale inclusione sociale e garantire il pieno godimento dei diritti delle persone affette da disturbi mentali. Il quarantacinquesimo anniversario dell’approvazione della legge Basaglia rappresenta un momento propizio per riflettere sull’importanza di continuare a lottare per una società più inclusiva e rispettosa delle persone con sofferenze mentali. La mobilitazione promossa dal Coordinamento nazionale “Salute Mentale per tutti: Riprendiamoci i diritti” è un’occasione per unire le forze e riaffermare l’impegno verso un sistema sanitario che ponga al centro il benessere psicofisico di ogni individuo. È quindi necessario che le istituzioni e i legislatori si assumano la responsabilità di garantire un’adeguata protezione e supporto agli operatori della salute mentale, affinché possano svolgere il loro prezioso lavoro in un ambiente sicuro. Solo attraverso investimenti concreti, finanziamenti adeguati e politiche a lungo termine sarà possibile ridurre il rischio di violenza nei confronti degli operatori sanitari e garantire servizi di qualità a coloro che necessitano di cure psichiatriche. La tragedia che ha coinvolto la psichiatra Barbara Capovani non può e non deve essere dimenticata. È un monito che ci richiama alla necessità di agire, di porre fine alla retorica delle dichiarazioni e di passare a interventi concreti. Solo attraverso un impegno congiunto sarà possibile restituire ai servizi pubblici della salute mentale il ruolo che meritano come baluardo del diritto alla salute. Luca Pugliese, canto per chi sta dietro le sbarre di Antonio Averaimo Avvenire, 17 maggio 2023 Il suo tour nelle carceri italiane, cominciato quasi per caso, quest’anno compie dieci anni. Luca Pugliese, cantautore di Frigento, Comune dell’entroterra campano, lo ha chiamato Un’ora d’aria colorata, “perché gli istituti penitenziari sono dei non-luoghi, e con la musica provo ad abbattere le mura e a far trascorrere ai detenuti un’ora d’aria diversa, che li faccia sentire come se fossero fuori invece che in carcere, in un prato ad ascoltare qualcuno che canta”. Da One man band, armato di chitarra, armonica e percussioni a pedale, da dieci anni Pugliese gira gli istituti penitenziari di tutta Italia e quelli della sua terra, l’Irpinia: Poggioreale, Rebibbia, Regina Coeli, Opera, San Vittore, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Ariano Irpino e altri ancora lo hanno visto esibirsi nell’ultimo decennio. L’ultima tappa - la trentesima - lo ha portato nel carcere femminile di Pozzuoli. Era la sua prima volta davanti a un pubblico di detenute donne. Tutto è nato da quel primo concerto che lo vide esibirsi davanti ai detenuti del penitenziario napoletano di Secondigliano. Il direttore era un suo compaesano. Più volte lo aveva invitato a esibirsi per i detenuti del carcere, quasi per scherzo. Quella volta Pugliese decise di accettare l’invito che gli aveva più volte rivolto il suo compaesano, lui che già da studente universitario si era prestato a portare la propria arte nei quartieri popolari di Napoli (“Accettai più che altro per goliardia”, dice il cantautore irpino”). Da allora, quella che doveva essere solamente una tappa dei concerti che porta in giro per l’Italia e per tutta l’Europa è diventato invece un appuntamento fisso. Solo la pandemia di Covid-19 ha fermato la sua “ora d’aria colorata’,’ che è ripartita la primavera dell’anno scorso nell’istituto penitenziario di Foggia, dove Pugliese si è esibito davanti a 300 detenuti. “Porto un po’ della mia musica in luoghi dove tutto è troppo poco, troppo buio e troppo stretto”, dice lui, che definisce la musica “terapia” e “arte di Dio”. “Ho deciso di fare della musica uno strumento di sollievo morale e spirituale a favore di coloro che hanno un debito con la società. Sono persone che, per gli errori che hanno commesso nella loro vita, trascorrono la maggior parte del tempo in luoghi angusti e grigi. Con “Un’ora d’aria colorata” provo a restituire piccoli momenti di normalità, di allegria, di serenità. Del resto, suonare nei penitenziari è qualcosa che arricchisce anche me”. I detenuti si dicono entusiasti dei suoi concerti, che li fanno “evadere dal carcere”. Qualcuno ha addirittura pianto. “Lacrime di sfogo, di liberazione, di emozioni provate”, le definisce lui. Non è un caso che il suo brano più gettonato nelle carceri sia Corri, corri. “Una canzone sul tempo. Il tempo è per il musicista ciò che la tela è per il pittore (l’altra arte a Pugliese si dedica è la pittura, ndr)”. Oltre ai suoi brani, il cantautore irpino porta nelle carceri anche la canzone classica napoletana e cover di Fabrizio De André, Lucio Dalla e Franco Battiato. Del resto, Pugliese è abituato a portare la musica in luoghi impensabili: quando si laureò in Architettura a Napoli, inserì nel corso della seduta di laurea una performance musicale. Secondo lui, “la musica ha, per chi l’ascolta, il sapore dell’aria, dell’acqua, della libertà: la musica rende tutti più umani, tocca la nostra spiritualità, i nostri sentimenti, a prescindere dalle strade che ciascuno di noi ha percorso nella sua vita”. La giustizia attende una riforma culturale di Eduardo Savarese* Il Riformista, 17 maggio 2023 Inebriati dai flussi finanziari del Pnrr destinati alla giustizia, con annessa istituzione dell’ufficio del processo e fideistico entusiasmo per l’ennesima riforma del processo civile, il corso della giustizia in Italia mi sembra essere fuoriuscito dall’agenda politica e dal dibattito pubblico, se non per episodici contrasti o vicende specifiche, quasi tutte relative a procedimenti penali. Insomma, è come se, esauritosi il lavoro alacre della Ministra Cartabia, tutto sommato ci sia poco da dire e, piuttosto, resti il compito di vigilare l’attuazione delle riforme e attendere gli esiti dell’introduzione di ufficio del processo e riforme varie. Bisogna invece dibattere instancabilmente di giustizia civile, tentando di svolgere qualche considerazione di sistema. La prima riguarda la distribuzione razionale dei carichi di lavori tra i giudici civili italiani, a partire dal primo grado sino a giungere alla Corte di Cassazione. Questo carico di lavoro è del tutto sperequato, e lo è da decenni: per cui nella città di K avrete un giudice civile che dovrà decidere 200 cause e nella città di P troverete un giudice, magari di prima nomina, che deve fronteggiare 2.000 processi. Problema organizzativo risolvibile in due passaggi: stabilire quale possa essere uno standard di rendimento ragionevole (a seconda della materia e del grado di giudizio) e ridisegnare, in base a questo, non con interventi episodici ma generali e uniformi, le piante organiche degli uffici giudiziari. Vedremo se il nuovo CSM darà su questo il suo contributo. Seconda considerazione: il discorso sulla distribuzione geografica non può riguardare, ovviamente, la Corte di Cassazione, organo giudiziario unico con funzione di vertice interpretativo del sistema giuridico. La Corte di Cassazione, oggi, è subissata da una mole di lavoro incredibile e insostenibile, senza paragoni rispetto ad altre alte corti in Europa e nel mondo. Siamo di fronte a un problema di sistema, non solo organizzativo, ma di cultura e, per così dire, antropologia giuridica: in effetti scontiamo l’esistenza di un contenzioso abnorme, che non dipende solo da arretrati ma dall’ordinario afflusso di controversie civili nei nostri uffici giudiziari. Sarebbe di fondamentale importanza inquadrarne le ragioni. Discorso che, pur di evidenza plateale quando si ragiona della Corte di Cassazione, vale analogamente anche per le varie corti d’appello: nel gergo giudiziario si suol dire che è in Corte d’Appello che si crea l’imbuto, cioè il restringimento di una via agevolmente rapida per arrivare alla decisione. Certo, potrebbe essere auspicabile pensare a dei filtri per la calendarizzazione dei processi civili in appello in modo da dare priorità alle questioni più urgenti, nuove, complesse, di impatto socio-economico ecc. (come da tempo ha fatto la Corte di Strasburgo per arginare la mole di ricorsi per violazioni dei diritti umani...): si tratterebbe però di misura razionalizzante, non certo risolutiva. Vengo quindi alla terza e ultima considerazione, che nasce dalla mia esperienza quasi ventennale di giudice civile, ma anche dall’osservazione degli spunti che vengono dal diritto comparato e dal diritto internazionale (soprattutto quello commerciale): probabilmente, ciò su cui un legislatore riformista illuminato dovrebbe porre l’accento e focalizzare l’attenzione con dosi massicce di studio (anche comparativo) è proprio un aspetto culturale che attiene prima ancora che alla pratica della giustizia, alla formazione del giurista (e, più in generale, dei professionisti che a vario titolo, e spesso con incidenza rilevantissima, intervengono nello svolgimento di un processo civile: consulenti, liquidatori, amministratori giudiziari ecc.). Mi riferisco alla funzione mediatrice del processo civile (d’altra parte, persino nel processo penale la giustizia riparativi introdotta con le riforme Cartabia apporta un affiato conciliativo e compositivo). Ormai da anni sentiamo parlare di mediazione e conciliazione, e abbiamo assistito a riforme legislative del tutto inefficaci perché culturalmente non meditate e innestate su terreni necessariamente infecondi, in assenza di adeguata formazione. Una formazione che deve avviarsi, e non con interventi spot e/o minoritari, a partire dall’Università. Più di recente il dibattito a livello europeo sugli strumenti di risoluzione della controversia alternativi al processo va intensificandosi. Ma dobbiamo puntare non solo sulla “giustizia alternativa” alle aule di tribunale: dobbiamo ripensare le aule di tribunale come luoghi di composizione, per così dire, arbitral-pretorile, degli interessi divergenti che vi arrivano. Questo discorso mi pare valido soprattutto in tutte le materie che riguardano il diritto dell’economia: dalle procedure concorsuali, al diritto d’impresa, ai contratti con la Pubblica Amministrazione. Il giudice civile può recuperare una