Reati, arresti, intercettazioni. Così Nordio vuole cambiare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 maggio 2023 Il viceministro Sisto: norme per realizzare il Nordio-pensiero. Al ministero della Giustizia assicurano che il primo pacchetto di riforme promesso dal Guardasigilli Carlo Nordio sia in dirittura d’arrivo; le riunioni per metterlo a punto proseguono a ritmo continuo, ma testi definitivi ancora non ce ne sono. Individuate le materie d’intervento - abuso d’ufficio, traffico d’influenze illecite, misure cautelari, intercettazioni e informazione di garanzia, e a ridosso prescrizione e rimodulazione della figura del pubblico ufficiale - per ciascuna di esse restano sul tavolo diverse soluzioni. A cominciare proprio dal primo punto dell’agenda, quel reato che il ministro vorrebbe cancellare del tutto ma potrebbe essere solo ulteriormente depotenziato rispetto all’ultima modifica di appena tre anni fa. Anche il viceministro Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, sarebbe d’accordo con l’abrogazione tout court, “perché la patologia non è l’esito dei processi, giacché siamo oltre il 92% tra proscioglimenti e assoluzioni, bensì la pendenza di procedimenti destinati a finire nel nulla che però producono effetti politico-mediatici sugli indagati a volte irreparabili. Dunque è lì che dobbiamo intervenire: se una norma non funziona e provoca solo indagini che si rivelano inutili, tanto vale farne a meno”. Reato da “alleggerire” - Tuttavia ci sono resistenze nella stessa maggioranza, da parte soprattutto della Lega - “più sul piano tecnico che politico”, dice Sisto - e allora ecco l’alternativa di ulteriori restrizioni. Togliendo, ad esempio, la punibilità dell’abuso “per procurare vantaggio”, lasciandola solo “per chi arreca un danno” o “per omessa astensione” a fronte di un consapevole conflitto di interessi. “Non è detto che un eventuale interesse personale non coincida con l’interesse pubblico, e questo va valutato”, sostiene il viceministro. Tuttavia proprio di recente il procuratore di Roma Franco Lo Voi ha rivelato la scoperta di un tentativo di truccare il concorso in magistratura da parte di un commissario che voleva favorire un candidato: “Un caso piuttosto grave per il quale non avremmo potuto fare niente senza poter contestare il tentato abuso d’ufficio”. Ma l’avvocato-viceministro non è convinto: “In situazioni del genere credo si possa tranquillamente ipotizzare la tentata truffa, peraltro aggravata”. Anche sul traffico d’influenze, che non si può cancellare perché richiesto dalla Convenzione Onu contro la corruzione sottoscritta dall’Italia, sono in vista limitazioni. Ad esempio eliminando le relazioni “vantate” o “asserite” per la mediazione illecita con un pubblico ufficiale, limitandosi a quelle realmente esistenti. “È necessario che la condotta sia più definita, per non lasciare ambiti di interpretazione troppo ampi”, spiega Sisto, che attribuisce molta importanza anche al terzo punto in calendario: le misure cautelari. Misure cautelari - L’intenzione ministeriale è affidare il potere di arrestare a un collegio di tre giudici anziché a uno, trasferendolo in sostanza all’attuale Tribunale del riesame, e prevedere che l’arrestato possa poi rivolgersi alla Corte d’appello. Ma l’inevitabile allungamento dei tempi e i problemi di organico nella magistratura lascerebbero aperte molte eccezioni alla regola. Nei casi di flagranza e per i provvedimenti d’urgenza la competenza resterebbe al giudice monocratico, e sono in corso ricognizioni per valutare (soprattutto nei distretti giudiziari più piccoli) le ricadute su Corti d’appello già oberate e sulle incompatibilità: se un magistrato si pronuncia su un arresto, infatti, non potrà giudicare quel caso nei gradi successivi, e bisogna fare i conti per verificare la fattibilità di un simile intervento. Inoltre diventerebbe obbligatorio l’interrogatorio preventivo dell’indagato, al quale esporre gli elementi d’accusa “per dargli modo di