I digiuni e il silenzio di Luigi Manconi La Stampa, 16 maggio 2023 Nell’arco di poche settimane, all’interno dello stesso carcere (quello di Augusta), sono morti due detenuti, uno italiano e uno russo, entrambi condannati all’ergastolo. Sono morti in ospedale dopo il rapido aggravarsi delle condizioni di salute. Il silenzio su quanto è accaduto all’interno del carcere è stato rotto solo dopo 15 giorni dal primo decesso, quando a morire è stato il secondo detenuto. In apparenza, non ci si dovrebbe stupire, dal momento che, dal 2018, nell’intero sistema penitenziario italiano, i decessi hanno oscillato tra i 140 e gli oltre 200 nel corso di ciascun anno. Ma ciò che costituisce una macabra anomalia è che i due detenuti di Augusta sono morti a seguito di uno sciopero della fame. Era già accaduto, sempre nel silenzio generale: nel 2009, Sami Mbarka Ben Gargi, dopo 18 giorni di digiuno nell’istituto di Pavia, perde 21 chili e muore in ospedale, dopo aver subito un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel 2012, Virgil Cristian Pop, di origine bulgara, recluso nel carcere di Lecce, perde la vita dopo 50 giorni di sciopero della fame. Nel 2018, Gabriele Milito, 75enne detenuto a Paola, in Calabria, dopo aver rifiutato il cibo per numerosi giorni, viene ricoverato e muore. Nel 2017, Salvatore Meloni, indipendentista sardo in carcere per reati fiscali politicamente motivati, perde la vita all’interno dell’istituto penitenziario di Uta (Cagliari), dopo 66 giorni di digiuno. Ancora: nel 2020, Carmelo Caminiti, detenuto a Messina, in attesa di giudizio e dopo la revoca degli arresti domiciliari, non assume né cibo né acqua per 60 giorni, fino a morirne. Nei mesi scorsi, il digiuno di Alfredo Cospito ha interessato una parte dell’opinione pubblica nazionale. Per tre ragioni: perché a digiunare era un detenuto anarchico; perché la sua azione è diventata tema di un aspro conflitto politico; perché al centro della protesta c’era la questione del 41-bis, un regime detentivo speciale, sconosciuto alla gran parte della cittadinanza. In chi osservava, anche senza una pregiudiziale ostilità, l’azione di Cospito, si intravedeva un singolare atteggiamento, a metà tra lo scetticismo proprio del carattere nazionale e la diffidenza verso tutte le posizioni di principio proposte come irriducibili. In altre parole, si pensava, comunque si troverà un compromesso e Cospito se la caverà in qualche modo. Eppure, non era assolutamente detto che le cose dovessero andare come poi sono andate. La conferma la si trova proprio nelle notizie provenienti da Augusta. Nel silenzio che le circonda, nell’apparente indifferenza dell’amministrazione penitenziaria. Come è potuto accadere che quest’ultima e, in particolare, il direttore di quel carcere, non abbiano lanciato l’allarme, non abbiano garantito un’informazione costante, non abbiano operato per evitare quell’esito tragico? Quale azione di dissuasione è stata messa in atto per impedire la perdita di altre due vite umane? Nordio annuncia i primi ddl e ignora la protesta dell’Anm sul caso Uss di Valentina Stella Il Dubbio, 16 maggio 2023 Il guardasigilli: misure pronte per il Consiglio dei ministri Nessuna replica allo stato d’agitazione indetto dai magistrati. Quando si analizza un discorso bisogna guardare a quello che contiene ma anche a quello che manca. E ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenendo ieri nell’antico tribunale partenopeo di Castel Capuano per la cerimonia di inaugurazione della terza sede della Scuola superiore della magistratura, ha evidenziato tre cose importanti ma ha dribblato un’altra questione che lo aveva investito proprio il giorno prima, in seguito alla riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Andiamo con ordine. Il guardasigilli innanzitutto ha annunciato: “La Scuola potrà diventare, ancora una volta, preziosa palestra di conoscenza anche per le riforme che nelle prossime settimane presenteremo: un primo pacchetto di provvedimenti, improntati a garantismo e pragmatismo, è pronto per essere sottoposto al Consiglio dei ministri e poi al dibattito parlamentare”. È la conferma dunque che entro giugno via Arenula presenterà finalmente, dopo molteplici annunci, un articolato normativo, probabilmente un ddl per ogni singolo tema in modo da non lasciare il destino di una materia legato a quello di un altro tema più problematico e divisivo. Comunque il primo pacchetto di provvedimenti dovrebbe contenere le misure di cui si parla da tempo: revisione di abuso d’ufficio e traffico d’influenze, nuove norme su intercettazioni, interrogatorio e informazione di garanzia, prescrizione e - se la verifica sugli organici delle Corti d’appello lo renderà praticabile - sulle misure cautelari. Nordio poi ha accennato al difficile bilanciamento tra domanda di giustizia, libertà di cronaca e presunzione di non colpevolezza: occorre “una giustizia capace di rispondere tempestivamente alle legittime domande di chi ha subìto le conseguenze di un reato e allo stesso tempo in grado di tutelare i diritti, e la reputazione, di chi, anche sotto indagine, è presunto innocente, nel bilanciamento con altri diritti costituzionalmente garantiti come la libertà di stampa”. Poi due passaggi importanti sull’esecuzione penale. Il primo: “È anche la storia di questo luogo a ricordarci come presunzione d’innocenza e certezza della pena siano, a mio avviso, due facce inscindibili del garantismo”. Una risposta indiretta forse ai due azionisti di maggioranza del governo, Fratelli d’Italia e Lega, i quali ripetono come un mantra che loro sono “garantisti nel processo ma giustizialisti dopo la sentenza definitiva di condanna”. Ha poi proseguito Nordio: “In questa duplice, convergente direzione intendono muoversi le riforme in cantiere, continuando a lavorare per superare una visione carcerocentrica della pena: la Costituzione parla di pena, non di carcere. E la pena talora può essere più efficace se espiata, per alcuni reati, attraverso misure e percorsi adatti ai profili, anche molto diversi, dei detenuti, e favorirne il reinserimento nella società dei liberi”. Sarà dunque abbandonata l’idea di usare le caserme dismesse per risolvere il problema del sovraffollamento? Ma ora volgiamo lo sguardo a cosa ci saremmo aspettati che il titolare della Giustizia dicesse, e che invece ha tenuto da parte. Sarà stata la sede istituzionale, sarà stata la preoccupazione che il confronto potesse ulteriormente inasprirsi, ma Nordio non ha dato alcuna risposta a quanto accaduto due giorni prima a Roma, ossia durante il “parlamentino” dell’Anm. Il “sindacato delle toghe” ha proclamato lo stato di agitazione, fino all’assemblea generale del prossimo 11 giugno, quando si potrebbe votare anche per un’astensione, sulla scorta di quanto avvenuto l’anno scorso con lo “sciopero” contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. Stavolta a complicare i rapporti tra Anm e via Arenula è la richiesta, rivolta dal ministro alla Procura generale della Cassazione, di esercitare l’azione disciplinare nei confronti dei giudici della Corte d’appello di Milano che hanno trattato la fase cautelare del procedimento per l’estradizione dell’imprenditore russo Artem Uss. L’addebito, come spiega la mozione dell’Anm, “è di aver applicato, in luogo della custodia in carcere, gli arresti domiciliari “rafforzati” con il braccialetto elettronico”. Oltre tre mesi dopo il provvedimento, Uss si è allontanato dagli arresti e dall’Italia e, dopo le proteste degli Usa, che ne avevano reclamato la consegna, “il ministro ha formulato l’addebito nei confronti dei magistrati milanesi, che avrebbero tenuto “un comportamento connotato da grave e inescusabile negligenza”. Secondo le toghe presiedute da Giuseppe Santalucia, “oggetto della “critica disciplinare” non può essere il merito del provvedimento: la norma del decreto 109/ 2006 che lo vieta non fa che declinare nel caso di specie il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura”. Lo stato di agitazione non rappresenta, dunque, “un vuoto proclama”, ma un invito collettivo alla riflessione che coinvolga “anche l’avvocatura, ben consapevole del rischio che corre l’indipendenza della magistratura, senza la quale la tutela dei diritti, specie dei più deboli, non potrà mai essere vera e completa”. Rispetto a tutto questo Nordio non ha detto nulla se non che “una magistratura autenticamente indipendente e autonoma è baluardo di ogni Stato democratico”, per poi aggiungere un passaggio non riportato nel testo ufficiale consegnato alla Scuola superiore della magistratura: “Le doti maggiori di un magistrato sono l’umiltà e il buonsenso, unici correttivi per mitigare il potere di cui dispongono”. Avrà voluto dire che l’errore, a suo parere, commesso nei confronti di Uss sarebbe dovuto essere affrontato con maggiore modestia senza alzare subito le barricate? Mattarella: “L’indipendenza delle toghe è patrimonio irrinunciabile. Prevenire il malcostume interno” di Dario del Porto e Conchita Sannino La Repubblica, 16 maggio 2023 Il Capo dello Stato Sergio Mattarella è a Castel Capuano per la cerimonia di inaugurazione della sede napoletana della Scuola della magistratura. Il presidente partecipa all’iniziativa aperta dagli interventi del presidente della Scuola, Giorgio Lattanzi, del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli e del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Mattarella ricorda la storia e il prestigio di Castel Capuano: “In questi ambienti si è affermata l’importante Scuola dei giuristi napoletani, che affonda le proprie radici nella prima università laica istituita, nel 1224 da Federico II, con lo scopo dichiarato di formare il gruppo dirigente necessario per il governo dello Stato”, sottolinea. Poi il Capo dello Stato lancia il suo monito per una giustizia più veloce ed agile. Come richiesto dall’impegno con l’Europa. “È indispensabile che il processo, sia civile che penale, divenga strumento più agile e moderno per perseguire adeguatamente gli obiettivi per i quali è predisposto. Occorre che Governo e Parlamento, Magistratura e avvocatura, si impegnino per conseguire questo risultato”. “Prevenire il malcostume interno” - Il presidente della Repubblica torna poi sul tema cruciale dell’etica della magistratura, dopo gli anni degli scandali e delle inchieste. Ricordando la necessità di “prevenire il malcostume”. “La Scuola Superiore, sin dalla sua istituzione, ha accompagnato i giudici ed i pubblici ministeri nella loro formazione iniziale e in quella permanente, avendo cura di elaborare percorsi di alta qualità, anche in tema di etica giudiziaria- evidenzia il presidente - La stessa Magistratura ha dimostrato, anche recentemente, di essere capace di agire - con determinazione e senza timidezza - nei confronti dei magistrati ritenuti responsabili di gravi reati nell’esercizio delle funzioni. Va doverosamente ricordato quanto sarebbe preferibile prevenire ogni forma di malcostume interno, attraverso un più attento esercizio dei compiti di vigilanza, evitando grave discredito che potrebbe ricadere sull’Ordine giudiziario e far dubitare dell’integrale espletamento dei doveri d’istituto”. La separazione dei poteri - Poi aggiunge: “La Costituzione definisce con puntualità l’ambito delle attribuzioni che sono affidate agli organi giudiziari, così come i compiti e le decisioni che appartengono, invece, ad altri organi, titolari di altri poteri. Questo riparto -ha concluso Mattarella- va rispettato”. Prima della cerimonia, accompagnato dal sindaco Gaetano Manfredi e dal governatore Vincenzo De Luca, il Capo dello Stato ha visitato la Biblioteca di Castelcapuano, dove è stato accolto dalla presidente Patrizia Intonti e dalla presidente dell’Ordine degli avvocati Titti Troianiello. Il nuovo procuratore di Napoli - In platea, i capi degli uffici giudiziari e i vertici delle forze dell’ordine. Alla vigilia, a Repubblica, il presidente distrettuale dell’Anm, Diego Ragozini, ha ricordato i gravi vuoti nell’organico dei magistrati in un distretto dove si attende da 12 mesi la nomina del nuovo capo della Procura di Napoli e di quella di Nola da quasi due anni. “Il Csm sta lavorando alacremente per dare a questo territorio il magistrato alla guida della Procura più grande d’Italia in tempi rapidi e comunque entro l’estate 2023”: è l’impegno che il vicepresidente dell’organo di autogoverno di giudici e pm, Fabio Pinelli, assume a Castel Capuano, davanti al Capo dello Stato (che è anche presidente del Csm) in occasione della cerimonia di inaugurazione della terza sede della Scuola della magistratura. Il vertice della Procura di Napoli, affidata alla reggenza della stimata e apprezzata vicaria Rosa Volpe, è