sua funzione centrale nella società se saprà diventare il più autorevole dei mediatori, e non solo in primo grado, ma anche in appello: anzi, soprattutto in appello. Per far questo, occorre che abbia numeri sostenibili da lavorare e che senta le parti, con calma e approfonditamente: il recupero del contatto tra la giurisdizione e la realtà passerà, a mio avviso, da questo snodo imprescindibile (contro cui militano tutte le forme di cartolarizzazione del processo sempre più in voga, agevolate, purtroppo, dalla gestione post-pandemica). Snodo efficace se il giudice sarà formato a una gestione del processo e un uso del linguaggio empatici, grazie all’apprendimento di principi e pratiche attinte a scienze umane diverse dal diritto. A tal fine il mutamento di prospettiva culturale è radicale rispetto a un culto della pura forma in cui mi dispiace vedere attardarsi ancora schiere di magistrati e avvocati: le categorie giuridiche devono servire, per quanto possibile, la giustizia, o l’esito meno ingiusto del processo, e non il contrario. E dunque, con buona pace di Pnrr, iper produttività, ufficio del processo e mito della dirigenza efficiente, ritorniamo a ragionare su questi tre pilastri: standard di rendimento/geografia giudiziaria; esame delle ragioni del tasso ancora troppo elevato di contenzioso; ripensamento culturale sulla funzione mediatrice del giudice. *Magistrato del Tribunale di Napoli La legge della prevenzione: quando il “diritto dei giudici” diventa retroattivo di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 17 maggio 2023 È noto a tutti che l’architettura ordinamentale italiana appartiene a un modello di civil law. Il diritto promana dalla Legge - il cui procedimento di elaborazione è appannaggio del potere legislativo - e non dal precedente giurisprudenziale. Ai giudici è riservata una funzione, oltre che applicativa dei precetti normativi, interpretativa, che non a caso è definita “nomofilattica”, cioè di “protezione” - secondo l’etimologia della parola - della Legge. Il giudice, prevede infatti la nostra Costituzione all’articolo 101, è soggetto (soltanto) alla Legge. Del resto, il nostro sistema costituzionale si fonda sulla rigida separazione dei tre poteri fondamentali dello Stato, il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, che sono stati immaginati dai padri costituenti come indipendenti tra loro. La giurisprudenza si è tuttavia anche assunta l’incarico di tenere la Legge al passo con le rapide evoluzioni sociali che, anche a causa della generalizzata lentezza del procedimento legislativo ordinario, rischiano di causare un divario incolmabile tra il diritto vigente e il cosiddetto diritto vivente. Tale funzione è presto sfociata in attività che, da interpretazione normativa, è divenuta sempre più di integrazione delle fattispecie, a volte anche significativamente difforme dalla lettera della Legge e dalla sua ratio. Il tema, molto più ampio, riguarda i rapporti tra potere politico e giudiziario, tra legalità e giurisdizione, temi nevralgici soprattutto in un ambito, come quello delle misure di prevenzione, che necessiterebbe della massima chiarezza normativa ma che, per contro, mostra più evidente degli altri l’esercizio del potere “creativo” della norma da parte della magistratura. Questo interventismo del giudice, penale e di prevenzione, oltre che indagato nelle cause, va valutato negli effetti. È accaduto, infatti, che, per rispettare formalmente il sistema di civil law, il Legislatore sia stato costretto, in numerose occasioni, a modifiche legislative che, in realtà, non facevano altro che “ratificare” una stabile interpretazione di una norma che, difforme rispetto al precetto, pur non essendo diritto vigente, era diventata diritto vivente. Ad esempio, l’attuale regime di improcedibilità dell’atto di appello è disegnato sull’insegnamento delle Sezioni Unite “Galtelli”; il principio di immediatezza è stato stravolto dalle Sezioni Unite Bajrami e così via. Altre volte, il sistema ha recepito gli arresti della giurisprudenza, adattando istituti legali già esistenti. Basti pensare alla “saga” sul delitto di concorso esterno in associazione a delinquere, con l’intervento della Corte Edu nel caso Contrada/Italia. Dire se questa vera e propria “funzione legislativa concorrente” della giurisprudenza, che ha indotto un autorevolissimo autore a parlare di “diritto dei Giudici”, sia conforme - a tacer d’altro - alla separazione tra i poteri dello Stato, è opera assai gravosa, incrociando il corretto esercizio della “funzione propulsiva di nuovi diritti” che il potere giudiziario assolve e che appare irrinunciabile nell’attuale stagnazione della politica. Qui basta segnalare che un simile fenomeno è stato in grado di mettere in crisi, a più riprese, il principio di legalità penale, uno dei cardini dell’ordinamento, che si declina attraverso vari corollari, tra i quali quelli di riserva di legge e di irretroattività. Crisi che diventa profonda e inemendabile nel sistema della prevenzione - che è tradizionalmente considerato fuori dalla materia penale e dalle garanzie che le sono proprie - nel quale la creazione giurisprudenziale del precetto di prevenzione ha comportato effetti parossistici. Tra le tante sue asistematicità, la materia della prevenzione non è infatti assistita dal principio di irretroattività. Nella giurisprudenza, se ne predica, infatti - non pare a ragione, ma non è questo il tema del presente intervento -, una certa assimilabilità alle misure di sicurezza, che sono per espressa previsione legislativa (articolo 200 del codice penale) applicabili anche retroattivamente. A nulla è valso mai obiettare che la norma codicistica si riferisce ai “modi” di applicazione delle misure di sicurezza, mentre per le misure di prevenzione si giunge a determinare, ora per allora, i “casi” della risposta ordinamentale. A nulla, far notare l’abnormità - rispetto ai condivisi e basilari principi ordinamentali - di una successione normativa che si applica, per tale via interpretativa, anche ai fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore. Talvolta in epoca assai remota. Così, nel sistema della prevenzione, si sono trovati a convivere la retroattività della norma e la funzione legislativa concorrente della giurisprudenza. È quindi accaduto che la Corte costituzionale, con la sentenza 24/ 19, prendendo atto dei rilievi critici sollevati in sede convenzionale (sentenza della Grande Camera Edu nel caso De Tommaso/ Italia), abbia dettato una sentenza interpretativa di rigetto in relazione all’articolo 1, comma 1 lettera b) del Codice Antimafia - ritenuto di generica formulazione e, quindi, di qualità insufficiente per assicurare l’accessibilità del precetto e la prevedibilità della sanzione - enunciando a quali condizioni (rectius, secondo quale interpretazione) esso possa essere ritenuto conforme a Costituzione, così tassativizzando i comportamenti che legittimano la reazione dello Stato. Nel farlo, il Giudice delle Leggi ha valorizzato alcune sentenze di legittimità, che hanno progressivamente determinato - con procedimento di “affinamento” conclusosi con le Sezioni Unite “Spinelli” del 2015 - il precetto normativo, così nuovamente avallando la funzione propulsiva e non più solo nomofilattica della giurisprudenza. La norma, ha detto la Corte costituzionale, non era di qualità sufficiente (e, quindi, non era conforme a Costituzione) sino a quando la Corte di Cassazione non ne ha determinato il contenuto. Il parossismo che ne è conseguito è l’estensione della retroattività, in materia di prevenzione, dalla modifica legislativa alla tassativizzazione e tipizzazione giurisprudenziale della norma. La disposizione, censurata di incostituzionalità, è suscettibile di applicazione retroattiva, se, in qualsiasi tempo, la sua lacunosità e indeterminatezza siano state colmate dall’intervento dei Giudici. Per tale via, è quotidianamente possibile applicare le disposizioni sulle confische a fatti avvenuti ben prima dell’anno 2015, sulla scorta di una Legge che è divenuta comprensibile, per il suo destinatario, in una data successiva. Neanche la Corte di Cassazione, a quell’epoca, aveva ancora una interpretazione univoca di quella Legge, ma l’uomo comune “doveva saperlo” e, dunque, “doveva aspettarsi” che, un giorno, lo Stato gli avrebbe sottratto il patrimonio. È la prova di come il sistema della prevenzione, già così tanto asistematico rispetto ai principi generali dell’ordinamento, si presti a diventare un pericolosissimo strumento di indiscriminata aggressione di diritti costituzionalmente garantiti, se il rispetto di quei principi si affievolisce anche nella materia penale. Riconoscere una funzione più che meramente nomofilattica alla giurisdizione, in un ordinamento che si struttura su (altre) rigide regole generali ineludibili, è solo un “battito d’ali”. Ma questo soffio è in grado di provocare sconvolgimenti (è la materializzazione del “paradosso di Lorenz”), se si propaga in un sistema in cui tutto è vago, come quello della prevenzione. Ecco perché la prevenzione è inemendabile. *Avvocato del Foro di Catanzaro **Avvocato del Foro di Torino Se il Csm nega il Salone del Libro a un magistrato di Gian Carlo Caselli La Stampa, 17 maggio 2023 Marzia Sabella è un magistrato della procura di Palermo, giustamente e universalmente considerato di grande valore professionale. Ma è anche “scrittrice di temperamento e personalità, fornita di una sensibilità linguistica sottile”. Così Maurizio Cucchi recensendo sul Venerdì di Repubblica l’ultima sua “fatica” letteraria, un romanzo (ed. Sellerio) intitolato “Lo sputo”, che racconta la storia vera, degli anni 60, di Serafina Battaglia, una siciliana, donna di mafia, che dopo l’uccisione del marito e del figlio decide di collaborare con la giustizia e con Cesare Terranova in particolare. Il Salone del libro di Torino ha fatto adottare il romanzo alla scuola Leonardo di Agrigento, nell’ambito di un progetto che funziona da oltre vent’anni e che per l’anno scolastico 2022/2023 coinvolge 38 autori, ciascuno dei quali