chiarire la propria posizione ed evitare che un arresto si tramuti in errore giudiziario”, spiega il viceministro. Tuttavia sarebbero previste talmente tante inevitabili eccezioni, da rendere la nuova regola applicabile a un numero limitato di casi. Verrebbero esclusi i reati più gravi (come mafia, terrorismo, droga, omicidio, associazione per delinquere, violenza sessuale e altro) e in presenza di pericolo di fuga o inquinamento delle prove. Dunque bisognerebbe convocare l’indagato solo quando l’arresto fosse motivato esclusivamente dal rischio di reiterazione del reato; e si dovrà comunque capire come conciliare la nuova procedura con indagini nelle quali compaiono più inquisiti. Riforma “modulare” - Sull’avviso di garanzia l’intenzione è far descrivere il fatto contestato più compiutamente, con una sorta di anticipazione del capo d’imputazione, sia pure provvisorio. Quanto alle intercettazioni, Sisto conferma che “non vogliamo limitarne l’utilizzo nelle indagini bensì la diffusione, soprattutto per ciò che riguarda i non indagati”. Tra le misure allo studio c’è il divieto di indicare, nei provvedimenti destinati alla divulgazione, i nomi di persone che incappano nelle intercettazioni senza essere coinvolte negli ipotetici reati. Ma anche su questa materia i problemi da risolvere restano tanti, ed è prevedibile che dopo la presentazione dei testi al Consiglio dei ministri, prevista dal Guardasigilli entro i primi di giugno, arriveranno altre modifiche. Ci sarà un acceso dibattito in Parlamento, dove il Terzo Polo sulla giustizia sta più con la maggioranza che all’opposizione. E i magistrati - già sul piede di guerra contro Nordio per l’azione disciplinare avviata contro i giudici milanesi del “caso Uss” - aspettano di vedere i testi prima di dire la loro. “La nostra proposta sarà un punto di partenza, sia pure compiuto - chiarisce il viceministro - per una riforma di sistema che trasformi in realtà il Nordio-pensiero. Ma sarà anche una riforma modulare, con articolati distinti su ciascun argomento, in modo che se uno dovesse restare indietro, questo non incida sul percorso degli altri”. Gratuito patrocinio, Greco (Cnf) plaude ai nuovi limiti per l’acceso di Davide Varì Il Dubbio, 15 maggio 2023 Il nuovo limite di reddito per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato è stato elevato a 12.838,01 euro. Ripristinato “un principio fondamentale di equità e di giustizia sociale”. Nuovi limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Lo prevede il decreto interdirigenziale 10 maggio 2023 emanato dal Capo Dipartimento degli Affari di Giustizia con il concerto del Ragioniere Generale dello Stato. Il nuovo limite di reddito per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato è stato elevato a 12.838,01 Euro, in virtù di un aumento del costo della vita rilevato dall’Istat nel biennio 2022-2022. È stato corretto dunque il decreto precedente, del 3 febbraio 2023, in quanto quest’ultimo faceva riferimento alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo riguardante una finestra temporale precedente: 2018-2020. Plaude al cambiamento il Consiglio nazionale forense, che con il presidente Francesco Greco commenta: “La revisione dei parametri economici per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, frutto di un costante e produttivo dialogo tra il Consiglio nazionale forense ed il ministero della Giustizia rappresenta un principio fondamentale di equità e di giustizia sociale, che restituisce a tutti i cittadini, senza discriminazione economica, il diritto alla tutela dei diritti”, dice il presidente del Consiglio nazionale forense. Era stato proprio il Cnf, con una delibera votata dal plenum degli avvocati il 5 maggio scorso, a sollecitare il ministro della Giustizia a intervenire immediatamente per rivedere i limiti economici per l’accesso al gratuito patrocinio, tenendo conto del tasso di inflazione, pari al 9,4 per cento. Il precedente provvedimento infatti “comportava una forte