vacante da un anno. Pinelli assicura che la pratica sarà definita rapidamente. I candidati sono cinque: oltre alla procuratrice Volpe, i capi delle Procure di Catanzaro, Nicola Gratteri, Bologna, Giuseppe Amato, Potenza, Francesco Curcio, Benevento, Aldo Policastro. Le riforme - Il ministro della Giustizia Carlo Nordio rilancia il tema delle riforme: “Nelle prossime settimane presenteremo un primo pacchetto di provvedimenti improntati a garantismo e pragmatismo che è pronto per essere sottoposto al Consiglio dei Ministri e poi al dibattito parlamentare”, dice e invita a superare la visione “carcero-centrica”, battendo suo tasti della presunzione di innocenza e della certezza della pena e di “una giustizia che non ha bisogno di essere esemplare, per funzionare. Piuttosto di essere efficace e giusta”. Nel suo intervento a Napoli, alla cerimonia di inaugurazione della terza sede delle Scuola della magistratura, il Guardasigilli ricorda la tradizione di Castel Capuano, “un luogo dove da secoli si perpetua la formazione di una comunità ampia di operatori del diritto” e sottolinea: “Questa la strada maestra per contribuire a consolidare l’essenziale fiducia dei cittadini nella giustizia e in chi la amministra, a cominciare da una magistratura autenticamente indipendente e autonoma, baluardo di ogni stato democratico”. Il ministro delinea una giustizia “capace di rispondere tempestivamente alle legittime domande di chi ha subi?to le conseguenze di un reato e allo stesso tempo in grado di tutelare i diritti - e la reputazione - di chi, anche sotto indagine, è presunto innocente, nel bilanciamento con altri diritti costituzionalmente garantiti come la libertà di stampa”. Concetti molto cari al ministro Nordio, che rimarca: “È anche la storia di questo luogo a ricordarci come presunzione di innocenza e certezza della pena siano, a mio avviso, due facce inscindibili del “garantismo”. E in “questa duplice, convergente direzione intendono muoversi le riforme in cantiere”, spiega, “continuando a lavorare per superare una visione carcero-centrica della pena: la Costituzione parla di pena, non di carcere. E la pena talora può essere più efficace se espiata- per alcuni reati - attraverso misure e percorsi adatti ai profili, anche molto diversi, dei detenuti e favorirne il reinserimento nella società dei liberi. Un’espiazione della pena certo molto diversa dai riti a volte umilianti che si ripetevano presso la “colonna infame” esposta all’epoca qui, davanti alla Gran Corte della Vicaria. Quella colonna è da tempo ospitata nel museo partenopeo di San Martino. Da appassionato di storia, mi piacerebbe rivederla di nuovo qui, dove faceva mostra di sé oltre 5 secoli fa, in questo antico - e complesso - quartiere di Napoli. Mattarella: “Magistrati, rispettate gli altri poteri” di Errico Novi Il Dubbio, 16 maggio 2023 Lezione del presidente della Repubblica a Castel Capuano, il “vecchio” tribunale di Napoli dove stamattina è stata inaugurata la nuova sede della Scuola superiore della magistratura. “Siete soggetti solo alla legge, che è opera di parlamentari eletti dal popolo…”. Un discorso breve. Ma intensissimo e severo. Tra i più densi che Sergio Mattarella abbia rivolto ai magistrati da quando è al Quirinale. Il Capo dello Stato parla a Napoli, nell’ex tribunale di Castel Capuano, di cui stamattina si è inaugurata una funzione che restituisce l’”antico maniero” a nuova vita: è la terza sede della Scuola superiore della magistratura. Dopo il presidente dell’istituzione che forma i giudici, Giorgio Lattanzi, dopo il guardasigilli Carlo Nordio e il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, interviene il presidente della Repubblica, con una “lezione” di grande significato su alcuni dei temi più delicati che riguardano la giustizia. Il Capo dello Stato richiama più volte il principio dell’”indipendenza” della magistratura ma anche i limiti della funzione giudiziaria, che, nel penale, deve provvedere all’”accertamento dei reati” senza lasciarsi sedurre dall’ambizione di accogliere “tutte le istanze”. Ci sono “rivendicazioni umanamente comprensibili” ma che possono trovare risposta nei “compiti” e nelle “decisioni” proprie di “altri organi, titolari di altri poteri”. E ancora, a questi altri poteri, che Mattarella non elenca ma che sono chiaramente il legislativo, l’esecutivo e la stessa presidenza della Repubblica, deve essere riconosciuto lo stesso “rispetto” che va assicurato alla “irrinunziabile indipendenza della funzione giudiziaria”. Interpretare può essere arbitrario. Ma è difficile non cogliere, in un discorso del genere, un nesso con vicende come l’indagine sulla gestione della pandemia condotta a Bergamo o il processo sulla “trattativa” Stato-mafia, segnato dall’ambizione spasmodica di rispondere appunto a istanze di verità per le quali poteva essere più adeguata una commissione parlamentare d’inchiesta anziché la giustizia penale. I magistrati rispettino la “separazione dei poteri”: è questo il messaggio. Ancora, Mattarella si sofferma sulla necessità di “agire con determinazione”, come l’ordine giudiziario ha dimostrato di saper fare, “nei confronti dei magistrati ritenuti responsabili di gravi reati nell’esercizio delle funzioni”. Ma meglio sarebbe “prevenire ogni forma di malcostume interno”, con una più attenta “vigilanza”. Solo così si evita il discredito della magistratura. Ma è il richiamo ai limiti della funzione giudiziaria il senso ultimo della lezione. Colpisce davvero il discorso di Mattarella, che ha il respiro della pacificazione e del riequilibrio, del riscatto possibile per la magistratura non nella pretesa di ritrovare la primazia acquisita, a partire da Mani pulire, per la crisi dei partiti, ma con un ritorno al corretto confine tra i poteri, un riadattarsi delle toghe ai loro limiti. Il che, è il messaggio sottile ma intelligentissimo che la massima carica dello Stato intende veicolare, conferirebbe all’ordine giudiziario proprio quella forza e quella credibilità che si fa fatica a ritrovare. A ben guardare l’intero discorso nel Salone dei Busti di Castel Capuano è ispirato alla necessità di ristabilire la giusta separazione fra i poteri, e anche un qualche doveroso ossequio - non formale ma certamente ideale - alla “funzione legislativa” in quanto immediata espressione della “sovranità popolare”. Se è solo nella “legge” che l’autorità del magistrato può legittimarsi, non si può dimenticare, ricorda il presidente della Repubblica, che la funzione legislativa” è propria di “parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili”. È come se la legge, dunque, fosse lo snodo che lega l’azione del magistrato con gli altri poteri, con il Parlamento in particolare, e che così sancisce l’inderogabilità di quel rispetto tra funzioni dello Stato e anche il loro necessario riparto. Ecco, è in questo quadro che si colloca l’indipendenza della magistratura: come qualità di chi interpreta le norme senza travalicare quel compito, tanto da assumere l’indebito esercizio di funzioni “creative”. Altro puntuale richiamo ai limiti della funzione giudiziaria, che un presidente della Repubblica rigoroso nel riconoscere l’altezza del compito assegnato alla magistratura tiene a rivolgere con una severità mai così evidente. D’altronde si parte da qui, dal riconoscimento della legge e della sua “effettiva portata”, priva di venature creative appunto, per arrivare al monito forse decisivo: la necessità di evitare che il processo venga destinato a “finalità diverse”, che sarebbero di fatto politiche. Prima, Mattarella ricorda come “talvolta le istanze di tutela dei diritti presentate alla magistratura” assumano “connotazioni nuove e inedite, rispetto alle quali risulta difficile rinvenire una puntuale e chiara disciplina”: questo può dipendere, certo, da “alcuni ritardi del legislatore”. Ma persino in questi casi le soluzioni che il giudice può trovare devono restare ancorate al “diritto positivo”. E se nella giustizia in generale è impensabile la “pretesa” eventuale di qualche magistrato di creare nuove leggi, allo stesso modo, nel penale, “le responsabilità individuali vanno giudicate con precisione e senza alcun condizionamento”. Il pm e il giudice devono limitarsi all’”accertamento dei reati”. Perché appunto “il processo non può essere utilizzato per finalità diverse, che ne stravolgerebbero il ruolo, mettendo gravemente a rischio la fondamentale separazione dei poteri”. Prima della cerimonia inaugurale, Mattarella restituisce una solennità anche istituzionale, capace di sommarsi allo splendore che promana dagli stessi luoghi, alla biblioteca di Castel Capuano. Il Capo dello Stato osserva l’altissima volta affollata di “cinquecentine” e volumi preziosi e pronuncia una semplice esclamazione: “Uno spettacolo”. Gli si avvicina Antonella Ciriello, vicepresidente della Scuola superiore della magistratura, incaricata di fargli da guida: gli segnala, tra l’altro, come la biblioteca sia nata grazie ai libri donati dagli avvocati. “Vi affidiamo i compagni preziosi del nostro lavoro”, recita la lapide. “L’ha dettata il suo collega Enrico De Nicola”, puntualizza Ciriello. Ci sono gli avvocati e la loro secolare tradizione, a incorniciare una giornata importante per i rapporti fra i magistrati e gli altri poteri. Giusto che sia così, giusto che tutto avvenga a Napoli, che del diritto è una vera capitale. Neanche Nordio riesce a dire “basta” ai magistrati fuori ruolo di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 maggio 2023 Il ministro della Giustizia ha fatto piazza pulita delle toghe di sinistra che occupavano posizioni di potere a via Arenula, sostituendole però con altri magistrati. L’ultima nomina è quella di Rosa Sinisi, coinvolta nel caso Palamara. Il ministero della Giustizia resta terra di conquista dei magistrati fuori ruolo. I vertici di via Arenula hanno fatto sapere nei giorni scorsi di aver predisposto un emendamento governativo al decreto legge assunzioni che prevede per i prossimi tre anni di redistribuire in modo parzialmente differente il totale dei magistrati già fuori ruolo, riducendo di dieci unità quelli assegnati ad altre amministrazioni a favore del ministero della Giustizia, in modo da favorire il raggiungimento degli obiettivi prioritari del Pnrr. Fonti del ministero guidato da Carlo Nordio hanno comunque confermato la futura riduzione del numero complessivo dei magistrati fuori ruolo: dall’attuale soglia dei 200 in totale (65 al ministero di via Arenula, gli altri dislocati in altre amministrazioni) si passerebbe a 180 dal 2027. Cioè un taglio di soltanto venti unità. Non proprio il radicale cambiamento che ci si sarebbe aspettati da un esecutivo di centrodestra. La stessa maggioranza, lo scorso dicembre, aveva votato alla Camera in favore di un ordine del giorno presentato dal Terzo polo che impegnava il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. Una volta insediatosi al ministero della Giustizia, Carlo Nordio ha fatto piazza pulita delle toghe di sinistra che occupavano le posizioni di potere a via Arenula, sostituendole però pur sempre con altri magistrati, di estrazione più conservatrice: capo e vicecapo di gabinetto (Alberto Rizzo e Giusi Bartolozzi), capo dell’ufficio legislativo (Antonello Mura), capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Giovanni Russo), capo del Dipartimento degli affari di giustizia (Luigi Birritteri). Come se questi incarichi non possano essere affidati a personalità diverse dai magistrati, come giuristi, docenti universitari, avvocati ed esperti interni all’amministrazione ministeriale (evitando così commistioni tra il potere politico e quello giudiziario). L’ultima nomina è arrivata una decina di giorni fa: il Consiglio superiore della magistratura ha infatti approvato (con 14 voti favorevoli, nove contrari e sette astenuti) l’autorizzazione all’incarico fuori ruolo per Rosa Patrizia Sinisi, presidente della corte d’appello di Potenza, scelta da Nordio come vicecapo del Dog (Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria). Il via libera alla nomina ha creato una profonda spaccatura all’interno del Csm in virtù del coinvolgimento della giudice (appartenente alla corrente di Unicost) nelle ormai celebri chat di Luca Palamara. Dai messaggi, è emerso che Sinisi, “legata a Palamara da ragioni di militanza associativa, aveva in più occasioni interloquito con il medesimo sulle procedure di conferimento di incarichi, rivendicando addirittura in un caso ‘l’appartenenza’ del posto al gruppo di Unicost”. Nonostante ciò, la giudice non subì alcun procedimento disciplinare (grazie all’amnistia decisa dall’allora procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi), né un trasferimento