si impegna a tre incontri con gli studenti in classe e a un incontro collettivo al Salone. Trattandosi di incontri strettamente connessi a un’attività editoriale, secondo l’interpretazione e la prassi diffuse sarebbe possibile al magistrato accettare l’incarico liberamente (seppure retribuito con 570 euro netti). A differenza di diversi colleghi in situazioni analoghe, Marzia Sabella decide di chiedere al Csm l’autorizzazione per incarichi d’altra natura. Un eccesso di prudenza “istituzionale” che innesca una vicenda di vago sapore kafkiano. La Prima Commissione referente, all’unanimità, propone al plenum di negare l’autorizzazione, con una motivazione che si ispira ai canoni del miglior “giuridichese”, secondo cui il Salone del libro è un modello atipico di persona giuridica privata (sic!) che non ha come oggetto sociale prevalente la formazione in ambito giuridico. Quindi, non trattandosi di ente pubblico, né di ente privato che opera nel settore giuridico (fattispecie che avrebbe consentito l’autorizzazione), l’istanza non poteva essere accolta. Invano la richiedente aveva fatto notare che fra quelle liberamente espletabili anche se remunerate rientra pacificamente (in base alle circolari del Csm) l’attività editoriale e di produzione artistica. Per la Prima Commissione si trattava invece di mera partecipazione a convegni o seminari, per cui inutile bussare, tempo perso... In plenum (26 aprile 2023) il Procuratore generale della Cassazione rilevava come andasse affrontato un altro tema (che pure Marzia Sabella aveva proposto alla Commissione) e cioè se il caso potesse rientrare nella norma che consente di autorizzare incarichi retribuiti provenienti da un ente privato nel caso di “un effettivo e obiettivo interesse pubblico”. A maggioranza il plenum stabiliva che la pratica ritornasse in Commissione. Questa però riproponeva all’unanimità il rigetto e il plenum, pure all’unanimità, lo approvava. Il tutto - con encomiabile ma piuttosto rara celerità - si concludeva il 10 maggio. Nella nuova delibera, la questione della sussistenza dell’interesse pubblico viene liquidata sbrigativamente affermando che “la percezione di un compenso erogato da un soggetto privato non può dirsi funzionale al soddisfacimento di un qualsivoglia interesse pubblico”: come se l’interesse pubblico andasse misurato in relazione al compenso e non in relazione all’attività da cui scaturisce il compenso stesso. Per il resto, la delibera, resa di non facile comprensione persino agli addetti ai lavori da una citazione bulimica di articoli e commi, si rende ben più intellegibile nei passaggi in cui si sottolinea ripetutamente un elemento (la mancata rinunzia al compenso) di certo non decisivo nel caso di specie. Ma c’è ancora un profilo che vale la pena esaminare. Ed è che la singolare vicenda della mancata autorizzazione alla partecipazione di un magistrato, che è anche uno scrittore, al Salone del libro ripropone il tormentato interrogativo sulla figura del magistrato di oggi e sul suo ruolo nella società; anzi, sulla sua stessa capacità di comprendere la società, cioè quel popolo in nome del quale amministra la giustizia. Doverose e benvenute le attività volte a riacquistare il perduto prestigio e la scomparsa credibilità dopo lo sfregio del “sistema Palamara”, ma attenzione alle possibili derive: il proposito di “(ri)moralizzare” i magistrati, restituendo loro un’etica non più appannata, non deve sfociare nel deprezzamento, quasi fossero contaminazioni, di realtà che concorrono allo sviluppo culturale collettivo. Men che mai trascurando i diritti fondamentali del singolo per una malintesa salvaguardia della purezza della categoria. Un percorso, tra l’altro, che finisce per tradursi nel sostanziale sminuimento di una delle nostre realtà culturali più significative, il Salone internazionale del libro di Torino, che, proprio per la sua innegabile rilevanza pubblica, è sostenuto dal Comune di Torino, dalla Regione Piemonte e da cinque ministeri. In sostanza, una discutibile interpretazione delle norme avulsa dal concreto non può confinare i magistrati nei margini (separati, ma per ciò stesso “insospettabili”) delle biblioteche giuridiche, ostacolandone la partecipazione attiva e proficua alla vita “vera” del Paese. Augusta (Sr). Il Garante dei detenuti in visita nel carcere dei due morti per lo sciopero della fame di Natale Bruno La Repubblica, 17 maggio 2023 Il garante dei detenuti in visita ad Augusta nel carcere dei due morti per lo sciopero della fame. Celle fatiscenti, prive di bagni con doccia, pochi educatori e quasi assenti gli psicologi, un tasso di sovraffollamento del 140%: il quadro del carcere di Augusta, che ha visto di recente la morte di due detenuti in seguito a uno sciopero della fame, è descritto in questo modo dal garante della Sicilia per i detenuti, Santi Consolo, che lo ha visitato ieri insieme con i magistrati di sorveglianza Monica Marchionni e Alessandra Gigli. I detenuti nel carcere, spiega il garante, sono 476, distribuiti nelle camere di pernottamento delle dodici sezioni esistenti. La capienza regolamentare è invece di 364 posti. “Pertanto - precisa Consolo - si registra un tasso di sovraffollamento del 131% rispetto alla capienza regolamentare, che è di soli 364 posti”. Ma “alcune camere non sono disponibili e la capienza effettiva si abbassa a 339 posti. Quindi, il tasso di sovraffollamento è del 140%, nettamente superiore al tasso di sovraffollamento medio nazionale”. Le due sezioni dell’alta sicurezza ospitano complessivamente poco più di cento detenuti: una è dotata di stanze tutte con bagno e doccia, mentre l’altra sezione presenta un ambiente fatiscente, in stato di notevole degrado, destinato a docce in comune. Anche molte altre sezioni sono prive di stanze con bagni dotati di docce. Ciò, sottolinea il garante, “determina malcontento in quei detenuti che necessariamente vengono destinati nella sezione priva di docce in camera”. La polizia penitenziaria - L’organico della polizia penitenziaria previsto è di 251 unità (4 commissari, 18 ispettori, 17 sovrintendenti e 212 assistenti-agenti), e in quello in dotazione ne conta 226. In realtà, a causa di missioni e distacchi, nella struttura operano 181 agenti, e 12 di questi andranno in aspettativa perché candidati alle prossime elezioni amministrative. Di conseguenza, il coefficiente personale presente/detenuti ristretti è pari a circa lo 0,38, indice di molto inferiore alla media regionale, che è pari a 0,61. Gli educatori effettivi sono sei, mentre dovrebbero essere almeno 9 in base alla dotazione organica. “In considerazione dell’effettivo tasso di sovraffollamento - dice il garante - il numero degli educatori presenti dovrebbe essere almeno il doppio di quello attuale. Tali carenze e criticità comportano notevolissimi disagi per il personale con eccessivi carichi di lavoro e compromissioni per l’implementazione delle attività trattamentali a beneficio delle persone ristrette”. L’istituto - L’istituto è dotato di guardia medica permanente 24 ore su 24 e c’è almeno uno psicologo per 3-4 ore tutti i giorni, la sola domenica esclusa. Lo psichiatra dell’Asp interviene se richiesto: “Tale tipo di assistenza - sottolinea Consolo - è del tutto inadeguato e insufficiente in considerazione che nell’istituto, per come si è avuto modo di constatare, moltissimi detenuti presentano un elevato grado di disagio sia psicologico che psichiatrico. Nel corso della visita il garante si è trovato davanti “due detenuti che accusavano gravi disagi, uno dei quali rifiutava la terapia, mentre l’altro aveva anche intrapreso lo sciopero della fame”, che ha interrotto dopo il colloquio con Consolo e i magistrati. Cagliari. Inclusione lavorativa dei detenuti, nasce un marchio etico ansa.it, 17 maggio 2023 Progetto di reinserimento della cooperativa Elan. Nasce nell’Isola un marchio di economia etica, che riunisce imprese impegnate in iniziative di inclusione sociale in particolare dei detenuti, e che perseguono i principi dell’economia civile. Il logo è “Lav(or)ando 100% Inclusione Sociale” e prende avvio da un progetto in corso dal 2020 che vede impegnata la cooperativa sociale Elan sostenuta dalla Fondazione per il Sud - unico progetto finanziato in Sardegna -, per favorire l’organizzazione di attività lavorative all’interno delle strutture di pena e il reinserimento professionale e sociale delle persone sottoposte a detenzione. In particolare il progetto che ha dato avvio alla nascita del marchio è finalizzato al recupero sociale e all’integrazione di 24 persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro inserimento nella lavanderia industriale presente nella Casa circondariale di Uta. Il marchio e il progetto sono stati illustrati dai promotori nella sede dell’assessorato regionale del Lavoro. “Da destinatari dell’iniziativa, i beneficiari si rendono protagonisti di percorsi personalizzati di inserimento socio-lavorativo - ha spiegato Carlo Tedde, responsabile progetto per Elan Società cooperativa sociale -, finalizzati a una crescita dal punto di vista professionale, educativo e formativo, per ricostruire la propria identità e accrescere le competenze tecniche e sociali, spendibili nel mercato del lavoro non protetto”. Gli obiettivi del marchio, registrato al Mimit, sono quelli di promuovere, sostenere e accompagnare attività lavorative interne alle strutture detentive, che operano attraverso attività produttive rivolte all’esterno delle stesse carceri e superare i processi di esclusione sociale che coinvolgono o detenuti. “Per le aziende - ha sottolineato Tedde - l’adesione al marchio rappresenta una opportunità per valorizzare persone con competenze specifiche e per migliorare la propria competitività nel mercato e la reputazione etica”. In particolare i vantaggi per le imprese che intendono aderire riguardano: l’inserimento in azienda di personale formato, la presenza di un tutor per il supporto, la completa gratuità del tirocinio per l’azienda, l’accesso ad agevolazioni e sgravi occupazionali per l’abbattimento parziale del costo legato