penalizzazione per i cittadini meno abbienti, i quali vedevano ridotta la possibilità di accedere alla giustizia in un momento di grande difficoltà economica per i contingenti problemi economici che il Paese intero sta attraversando”, recita una nota del Consiglio. Contro l’usura. Ora nessuno è più solo, ma la strada da fare è ancora molto lunga di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2023 Nessuno è più solo. Bisognerebbe dirlo ogni volta che si va in una scuola, un’università, un’associazione. Come un mantra. Oltre a dipingere gli scenari complici, raccontare gli eroi, enfatizzare le scorte, bisognerebbe cioè spiegare che oggi nessuno è più solo. Che non è più il tempo di Libero Grassi, l’imprenditore tessile ucciso nella Palermo del 1991, andato in tivù a denunciare i suoi estorsori di Cosa nostra e a dirgli che non li avrebbe mai pagati. Con il risultato di esserne ucciso una mattina di agosto mentre andava al lavoro. Lasciato perfettamente solo dai suoi colleghi, singoli e associati, prima e dopo, anche da morto. Finché non scattò la reazione dei commercianti di Capo d’Orlando, che con Tano Grasso si unirono nella prima associazione antiracket. Cose che chi ha vissuto quei tempi con occhi aperti ricorda benissimo. Quel che molti non sanno, e nemmeno io sapevo, è però che in quel periodo la reazione scattò anche ad altre latitudini. Ossia a Saronno, provincia di Varese. Lì iniziò la storia di rivolta di un imprenditore di nome Paolo Bocedi, che nel 1992 subì un attentato. Una rivolta con calvario, come accadeva allora e come purtroppo spesso ancora succede. La denuncia, i carabinieri che proteggono, i figli guardati a scuola con timore e anche fastidio per via della scorta che li accompagna, i clienti che riluttano a entrare nel negozio perché non si sa mai. E il processo, e la paura. L’Italia che sapeva di Capo d’Orlando nulla seppe di Varese. D’altronde la mafia è in Sicilia, mica in Lombardia… Ebbene, ho sentito Bocedi parlare l’altro giorno nel palazzo della Regione Lombardia a un convegno da lui promosso come presidente della società antiusura che ha fondato, “SOS Italia libera”. E davanti agli interessati l’ho sentito raccontare storie vere di usurati sottratti vittoriosamente alle grinfie dei clan. Ho sentito narrare con precisione gli itinerari per i quali queste persone sono passate, come da un prestito di mille euro si rischi da finire in una voragine di paura, di violenza e di rovina. Ho capito quanto la solitudine e la vergogna generino drammi autentici, fino all’idea (che non sempre resta solo idea) del suicidio. E sciorinando le sue memorie, mettendo in fila gli episodi in cui lo Stato è intervenuto con effetti decisivi, ha continuato a spronare con il titolo del convegno: “Mai più soli contro il pizzo”. Ne ho tratto una nuova tinta di ottimismo per il nostro futuro. Perché c’è sempre un giornalista, un consigliere comunale, un magistrato, un capitano dei carabinieri, un insegnante, un esponente di associazione, un parroco perfino, a cui rivolgersi. Non tutti, certo. Meglio non cercare aiuto alla cieca. Ma i meccanismi associativi, le reti sul territorio sono in grado di consigliarci bene. Al convegno si è parlato anche di quanto poco costerebbe alle banche intervenire di fronte a un debito di 1.000 o 5.000 euro. Con garanzie pubbliche. E senza rischi di imbrogli. Bocedi non ha dubbi: “I veri usurati li riconosci già dagli occhi, dallo smarrimento, dalla paura”. Nell’occasione è stata anche rilanciata una proposta sostenuta da decine di istituzioni e associazioni. L’ha ricordata l’ex presidente della commissione regionale antimafia Monica Forte, che per il suo impegno ha avuto da Bocedi la presidenza onoraria della propria associazione. Perché, ha chiesto Forte pensando all’ondata di investimenti in arrivo, quando si fanno opere pubbliche non si prevede per gli appalti sotto soglia (ossia quelli che non devono essere portati a bando pubblico) un punteggio premiale per le imprese che hanno