per incompatibilità ambientale, pur in presenza di condotte “inopportune” e capaci di “determinare una ricaduta negativa sull’immagine di imparzialità e indipendenza” della magistratura. A schierarsi, invano, al Csm contro la nomina di Sinisi è stato soprattutto il togato indipendente Andrea Mirenda, che, al di là del caso specifico, al Foglio dichiara: “I magistrati devono fare i magistrati. Il ministero si doti di un proprio apparato burocratico di esperti. Quando servono le esperienze dei magistrati è sufficiente chiamarli ad horas oppure costituire specifiche commissioni, senza mandarli fuori ruolo”. “In questo modo si garantisce anche la separazione dei poteri, anziché un sistema di porte scorrevoli particolarmente ambito per poi ottenere posti dirigenziali”, conclude Mirenda. Patrocinio a spese dello Stato, ritoccati i limiti di reddito di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 maggio 2023 Nello scorso fine settimana il ministero della Giustizia ha comunicato l’adeguamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Una misura resa necessaria dall’incremento dell’inflazione verificatosi tra il 2020 e il 2022. L’intervento è contenuto in un decreto interdirigenziale del Capo dipartimento degli Affari di Giustizia del 10 maggio scorso. Cosa cambia nello specifico? Per accedere al patrocinio a spese dello Stato il nuovo limite di reddito è stato portato a 12.838,01 euro, giustificato dall’aumento del costo della vita rilevato dall’Istat nel biennio 1 luglio 2020- 30 giugno 2022 pari al 9,4%. “Si è reso necessario - si legge in una nota del ministero della Giustizia, pubblicata domenica scorsa - un nuovo intervento a breve distanza dal precedente decreto del 3 febbraio 2023, in quanto quest’ultimo faceva riferimento alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per il periodo dal 1° luglio 2018 al 30 giugno 2020. Il nuovo limite di reddito per l’ammissione al gratuito patrocinio diventerà operativo con la pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale”. Immediata la reazione dell’avvocatura. L’aggiornamento sui parametri del gratuito patrocinio è considerato dal presidente del Cnf, Francesco Greco, “il frutto di un costante e produttivo dialogo con il ministero della Giustizia. Il Consiglio nazionale forense - evidenzia Greco - prende atto e apprezza il tenore del comunicato pubblicato dal ministero della Giustizia, di intervenire con decreto interdirigenziale del 10 maggio 2023, pubblicato dal Capo dipartimento degli Affari di Giustizia di concerto con il Ragioniere generale dello Stato, ai sensi dell’articolo 77 del d. P. R. 30 maggio 2002, n. 115, per adeguare il limite di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato a 12.838,01 euro, così tenendo conto del maggior costo della vita rilevato dall’Istat”. Il provvedimento, secondo il presidente del Cnf, va nella giusta direzione e ha tenuto conto delle indicazioni espresse da via Del Governo Vecchio. “Il precedente provvedimento - aggiunge Greco - adottato il con il D. M. pubblicato in Gazzetta il 21 aprile 2023, comportava una forte penalizzazione per i cittadini meno abbienti, i quali vedevano ridotta la possibilità di accedere alla giustizia in un momento di grande difficoltà economica per i contingenti problemi economici che il Paese intero sta attraversando. Il Cnf, con una delibera votata dal plenum degli avvocati il 5 maggio scorso, aveva sollecitato il ministro della Giustizia ad intervenire immediatamente, per rivedere i limiti economici per l’accesso al gratuito patrocinio, tenendo conto del tasso di inflazione, pari al 9,4 per cento”. La soddisfazione dell’avvocatura istituzionale deriva pure dalla costruttiva interlocuzione posta in essere. “La revisione dei parametri economici per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato - conclude il presidente del Cnf - frutto di un costante e produttivo dialogo con il ministero della Giustizia, rappresenta un principio fondamentale di equità e di giustizia sociale, che restituisce a tutti i cittadini, senza discriminazione economica, il diritto alla tutela dei diritti”. L’adeguamento dei nuovi limiti di reddito, effettuato dal ministero della Giustizia, deriva altresì da un lungo lavoro in Parlamento. Protagonista Devis Dori, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in Commissione Giustizia della Camera. “Dopo il mio question time in Commissione a marzo - dice Dori -, che smosse le acque, apprendiamo con viva soddisfazione che il ministero Giustizia di fatto ammette l’errore nel calcolo dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e annuncia l’adeguamento al biennio 2020- 2022, anziché al biennio precedente, come invece mi aveva risposto il ministero. Una vittoria sia del nostro gruppo parlamentare sia di tutta l’avvocatura, che ha supportato la mia battaglia, in particolare Movimento Forense. Avevo da subito iniziato a sollecitare il governo, affinché rivedesse la sua posizione e l’accoglimento dimostra la bontà del nostro lavoro. In questo modo saranno inclusi un milione di cittadini in più nel regime del gratuito patrocinio, in un momento di grave difficoltà economica soprattutto per le fasce più deboli”. Positivo il commento dell’Organismo congressuale forense. “In una situazione di grave crisi economica, come quella che stiamo vivendo - afferma il coordinatore dell’Ocf, Mario Scialla -, è certamente apprezzabile che un istituto fondamentale, come il patrocinio in favore dei non abbienti, che costituisce una eccellenza del nostro ordinamento giuridico, non sia stato ridotto nella sua portata, ma aggiornato e reso più efficace nella sua applicazione. L’alternativa sarebbe stata quella di precludere, ad oltre un milione di cittadini, l’accesso alla giustizia, in mancanza di idonea capacità economica. È importante, quindi, che le iniziative immediatamente adottate dall’Organismo congressuale forense, in un suo documento approvato nelle precedenti assemblee e ribadito in una recente nota congiunta con il Cnf, abbiano colto nel segno, trovando corrispondenza e comprensione nella politica”. Sulla vicenda intervengono infine i presidenti facenti funzioni di Movimento forense, Alberto Vigani ed Elisa Demma: “Mf è stato il primo a credere in questa battaglia, che è stata, prima di tutto, una battaglia di giustizia sociale, portata avanti con tenacia e forza da un’associazione forense e condivisa dalle istituzioni, a dimostrazione che l’unione fa la forza e che l’avvocatura, se unita, è baluardo della tutela dei diritti”. Giustizia: la Cassazione “a targhe alterne” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 maggio 2023 Aspettare le sentenze di Cassazione è sempre saggio, a condizione però di non farle poi diventare valide solo a seconda di quanto fanno comodo. “Aspettiamo le sentenze”, promettono tutti solennemente ogni volta che inizia una indagine. “Le sentenze si rispettano ma aspettiamo il vaglio della Cassazione”, proclamano tutti appena arrivano i primi verdetti di merito magari sgraditi. Poi, però, quando arriva davvero la Cassazione, fanno tutti finta che non esista. Come da giorni ormai nell’acceso confronto tra fautori e detrattori del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Gli uni impegnati ad arrampicarsi sugli specchi per non dover prendere atto che l’insistita valorizzazione dei preferiti stralci della condanna di primo grado, e della pur già in parte assolutoria sentenza di secondo grado, è anche fattualmente incompatibile con il contenuto dell’assoluzione di Cassazione per “non aver commesso il fatto”. Gli altri invece strabici nello sventolare in faccia a una serie di magistrati e giornalisti quella Cassazione improvvisamente scoperta come imprescindibile metro di giudizio di ogni iniziativa processuale, ma contraddittoriamente ignorata e persino irrisa quando - persino nelle stesse ore - emette invece verdetti magari non graditi, che imporrebbero alla politica la medesima rivisitazione autocritica richiesta adesso a toghe e penne. Appena il giorno prima della decisione sul processo “trattativa Stato-mafia”, ad esempio, proprio una sentenza di Cassazione ha definitivamente stabilito che la camorra per anni ha avuto al governo un sottosegretario al Ministero dell’Economia (l’ex deputato Nicola Cosentino, 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Cosi come un centesimo dell’attenzione riservata alle frequentazioni femminili del boss Matteo Messina Denaro è stato dato, quasi in contemporanea all’ arresto, alla sentenza di Cassazione che ha sancito che per anni la mafia (peraltro proprio l’ala di Messina Denaro) ha avuto al governo un sottosegretario al Ministero dell’Interno (l’ex senatore Antonio D’Alì, 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). E mai negli anni scorsi si erano sentiti gli odierni fans della Cassazione inneggiare alla Suprema Corte (e quindi ai magistrati che avevano istruito quei processi o ai giornalisti che li avevano raccontati) quando sentenze definitive avevano mostrato che a patti con Cosa Nostra era venuto proprio uno degli invece odierni assolti nel processo “trattativa” (il cofondatore di Forza Italia, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa), o che un presidente della Regione Sicilia aveva aiutato la mafia (l’ex senatore Totò Cuffaro, 7 anni per favoreggiamento aggravato e rivelazione di segreto), o che un sindaco di Roma aveva accettato un finanziamento illecito e commesso un traffico di influenze illecite (l’ex deputato e ministro Gianni Alemanno, 1 anno e 10 mesi); o che si è avuto un ministro della Difesa pagatore di magistrati (l’ex senatore Cesare Previti, 6 anni per corruzione in atti giudiziari), per non parlare di un evasore fiscale presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi, 4 anni per frode fiscale), e di un intero partito al quale sempre la Cassazione ha confiscato 49 milioni di euro (la Lega per truffa sui rendiconti parlamentari dei rimborsi elettorali). Aspettare le sentenze di Cassazione è sempre saggio, a condizione però di non farle poi diventare come le targhe automobilistiche: valide solo “alterne”, a seconda di quanto fanno comodo. Como: Muore suicida un detenuto di 26 anni di Riccardo Arena* Ristretti Orizzonti, 16 maggio 2023 Una persona detenuta è morta in ospedale giovedì 11 dopo che il 24 aprile aveva tentato di impiccarsi nel carcere Bassone di Como. Il suo nome era Babacar Mbengue, era di nazionalità Senegalese e aveva 26 anni. Da quanto abbiamo appreso sembra che Babacar si sia impiccato nel reparto di infermeria utilizzando una camicia e sembra anche che soffrisse di problemi psichiatrici. È anche bene precisare che abbiamo avuto notizia di questo ennesimo suicidio grazie all’avv. Massimo Auditore, che è il legale della famiglia, e che ci ha telefonato per informarci. E a questo punto la domanda sorge spontanea: quante morti, quanti suicidi accadono nelle carceri che restano nascoste dal silenzio? Sta di fatto che sale così a 23 il numero delle persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno per un totale, tra decessi per malattia e suicidi, di ben 55 persone detenute che hanno perso la vita nei primi 5 mesi del 2023. *Direttore di Radio Carcere Sassari. Detenuto 41bis da 75 giorni in sciopero della fame nel disinteresse di media e istituzioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2023 I legali di Domenico Porcelli, Maria Teresa Pintus e Livia Lauria, hanno presentato reclamo per l’annullamento del decreto prorogato dall’attuale ministro della Giustizia, ritenuto illegittimo. Da oltre due mesi è in sciopero della fame Domenico Porcelli, detenuto in custodia cautelare al 41bis nel carcere sardo di Bancali. Ha 49 anni e ha deciso, come altri ristretti che però sono nel frattempo morti, di seguire la strada dell’anarchico Alfredo Cospito. Il motivo della sua protesta è stata la proroga del regime speciale che considera priva di presupposti. Le sue legali, Maria Teresa Pintus e Livia Lauria, hanno già presentato reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma per chiedere l’annullamento del decreto di 41 bis prorogato dall’attuale ministro della Giustizia. Come riferisce a Il Dubbio l’avvocata Pintus del foro di Sassari, Porcelli ha iniziato uno sciopero della fame il 28 febbraio 2023 per far sentire la sua voce e attirare l’attenzione sulla sua difficile situazione. Durante questo periodo, ha perso ben 13 kg di peso, segno tangibile del suo impegno e della sua determinazione. Tuttavia, la sua condizione è andata deteriorandosi nel corso delle settimane. A causa delle sue condizioni precarie, Porcelli ha dovuto affidarsi alle flebo per mantenere un minimo di forza. Ma purtroppo, da due sabati a questa parte, l’avvocata Pintus denuncia che gli sarebbe stato negato questo supporto vitale. Questo ha reso la sua situazione ancora più difficile e ha messo in luce una mancanza di attenzione nei confronti del suo diritto alla salute. Durante il suo sciopero, Porcelli ha manifestato disestesie alla mano destra e dolore all’avambraccio destro. Fortunatamente, questi sintomi sembrano essere spariti nel corso del tempo. Tuttavia, il dolore persiste al piede. Ma la sua vicenda, come quella dei due detenuti morti recentemente nel carcere siciliano di Augusta, non risulta attenzionata da nessun parlamentare, né tantomeno dal ministero della Giustizia, nonostante i numerosi solleciti. Della vicenda è stato attenzionato anche il garante nazionale delle persone private della libertà. L’avvocata Pintus chiosa a Il Dubbio: “Esistono detenuti di serie A e detenuti di serie B anche all’interno del regime detentivo speciale del 41 bis, ma il diritto alla salute non è garantito per nessuno!”