al personale. Cassino (Fr). In con-Tatto con i detenuti di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 17 maggio 2023 Alla Casa Circondariale di Cassino lo Sportello In Con-Tatto, nato da Dike APS e Fondazione Sue Ryder OdV, è un punto di riferimento per i detenuti e un ponte tra il dentro e fuori. Si chiama Sportello In Con-Tatto quello che, a metà marzo, ha preso vita presso la Casa Circondariale di Cassino. Un nome evocativo per un progetto che vuole connettere i detenuti con il mondo esterno, e con il loro futuro. Lo Sportello In Con-Tatto è stato presentato da Dike APS e Fondazione Sue Ryder OdV, in risposta all’avviso pubblico della Regione Lazio “Approvazione dell’Avviso Pubblico per la concessione di finanziamenti finalizzati al miglioramento della vita detentiva e al reinserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante interventi ed azioni di natura trattamentale negli istituti penitenziari del Lazio” D.G.R. 921/2022 - Determinazione 24 novembre 2022, n. G16329. Il primo incontro è stato il secondo sabato di marzo, ma c’è stata un’attività in back office che è partita molto prima. La Casa Circondariale di Cassino è un luogo molto delicato: il 25 aprile c’è stata una rivolta da parte di alcuni detenuti per sottolineare i problemi che ci sono all’interno. Ne abbiamo parlato con Walter Bianchi, presidente dell’associazione Dike APS. “Come associazione avevamo già collaborato alla realizzazione di un progetto per la Casa Circondariale di Cassino l’anno scorso, in risposta a un bando simile” ci ha raccontato. “In quell’occasione avevamo avuto modo di approcciarci alla realtà carceraria e capire, attraverso attività di valenza culturale e ludica, quali fossero i bisogni dei detenuti. Questo ci ha permesso di immaginare un intervento interno alla struttura stessa. Attraverso il Cineforum, che si chiamava Storie di riscatto, realizzato insieme al Centro dei Diritti e della Solidarietà, avevamo raccolto le osservazioni e i bisogni dei detenuti. Questo lavoro ci ha permesso di maturare l’esperienza per realizzare lo Sportello In Con-Tatto. Si chiama così perché, oltre a stabilire un contatto, serve un approccio che sia il più empatico e umano possibile. La collaborazione con la fondazione non è stata formalizzata a livello progettuale ma ci sono dei volontari della fondazione e quindi è una collaborazione di fatto”. Ma come si lavora alla nascita di un progetto come questo, per rispondere adeguatamente al bando della Regione? “Abbiamo cercato dei contatti con la Casa Circondariale di Cassino per avere la lettera di supporto rispetto al progetto” ci risponde Walter Bianchi. “Abbiamo incontrato l’equipe educativa dell’istituto con la quale abbiamo già stabilito delle linee guida da seguire per la realizzazione del progetto”. Sovraffollamento e mancanza di spazi - L’attività dello Sportello In Con-Tatto va a inserirsi in un contesto per nulla semplice, come è quello della Casa Circondariale di Cassino. “È un carcere piccolo che però ha diverse criticità che stiamo toccando con mano e che già conoscevamo” ci spiega Bianchi. “Per questo abbiamo scritto questo progetto. Stiamo avvertendo ancora di più queste criticità e stiamo cercando di dare una mano a tutti: i detenuti, ma anche le persone che lavorano all’interno”. Le criticità sono prima di tutto di natura strutturale. “Un’ala del carcere, che è stato costruito negli anni Cinquanta, è chiusa” approfondisce Bianchi. “C’è un sovraffollamento di almeno una trentina di persone e gli agenti penitenziari sono in numero ridotto rispetto a quello che è previsto. E anche l’equipe educativa è presente in numero minore rispetto a quello che sarebbe necessario. Non ci sono spazi adeguati per fare attività sportiva e ricreativa. Non c’è una vera e propria biblioteca, e se c’è non c’è lo spazio necessario per ampliarla”. “Ovviamente in un contesto del genere tutti quelli che sono i principi costituzionali, tra cui l’art. 27 sul fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale vengono meno” riflette il presidente di Dike. “In questo periodo abbiamo incontrato una sessantina di detenuti che, anche attraverso il lavoro con l’equipe, ci hanno portato delle istanze. E registriamo sempre le stesse criticità, che sono quelle che dicevo e che abbiamo messo all’interno nell’analisi. E che sono ancora più evidenti quando si entra all’interno della struttura. Che, essendo così piccola, dovrebbe essere un fiore all’occhiello, un punto di riferimento per le buone prassi”. La ricerca del lavoro e di una abitazione per la fine della pena - E allora un progetto di questo tipo è più che mai necessario. Perché vuole provare a colmare queste lacune. Ma vuole essere anche un punto di riferimento per i detenuti e un ponte tra il dentro e fuori garantendo l’erogazione di servizi fino ad ora non presenti o assicurati in maniera saltuaria all’interno della Casa Circondariale. “L’obiettivo è quello di dare risposte di carattere tecnico, dando informazioni sulle pensioni sociali o sul rinnovo dei documenti, o la ricerca di soluzioni abitative alla fine della pena e tutte le richieste utili nel momento in cui si esce dal carcere” spiega Walter Bianchi. “E agevolare tutte quelle che sono le opportunità che vengono offerte; la ricerca del lavoro esterno, l’attivazione dell’art. 21. Anche se, anche qui per motivi strutturali, alcuni tipi di azioni non possono essere compiuti in maniera totale. L’art.21 prevede che si siano degli spazi e delle celle destinati a chi usufruisce di questo articolo per poter uscire e rientrare all’interno del carcere. Non avere tanti posti limita anche la possibilità di attivazione di queste offerte lavorative. Questo al di là delle difficoltà territoriali di trovare imprese che vogliano avere nelle loro fila persone che hanno avuto problemi con la legge”. “Sono criticità che conoscevamo, che sono ancora più impattanti rispetto alla nostra prima analisi” continua. “Non è un caso che la questione dell’inserimento lavorativo è stata pensata per essere attivata dopo alcuni mesi. Così prima è stata fatta una ricognizione dello status quo, e poi eventualmente con le persone che si dimostrano più valide e meritevoli ci attiveremo per attivare queste modalità da art. 21”. In questo senso si punta anche a creare momenti di formazione dei detenuti, per rafforzare le loro capacità per far sì che questo reinserimento sociale avvenga in maniera più confortevole possibile. Muoversi su diversi livelli, lavorare in rete - Lo Sportello In Con-tatto vuole essere un ponte tra dentro e fuori: “L’obiettivo è dare risposte di carattere tecnico, informazioni e risposte a tutte le richieste utili nel momento in cui si esce dal carcere” Ma si tratta di fare i conti con il contesto. E allora cosa può fare il Terzo Settore, che mette la progettualità, l’apertura mentale e il know-how per mettersi a disposizione dei detenuti quando ci sono problemi effettivi, come i problemi di spazio, strutture obsolete, che sono veri e propri ostacoli fisici, muri difficili da superare? “Bisogna muoversi su diversi livelli” ci risponde Bianchi. “Il primo livello è cercare di dare delle risposte, dove sia possibile, ai bisogni delle persone che vengono allo sportello. Registrare tutto quello che viene detto, raccogliere le risposte, fare il monitoraggio. E magari far arrivare le nostre osservazioni alle istituzioni. Bisogna creare i giusti partenariati con altri enti di Terzo Settore, capire in che modalità lavorare in rete e capire come possiamo essere utili noi agli altri enti. Capire come poter fare da ponte tra un caf e la Casa Circondariale. Si va dalle cose più semplici e basilari alle cose più importanti. Ci sono delle realtà come l’Associazione Antigone, che non può essere presente alla Casa Circondariale di Cassino come può esserlo in contesti più grandi. La funzione di associazioni come Dike e come la Fondazione Sue Ryder è proprio quella di accendere i riflettori in contesti come questi”. L’importanza dell’equipe educativa - Il progetto vive grazie presenza di un’equipe multidisciplinare composta da assistenti sociali, avvocato, psicologo, mediatore linguistico e segretario di progetto, consentirà di avvicinare i detenuti e le loro famiglie a percorsi individualizzati di sostegno all’inclusione sociale, promuovendo e realizzando iniziative di orientamento e facilitazione all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, nonché consulenze nell’accesso a prestazioni previdenziali, socio-assistenziali e legali. Ma che profilo ha chi lavora allo sportello? “Il primo passaggio dei detenuti verso lo sportello è con l’equipe dell’area educativa del carcere” ci risponde Bianchi. “Loro ci forniscono i nominativi, ci raccontano le caratteristiche delle persone e le loro esigenze. Io sono un assistente sociale, come altri, insieme a noi ci sono operatori sociali che hanno già fatto esperienze di segretariato sociale, non professionale, ma di ascolto all’interno di sportelli. Hanno tutti un’esperienza che permette loro di gestire questo spazio”. Dietro si muove ovviamente una rete. “Una rete che o è già attiva o è da ampliare, e le cui maglie vanno ben saldate” ci racconta Bianchi. “C’è un lavoro che in questi mesi dovrà essere anche esterno. Si lavora su più fronti: si tratta di costruire un ponte con le istituzioni, con gli enti di Terzo Settore, con le famiglie”. Dentro al carcere: un basso grado di istruzione - Lo sportello sarà uno spazio di condivisione sociale della devianza, di sperimentazione di nuovi approcci per affrontare i problemi sociali, creando spazi di lettura del bisogno condivisi e integrati, focalizzando l’attenzione sulla persona e non sulla categoria che esprime. Ma che cosa è emerso dai primi giorni di ascolto dei detenuti? “Le prime impressioni ci dicono che c’è un basso grado di istruzione” ci illustra Bianchi. “È un dato che si tende a sottovalutare. I bisogni dei detenuti hanno spesso a che fare con i contatti con familiari, con la possibilità di spostarsi da un carcere ad un altro. Quelle che emergono sono le criticità