denunciato i loro strozzini? Così, invece di essere mandati in rovina dalla “cattiva reputazione” che tante volte ha fatto chiudere bar e artigiani, saranno aiutate a restare sul mercato. Alla faccia di estorsori e usurai. A pensarci, davvero il motto vincente è “Nessuno è più solo”. Bisogna dimostrarlo sempre, questo è il problema. “Seimila agenti in più per avere città sicure” di Fausto Carioti Libero, 15 maggio 2023 Intervista al ministro dell’Interno Piantedosi. Per una di quelle stranezze che capitano in politica, nei giorni scorsi il lavoro di Matteo Piantedosi e del suo ministero è stato apprezzato dal sindaco di Milano, il pd Beppe Sala (“Il ministro è molto attento, molto sul pezzo, segue con attenzione quello che sta succedendo...”), ma non dal governatore lombardo, il leghista Attilio Fontana (“Se il ministro ritiene che il calo dei reati in Stazione Centrale sia un buon risultato, andiamo avanti così. Io dico di no”). Ma il ministro dell’Interno assicura che non c’è alcun caso aperto. “La sintonia con il presidente Fontana è piena e totale, come lui stesso ha precisato”, dice Piantedosi a Libero. “Condivido con lui progetti importanti, come quello che riguarda la sicurezza dei trasporti lombardi. Dal primo giorno di insediamento ho dedicato una particolare attenzione alle maggiori aree metropolitane, per curare i problemi della loro sicurezza. Milano, ma anche Roma, Napoli e tutte le altre”. Molto passa per la collaborazione con i sindaci. Com’è il rapporto con loro? “Li ho incontrati più volte e da quel confronto hanno poi preso avvio, con il loro contributo essenziale, una serie di azioni per garantire ai loro territori migliori condizioni di sicurezza. Abbiamo realizzato numerose operazioni interforze ad “alto impatto” nelle principali città metropolitane, concentrandoci in particolare presso le stazioni ferroviarie e le aree a maggiore affluenza di persone. Dal 16 gennaio sono stati impegnati in queste attività 21.042 operatori di polizia”. Con quali risultati? “Risultati concreti e misurabili: 180.466 persone controllate, 457 arrestati, 2.411 denunciati, 519 stranieri espulsi, 275 misure di prevenzione personale adottate. Abbiamo segnali tangibili dei primi effetti positivi che ci incoraggiano a proseguire. Perché se è vero che le statistiche fanno registrare delle flessioni, i reati sono ancora troppi e non dobbiamo sottovalutare la percezione di insicurezza dei cittadini”. Alla percezione di insicurezza contribuiscono i numerosi casi di violenze sessuali denunciati negli ultimi tempi a Milano. “Per effetto dell’intensificazione dei servizi nel quadrante della stazione centrale di Milano, nel primo quadrimestre di quest’anno l’indice di delittuosità è sceso del 3,7% rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente. Le violenze sessuali, in particolare, sono diminuite del 24%. Se poi confrontiamo i primi quattro mesi del 2023 con lo stesso periodo del 2019 - l’anno precedente alla pandemia - la flessione del numero dei reati è del 39%. Ma so bene che, anche se sul piano statistico si attesta un evidente calo dei crimini, a Milano si sono verificati episodi molto gravi, in particolare le aggressioni sessuali che ricorda lei. I cittadini ne sono preoccupati, ma devono avere fiducia nelle istituzioni”. Perché? “Perché si è riusciti ad assicurare alla giustizia la totalità degli autori di questi gravi episodi. Con l’intensificazione dei servizi, anche se non tutto si riesce a prevenire, gli autori dei reati vengono comunque in poco tempo arrestati e neutralizzati. Proseguendo in questo modo, riusciremo ad ottenere maggiori risultati anche in termini di prevenzione. Siamo di fronte a una sfida complessa che deve essere affrontata ogni giorno con impegno rinnovato e con il coinvolgimento di tutte le istituzioni competenti”. Si poteva e doveva fare di più, come dice Fontana? “Si deve fare di più. E faremo di più. Ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte, a partire da me e dal mio ministero. Un ruolo determinante lo hanno anche gli enti territoriali, che localmente devono contribuire ad arginare degrado ed emarginazione e tutti i fattori che alimentano i fenomeni criminali. Noi stiamo fornendo loro tutto il nostro sostegno, anche con crescenti risorse finanziarie per la sicurezza urbana”. II presidente Fontana le ha chiesto di ripristinare i presidi di polizia nei pronto soccorso degli ospedali. Il problema non riguarda solo Milano. E nel suo programma? “Lo è stato sin dall’inizio del mio mandato e non solo per la Lombardia. Proprio l’altro giomo ho visitato a Lodi un posto di polizia da poco riaperto nel nosocomio cittadino, e abbiamo già riattivato o potenziato presidi di polizia nei principali ospedali di tutta Italia, incrementandoli ad oggi del 50%. Proseguiremo su questa strada e abbiamo approvato una disposizione legislativa che ci aiuterà ad implementare in tempi più brevi queste nostre iniziative. Ia sicurezza del personale sanitario è fondamentale anche perché concorre ad assicurare il diritto alla salute dei nostri cittadini”. Anche se i reati sono in calo, il fatto che molti cittadini la pensino diversamente è un problema serio per un governo politico. Come pensa di affrontarlo? “Ho sottolineato io stesso il tema fondamentale della sicurezza percepita. Se qualcuno rinuncia ad uscire di casa per la paura di subire aggressioni, siamo di fronte ad una sconfitta della società e delle istituzioni. Quindi stiamo lavorando per aumentare la presenza delle forze di polizia in tutti i luoghi ad alta frequentazione, convinti che la visibilità delle divise sul territorio contribuisca non soltanto a prevenire i reati, ma anche a rafforzare il senso di sicurezza dei cittadini”. Gli organici attuali delle forze di polizia, per numero ed età media, sono adeguati a questi suoi programmi o servono nuove assunzioni, oltre a quelle previste? “Per il solo anno in corso il nostro governo ha già finanziato l’assunzione di 6.000 agenti in più nelle varie forze di polizia. Si tratta di uno sforzo importante, ma abbiamo intenzione di investire ulteriormente per incrementare gli organici e assicurare cosi il ricambio generazionale delle nostre forze dell’ordine. Sono già in corso le prime assegnazioni di nuovo personale, che destineremo al potenziamento del controllo del territorio. Sul fronte della sicurezza sui treni e nelle stazioni, inoltre, si aggiunge il piano del ministro Salvini per assumere nel gruppo Ferrovie dello Stato fino a 4.000 operatori nei prossimi anni”. II numero di immigrati senza dimora né lavoro nelle strade italiane è uno dei motivi per cui i cittadini si sentono spesso insicuri. Dall’inizio dell’anno sono sbarcati oltre 45mila immigrati; nello stesso periodo del 2022 erano stati meno di 13mila. Cosa state facendo? “Viviamo un momento storico di epocali crisi politiche, economiche e sociali che alimentano una spinta migratoria da alcuni Paesi mai vista prima. Con l’ultimo decreto in tema di immigrazione sono state approvate disposizioni che, da un lato, rafforzano i canali di ingresso regolare sul territorio nazionale, anche attraverso sistemi premiali e, dall’altro, potenziano gli strumenti di contrasto all’immigrazione irregolare. Abbiamo inoltre già avviato numerose iniziative con i Paesi di transito e di partenza per arginare gli arrivi irregolari. Ed è chiaro che dobbiamo collaborare con quei Paesi anche perché lì ci sia una concreta prospettiva di sviluppo che renda meno attrattiva la via dell’emigrazione. Anche per questo, oggi sarò in Tunisia, con l’obiettivo di rinsaldare la collaborazione bilaterale”. Siamo sempre in attesa di un piano europeo per impedire le partenze dall’Africa? Perché se è così, rischiamo di aspettare a lungo. “Certamente questa sfida può essere vinta soltanto in una dimensione europea. Grazie all’impegno della presidente Meloni e del ministro Tajani abbiamo rimesso il tema immigrazione tra i primi punti dell’agenda europea, ottenendo consensi crescenti. Sono