. Va detto che Porcelli si trova attualmente in custodia cautelare, avendo subito una condanna di primo grado lo scorso giugno a 26 anni e mezzo di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma la proroga del 41 bis nei suoi confronti è legittima o no? Il reclamo per chiedere l’annullamento presenta delle argomentazioni interessanti. L’applicazione e il rinnovamento del regime detentivo speciale del 41 bis comportano la sospensione di alcune normali regole di trattamento e istituti previsti dall’ordinamento penitenziario. Questo regime richiede che la presunta pericolosità del detenuto sia dimostrata come attuale, concreta e tale da giustificare la violazione delle garanzie costituzionali e penitenziarie. Tuttavia, nel caso di Porcelli, ricordiamo attualmente in custodia cautelare e sottoposto a tale regime, non è mai stato dimostrato che abbia ripreso i contatti con alcuna organizzazione criminale. Inoltre, nel frattempo non sono emerse nuove emergenze investigative che potessero confermare l’originaria valutazione sulla sua pericolosità elevata. Questo dato è di estrema importanza, poiché la sottoposizione al cosiddetto “carcere duro” comporta una totale trasparenza dei rapporti del detenuto con l’esterno, attraverso la registrazione video e audio dei colloqui con i familiari e la censura della corrispondenza in entrata e in uscita. Se è vero che, negli ultimi anni di detenzione, Porcelli non ha mai subito censure durante i colloqui con i familiari, lo stesso non si può dire per il diritto all’informazione e alla cultura. Il 41 bis impone il divieto per il detenuto di leggere i giornali della sua regione di appartenenza e, purtroppo, anche la censura della corrispondenza e dei mezzi di integrazione culturale, come tv, radio, libri e giornali. Per quanto riguarda quest’ultimi, l’addetto alla censura deve verificare il contenuto degli articoli di giornale presenti nei quotidiani mensili o settimanali e, se ritiene che la lettura sia “sconveniente” per il detenuto, sottoporla alla valutazione del Magistrato di Sorveglianza competente. Secondo il reclamo, nonostante la logica e la chiara giurisprudenza in merito, il Ministro non avrebbe compiuto lo sforzo richiesto in relazione ai parametri previsti dal 41 bis e ha prorogato la misura nei confronti di Porcelli. Tuttavia, l’analisi puntuale dei parametri normativi pertinenti porta a insistere per la revoca di tale provvedimento. Il tempo trascorso sotto il regime di 41 bis, nel caso specifico, è solo uno degli elementi su cui si basa la richiesta di revoca. La motivazione fornita per la proroga del regime detentivo speciale, secondo i legali di Porcelli, sarebbe illegittima e meriterebbe una severa censura, specialmente alla luce della recentissima giurisprudenza di legittimità. Tale giurisprudenza ha sottolineato che ogni provvedimento di proroga deve contenere una motivazione specifica e autonoma sulla persistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza, senza utilizzare formule stereotipate che giustifichino automatismi inammissibili o basarsi su giudizi presuntivi. Secondo il reclamo, il decreto impugnato non ha indicato alcun elemento recente che possa dimostrare l’attualità dei collegamenti del detenuto con l’organizzazione criminale, né la sua capacità di mantenere legami associativi all’interno dell’ambiente carcerario. Pertanto, alla luce dei principi derivanti dalle norme di diritto, dalla giurisprudenza e dall’interpretazione dottrinale, per gli avvocati si deve concludere che il decreto ministeriale oggetto del reclamo è illegittimo e deve essere disapplicato poiché è stato emesso in violazione di legge, mancando i presupposti per la sua applicazione. È essenziale sottolineare che il regime del 41 bis è una misura eccezionale che richiede una rigorosa valutazione della pericolosità del detenuto e una giustificazione chiara e motivata per la violazione delle normali garanzie costituzionali e penitenziarie. Non può essere utilizzato in maniera arbitraria o come strumento punitivo senza una valida base giuridica. La difesa di Porcelli ha cercato di dimostrare che non esistono elementi concreti che giustifichino la sua permanenza sotto questo regime restrittivo. La mancanza di contatti con l’ambiente criminale e l’assenza di nuove emergenze investigative ne testimonierebbero la situazione attuale. Pertanto, la richiesta di revoca del regime del 41 bis per Porcelli si basa su elementi importanti. E ancora una volta, si riaccende il focus su un regime speciale approvato sull’onda emotiva delle stragi, soprattutto dopo quella di Via D’Amelio. Misura nata in un contesto emergenziale, quando la mafia di Riina aveva deciso di fare una guerra allo Stato. L’ha persa, tutti gli stragisti sono stati arrestati. Sono passati più di 30 anni, la mafia ha scelto da tempo la “sommersione”. Ma il 41 bis rimane intatto. Usato anche come strumento preventivo nel caso di Porcelli. Sassari. Senza cibo come Cospito. “Ma nessuno viene a trovarmi” di Giuseppe Legato La Stampa, 16 maggio 2023 L’etichetta del “nuovo Cospito”, si materializza ogni giorno che passa. E anche se i reati per cui è detenuto sono diversi da quelli dell’ideologo della Federazione anarchica informale, la storia di Domenico Porcelli, 49 anni, originario di Bitonto (Bari), condannato in primo grado a 26 anni di carcere per associazione mafiosa, ricalca quella dell’uomo che col suo sciopero della fame, per mesi, ha aperto un fronte sul 41 bis e sulle sue ombre. Da 84 giorni rifiuta il cibo che gli agenti del supercarcere di Bancali a Sassari destinano quotidianamente ai detenuti in regime speciale: “É dimagrito 14 kg racconta la sua legale Maria Teresa Pintus (che ha già assistito anche Cospito nel periodo di detenzione nel penitenziario sardo) - hanno già dovuto iniziare a fare flebo che però da qualche giorno sono interrotte per sua stessa richiesta e determinata volontà. Sono comparse delle forme di disestesia alla mano destra e dolori all’avambraccio destro”. Porcelli è un presunto boss della mafia metapontina: Scansano, Tursi, Policoro, una lingua di mare Jonio incastrata tra la Calabria e la Puglia sulla statale 106 che collega Reggio Calabria a Taranto sulla quale si è abbattuta una sentenza di primo grado definita storica dagli investigatori: la prima per 416 bis in Basilicata. Ristretto in custodia cautelare perché non vi è ancora una condanna definitiva a suo carico. Per questa - e non vi è certo automatismo - mancano ancora due gradi di giudizio. “Inaccettabile” per il suo legale. Che rimarca come “nessun parlamentare ha sentito il bisogno di interloquire con lui né tantomeno il ministro della giustizia che è stato più volte sollecitato mentre il garante nazionale ha inviato una risposta scritta a me, ma non è mai andato a trovarlo in questi mesi di sciopero della fame”. Una sorta di “Cospito di serie B”. Porcelli è detenuto dal 2018 ha già trascorso più di 4 anni in regime di carcere duro, da pochi mesi il provvedimento - come da protocollo - è stato prorogato. Nelle relazioni depositate a supporto della decisione “si parla di telefonini e computer in suo possesso”. Ma - ribatte la legale già difensore (tra gli altri) di Alfredo Cospito - non sarebbero mai stati svolte indagini approfondite sul caso”. E poi nella zona di influenza del boss tra i vertici del cosiddetto “clan Schettino” (un ex carabiniere condannato a 25 anni e mezzo di cui Porcelli è ritenuto luogotenente) sarebbero successe cose strane negli ultimi tempi: incendi, atti intimidatori che qualificherebbero la pericolosità sociale del detenuto. “Il mio assistito - racconta la legale Pintus - non c’entra con questa storia e pare che la radice di essa sia in motivi privati di un uomo mai collegato al presunto clan. Milano. Perché Nordio dovrebbe occuparsi di più del carcere minorile “Beccaria” di Ilaria Quattrone fanpage.it, 16 maggio 2023 “Se non verrà trovato un direttore stabile, è difficile che al Beccaria la situazione possa migliorare”: è quanto ha detto Franco Mirabelli, senatore del partito Democratico che ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere al ministro della Giustizia di porre fine alle numerose criticità. Da carcere modello a emblema dell’abbandono: è così che è stato apostrofato, nell’ultimo anno, l’istituto minorile di Milano Cesare Beccaria. Un’attribuzione alimentata da episodi tremendi come le torture su un sedicenne da parte di altri coetanei, l’evasione di sette giovani durante il periodo natalizio e infine il report del Garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto, che ha raccontato di alcuni ragazzi costretti a mangiare con il vassoio sulle ginocchia perché non ci sarebbero tavoli a sufficienza. Criticità alle quali si aggiungono: la carenza di educatori e agenti di polizia penitenziaria, l’assenza di un direttore stabile e gli interminabili lavori di ristrutturazione. Problemi che hanno portato il Partito democratico a presentare un’interrogazione parlamentare in cui si chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio quali iniziative intende intraprendere per porre fine “alle numerose criticità dell’Istituto minorile Beccaria di Milano”. Il primo firmatario è il senatore Franco Mirabelli che a Fanpage.it ha spiegato come il Beccaria sia ormai al collasso. Nonostante nell’ultimo anno al Beccaria siano avvenuti episodi molto violenti, sembra che non ci sia attenzione da parte delle Istituzioni. La politica si occupa abbastanza dei minori? Al di là dei singoli episodi, la vicenda del carcere Beccaria è in qualche modo emblematica. Attorno a questo istituto ci sono tantissime iniziative e risorse della società civile che hanno contribuito in questi anni a mettere in campo progetti importanti e di accesso al lavoro. C’è stata anche l’apertura e la ristrutturazione all’esterno del teatro. A fronte di tutto ciò, da quasi dieci anni, il Beccaria non ha una direzione stabile. Continuano ad avvicendarsi direttori di altri carceri con mandati temporanei. A questo si aggiunge, la nota vicenda della ristrutturazione di un’intera area dell’Istituto che ormai dura anch’essa da molti anni: prima si sono interrotti i lavori perché è fallita l’azienda che li stava facendo e ancora vari ritardi che hanno allungato i tempi di consegna. Questa questione ha comportato anch’essa grandi problemi di gestione. Speriamo che veramente manchino pochi giorni all’apertura della nuova ala. Sarebbe necessario investire maggiormente sul reinserimento nella società dei ragazzi e soprattutto, considerati i problemi di questo istituto, non sarebbe fondamentale investire anche sulla prevenzione per evitare che i ragazzi entrano negli istituti penitenziari? Sì, io penso che il carcere debba essere considerato sempre un’extrema ratio ancora di più per i minorenni. A questo si aggiunge un altro problema: la carenza di personale. E questo vale sia per il personale che si occupa della realizzazione di progetti quindi di assistenti per i ragazzi sia per gli agenti di custodia che, appena arrivano, chiedono subito il trasferimento. Come ha certificato il garante per i diritti dei detenuti, Francesco Maisto, l’assenza di una continuità di azione porta con sé, al di là della carenza, una continua rotazione del personale assunto. C’è anche un altro tema: mancano posti all’interno di comunità che possano accogliere minori. Bisognerebbe investire anche su questo aspetto? Sì, certamente. Ci stiamo occupando anche di questa materia. La riforma sulla giustizia Cartabia, per esempio, prevede di investire sul personale per facilitare l’utilizzo di pene alternative al carcere. Penso che questo tema ci sia. È anche vero però che relativamente all’istituto Beccaria il punto non è se