rospetto al carcere stesso. Spesso le domande che arrivano sono le conseguenze dei limiti che ci sono all’interno. Non so quanto possa essere politicamente corretto dirlo in una fase di realizzazione stessa del progetto. È evidente che c’è la piena collaborazione da parte dell’area educativa, che fa quello che può rispetto alle risorse che ci sono. Le domande riguardano la documentazione, lo stato e le condizioni dei contatti con i minori, con i figli, o con i parenti. La possibilità di trovare un luogo dove effettuare i domiciliari. C’è un filo conduttore che riguarda il carcere”. Modena. Festival della giustizia penale, il garantismo scelta di campo di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 maggio 2023 II lavoro e l’impresa al centro degli incontri organizzati dai penalisti emiliani. Numerosi gli ospiti, e domenica ci sarà l’intervento del guardasigilli Nordio. Tutto pronto per la quarta edizione del Festival della giustizia penale, in programma dal 18 al 21 maggio a Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo. L’evento dei penalisti modenesi si soffermerà su tre temi: impresa, lavoro e giustizia. Anche quest’anno tanti gli ospiti che si alterneranno nelle quattro città del festival. Domenica 21 maggio è previsto l’intervento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Qualche giorno fa, in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’evento è stata annunciata la presenza del generale Mario Mori; per la prima volta parlerà dopo l’assoluzione in Cassazione nel cosiddetto processo sulla trattativa Stato-mafia. Tra gli altri ospiti il ministro per gli Affari europei, le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, il senatore Matteo Renzi, il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, e il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto “Il Festival della giustizia penale - dice al Dubbio uno degli organizzatori, l’avvocato Guido Sola - esiste in considerazione di una duplice consapevolezza. La prima: il garantismo come scelta di campo. È scelta di campo che si fa a monte, che prescinde dal fatto storico oggetto di giudizio e che affonda le proprie radici nella certezza che lo stato di diritto passa esattamente di qui nella consapevolezza che tutte le persone hanno una propria dignità. E che, proprio alla luce di ciò, tutte le persone devono essere giudicate nel rispetto delle regole. La seconda consapevolezza pone al centro il fatto che siamo tutti figli della fragilità. Fallibili e inclini all’errore, sottotitolava la prima edizione di Festival della giustizia penale dedicata anche all’errore giudiziario. La giustizia dell’uomo, piaccia o meno, è fallace. Ed è fallace perché fallace è l’uomo. Ecco, dunque, perché, soprattutto nell’ambito d’un sistema che, come il nostro, è tutto costruito a partire dalla presunzione di non colpevolezza in riferimento all’articolo 27 della Costituzione, essere garantisti, nella nostra ottica, è un dovere. Un dovere costituzionalmente imposto”. La giustizia penale, sottolinea l’avvocato Sola, “non è e non può essere un affare di professori, avvocati e magistrati, ma è e deve essere un affare di tutti i cittadini”. “Più in generale, - conclude - si avvertiva l’esigenza di rompere gli steccati dell’autoreferenzialità che sono propri anche del nostro mondo, del mondo di coloro che si occupano ex professo di giustizia penale, cioè, per costruire una casa virtuale. La casa virtuale nella quale tutti coloro che intendono portare i temi del giusto processo penale all’interno del dibattito pubblico si possano ritrovare. Il Festival della giustizia penale, a conti fatti, è e vuole essere esattamente questo: la casa di tutti coloro che vogliono combattere con noi battaglie di libertà per affermare un principio: quello in base al quale al centro della scena della giustizia penale ci sono sempre persone vere”. Il professor Luca Lupària Donati, direttore scientifico del Festival della giustizia penale, si sofferma sull’importanza della comunicazione di temi tanto delicati quanto complessi. “Anche per l’edizione 2023 - commenta - conserviamo la nostra tradizionale cifra stilistica, Vogliamo favorire il dialogo tra cittadini e mondo della giustizia, attraverso linguaggi non paludati e l’impiego di forme comunicative che avvicinino a temi di non facile comprensione. In quest’ottica si spiega la presenza, all’interno del programma, di docufilm, spettacoli teatrali, interviste, incontri con gli studenti, dialoghi a più voci. L’evento vedrà la partecipazione, nelle quattro città ospitanti il Festival, di importanti giuristi, tra cui professori universitari, anche provenienti dall’estero, giudici costituzionali, esponenti della magistratura e dell’avvocatura, oltre a politici, ministri, opinionisti, economisti, intellettuali e giornalisti. Non mancheranno, come sempre, storie di vita vissuta”. Dunque, una manifestazione da seguire con attenzione per il grande valore dei contenuti e delle proposte che ancora una volta verranno presentate. Cremona. Carcere, in visita sottosegretario Ostellari, ma è polemica con il Comune di Laura Bosio cremonaoggi.it, 17 maggio 2023 Ennesimo sopralluogo in carcere nella mattinata di martedì. stavolta da parte del Sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, Andrea Ostellari, che ha fatto il punto della situazione e ha voluto rassicurare sull’impegno da parte del Governo a sistemare le cose. “Abbiamo ereditato un sistema carceri che era stato un po’ abbandonato” sottolinea Ostellari. Oggi quindi dobbiamo cercare di invertire la rotta investendo sul personale, non solo polizia penitenziaria, ma anche educatori e psicologi”. Ma soprattutto, l’obiettivo è combattere il sovraffollamento con la rieducazione dei detenuti, che passa attraverso un’attività lavorativa. “Per affrontare questo tema, prima si sono adottati provvedimenti come lo svuota-carceri, o sconti di pena, ma crediamo che sia un errore, perché si crea un’illusione che non viene poi riflettuta nella realtà. Crediamo invece che lo strumento giusto sia investire sul lavoro. I dati ci danno ragione: il 98% delle persone che imparano qualcosa durante la detenzione, non rientrano poi nel circuito criminale. In questo modo da un lato si fa rieducazione, dall’altro si investe sulla sicurezza per le nostre comunità”. A fronte di ciò, attualmente i numeri sono risicati: solo 11 detenuti lavorano. “Bisogna coinvolgere anche il mondo del lavoro, facendo conoscere agli imprenditori quali sono le possibilità che la legge offre da questo punto di vista”. A questo proposito, si chiede l’impegno delle istituzioni locali, “che possono essere coinvolte con i lavori di pubblica utilità”. Si chiede anche “più personale anche sotto il profilo sanitario. In questo ci stiamo impegnando per portare una proposta che sia risolutiva”. La polemica - Il dialogo con le istituzioni locali, tuttavia, non è iniziato al meglio: al sopralluogo si erano presentati anche il sindaco Gianluca Galimberti e il presidente del Consiglio comunale Paolo Carletti, che tuttavia non sono stati ammessi alla riunione preliminare. Una situazione che ha provocato grande disappunto nei due rappresentanti istituzionali, come ha evidenziato lo stesso Carletti, tanto che entrambi prima dell’inizio della visita sono tornati in Comune. D’altro canto il sottosegretario, dopo l’incontro in carcere, si è recato personalmente in Comune per parlare con il primo cittadino. Secondo quanto riferito dalla delegazione, la riunione privata era prevista dal protocollo delle visite in carcere, ma gli amministratori avrebbero tranquillamente potuto partecipare alla visita del penitenziario. I sindacati - Presente fuori dal carcere una rappresentanza sindacale: come evidenzia Sergio Gervasi, segretario Uil Pa Lombardia, “la situazione in questo carcere è più che allarmante. Soffriamo tantissimo la carenza di personale di polizia penitenziaria, soprattutto in questo periodo, in cui diverse unità sono state distaccate presso il Gom (Gruppo operativo mobile). Ormai non si riescono più a garantire i diritti minimi al personale, che è stremato e non ha più possibilità di un recupero psico-fisico. Serve che la politica prenda atto di questa situazione così gravosa e si impegni a far sì che questo istituto torni ad essere un fiore all’occhiello del sistema carcerario”. Soddisfazione da parte del Sinappe per la visita del sottosegretario, come sottolinea il vice segretario regionale Vincenzo Martucci, che definisce l’incontro come “una vicinanza istituzionale che fa sentire tutti gli operatori meno soli”. Il sindacalista rimarca i tanti problemi accumulatisi negli anni: “L’istituto Cremonese da un po’ vive una situazione insostenibile, con una carenza di organico relativa alla Polizia Penitenziaria di 50 unità se a questo aggiungiamo i vari distacchi a vario titolo la situazione diventa disastrosa. Eventi critici che si ripetono nel quotidiano con continue aggressioni fisiche e verbali al malcapitato poliziotto di turno. Spesso i poliziotti sono costretti a fare il doppio turno con conseguente taglio di congedi e riposi. La presenza del Sottosegretario e l’interesse mostrato dallo stesso verso le problematiche denunciate dal personale e dai vertici ivi in servizio è un segnale da cogliere in maniera del tutto positiva, considerato che lo stesso ha prospettato degli interventi celeri per la soluzione di alcune problematiche molto sentite dagli operatori”. Genova. Progettare gli spazi della pena secondo Costituzione ordinearchitetti.ge.it, 17 maggio 2023 Martedì 23 maggio, dalle ore 18:00 alle 20:00, il Teatro dell’Arca di Piazzale Marassi, 1 (accesso da via Clavarezza) ospiterà Progettare gli spazi della pena secondo Costituzione, la conferenza organizzata dalla Fondazione Ordine degli Architetti di Genova per fornire il quadro attuale della vicenda nazionale della progettazione e realizzazione delle infrastrutture penitenziarie, quale acquisizione di consapevolezza e premessa per accedere a nuove opportunità professionali. La conferenza si svolgerà sia in presenza che in webinar. La