processi complessi e talvolta lenti, ma confidiamo che i risultati non tardino ad arrivare. Il nostro obbiettivo resta quello di fermare gli sbarchi, gli arrivi irregolari e le attività dei trafficanti. In attesa di riuscirci, stiamo lavorando ad una gestione più ordinata degli arrivi, che impatti il meno possibile sui territori”. Non tutti i governatori condividono la vostra linea. Quelli di Emilia Romagna, Toscana, Puglia e Campania non hanno votato l’intesa col governo che delibera lo stato d’emergenza per fronteggiare l’immigrazione. “Sono procedure che abbiamo proposto a beneficio dei loro territori, mi spiace che non abbiano aderito”. Ha fatto discutere la sua proposta di usare l’intelligenza artificiale e il riconoscimento facciale mediante telecamere nei luoghi pubblici a scopi di prevenzione e di indagine. Pochi gradirebbero l’idea di essere riconosciuti e catalogati in un database mentre passeggiano. “In risposta a una domanda specifica ho semplicemente rilevato un dato di fatto, ossia le straordinarie possibilità offerte dal riconoscimento facciale sul piano della prevenzione e dell’individuazione di responsabili di reato. E allo stesso tempo ho sottolineato l’esigenza di trovare un punto di equilibrio tra diritto alla sicurezza e diritto alla privacy. Nessuno vuole vivere sotto l’occhio di un “grande fratello”. Il presidio di garanzia della magistratura e delle autorità indipendenti può consentire un utilizzo adeguato e bilanciato di tutte le opportunità che le innovazioni tecnologiche offrono alla sicurezza dei cittadini”. Si è molto scritto dei suoi rapporti con l’ex capo della polizia, Lamberto Giannini. Come stanno le cose tra voi? “Ho piena stima personale e professionale del prefetto Giannini, del quale ho apprezzato il lavoro svolto in carriera, da ultimo come capo della Polizia. Ora è chiamato a ricoprire un incarico prestigioso come prefetto di Roma, a cui tengo molto per averlo svolto proprio io prima di diventare ministro. Il prefetto Giannini, anche in prospettiva, è un’importante risorsa delle istituzioni dello Stato e sono certo che farà la differenza anche in questo nuovo, importante incarico”. Al posto di Giannini, al vertice della polizia è arrivato Vittorio Pisani... “Persona straordinaria e funzionario di grande esperienza e capacità. La sua storia professionale dice tutto”. “Ecco perché Aldo Moro liberato non serviva. Qualcuno ha approfittato del suo sequestro” di Fausto Mosca Il Dubbio, 15 maggio 2023 Ecco cosa pensa il giudice milanese Guido Salvini del rapimento, della prigionia, delle indagini e della morte del presidente della Democrazia Cristiana Ritiene che il sequestro Moro sia stato deciso e pianificato solo dalle Brigate Rosse o che vi sia stata una qualche forma di eterodirezione? Non direi una eterodirezione ma il mantenimento degli eventi su determinati binari da parte degli attori entrati sulla scena a sequestro avvenuto. L’obiettivo che si erano proposte le Brigate Rosse sequestrando Moro era quello di colpire ad alto livello il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali. Ma non sono riusciti nemmeno a scalfirlo, ammesso che esistesse. Incolti, salvo l’eccezione di cui tra poco dirò, impreparati a gestire un discorso al di fuori di quello delle armi, chiusi nella loro vetusta gabbia ideologica i brigatisti non si sono resi conto che il percorso che avrebbe avuto la prigionia dell’ostaggio sarebbe stata in realtà seguito, condizionato e in qualche modo diretto da altri che hanno colto l’occasione di quanto accaduto per dirigerlo ai propri fini Era uno scenario più grande di loro e in questo senso paradossalmente le Brigate Rosse sono rimaste confinate nel solo ruolo di esecutori. Non è un caso che dopo il sequestro, con il quale in realtà non hanno ottenuto nulla se non la separazione definitiva da quelle simpatie che pure avevano in alcuni contesti sociali, abbiano rapidamente percorso la strada del declino e dell’uscita di scena almeno come organizzazione