ci sono o meno comunità disponibili ad accogliere i ragazzi. Il punto è che non ci sono comunità disposte ad accogliere ragazzi problematici. Questo fa sì che si alimenti il rischio che all’interno dell’istituto si concentrino solo le storie più dure e difficili da gestire. Dopo l’interrogazione, prevedete una visita al carcere Beccaria? Sì. Noi siamo in contatto quotidiano con alcuni persone che lavorano in carcere. Siamo in contatto con la compagnia teatrale o ancora con Don Gino Rigoldi. Questo ci consente di valutare di volta in volta la situazione. Quello che è certo è che possiamo tranquillamente trovare nell’assenza di una direzione stabile un problema che deve essere risolto altrimenti sarà difficile migliorare la situazione. Verona. L’europarlamentare Borchia e il sottosegretario Ostellari visitano il carcere di Montorio giornaleadige.it, 16 maggio 2023 Oggi l’eurodeputato veronese Paolo Borchia insieme al sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti senatore Andrea Ostellari ha fatto un’ispezione al Carcere di Montorio che, come altre case circondariali, è sovraffollato. Borchia ha osservato che “l’obiettivo delle strutture detentive non può e non deve essere solo punitivo ma anche correttivo, mirando al pieno reinserimento dei detenuti nella società. Un obiettivo che, però, non può di certo essere perseguito in strutture sovraffollate e sottodimensionate. Grazie anche al lavoro della Lega al governo, le carceri puntano ad essere sempre più funzionali alle esigenze delle nostre città e degli operatori che ogni giorno lavorano con impegno e abnegazione nelle strutture dei territori”. Il vero problema delle carceri è che sono state concepite e costruite per contenere i detenuti italiani. Con l’immigrazione la situazione è radicalmente cambiata per il semplice fatto che il 34% dei reati sono compiuti da stranieri. Si dirà: beh, mica tanto! Vuol dire che il restante 66% è fatto dagli italiani. Non è così. Basta ragionare. Se è vero che il 66% dei reati è compiuto dal 92% della popolazione composta da italiani, il fatto che l’8% di stranieri compie il 34% dei reati significa che il tasso di delinquenza fra gli immigrati è molto più alto. E questo spiega perché la maggior parte dei detenuti sono stranieri. Ciò non significa che tutti gli stranieri sono delinquenti. Ma che gran parte dei delinquenti sono stranieri sì. Ed è così che si spiega come mai tra la gente si sta diffondendo quell’avversione nei confronti degli immigrati che viene definita impropriamente ‘razzismo’. In realtà gli italiani non sono razzisti. Sono semplicemente allarmati dalla presenza sul loro territorio di troppi immigrati che arrivano qui senza arte né parte e che per sopravvivere delinquono. Al termine della visita Paolo Borchia ha ringraziato il sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, senatore Andrea Ostellari, per la visita di oggi alla Casa circondariale di Verona, che conferma l’attenzione della Lega verso le realtà penitenziarie. Quella di Montorio è, senza dubbio, virtuosa, sicuramente risultato dell’ottimo lavoro svolto dal suo personale. Dall’incontro di oggi sono, comunque, emerse alcune criticità legate alla presenza di molti detenuti stranieri e alle condizioni psicofisiche dei carcerati. È, quindi, necessario porre particolare attenzione ai detenuti con problemi psicologici e psichiatrici e aprire, quindi, una seria riflessione sia a livello di formazione degli addetti ai lavori che di strutture idonee che possano gestire detenuti affetti da queste problematiche. Non solo, una delle priorità emerse è quella di potenziare le opportunità di lavoro in carcere: l’occupazione è la vera alternativa all’impostazione svuota-carceri. Per questo, serve lavorare su una comunicazione efficace che metta in sinergia carcere e impresa in modo da offrire opportunità lavorative ai detenuti”. Roma. Il Garante Anastasìa e la Garante Calderone al Cpr di Ponte Galeria garantedetenutilazio.it, 16 maggio 2023 Temono di essere rimpatriati un gruppo di trattenuti da lungo tempo e con parenti in Italia. Sabato 13 maggio, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, si sono recati al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Roma Ponte Galeria, dove sono trattenuti 90 uomini e cinque donne. Il Garante e la Garante hanno incontrato un gruppo di trattenuti di nazionalità tunisina da lungo tempo e con parenti in Italia, i quali hanno manifestato le loro preoccupazioni sulla possibilità di essere espulsi dal nostro paese. Tra questi anche un giovane dal chiaro accento romanesco che in Tunisia non ha mai vissuto. I trattenuti provenienti dal carcere lamentano condizioni peggiori di quelle riscontrate nel carcere per quanto riguarda il vitto e per l’impossibilità di comunicazioni con l’esterno. Nel settore femminile del Cpr sono presenti cinque donne, tra cui alcune con gravi problemi di salute mentale per cui il Garante Anastasìa aveva già sensibilizzato il Dipartimento di salute mentale della Asl Roma 3 a garantire tutta l’assistenza necessaria, anche nella valutazione della compatibilità clinica con il trattenimento nel Centro. Fossombrone. Detenuto si laurea in psicologia con una tesi sulla devianza corriereadriatico.it, 16 maggio 2023 È stato un giorno molto diverso da tutti gli altri quello di ieri nel carcere di Fossombrone dove un detenuto ha regolarmente conseguito la prima laurea come studente del Polo Universitario attivato dall’Università di Urbino. Un’iniziativa nata nel 2015 e operativa dal 2016, che vede a oggi iscritti 20 studenti a 10 corsi di laurea differenti. Il primo di loro ha concluso il percorso triennale e raggiunto il traguardo della laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche. È stato già ammesso a proseguire il suo percorso di studi alla laurea Magistrale in Psicologia Clinica. Partner dell’iniziativa sono l’Università di Urbino, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche e il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Marche. La commissione di laurea è stata presieduta dal magnifico rettore Vilberto Stocchi, e dalle docenti del corso di laurea, Daniela Pajardi, Elena Acquarini, Manuela Berlingeri, Alessandra D’Agostino. Lo studente discusso una tesi con la professoressa Pajardi sulla devianza, letta secondo le teorie sociali e le nuove prospettive delle neuroscienze. Il Polo Universitario rappresenta una realtà complessa dal punto di vista organizzativo e fa riferimento al professor Fabio Musso come pro-rettore alla Terza Missione, alla professoressa Daniela Pajardi come coordinatore, a due tutor, dottoressa Vittoria Terni de Gregory e dottoressa Silvia Lecce e a diverse collaboratrici nel supporto allo studio degli studenti detenuti. Napoli. Nisida, un’altra possibilità nella tazzina del caffè di Laura Aldorisio Corriere del Mezzogiorno, 16 maggio 2023 Avviato nel carcere minorile napoletano un laboratorio per insegnare un mestiere Nisida lascia senza fiato. Per la vastità del mare, che custodisce l’isola di fronte a Napoli e si svela quanto più si sale, e per i punti interrogativi che incombono, all’aprirsi dei cancelli del carcere minorile che lì ha residenza. Proprio lì, dove ci si aspetterebbe che il tempo sia perduto, i ragazzi possono invece accettare la sfida di una seconda possibilità. Dietro le porte serrate molti di loro sono indaffarati in laboratori di varia natura. Le loro mani, ora, sono sporche di farina, colore e stucco. Imparano a sfornare la pizza, a restaurare parti del carcere, a dare forma alla ceramica. E, da poco tempo, a preparare e servire il caffè. È il nuovo laboratorio che grazie a Consvip srl ha trovato spazio dentro le mura dell’istituto. Mario Simonetti, padre del caffè Toraldo, ha accettato di buon grado la sfida: “L’imprenditore non ragiona solo con la tasca, ma anche con il cuore. Se si può fare qualcosa, io ci sono. Vorrei creare una scuola, non solo per chi è detenuto ma anche in chiave preventiva, perché i ragazzi abbiano un’istruzione pratica. I giovani hanno una marcia in più, imparano prima e meglio di noi”. Un ragazzo di Nisida, che ora sa gestire la macchina da caffè professionale, si è lasciato coinvolgere a tal punto da chiedere di servire gli altri detenuti a colazione, scaldare il latte, apparecchiare e sparecchiare. “Vuoi fare il barista da grande?” e la risposta spiazza: “Io ora non penso al futuro”. Il direttore dell’istituto, Gianluca Guida, aiuta a decifrarne il significato: “Viviamo il qui e l’ora, non il futurò, perché il lavoro non è solo il mestiere che imparano durante i laboratori, ma è entrare in relazione con la loro parte migliore e non più rispondere alle attese di altri. Possono guardarsi dentro: questo è il loro tempo”. Chi ha già imparato a fare il caffè racconta i tentativi fatti: ora sa che otto grammi di polvere corrispondono a una tazzina e che “se imparo qualcosa che mi piace, imparo di più”. Una dinamica che si sente raccontare anche nei laboratori di statuette del presepe, di pasticceria e lavorazione della pelle. C’è fermento, ma questo non rende tutto semplice: “Ci sono giornate in cui non mi voglio alzare dal letto e altre in cui sono curioso. Si può sempre scegliere”, dice uno di loro, con una maturità segnata che va al di là dei suoi 17 anni. La pena è certa, per molti è grave e lunga, ma nelle turbolenze quotidiane la maggior parte dei ragazzi vive e cerca la relazione con gli educatori, i professori come un porto sicuro, da cui allontanarsi e a cui tornare. “Le sbarre ci sono evidentemente”, continua il direttore, “eppure cerchiamo di dare un respiro”. Negli spazi restaurati dai ragazzi stessi, non lontano dal laboratorio teatrale dove Eduardo De Filippo insegnava recitazione, c’è una mostra: un’artista napoletana ha indagato il tema della profondità e ha fotografato l’iride degli occhi di alcuni ragazzi. Loro hanno reagito alle immagini: “Chiure ll’uocchie e veco o scuro”; “Vivo più nella mia testa che nel mio cuore”; “Avere un impiego e lasciare il passato”. Uno degli educatori rilegge le frasi e dice “sono ragazzi come tutti, con la loro storia sulle spalle”. Ma persiste la possibilità di scorgere un nuovo orizzonte. Palermo. Il teatro in carcere: al Pagliarelli uno spettacolo dove i detenuti sono attori palermotoday.it, 16 maggio 2023 Si chiama “Creatura” il progetto della regista Daniela Mangiacavallo. Le lettere scritte dal carcere durante la pandemia, con tutte le paure e le ansie del momento, hanno fatto da canovaccio per la drammaturgia. Dall’Inferno dantesco a quello da attraversare tutti i giorni, con la speranza di uscirne migliori. Per la regia di Daniela Mangiacavallo, mercoledì nel teatro della Casa circondariale Pagliarelli “Antonio Lorusso”, con lo spettacolo “Creatura” tornano in scena i detenuti-attori della Compagnia Evasioni. Curato dall’associazione di promozione sociale “Baccanica”, lo spettacolo rientra nel progetto della Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio), intitolato “Per Aspera ad Astra” e finalizzato a portare il teatro in carcere, per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti. Giunto quest’anno alla sua quinta edizione, oggi il progetto vede in rete ben quattordici istituti di pena italiani; capofila con la Compagnia della Fortezza, il carcere di Volterra, dove nel 1994 grazie al regista Armando Punzo è iniziata questa avventura. “Il mio incontro con Punzo - dice la regista palermitana Daniela Mangiacavallo - risale al 2008. Entrare nel carcere di Volterra, lavorare al suo fianco con gli attori-detenuti, per me è stata una folgorazione. Grazie al teatro, è stato possibile destrutturare un luogo di pena, levargli idealmente le sbarre: una volta dentro, ho dimenticato dov’ero; come per magia non c’erano più barriere, non si percepivano più. Sono tornata a Palermo con l’intenzione di replicare questa esperienza, ma all’inizio non è stato facile. Poi, finalmente nel 2015, con l’associazione Baccanica che ho fondato, abbiamo vinto il bando di politiche sociali “Evasioni”, dal quale emblematicamente prende il nome la nostra compagnia”. Il progetto che oggi Daniela Mangiacavallo porta in scena, ha avuto una gestazione lunga, visto che di mezzo s’è messa la pandemia che ha ulteriormente aumentato le distanze tra il carcere e il mondo esterno. Da qui, l’idea di continuare il rapporto con i detenuti in modo epistolare. E sono proprio le lettere scritte dal carcere durante la pandemia, con tutte le paure e le ansie del momento, a fare da canovaccio per la drammaturgia di “Creatura”. “Il riferimento all’Inferno di Dante - dice Daniela Mangiacavallo - è stato immediato: nelle lettere più volte ricorreva la frase “Mi sembra di essere all’inferno”, emergeva la