partecipazione è valida 2 CFP. Iscrizioni su Formagenova.it. Dopo i saluti introduttivi di Pierluigi Feltri e Riccardo Ravecca, rispettivamente presidente e consigliere di FOA.GE, Pietro Buffa, direttore generale della formazione dell’Amministrazione penitenziaria, offrirà uno spaccato della popolazione detenuta oggi nel quadro del monito costituzionale. Seguirà l’intervento dell’architetto Cesare Burdese, già membro della Commissione Ministeriale per l’architettura penitenziaria, che sottolineerà l’incostituzionalità degli edifici carcerari italiani, luoghi che impediscono ogni possibilità di crescita nella loro deprivazione sensoriale ed emozionale. Oltre al degrado fisico delle strutture e alla carenza di dotazioni spaziali, il vero limite sta nella loro progettazione - da sempre esclusivo dominio dell’edilizia e non dell’architettura - che non considera gli aspetti psicologici ed estetici a vantaggio dell’utilizzatore, per una esecuzione penale utile e positiva. Solo negli ultimi anni l’architettura ha incominciato a essere presa in considerazione quale utile strumento per superare le criticità in atto e attuare i principi nazionali e sovranazionali in tema di esecuzione penale. Andrea di Franco, professore di progettazione architettonica presso il Politecnico di Milano, parlerà del Laboratorio Carcere, un percorso di ricerca del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani che indaga il tema dello ‘spazio del carcere’. In particolare, il ruolo che hanno la forma e l’uso degli spazi e delle strutture di reclusione nella determinazione della pena detentiva. Si tratta di un’indagine sulle condizioni di abitabilità degli istituti di pena condotta attraverso gli strumenti del progetto di architettura e annodando una rete di relazioni con chi abita e pratica il carcere. La ricerca, che integra l’apporto di differenti discipline e l’esperienza didattica dei laboratori, si struttura come percorso aperto al dialogo, alla condivisione e alla formazione di progettualità. Maria Rosaria Santangelo, professoressa di composizione architettonica e urbana presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, presenterà alcuni interventi progettuali realizzati o in fase di realizzazione all’interno di alcuni istituti penitenziari italiani nell’ambito del progetto inside/outside design studio del gruppo di ricerca del DIARC. Il laboratorio affronta i temi della trasformazione dell’esistente, del recupero e della manutenzione del patrimonio penitenziario, delle relazioni con il contesto. Allo stesso tempo promuove la conoscenza del mondo della detenzione e dell’esecuzione penale, con particolare riguardo al ruolo centrale dello spazio e dell’architettura come strumento di conoscenza e di miglioramento delle condizioni abitative. N.B. Essendo il Teatro all’interno della Casa Circondariale di Genova Marassi, per completare l’iscrizione e poter accedere alla conferenza è obbligatorio inviare i seguenti dati alla mail info@fondazione-oage.org: nominativo, numero della carta d’identità, il luogo e la data di nascita tassativamente entro il 20 maggio p.v. Per l’occasione sarà possibile visitare la mostra di Keith Haring, allestita dal 20 al 29 maggio 2023 al Teatro dell’Arca che propone 15 opere di uno dei maggiori artisti della corrente neo-pop tra i più famosi e celebrati della sua generazione. Unico caso di un’esposizione così prestigiosa allestita all’interno di un teatro collocato in un carcere. La mostra sarà visitabile dalle 17 alle 20 nei giorni di apertura, mentre il giorno della conferenza dalle 17 alle 18. Si segnala che il 26 maggio, alle 20:30, sempre al Teatro dell’Arca, andrà in scena lo spettacolo Pietre Nere, prodotto da La Corte Ospitale e Babilonia Teatri - di Rubiera (RE). Una performance che indagherà il concetto di “casa” a partire da luoghi che, agli occhi dei più, case non sono. Pietre nere scarnifica e centrifuga la nostra idea di casa, il nostro modo di abitare, di costruire, di occupare un luogo. Pietre nere è casa in tutte le sue infinite declinazioni. Torino. Cinque minuti in galera: il “Dubbio” allestisce una cella al Salone del Libro Il Dubbio, 17 maggio 2023 Dal 18 al 21 maggio allo stand de Il Dubbio-Cnf (T138 - Padiglione Oval): tutti i visitatori della kermesse avranno la possibilità di sperimentare la “detenzione”. Cinque minuti in cella per sperimentare la vita in carcere. Ecco la sfida che Il Dubbio lancia al Salone del Libro di Torino: dal 18 al 21 maggio tutti i visitatori avranno la possibilità di provare la “detenzione” nello stand allestito dal quotidiano e dal Consiglio nazionale forense, al cui interno è stata riprodotta una vera e propria cella. Uno spazio angusto, con tutte le limitazioni e le condizioni di vita tipiche di un ambiente penitenziario. L’obiettivo principale dell’esperienza è promuovere la consapevolezza e stimolare il dibattito pubblico sulla necessità di riformare il sistema carcerario, migliorando le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena e promuovendo l’adozione di misure alternative. Oggi, come ha sancito anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, la gran parte delle carceri italiane è in condizioni inumane a causa del sovraffollamento e di un’edilizia penitenziaria del tutto inadeguata. Non è un caso che di anno in anno aumentino i suicidi tra i detenuti e tra gli stessi agenti di polizia penitenziaria, vittime - gli uni come gli altri - di questo stato di degrado. I “detenuti per un giorno” subiranno una perquisizione, e saranno invitati a indossare abiti abitualmente utilizzati in carcere. Entreranno nello spazio arredato come una vera prigione, rumori inclusi. Perché, come scrisse Piero Calamandrei, presidente del Consiglio nazionale forense dal 1946 al 1956, “bisogna aver visto il carcere da recluso”. Ad accompagnare i visitatori sarà una guida speciale: Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Roma. I detenuti trasformeranno caserme dismesse in palestre e campi da gioco L’Osservatore Romano, 17 maggio 2023 C’è il solidale passaggio di testimone della grande staffetta per il reinserimento sociale delle persone in carcere tra l’esperienza We Run Tkether di Athletica Vaticana - con protagoniste le detenute a Rebibbia e i detenuti a Velletri - e il progetto Lo Sport abbatte le barriere promosso dal ministero italiano per lo Sport e i Giovani con Sport e Salute. L’iniziativa - che rilancia l’attenzione di Papa Francesco per la dignità delle persone detenute - è stata presentata nei giorni scorsi proprio nel carcere femminile di Rebibbia. “Utilizzare gli spazi e gli ambienti delle tante caserme dismesse quali luoghi di sport per le comunità dei detenuti, da ristrutturare anche con il loro coinvolgimento diretto”, è la proposta del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, da realizzare in sinergia con i dipartimenti per l’Amministrazione penitenziaria e per la Giustizia minorile e di comunità, e la partecipazione diretta di 10.000 detenuti. Alla presentazione dell’iniziativa, con il ministro della Giustizia, hanno partecipato tra gli altri il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi, il presidente di Sport e Salute, Vito Cozzoli, e il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. “Non siamo qui per uno spot” ha detto Abodi, ricordando che “l’articolo 27 della Costituzione italiana evidenzia due termini, “umanità” e “rieducazione”, insiti nello sport il cui diritto, a breve, sarà riconosciuto proprio dalla Carta”. Sport per tutti, dunque, “non solo nelle carceri - ha rilanciato - ma anche nei quartieri, nei parchi, nei luoghi di inclusione sociale”. “Tutti i detenuti hanno diritto alla rieducazione e, all’interno di questo diritto, c’è anche il diritto allo sport” ha affermato Cozzoli presentando le linee concrete dell’avviso pubblico “Sport di tutti - Carceri” che va a rendere più forte lo stile sportivo nei penitenziari: “Le politiche pubbliche non possono fermarsi davanti ai cancelli blindati degli istituti di pena. L’attività in carcere è uno degli ambiti che maggiormente valorizzano la capacità dello sport di essere strumento di promozione valoriale e anche di recupero di persone fragili inserite in contesti difficili”. Carinola (Ce). “FaRinati”, la linea di prodotti da forno che nasce in carcere Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2023 Oggi, 17 maggio 2023, presso la Casa di Reclusione di Carinola ha avuto luogo un incontro tra una delegazione di Consiglieri Regionali della Campania con una rappresentanza di detenuti della Casa di Reclusione; sarà presente, inoltre, il Prof. Samuele Ciambriello, Garante Regionale delle persone sottoposte alla privazione della libertà. All’incontro seguirà un pranzo condiviso organizzato dall’Associazione “Generazione Libera” di Caserta, allestito presso il locale teatro del penitenziario. L’iniziativa mira, tra l’altro, a far conoscere una realtà produttiva presente nella Casa di Reclusione di Carinola. Stiamo parlando del laboratorio di prodotti da forno, panificazione e pasticceria denominato i “faRinati”, il quale rappresenta un ambizioso progetto di inclusione sociale, destinato ad alcuni detenuti. Il nome nasce proprio dal connubio di due parole chiave che sposano il programma associativo: farina, ingrediente base per ogni prodotto e rinascita, intesa come atto che restituisce nuova forma di vita secondo il motto: “non importa quante volte cadi ma quante volte ti rialzi”. Il laboratorio è gestito dalla citata Associazione “Generazione Libera” di Caserta, la quale ha sottoscritto un’apposita convenzione con la Direzione del penitenziario di Carinola. I “faRinati” nasce come progetto teso ad insegnare, ai detenuti coinvolti, l’arte della panificazione, in modo da poter intraprendere, una volta liberi, il mestiere di pasticciere, pizzaiolo e panettiere. I prodotti realizzati possono essere acquistati, contattando l’Associazione “Generazione Libera” di Caserta, da tutti coloro vogliono fattivamente contribuire al percorso di reinserimento sociale dei condannati. Barre Aperte, Premio alla serie web realizzata negli Ipm di Milano e Airola imgpress.it, 17 maggio 2023 “Barre Aperte - Rap e teatro nelle carceri minorili” è una webserie realizzata dall’associazione CCO - Crisi Come Opportunità in collaborazione con Associazione Puntozero. Il rapper, autore e regista Francesco “Kento” Carlo la voce guida di un viaggio all’interno di due Istituti Penali per Minorenni, il Beccaria di Milano e quello di Airola, in provincia di Benevento, per raccontare la vita, i sogni e le storie dei ragazzi sottoposti a provvedimenti penali. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” recita così l’articolo 27 comma 3 della Costituzione Italiana ed è su questo principio fondamentale che si basa il lavoro che associazioni, volontari ed operatori penitenziari svolgono all’interno del sistema carcerario italiano ed in particolare in quello minorile. La webserie “Barre Aperte - Rap e teatro nelle carceri”, pubblicata a febbraio 2022 da Repubblica TV, è nata proprio dal desiderio di dare voce alle storie, i sogni, l’impegno e la passione dei ragazzi detenuti, dei tanti operatori (tra volontari e personale penitenziario) e di associazioni, come CCO e Puntozero, che da anni sono impegnate nel promuovere il teatro all’interno degli istituti penali minorili come parte essenziale del processo di riscatto e reintegro positivo nella società. “La serie web, nata in un momento estremamente delicato per il mondo del carcere minorile come il periodo del lockdown, ha avuto un pubblico duplice: da un lato il pubblico dei liberi, che hanno potuto fruire del racconto in 8 puntate - 4 dedicate al Beccaria di Milano e 4 all’IPM di Airola (Benevento) - direttamente su Repubblica TV - e dall’altro quello dei ragazzi detenuti, a cui è stata distribuita tramite lettori mp4 perché venisse fruita “on demand” in cella” racconta Giulia Agostini, presidente di CCO Crisi Come Opportunità. Ed è proprio “l’importanza della libera condivisione delle conoscenze, della dedizione e dello sforzo per raggiungere i propri obiettivi nell’industria cinematografica e nella vita in generale” la ragione che ha portato la commissione dell’Hip Hop Cinefest a riconoscere alla serie web il premio di Best Of The Web: un premio che conferma come il racconto di realtà - che spesso non hanno voce - sia potente e formativo per intere comunità, come quella Hip Hop, a cui molti giovani fanno riferimento quotidianamente. Kento, autore del progetto, ha commentato così la notizia del premio: “Il primo pensiero è per i ragazzi detenuti che sono i protagonisti della serie e a cui dedico di tutto cuore questa vittoria, sperando nel nostro piccolo di amplificarne la voce sempre e il più possibile. Questo è un riconoscimento di squadra che dimostra come un’idea forte e il lavoro sul campo possano arrivare molto, molto lontano”. Questo premio è dedicato a tutti i ragazzi detenuti. Guarda la web serie su: https://video.repubblica.it/dossier/barre-aperte. Giornata contro l’Omofobia, ma l’Italia non ripudia la discriminazione e punisce i bambini di Ivan Scalfarotto Il Riformista, 17 maggio 2023 Persa l’occasione storica di approvare una legge contro l’omofobia e la transfobia nella scorsa legislatura a causa della scellerata decisione di contarsi su un testo che, come tutti sapevano, non aveva i numeri in aula, celebriamo ancora una volta la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia senza una legge che sancisca formalmente che il nostro Paese ripudia la discriminazione, l’odio e la violenza basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Purtroppo non è dato prevedere che le cose possano migliorare nel futuro prossimo. Su questi temi, la maggioranza quando va bene è totalmente afona: la Ministra delle Pari Opportunità non risulta abbia proposte per allineare l’Italia ai Paesi con i quali normalmente ci confrontiamo e, a livello parlamentare, le pur insufficienti aperture che nella scorsa legislatura erano venute dall’allora Presidente della Commissione Giustizia del Senato - e oggi Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari - sembrano essere state rimosse dalla memoria. Questo comporta che ancora oggi, in Italia, le persone gay, lesbiche, bisessuali e trans non hanno - e chissà per quanto tempo non avranno ancora - una legge specifica che le protegga nemmeno dalle percosse, dalle aggressioni fisiche o dalla violenza. Ma l’omofobia non è solo la violenza da perseguire col codice penale: omofobia è anche la diffusa convinzione che le persone omosessuali siano meno degne o capaci delle persone eterosessuali. Per esempio quella che accredita come fosse un dato di realtà lo stereotipo che le persone LGBT siano “per natura” meno degne di poter fare famiglia accedendo al matrimonio come accade in tutto il mondo occidentale. Oppure che siano meno capaci di crescere dei figli, anche in assenza di un qualsiasi studio scientifico che lo dimostri. Per un’adozione, una coppia eterosessuale viene valutata con attenzione dai servizi sociali; per legge, invece, la coppia gay o lesbica (come del resto il single o la coppia che abbia deciso di non sposarsi, una decisione che alla coppia gay o lesbica è però preclusa) non può essere nemmeno considerata. Salvo che il bambino abbia una grave disabilità, è ovvio: in questo caso il bambino “adottabile e non adottato”, evidentemente considerato di seconda classe, può essere sì consegnato a una famiglia pure lei considerata dalla legge di seconda classe. La discriminazione è odiosa in generale ma ancor peggio diventa quando si scarica sui bambini. Non solo con la mancata registrazione dei figli delle famiglie arcobaleno, che il governo persegue con tenacia, ma anche con la decisione che la destra ha preso di dare mandato al governo di bloccare il certificato di filiazione europeo, quello che consentirebbe a tutti i bambini - chiunque siano i loro genitori e comunque siano nati - di poter godere di una delle libertà costitutive dell’UE: quella di circolare liberamente, e quindi vivere, in tutti e 27 gli Stati dell’Unione. La scusa che si accampa in modo del tutto strumentale è la gestazione per altri, la maternità surrogata (che è utilizzata nella stragrande maggioranza dei casi da coppie eterosessuali): puniamo i bambini per scoraggiare gli adulti ad averne. Lo stesso ragionamento per cui vi lasciamo affogare, se siete migranti, perché così non partirete. Non funzionerà né in un caso né nell’altro, questo è chiaro a tutti, perché non c’è legge che può fermare le grandi e irresistibili scelte della vita, né quella di immaginare il proprio futuro da un’altra parte, né quella di avere un figlio. In un Paese civile le cose non dovrebbero funzionare così. E i riformisti, lo vediamo anche dal grande lavoro di Renew Europe al Parlamento Europeo, questo lo sanno bene. Salute mentale. Alberta, figlia di Franco Basaglia: “Era il papà dei matti, non soltanto il mio” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 17 maggio 2023 “Usciti dai manicomi giravano a casa nostra. Mi insegnò a non avere paura. La legge 180 è nata sui nostri divani” Alberta, figlia di Franco Basaglia: “Era il papà dei matti, non soltanto il mio. Usciti dai manicomi giravano a casa nostra” Alberta Basaglia da bambina con il padre Franco shadow Cosa ha voluto dire chiamarsi Basaglia? “Accettare che tuo padre non è solo tuo, ma lo è di tante persone”. Di tutti i suoi pazienti psichiatrici? “Dei matti sì, ma anche di tutte le persone che hanno lavorato con lui e di quel mondo che si è riconosciuto nella sua lotta”. Alberta, lei li chiama matti? “Le parole hanno il senso che gli si dà. I matti sono matti, non è un’offesa. È uno stato”. Glielo ha insegnato suo padre Franco? Lo psichiatra che i matti li ha liberati chiudendo i manicomi? “L’ho capito vivendo semplicemente nella mia famiglia. Mio padre non me lo ha dovuto insegnare”. Che vuole dire? “Non ha mai avuto bisogno di prendermi da parte e insegnare quello che stava succedendo. Lo vivevo, appunto”. Stava succedendo una rivoluzione, lei capiva questo? “Da bambina, da adolescente non è stato così chiaro. Capivo però che quello che stavo vedendo era una cosa strana di cui si parlava tanto anche fuori casa”. Cosa stava vedendo? I matti? “Sì, quelli slegati, liberati quando mio padre è riuscito ad aprire il manicomio di Gorizia”. E gli altri? “Prima che i muri e le reti fossero abbattute non li ho visti. Mio padre non ha voluto che vivessimo dentro il manicomio di Gorizia, il primo che ha diretto. Era prassi per i direttori dell’epoca vivere nei manicomi, lui si è opposto”. Lei era troppo piccola? “Era troppo brutto quello che c’era in quel manicomio Persone legate, nude, buttate in un angolo. Un orrore che mio padre ci ha risparmiato. Il problema non erano i matti, ma come venivano trattati. I matti liberati, infatti, poi hanno girato tranquillamente per casa nostra”. Che effetto le facevano? “Da bambina avevo paura. Erano brutti. Erano persone a cui era stato tolto tutto. Non avevano denti, spesso erano persone molto grasse. Però in questo caso mio padre una cosa importante me l’ha insegnata”. Cosa? “A non aver paura della paura”. È stato un padre affettuoso? “Sì, molto. Ma è sempre stato coinvolto dal suo lavoro, da quanto stava facendo. Era molto chiaro che la vita della nostra famiglia corrispondeva alla rivoluzione che andava montando”. L’ha mai aiutata a fare i compiti? “Succedeva molto di rado. Comunque c’erano tante altre persone che poi potevano aiutarmi nei compiti”. Chi? “I tanti che lavoravano con lui. Che stavano sempre in casa nostra. La legge 180 viene chiamata legge Basaglia, ma bisogna precisare che è frutto di un bel gruppo di lavoro discusso sui nostri divani. Non l’ha scritta lui”. Ha un ricordo emotivo di suo padre? “Faccio fatica a condividere cose private”. Come mai? “L’ho già detto. Ho avuto una gran fortuna ad avere avuto questi genitori, c’è un posto importante anche per mia mamma Franca. Ma poi mi sono dovuta rendere conto che mio padre non era solo mio, non poteva esserlo. Il nostro privato era condiviso”. D’accordo. Ma almeno un ricordo tutto suo dell’adolescenza lo avrà... “Le gite in macchina. Quelle erano i momenti in cui si poteva stare finalmente con mamma e papà. E con papà avevamo un gioco tra noi”. Quale? “La musica, in macchina l’ascoltavamo di tutti i tipi, classica o pop. io e papà facevano il gioco della prima nota. Dalla prima nota dovevamo capire se era Mozart, Bach, Caterina Caselli, Dik Dik”. A suo padre piaceva la musica? “Si, è sempre stata una presenza in casa, il tramite del rapporto”. Che ricordo ha del Sessantotto? Come lo ha vissuto? “Non l’ho vissuto, non avevo niente da contestare. Mio padre poi era diventato un’icona del Movimento, neanche la possibilità di contestare l’autorità paterna”. Nemmeno dopo ha mai contestato suo padre? “Forse non ho avuto il tempo. È morto che avevo ventiquattro anni. Non sono pochi, però io all’epoca ero ancora molto figlia”. Un’icona del Movimento, un uomo molto famoso: possibile che sia stato così facile accettare che suo padre non fosse soltanto suo? “È stato un percorso”. Mai stata gelosa? “Sì, aveva intorno tante studentesse, spesso belle”. Che ricordo ha di Marco Cavallo? “Un’emozione fortissima. Ho contribuito a costruire quel cavallo azzurro di cartapesta insieme a mio cugino artista, Vittorio Basaglia”. Quel cavallo ha guidato la folla dei matti che uscivano dal manicomio di Trieste. “Era il 1973, cinque anni prima dell’approvazione della legge 180. All’epoca vivevo a Venezia, non con mio padre a Trieste, ma di quello che succedeva lì sapevo tutto”. Perché scegliere come simbolo Marco Cavallo? “Perché esisteva davvero, era un cavallo che portava dentro e fuori la biancheria da lavare. I matti lo avevano chiamato Marco, era un retaggio del manicomio chiuso. Farlo uscire con la folla voleva dire suggellare la rivoluzione”. Il 13 maggio 1978 il Parlamento approva la legge 180. Si brinda in casa Basaglia? “Nessun brindisi”. Come mai? “Era troppo vicino al ritrovamento del cadavere di Moro, il 9 maggio. La legge era stata varata di corsa per evitare il referendum”. Secondo lei qual è la forza della legge? “Aver sancito che in un paese democratico non è possibile pensare di tenere nascosta una persona malata. L’importanza di quella rivoluzione è stata costringere la società a farsi carico dei malati e delle loro famiglie. E c’è un punto fondamentale che troppo spesso viene dimenticato”. Quale? “La legge 180 non ha soltanto chiuso i manicomi. Ha previsto che per le persone con sofferenza psichica venissero create strutture, disseminate nei territori, in grado di dare risposte di salute”. Lei è una psicologa, mai pensato di fare la psichiatra? “L’aria che avevo respirato in casa mi era entrata dentro e non era mai più uscita. Ma ho voluto mettere una distanza da mio padre. Non mi sono mai occupata di salute mentale. Ho seguito i problemi di bambini e di donne vittime di violenza, entrambi non vengono ascoltati. Come succedeva ai matti prima”. Nessuno ascolta i bambini? “Non vengono ascoltati i loro pensieri. I bambini hanno un punto di vista importante: sono più bassi e guardano il mondo da un’altezza diversa dalla nostra. Ne avrebbero di cose da dire”. Che commento ha fatto suo padre il giorno della discussione della sua tesi di laurea? “Non ho voluto che venisse”. Perché? “Mi sembrava davvero troppo avere Basaglia seduto in prima fila ad una laurea in psicologia”. Quindi nessun commento di Franco Basaglia alla sua laurea? “Mi ha mandato un mazzo di fiori e un telegramma: “Brava papà”. Si è emozionata? “L’ho messo dentro al portafoglio. Tre mesi dopo mio padre è morto”. L’ha conservato quel telegramma? “Il portafoglio me lo hanno rubato”. Impennata della pena di morte nel 2022: 883 persone uccise di Giovanna Branca Il Manifesto, 17 maggio 2023 Il rapporto di Amnesty International. 53% di esecuzioni in più rispetto all’anno precedente. I paesi peggiori sono l’Iran e l’Arabia Saudita. Nel 2022 c’è stata un’”impennata”, riporta Amnesty International, nel numero di esecuzioni capitali: 883, il 53% in più rispetto all’anno precedente e il numero più alto dal 2017, quando erano state 993. E senza tenere conto della Cina di cui i dati non vengono registrati dal 2009 perché, come nel caso di Corea del Nord e Vietnam, “segretezza e procedure statali restrittive hanno continuato a ostacolare una valutazione accurata sull’uso della pena di morte”. Il 90% delle condanne eseguite nel 2022 sono riconducibili a tre soli paesi: Egitto (che ha ucciso 24 persone), Arabia Saudita e Iran. Nella monarchia del Golfo le esecuzioni sono addirittura triplicate rispetto al 2021, passando da 65 a 196, mentre i sauditi hanno anche il triste primato di essere l’unico Paese ad aver eseguito le pene attraverso la decapitazione, e di aver ucciso in un solo giorno ben 81 persone. Il record negativo è però detenuto di gran lunga dall’Iran, dove “nella seconda parte dell’anno, nel disperato tentativo di stroncare le proteste popolari” sono state messe a morte “persone che avevano solo esercitato il loro diritto di protesta”, ha osservato la segretaria generale di Amnesty Agnès Callamard. E dove le esecuzioni nel 2022 sono aumentate dell’83% (da 314 a 576). La Repubblica islamica è inoltre presente in tutte le voci sull’applicazione della pena capitale in violazione del diritto internazionale. È il caso delle esecuzioni pubbliche, comminate per i commessi da persone ancora minorenni, con disabilità mentali (una violazione commessa anche dagli Stati uniti), emesse in seguito a “procedimenti penali non in linea con lo standard del giusto processo” e a confessioni estorte con la tortura. Infine, per crimini che non implicano l’omicidio volontario: dagli “atti contro lo stato” ai reati di droga. “Il numero delle persone messe a morte per reati di droga - evidenzia Amnesty - è più che raddoppiato rispetto al 2021”: il 37% del totale. Oltre che in Iran, in Arabia Saudita e Singapore. Esecuzioni in aumento anche negli Stati uniti, dove sono state 18: il 64% in più del 2021 (11). E riprendono in cinque stati, fra cui l’Afghanistan, Myanmar e Singapore. Il 2022 si è chiuso però anche con qualche buona notizia: duepaesi - Guinea Equatoriale e Zambia - hanno abolito la pena di morte per i reati ordinari. Altri quattro - Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone e Repubblica centrafricana - hanno detto addio al boia. Caso Assange: 25 ex diplomatici lanciano un appello per liberarlo Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2023 La malaugurata invasione dell’Iraq del 2003 ha provocato una serie di conseguenze negative e di gravi violazioni dei diritti umani di immediata percezione: iracheni torturati nelle celle di Abu Ghraib, rinchiusi illegalmente a Guantánamo, un Paese distrutto a tutto vantaggio dell’Iran. Ma anche episodi rimasti ignoti a lungo. Uno per tutti. Il 12 luglio 2007 un elicottero Apache in sorvolo su Baghdad scorge nella strada sottostante alcuni civili, tra cui un fotografo munito di telecamera; dall’elicottero la scambiano per un lanciarazzi e sparano a raffica su di loro. Giunge in soccorso un furgone e viene centrato anche quello: 11 morti tra cui due bimbi. Questo fatto sarebbe rimasto sepolto assieme alle sue vittime, se non l’avesse rivelato nel 2010 un giornalista australiano, Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, coadiuvato da Chelsea Manning, un soldatino transgender. Furono loro a impedire il “crimine del silenzio” sugli orrori delle tragedie irachena e afghana. Solo le dittature silenziano i media. Le vere democrazie trovano il coraggio di svelare “di che lagrime gronda e di che sangue” il Potere. E porvi rimedio. L’ha fatto il presidente Obama graziando Chelsea Manning, che era un militare con 35 anni di carcere da scontare. Perché non Biden per Assange, che è un giornalista? Eppure, da vice-presidente Biden aveva riconosciuto che le rivelazioni di WikiLeaks non avevano provocato “alcun danno sostanziale”. Ciò nonostante, Washington incriminò Assange con 17 capi d’accusa, basati su una legge antiquata - l’Espionage Act del 1917 - che poneva limiti alla stampa durante la Grande guerra. Rinchiuso per otto anni nella sede dell’Ecuador a Londra (per sfuggire oltretutto a una poco credibile accusa di stupro), ad aprile è scattato il suo quarto anno di reclusione a Belmarsh, carcere inglese di massima sicurezza, in attesa di esser estradato negli Usa. Le condizioni in cui vive ne hanno gravemente minato la salute. Perciò decine di parlamentari australiani, britannici e americani - oltre ad Amnesty International e Reporter Senza Frontiere - hanno rivolto petizioni all’Attorney General degli Usa e chiesto alla Corte Suprema del Regno Unito di negare l’estradizione. I diplomatici sono tra i primi a riconoscere quanto può nuocere la fuga di rapporti e altri documenti riservati. Ma se la “riservatezza” serve a celare crimini di guerra, prevale il dovere del funzionario di denunciarli e il diritto del giornalista di renderli pubblici, si tratti o no di scoop. Va ricordato che nel 2004, durante l’invasione dell’Iraq, 52 ex-diplomatici britannici e 27 ex-ambasciatori e generali americani di alto rango uscirono dal loro riserbo con due durissime lettere di critica a Blair e a Bush. Ora, noi ex-diplomatici ci uniamo ai parlamentari e alle organizzazioni umanitarie che hanno firmato appelli per la liberazione del giornalista, essendo convinti che le democrazie prosperano solo se hanno il coraggio di guardarsi allo specchio. A tal fine ci appelliamo al nostro governo affinché si unisca a tutti coloro che chiedono al presidente Biden di rinunciare a ogni azione contro Julian Assange, in coerenza con quanto fatto da Obama. Sottoscrivono: Francesco Bascone, Mario Boffo, Rocco Cangelosi, Torquato Cardilli, Giuseppe Cassini, Fabio Cristiani, Antonio D’andria, Anna Della Croce, Enrico De Maio, Patrizio Fondi, Paolo Foresti, Giovanni Germano, Elisabetta Kelescian, Maurizio Lo Re, Luigi Maccotta, Roberto Mazzotta, Enrico Nardi, Angelo Persiani, Alessandro Pietromarchi, Michelangelo Pipan, Giancarlo Riccio, Antonio Tarelli, Maurizio Teucci, Bernardo Uguccioni