paura, lo smarrimento… Siamo partiti da qui, ma al contrario dell’inferno dantesco, dove la condanna è eterna, in “Creatura” abbiamo provato a raccontare un inferno non definitivo. Perché, è vero, attraverso le asperità si può giungere alle stelle. La solitudine esistenziale e la monotonia di una vita sempre uguale, può trovare sfogo nella voglia di rivoluzionare tutto attraverso l’ironia e il gioco. Azioni su azioni, piccoli tentativi per attraversare l’inferno e uscirne vivi e migliori”. Sul palcoscenico, Antonino Alvarez, Gianpaolo Benfante, Maurizio Celesia, Giovanni Cici, Antonio Cirivilleri, Giacomo Cusimano, Marco Cusimano, Eugenio Dalleo, Alessandro Del Noce, Salvatore Di Fatta, Umberto Faija, Giovanni Giardina, Mario Giunta, Giusto Gueccia, Ferdinando Lipari, Daniele Messina, Michele Musso, Gerardo Romano, Giuseppe Stemma, Giuseppe Toia; con la partecipazione delle attrici e collaboratrici della compagnia, Fabiola Arculeo, Oriana Billeci e Marzia Coniglio. Costumi di Roberta Barraja, assistente ai costumi Francesca Mandalà; suoni, Carlo Gargano. Foto di scena, Chiara Lo Nardo e Danilo Tarantino. Volterra (Pi). Le “Cene evasive” preparate dai detenuti: un’occasione di riscatto di Aurora Faccia e Azzurra Franchi* Il Tirreno, 16 maggio 2023 La casa di reclusione ospita due istituti: l’Itcg Niccolini, con gli indirizzi alberghiero e agrario, e il liceo artistico Giosuè Carducci. Spiragli di libertà tra libri e fornelli: viaggio nel carcere di Volterra dove la scuola dà delle occasioni. La casa di reclusione ospita due istituti: l’Itcg Niccolini, con gli indirizzi alberghiero e agrario, e il liceo artistico Giosuè Carducci. “La cultura rende liberi”: è questa una delle massime che più si sente nelle aule scolastiche e che di solito i docenti usano per spronare qualche studentello un po’ vagabondo a studiare. “La cultura rende liberi” si sente ovunque. Ne parlano i giornalisti, i filosofi e i pedagogisti nei vari salotti televisivi. Ma è davvero per tutti così? Abbiamo fatto un viaggio alla scoperta di un luogo dove la libertà per molti è a volte solo una chimera e un libro è una immensa finestra sul mondo, anche al di là delle sbarre. Dalla mensa al teatro - Il Carcere di Volterra è un luogo di detenzione speciale in quanto al suo interno sono offerte varie attività lavorative come la sartoria, in cui generalmente i reclusi si alternano in turni da un mese. I manufatti, realizzati in patchwork, posso essere tute da lavoro, borse o tappeti. Tra gli ospiti vi sono anche persone che si occupano della manutenzione del carcere stesso (settore Mof - Manutenzione ordinaria fabbricato), chi è addetto alla mensa, chi gestisce il vitto e si occupa della spesa e di consegnarla ai detenuti che ne hanno fatto richiesta, e chi gestisce il sopravvitto, cioè la spesa extra per tutto ciò che può servire, dal dentifricio alla carta igienica, fino al cibo, poiché non sempre il cibo della mensa è sufficiente. Attività complesse, ben gestite e varie, e che aiutano i detenuti anche per un reinserimento nella società. Indispensabile inoltre è la presenza nel carcere di Armando Punzo (foto in basso a destra), regista premiato che anni fa ha creato con i detenuti “La compagnia della Fortezza”. Istrionico, sognante, evasivo: così è lo spettacolo che Punzo mette in scena con detenuti-attori. La scuola - Il reinserimento nella società è un punto cruciale per il detenuto. La recidiva in Italia si aggira purtroppo intorno al 70%, ma si è visto che, attraverso un percorso che unisce scuola e lavoro all’interno del carcere, la percentuale si abbatte in modo eclatante al 2%. Per questo nel carcere di Volterra tra le attività più importanti troviamo chiaramente la scuola. All’interno del carcere infatti sono presenti due scuole: l’Itcg Ferruccio Niccolini (con due indirizzi di studio - il professionale alberghiero e il professionale agrario) e il liceo artistico Giosuè Carducci, di Volterra. Nicoletta Caroti, fiduciaria della preside dell’Itcg Niccolini, referente della sezione carceraria Graziani e docente di lettere in entrambi gli indirizzi, lavora nel carcere da otto anni. “L’Itcg Niccolini - spiega - offre vari progetti all’interno del carcere, grazie a un lavoro di sinergia tra la direttrice del carcere, dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, e la dirigente scolastica, professoressa Federica Casprini”. Le “Cene evasive” - Per quanto riguarda l’indirizzo alberghiero “ogni anno - spiega Caroti - sono organizzate delle cene dette “Cene evasive” cosicché i carcerati, guidati da docenti del laboratorio di cucina, del laboratorio accoglienza e laboratorio di sala, possano mettere in pratica quello che hanno sperimentato soltanto teoricamente. È quindi un momento molto significativo per il loro apprendimento”. Ognuno di essi ha il proprio compito: chi prepara il menu, chi si occupa dell’accoglienza o dell’intrattenimento musicale, chi svolge l’attività di sommelier. Queste serate si tengono sempre dentro il carcere, all’interno della Chiesa Vecchia. La prossima cena sigillerà la chiusura dell’anno scolastico e si terrà il 1° giugno. “Sarà una cena particolare - spiega Caroti - perché andrà a coincidere con il progetto interministeriale “Il Gusto del Tempo” che vede coinvolto il regista, vincitore del premio David di Donatello, Francesco Falaschi e la chef, scrittrice e noto personaggio tv, Luisanna Messeri. Il prodotto di questo progetto sarà un docufilm sulla cucina vista attraverso le sbarre”. La cena sarà coordinata proprio da Messeri che lavorerà con i detenuti sia dell’alberghiero che dell’agrario in un’attività partecipata dall’intera scuola. L’orto tecnologico - Per quanto riguarda l’indirizzo agrario, tramite un progetto finanziato dall’Ue, il “Pon Edugreen”, all’interno del carcere, nell’orto didattico di circa 40 metri quadrati, verranno installati dei sensori per la gestione delle colture per misurare temperatura, umidità e altri parametri. Il progetto mira a favorire la pratica dell’agricoltura 4.0, modello di agricoltura che, utilizzando tecnologie digitali, consente di ottimizzare i processi produttivi e migliorare la qualità dei prodotti per uno sviluppo sostenibile. “Questo nuovo progetto consentirà agli studenti di sperimentare le varie tecniche studiate in classe”, spiega con orgoglio il professor Alessandro Caroti, uno dei responsabili (seconda foto a sinistra). “Sempre nei prossimi mesi - aggiunge - verrà allestita anche una piccola stanza laboratorio per l’analisi e lo studio del terreno, dove verrà messa strumentazione tecnica, tra cui piaccametri e conducimetri”. Oltre il lavoro di prof - Con orgoglio e grande entusiasmo parlano i docenti che insegnano ai loro “ragazzi” anche a cercar uno spicchio di cielo e un alito di libertà lì dove a volte è difficile solo annusarla. “Credo fortemente che attraverso l’educazione una persona possa riscattarsi e costruire un futuro diverso e migliore. Per me, il mio lavoro è una “missione” - dice la professoressa Nicoletta Caroti -, una funzione pubblica e importante anche per la società. Lo scopo è quello di contribuire alla crescita formativa e all’apertura mentale dei detenuti. Per loro la famiglia è lontana, quindi i problemi vengono vissuti in maniera amplificata; avere un punto di riferimento in un’insegnante o comunque in un’organizzazione scolastica è secondo me fondamentale. Le lezioni sono anche un’occasione per loro per capire cosa succede fuori da quelle mura e un modo per non pensare a una routine monotona o parlare delle solite cose con il compagno di sventura”. *Studentesse del liceo XXV Aprile di Pontedera L’Unità torna in edicola dopo 7 anni. Il direttore Sansonetti: “Saremo dalla parte dei più deboli” La Repubblica, 16 maggio 2023 Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci torna in edicola. Dopo un’assenza dal mondo della stampa di ormai sette anni, l’Unità sarà diretta da Pietro Sansonetti e verrà venduta nuovamente a partire da domani. Una data importante, considerando che il giornale fu fondato nel 1924 e tra un anno, dunque, celebrerà il suo centenario. Sansonetti approda all’Unità dopo anni di direzione del Riformista, ora passato sotto la guida editoriale di Matteo Renzi. “Dopo tutto questo tempo, sembrava che il giornale non dovesse più riaprire. Invece, grazie all’acquisizione da parte di Romeo Editore, tornerà a rivestire un ruolo fondamentale nel dibattito editoriale e politico”, ha commentato Sansonetti. “In un momento in cui la sinistra appare sempre più debole, per l’incapacità di produrre idee e contenuti - ha proseguito - l’Unità si propone come un polo di elaborazione politica e culturale. Fisicamente sarà un giornale piccolo, composto da dodici facciate, ma impegnato ad affrontare temi di grande rilevanza e profondità”. Il costo del quotidiano (che avrà una redazione di sei giornalisti e diversi collaboratori) sarà di 1,50 euro e nel numero di domani ci saranno articoli anche a firma di Luigi Manconi e Massimo D’Alema. Mercoledì, invece, uscirà un’intervista a Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra francese. “Come indicato da Gramsci - spiega Sansonetti - l’Unità continuerà ad essere dalla parte dei più deboli. E se all’origine era rivolto a contadini e operai, oggi sarà la testata anche di migranti e detenuti. Pur mantenendo sempre netta la propria indipendenza, L’Unità sarà vicina al Pd, principale forza politica della sinistra, e al pensiero di Papa Bergoglio che, attualmente, rappresenta un punto di riferimento ideologico. In altre parole, abbracciando a pieno un’eredità storica”. “Donne del Sud senza lavoro. Ecco la vera questione meridionale” di Simona Brandolini Corriere del Mezzogiorno, 16 maggio 2023 Il rapporto di Save the Children che inchioda il Sud e la Campania agli ultimi posti tra le aree amiche delle mamme. La senatrice dem Valeria Valente, nella passata legislatura è stata presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere. Cosa pensa del rapporto di Save the Children? Che inchioda il Sud e la Campania agli ultimi posti tra le aree poco amiche delle mamme? “Fotografa una realtà, soprattutto al Sud e in Campania, drammatica. Una realtà nota a tante, troppe donne che cercano, con fatica, di trovare un difficile equilibrio fra lavoro e cura, praticando tutte le acrobazie possibili tra doveri, aspirazioni, sentimenti. Non a caso il rapporto ha il titolo di “Le equilibriste”. Un funambolismo che nega nei fatti il tanto richiamato valore sociale della maternità, scaricandone il peso solo sulle donne”. Ma chi paga il prezzo dell’assenza delle donne dal mercato del lavoro? “L’intero paese in termini di sviluppo sostenibile, opportunità, democrazia. Senza il lavoro delle donne l’Italia non cresce e non fa figli. Senza la piena occupazione delle donne meridionali non si colma il gap Nord-Sud”. Soprattutto dopo il dramma della pandemia, pagato sul lavoro dalle donne, si sta rispondendo a questa emergenza oppure no? “Vorrei dire al governo di abbandonare la strada della retorica per imboccare quella della concretezza. Sgravi fiscali e quoziente familiare non servono. Abbiamo invece bisogno, insieme al rafforzamento dell’assegno unico, di più politiche del lavoro per la piena e buona occupazione femminile (superamento di precarietà, gender pay gap, part-time involontario); investimenti nel welfare a partire da nidi e scuole dell’infanzia; congedi parentali paritari; promozione dello studio delle Stem; investimenti per passare dalla conciliazione, a carico delle donne, alla condivisione con gli uomini del lavoro domestico e di cura. La priorità è il lavoro femminile che genera libertà di scelta, aumento del Pil, migliore crescita dei figli, come ricordato da Rosetta Papa sul vostro giornale. È una grande questione nazionale, ma anche e soprattutto meridionale, come dimostra il rapporto. Il problema della denatalità va affrontato in modo strutturale e non con misure tampone, perché è un’ipoteca sul futuro di tutti”. Il Pnrr non dovrebbe essere una prima risposta? “Una fondamentale risposta direi. Per il Sud e per le donne. Parliamo per esempio di 4,6 miliardi per nuovi nidi e scuole dell’infanzia, mentre esistono nel Piano due clausole (40% di investimenti da garantire al Sud e 30% di assunzioni per donne e giovani), volute dal precedente governo e dal Pd, per superare le disuguaglianze di genere e fra Nord e Sud. Per questo non possiamo permetterci, come purtroppo sta accadendo, di perdere questa opportunità. Voglio ricordare un dato sull’istruzione: secondo Svimez, nascere al Sud significa “perdere” di fatto un anno di scuola perché mancano infrastrutture e tempo pieno. Il tempo pieno è uno strumento essenziale per la liberazione del tempo femminile, oltre che decisivo per favorire il benessere dei bambini. Serve un approccio multidisciplinare dunque per creare un Paese e un Sud a misura di donne e giovani. E si tratta di una sfida centrale perché come ricorda Amartya Sen, “quando le donne stanno bene, tutto il mondo sta meglio”. La premessa affinché ciò avvenga è un cambio dei modelli culturali e dell’organizzazione del mondo del lavoro, oggi ancora costruito e pensato solo a misura degli uomini”. Migranti. Piantedosi a Tunisi, un buco nell’acqua di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 16 maggio 2023 Il ministro in missione incontra il presidente Saied e il suo omologo Fekih, niente soldi ma le solite motovedette e addestramento. Annunciata da tempo, nella giornata di ieri si è concretizzata la visita del ministro degli Interni Matteo Piantedosi per discutere con le autorità tunisine delle partenze dalla sponda sud del Mediterraneo e di possibili soluzioni materiali a un fenomeno che da mesi è all’ordine del giorno per le istituzioni europee. Piantedosi ha parlato con il suo omologo Kamel Fekih in un bilaterale e ha incontrato anche il presidente della Repubblica Kais Saied. Al centro delle attenzioni i crescenti numeri degli arrivi dalla Tunisia e nuove possibili forme di finanziamento alla Guardia costiera tunisina in materia di controllo delle frontiere. Argomenti nuovi solo all’apparenza: da inizio anno sono state numerose le visite e i colloqui telefonici tra Roma, Bruxelles e Tunisi. L’ultimo in ordine di tempo da parte del Viminale è avvenuto meno di due mesi fa, mentre sono appena passate poco più di due settimane dalla visita di Ylva Johansson, commissaria europea per gli Affari interni. A inizio maggio invece è stato il turno del ministro degli Esteri Antonio Tajani, il quale ha promesso 10 milioni di euro per assistere la Tunisia “nella gestione di un fenomeno che vede i nostri paesi uniti nel combattere le reti di trafficanti di esseri umani”. Un concetto ribadito dallo stesso Piantedosi il quale ha espresso al suo omologo “il pieno apprezzamento per il rilevante sforzo compiuto dalla Tunisia per sorvegliare le frontiere marittime e terrestri, per contrastare le reti di trafficanti e confiscare le loro imbarcazioni, per soccorrere in mare i migranti e riportarli sulla terraferma prestando loro assistenza”. Il Ministro è poi ripartito alla volta di Roma promettendo il sostegno dell’Italia attraverso piani di assistenza tecnica e forniture. Le sue dichiarazioni si inseriscono all’interno di un momento storico particolarmente fragile per la Tunisia. Da inizio anno più di 42mila persone hanno percorso la rotta centrale del mare. Secondo i dati del Viminale visionati da Agenzia Nova, a inizio maggio gli arrivi dalla Tunisia sono stati 24.383, oltre il mille per cento in più rispetto al 2022, poco meno di 20mila i migranti intercettati e 498 le persone morte o scomparse. Numeri in netto aumento che si spiegano parzialmente con il discorso razzista e xenofobo del 21 febbraio scorso da parte del presidente Kais Saied contro la comunità subsahariana presente nel paese: “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”. Non è un caso che siano stati soprattutto cittadini di Costa D’Avorio e Guinea ad attraversare il Mediterraneo in direzione Lampedusa. In una situazione già molto precaria, il contesto nazionale rischia di aggravare il quadro generale. La Tunisia sta vivendo una delle crisi economiche più gravi degli ultimi decenni e il rischio default è un concetto che viene ripetuto in maniera sempre più forte da diversi analisti. Un campanello d’allarme per l’Unione europea e, in particolare, l’Italia. Saied ha già ribadito più di una volta di non volere ricorrere alle misure stringenti del Fondo monetario internazionale per sbloccare un prestito da 1,9 miliardi di dollari. Tuttavia, senza questo accordo il rischio è di vedere sfumare possibili nuove macro intese con Bruxelles e altri attori internazionali di primo piano, Stati uniti in primis. I Problemi non finiscono qui. Il presidente della Repubblica da settimane è sotto la lente di diverse organizzazioni della società civile e di alcuni suoi alleati oltre confine per la campagna di arresti che da alcune settimane sta interessando diverse personalità di primo piano, tra cui il leader del partito di ispirazione islamica Rached Ghannouchi. Dal carcere ha voluto parlare Noureddine Boutar, il direttore della radio più importante del paese Mosaiquefm, arrestato il 20 febbraio scorso: “Il mio procedimento è al centro della libertà di stampa. Ho una linea editoriale indipendente di cui assumo la piena responsabilità”. Un dossier che, se accompagnato all’attentato di una settimana fa compiuto da un agente di sicurezza nell’isola di Djerba che ha causato la morte di sei persone per motivi ancora da chiarire (almeno secondo il ministero dell’Interno), mostra in questo momento tutte le fragilità del sistema Tunisia. L’accordo con le autorità marittime tunisine partito nel 2020 Dal 2020 sono già 27 i milioni di euro stanziati dall’Italia a favore delle autorità marittime tunisine. Una linea di finanziamento iniziata nell’estate di tre anni fa e che vede […] Immigrazione, l’accordo con le autorità marittime tunisine partito nel 2020. Dal 2020 sono già 27 i milioni di euro stanziati dall’Italia a favore delle autorità marittime tunisine. Una linea di finanziamento iniziata nell’estate di tre anni fa e che vede nel ministero degli Esteri italiano, il ministero degli Interni tunisino e nell’agenzia delle Nazioni Unite Unops i tre attori principali. In un’inchiesta del giornale online IrpiMedia viene ripercorso il rapporto ormai solido tra le due parti, inquadrato all’interno del programma “Support to Tunisia’s border control and management of migration flows” e inaugurato dall’allora ministro Luigi Di Maio. Il documento prevede la rimessa in efficienza di sei imbarcazioni già in possesso della Guardia costiera locale e la fornitura di mezzi terrestri per il controllo delle frontiere come pick up, mini bus per il trasferimento di detenuti e sistemi di prelievo del Dna. Partito a fine 2020 con un budget di 8 milioni di euro, attraverso l’uso arbitrario del Fondo di premialità è stato alzato a 27 in poco più di due anni. Bulgaria, la porta dell’Europa inferno dei profughi di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 16 maggio 2023 Le testimonianze dei rifugiati raccolte da una Ong tedesca: violenze sistematiche e detenzioni inumane. Appena varcata la frontiera dell’Europa, dopo tre giorni di fuga a piedi attraverso la Turchia, Barsat è stato sbattuto in una cella di pochi metri quadri con altre 24 persone, in condizioni igieniche talmente orribili che dopo pochi giorni gli è venuta la scabbia. Non ha mai visto un medico, e per la sua famiglia in Afghanistan era sparito: prima di chiuderlo nella lurida cella infestata di cimici, la polizia bulgara gli aveva sequestrato il cellulare. C’era un solo bagno, attaccato alla cella, senza possibilità di chiudere la porta. La doccia era consentita una volta ogni due settimane. E se aveva sete, il ventiduenne poteva bere solo dal rubinetto del bagno. Ogni giorno un poliziotto entrava nella cella e picchiava tutti con un bastone, insultando, urlando “sei illegale, perché sei venuto qui”. Benvenuti in Bulgaria, porta dell’Europa, inferno dei profughi. Barsat mi ha raccontato la sua esperienza al telefono, ora è in Germania da suo fratello Fawad. È in famiglia, ma non è al sicuro. Nonostante i mostruosi maltrattamenti subiti a Sofia, in base al Regolamento europeo di Dublino, Barsat dovrà essere rispedito lì. Le autorità tedesche hanno già provato a prelevarlo a dicembre, alle tre di notte, ma lui è riuscito a scappare. Ora si è affidato a un avvocato. E il suo destino è appeso a un filo. Testimonianze come queste, di sistematici maltrattamenti dei rifugiati siriani, afghani, iracheni in Bulgaria si stanno rapidamente accumulando negli archivi delle Ong. L’associazione cristiana tedesca “Matteo” ne ha raccolte 75, il loro dossier verrà pubblicato oggi in Germania e noi siamo in grado di anticiparne i contenuti. Fanno accapponare la pelle: sono storie simili a quelle di Barsat. Storie di profughi in fuga dai talebani afghani o dalla tirannide siriana, che “avrebbero diritto all’esame della richiesta di asilo in Europa” come ricorda “Matteo”, e che vengono interrogati e picchiati selvaggiamente, stipati in letti infestati di insetti, costretti a dividersi in decine di celle lerce e minuscole. Anche Anwar, 25 anni, è nel dossier di “Matteo”. Viene da una famiglia siriana i cui famigliari sono stati torturati nelle famigerate carceri di Assad. È il fratello a raccontarmi la sua storia, si raccomanda di non mettere il cognome “per non fargli passare dei guai”. Anwar è in Germania ma anche lui è passato attraverso la Bulgaria e per le autorità tedesche deve essere rispedito lì. La polizia bulgara, ancora prima di rinchiuderlo in prigione, lo ha picchiato con una spranga, con una tale violenza che a distanza di un anno non riesce ancora a muovere un braccio. Poi lo ha incarcerato per tre giorni, nudo, in una cella gelida, senza dargli mai da mangiare. In Bulgaria, Anwar non ha mai visto un medico ed è stato rinchiuso per altri 13 giorni in una cella minuscola con altre decine di profughi. Anche lui pensava che in Europa sarebbe stato al sicuro. E invece. Dall’Iran all’Arabia Saudita, l’anno record del boia. Amnesty: “C’è disprezzo per la vita umana” La Stampa, 16 maggio 2023 I dati sulla pena di morte sono allarmanti: le esecuzioni registrate salgono alle stelle e i numeri sono i più alti degli ultimi 5 anni. È stato fatto il maggior numero di esecuzioni giudiziarie registrato a livello globale dal 2017, con 81 persone giustiziate in un solo giorno in Arabia Saudita, 20 i Paesi dove sono state fatte le esecuzioni. ma c’è anche qualche passo avanti: 6 Paesi hanno abolito in tutto o in parte la pena di morte. Le esecuzioni registrate nel 2022 hanno raggiunto la cifra più alta in cinque anni, poiché “i carnefici più famosi del Medio Oriente e del Nord Africa hanno compiuto folli omicidi”, ha affermato oggi Amnesty International mentre pubblicava la sua revisione annuale della pena di morte. In totale 883 persone sono state giustiziate in 20 Paesi, segnando un aumento del 53% rispetto al 2021. Questo picco di esecuzioni, che non include le migliaia che si ritiene siano state eseguite in Cina lo scorso anno, è stato guidato dai paesi in Medio Oriente e Nord Africa, dove le cifre registrate sono passate da 520 nel 2021 a 825 nel 2022. “I paesi della regione del Medio Oriente e del Nord Africa hanno violato il diritto internazionale aumentando le esecuzioni nel 2022, rivelando un insensibile disprezzo per la vita umana. Il numero di persone private della vita è aumentato in tutta la regione. L’Arabia Saudita ha giustiziato l’incredibile cifra di 81 persone in un solo giorno. Più di recente, nel disperato tentativo di porre fine alla rivolta popolare, l’Iran ha giustiziato persone semplicemente per aver esercitato il loro diritto di protestare”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International. Il 90% delle esecuzioni conosciute al mondo al di fuori della Cina sono state eseguite da soli tre paesi della regione. Le esecuzioni registrate in Iran sono passate da 314 nel 2021 a 576 nel 2022. Numeri triplicati in Arabia Saudita: da 65 nel 2021 a 196 nel 2022 (il più alto registrato da Amnesty in 30 anni) mentre l’Egitto ha giustiziato 24 persone. Nel calcolo non sono comprese le esecuzioni di Cina, Corea del Nord e Vietnam, Paesi noti per l’uso estensivo della pena di morte, il che significa che la cifra globale reale è molto più alta. Cinque paesi hanno ripreso le esecuzioni - Le esecuzioni sono riprese in cinque paesi nel 2022 - Afghanistan, Kuwait, Myanmar, Stato di Palestina e Singapore, mentre un aumento delle esecuzioni è stato registrato anche per Iran (da 314 a 576), Arabia Saudita (da 65 a 196) e Stati Uniti (11 a 18). Il numero registrato di persone uccise dal governo per reati legati alla droga è più che raddoppiato nel 2022 rispetto al 2021. Le esecuzioni legate alla droga violano il Diritto internazionale sui diritti umani, che stabilisce che le esecuzioni dovrebbero essere eseguite solo per i “reati più gravi”: i reati che implicano l’omicidio intenzionale. Queste esecuzioni sono state registrate in Cina, Arabia Saudita (57), Iran (255) e Singapore (11), e ammontano al 37% delle esecuzioni totali registrate a livello globale dall’organizzazione. È probabile che le esecuzioni per reati legati alla droga siano state eseguite in Vietnam, ma queste cifre rimangono un segreto di stato. “In una svolta crudele, quasi il 40% di tutte le esecuzioni conosciute sono state per reati legati alla droga. È importante sottolineare che spesso sono le persone provenienti da ambienti svantaggiati a essere colpite in modo sproporzionato - ha affermato Agnès Callamard. Le Nazioni Unite aumentino la pressione sui responsabili di queste palesi violazioni dei diritti umani e assicurino che siano messe in atto salvaguardie internazionali”. Mentre le esecuzioni sono aumentate, il numero totale di condanne a morte registrate è rimasto sostanzialmente invariato, con un leggero calo da 2.052 nel 2021 a 2.016 nel 2022. Un barlume di speranza - In questo scenario drammatico, un unico dato positivo, che 6 Paesi hanno abolito la pena di morte in tutto o in parte: Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone e Repubblica Centrafricana hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre Guinea Equatoriale e Zambia hanno abolito la pena di morte solo per i reati ordinari. A dicembre 2022, 112 paesi avevano abolito la pena di morte per tutti i reati e nove paesi l’avevano abolita solo per i reati ordinari. Lo slancio positivo è continuato mentre la Liberia e il Ghana hanno adottato misure legislative per l’abolizione della pena di morte, mentre le autorità dello Sri Lanka e delle Maldive hanno affermato che non ricorreranno all’esecuzione delle condanne a morte. Anche nel parlamento malese sono stati presentati disegni di legge per l’abolizione della pena di morte obbligatoria. “È tempo che altri seguano l’esempio. Le azioni brutali di paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita, ma anche la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam sono ora saldamente in minoranza. Questi paesi dovrebbero urgentemente mettersi al passo con i tempi, proteggere i diritti umani ed eseguire la giustizia piuttosto che le persone - ha aggiunto Agnès Callamard -. Con 125 Stati membri delle Nazioni Unite che chiedono una moratoria sulle esecuzioni, Amnesty International non si è mai sentita più fiduciosa che questa aberrante punizione possa essere abolita. Ma i tragici numeri del 2022 ci ricordano che non possiamo dormire sugli allori. Continueremo a fare campagna fino a quando la pena di morte non sarà abolita in tutto il mondo”. Detenuti russi al tempo della rivoluzione. Una lezione sulle giravolte della storia di Adriano Sofri Il Foglio, 16 maggio 2023 Leggere Gramsci mentre i carcerati, oggi, vanno al massacro dopo essere stati estratti con la forza e col ricatto dalle peggiori sentine. Una vicenda infame. La vicenda infame dei detenuti russi estratti con la forza e col ricatto dalle peggiori sentine per andare a saltare sulle mine di Bakhmut mette in mostra una delle molte differenze fra chi è stato prigioniero e chi l’ha tutt’al più immaginato. I secondi reagiscono per lo più deplorando: “un’armata di delinquenti!” Ovvero, i migliori, ne provano una compassione, apprendendo della roulette russa cui quei detenuti vengono forzati - uno su cento ce la fa, e sarà graziato, e si arruolerà per la prossima taverna e il prossimo carnaio - o dell’argomento dal quale vengono persuasi - il rifiuto delle cure ai malati di Hiv, o di qualunque cosa, ai malati di vita. Chi conosce la galera sa immaginare la dignità, la possibilità della dignità. Sto leggendo un gran libro appena uscito su “L’Œuvre-vie d’Antonio Gramsci”, di Romain Descendre e Jean-Claude Zancarini (ed. La Découverte). Vi ho ritrovato la citazione da un famoso articolo del giovane Gramsci per Il Grido del Popolo del 29 aprile 1917: “Note sulla rivoluzione russa” (l’Ottobre era di là da venire). Avrei dovuto ricordarmene, perché metteva insieme la dignità dei prigionieri e la città di Odessa. Eccolo. “I giornali borghesi non hanno dato alcuna altra importanza a questo altro fatto. I rivoluzionari russi hanno aperto le carceri non solo ai condannati politici, ma anche ai condannati per reati comuni. In un reclusorio i condannati per reati comuni all’annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione, e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro. Questa notizia ha importanza, ai fini della rivoluzione socialista, quanto e più di quella della cacciata dello Zar e dei Granduchi. Lo Zar sarebbe stato cacciato anche dai borghesi. Ma per i borghesi questi condannati sarebbero stati sempre i nemici del loro ordine, i subdoli insidiatori della loro ricchezza, della loro tranquillità. La loro liberazione ha per noi questo significato: in Russia è un nuovo costume che la rivoluzione ha creato. Essa ha non solo sostituito potenza a potenza, ha sostituito costume a costume, ha creato una nuova atmosfera morale, ha instaurato la libertà dello spirito oltre che la libertà corporale. I rivoluzionari non hanno avuto paura di rimettere in circolazione uomini che la giustizia borghese ha bollato col marchio infame di pregiudicati, che la scienza borghese ha catalogato nei vari tipi di criminali delinquenti. Solo in un’atmosfera di passione socialista può avvenire un tal fatto, quando il costume è cambiato, quando la mentalità predominante è cambiata. La libertà fa gli uomini liberi, allarga l’orizzonte morale, del peggiore malfattore in regime autoritario, fa un martire del dovere, un eroe dell’onestà. Dicono i giornali che in una prigione questi malfattori hanno rifiutato la libertà e si sono eletti i guardiani. Perché non hanno fatto mai ciò prima, perché la loro prigione era cintata di muraglioni e le finestre erano difese da inferriate? Quelli che andarono a liberarli dovevano avere una faccia ben diversa dai giudici dei tribunali e dagli aguzzini del carcere… E’ questo il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo della mia coscienza dentro di me. È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale che queste piccole notizie ci rivelano. È l’avvento di un ordine nuovo… E ancora una volta: la luce viene dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli”. Certo, c’è qui un’ingenua idealizzazione di “piccole notizie”, frammenti di cronaca elevati a prove della libertà che libera, del “fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto”. Noi siamo il vecchio mondo occidentale indisposto a quella ingenuità e a quella enfasi idealizzatrice - ci siamo passati attraverso, del resto. Ma leggere di quel reclusorio di Odessa, delle orrende carceri zariste, della libertà che libera, della Russia che fa dei malfattori altrettanti eroi dell’onestà, nei giorni della strage di prigionieri abbrutiti e mandati allo sbaraglio su un fronte altrui, è una struggente lezione sopra le giravolte della storia e della cronaca. Da un mito della Russia a un mito della Russia. Turchia. Ora il popolo turco si gioca lo Stato di diritto e la democrazia di Antonella Rampino Il Dubbio, 16 maggio 2023 Il destino della cipolla, ovvero il costo politico dell’inflazione reso simbolo nello spot che ha portato l’alleanza repubblicana guidata da Kemal Kiliçdaroglu a un passo dallo strappare la leadership della Turchia a Tayip Erdogan, lo conosceremo solo il giorno del ballottaggio, fissato al 28 maggio. Saranno due settimane lunghissime, e il cui esito non è naturalmente scontato. Ma il governo userà tutti gli strumenti di cui dispone per orientare a suo favore il voto, in un Paese nel quale durante un ventennio Erdogan, oltre a ogni tipo di repressione del dissenso, ha posto sotto suo controllo diretto tutti i mezzi di informazione, la Corte costituzionale, e in buona sostanza anche l’apparato giudiziario. Ma intanto, dei 600 seggi parlamentari (ad Ankara c’è il monocameralismo), Erdogan ne ha già presi 266: coi 51 dell’MHP della destra estrema che s’è ritagliata un ruolo da ago della bilancia, può avere la maggioranza. E il prezzo della cipolla continua a correre: l’inflazione, che nell’autunno scorso aveva toccato l’85 per cento, è tuttora al 45. Spiega bene l’alta affluenza alle urne: a votare, è andato all’incirca il 90 per cento dei 64 milioni di aventi diritto al voto. Ma è, soprattutto, proprio un effetto delle politiche di Erdogan: ha imposto alla Banca centrale turca - che non ha alcuna autonomia - continui ribassi dei tassi di interesse, affinché i turchi avessero l’illusione di una crescita economica a ciclo continuo. Ma se con l’inflazione si fa il contrario di quel che fanno tutte le banche centrali del mondo, a cominciare da Fed e Bce, si scopre che davvero è come una cipolla: sfoglia sfoglia, sotto c’è sempre un altro strato, finché in mano non ti resta più nulla. E a poco serve - se non a mandare in default le casse pubbliche aumentare - del 100 per cento - lo stipendio dei pubblici impiegati, o abolire l’età in cui si va in pensione: per quanto si aumentino le entrate, con l’inflazione al galoppo la cipolla resta sempre irraggiungibile. In ballo il 28 maggio c’è il ritorno dei turchi allo stato di diritto e alla democrazia liberale, e dunque a un nuovo appeasement con l’Occidente e l’Unione Europea in particolare. Il ritorno del futuro, si potrebbe dire, dopo la svolta autoritaria impressa da Erdogan, anche attraverso un contestato referendum con il quale nel 2017 introdusse il presidenzialismo. Lo fece perché solo l’anno prima, a Bruxelles le porte gli erano state sbarrate: le procedure di avvicinamento all’Europa la Turchia le aveva avviate alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, ma nonostante nel 2005 i negoziati di adesione fossero stati formalmente avviati a seguito di un apposito Consiglio Europeo, Merkel e Sarkozy fecero poi retromarcia, e con la Turchia - Paese che è già nell’Unione Doganalel’Europa avviò una semplice “special partnership”. E Erdogan cominciò a coltivare sogni da potenza mediorientale. Oggi, anche se le urne detronizzassero il raiss, difficilmente potrebbe cambiare la sostanza della collocazione internazionale della Turchia. La cui volontà di potenza è stata messa in scena da Erdogan in un groviglio di contraddizioni, ma raggiungendo con spregiudicatezza il risultato di fare di Istanbul un irrinunciabile crocevia dei dossier internazionali più spinosi, e dunque un protagonista della scena internazionale a pieno titolo. Membro importante della Nato, che non può fare a meno delle truppe turche, ma capace di mettersi di traverso sull’allargamento dell’Alleanza a Svezia e Finlandia. Solida alleata nel Patto Atlantico, ma amica di Putin dopo un incidente diplomatico grave nel 2015-2016. Amica di Putin, ma diligente sostenitrice della mozione Onu contro l’invasione russa dell’Ucraina. Fornitrice di droni a Kiev, e di droni che sono stati cruciali nella prima fase della guerra, quella stessa nella quale un giorno sì e un giorno no Erdogan annunciava presunte “trattative in corso” con Mosca, ma senza accodarsi alle sanzioni Onu. Bordeggiando con perizia le ambiguità, compresa la chiusura del Bosforo e di Dardanelli alle navi di Mosca, alla fine la Turchia è risultata indispensabile per contrattare con Mosca almeno uno stop alle ostilità: quelle che facevano marcire il grano ucraino. Il rapporto con il Cremlino non cambierà neanche se Erdogan uscisse di scena perché la Russia è il terzo partner commerciale della Turchia, e soprattutto il fornitore del 50 per cento dell’energia che muove l’intero Paese. Della Turchia, Erdogan ha risvegliato la volontà di potenza anche allacciando i rapporti con Israele e Arabia Saudita, a scapito e a fronte delle vecchie cordiali intese con Qatar, Emirati, Tunisia: Erdogan, antico simpatizzante delle Primavere Arabe egiziane e tunisine, ha bisogno dei capitali del Paesi del Golfo. Naturalmente, la Turchia di Erdogan è stata capace di stringere le relazioni con i Paesi dell’Islam sunnita, anche fondamentalista, ma non si è fatta mancare l’Islam sciita, quando con Mosca e Baghdad si è trattato di fronteggiare la fase più cruenta della guerra siriana, incistamenti dell’Isis compresi. Un ruolo da potenza regionale ormai imprescindibile, e perseguito scientificamente, da Erdogan dopo decenni di neutralità di fatto, al grido di “buoni rapporti con tutti i vicini”. E che sul terreno lascia aperta una delle più spinose e vergognose questioni, i 4 milioni di rifugiati tenuti parcheggiati senza alcuno status giuridico, a suon di miliardi di euro forniti di Bruxelles: 3,7 milioni di loro sono siriani. Kiliçdaroglu in campagna elettorale ha detto di volerli rispedire, se eletto, in Siria nel giro di un paio d’anni, ma difficilmente un appeasement con Assad potrebbe arrivare sino a questo punto, anche se Erdogan uscisse di scena. E ancora più difficile che l’Unione Europea - con alle viste le elezioni del 2024, per giunta - accetti di rinegoziare la questione dei campi profughi e della liberalizzazione dei visti.