armata. Ci può spiegare meglio chi ha approfittato del sequestro dell’onorevole Moro? Moro era inviso a entrambe le forze dominanti dello scacchiere internazionale dell’epoca. Non piaceva agli oltranzisti atlantici il suo progetto di associare il Pci al governo, progetto che era in discussione proprio nei giorni del suo rapimento. Ma non era gradito nemmeno ai sovietici perché Berlinguer e il Pci eurocomunista partecipando al governo avrebbero dimostrato che anche per via democratica si poteva accedere alle stanze del potere e ciò avrebbe significato il crollo del primato ideologico del Pcus. Moro voleva introdurre elementi dinamici in un quadro internazionale che doveva essere statico, metteva così in discussione gli equilibri di Yalta. Secondo lei quale nei 55 giorni del sequestro è stata il passaggio che aveva dentro di sé la premessa per un esito tragico? Secondo me il comunicato n. 3 con cui le Brigate Rosse annunciavano che l’interrogatorio proseguiva con la piena collaborazione del prigioniero, collaborazione ribadita nel comunicato n.6 in cui si affermava che Moro, con nomi e fatti, aveva rivelato i responsabili delle pagine più sanguinose della storia italiana Le Brigate Rosse avevano tuttavia dichiarato di non voler rendere subito pubblici, tramite i mass media o altri comunicati, il contenuto degli interrogatori. A quel punto l’intera vicenda è stata affrontata con occhi diversi. Non si trattava più con una operazione militare e giudiziaria solo di cercare il luogo ove era tenuto prigioniero ma di recuperare quei “verbali”. Lo ha colto bene nel suo libro di memorie Dieci anni di solitudine il senatore Giovanni Pellegrino già Presidente negli anni 90 della Commissione stragi. Prima di tutto Moro doveva essere delegittimato diffondendo l’interpretazione che scriveva sotto dettatura dei suoi carcerieri e questo concetto è stato inoculato nell’opinione pubblica. Poi l’obiettivo più urgente diventava quello di mettere le mani sugli interrogatori e renderli inoffensivi. Pensiamo al secondo rinvenimento di via Montenevoso nel 1990, con gli accenni che i manoscritti contenevano anche alla struttura Stay Behind. Molto probabilmente, questo è un aspetto che in genere non si considera, le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, a fronte del comunicato n. 6, comunque allusivo e sibillino, potevano temere che Moro avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto di più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Aldo Moro era politicamente morto, più ancora che morto divenuto ingombrante, poteva essere lasciato morire e così è stato. Il consulente Usa nel comitato di crisi Steve Pieczenik ha del resto spiegato anni più tardi in una intervista che la morte di Moro non era stata un insuccesso della sua missione, anzi era stato consentito che ciò accadesse senza intervenire. L’ostaggio più importante dal punto di vista degli equilibri politici, erano invece le carte, gli interrogatori. Alla fine Moro è stato ucciso e i suoi interrogatori completi non sono stati mai trovati né resi pubblici nemmeno con la caduta dell’intercapedine di via Montenevoso. Questo nonostante l’affannosa ricerca ordinata dal generale Dalla Chiesa anche in tutte carceri speciali e nonostante appaia molto difficile che gli originali, le bobine e forse qualche video siano stati bruciati, come ha sostenuto Moretti. Le Brigate Rosse erano maniache dell’archiviazione di tutti i loro documenti e ben difficilmente, anche in vista di un utilizzo futuro, si sarebbero private di un trofeo del genere. Quindi dopo l’abbandono da parte dello Stato, più interessato a quanto Moro avesse detto che alla vita dell’ostaggio, la sorte del prigioniero era segnata? Credo di sì. C’è stata nelle ultime settimane prima del 9 maggio l’iniziativa del Vaticano che, lo abbiamo definitivamente accertato con il lavoro della 2ª Commissione Parlamentare Moro, aveva messo a disposizione una somma enorme, 10 miliardi di lire, da consegnare alle Brigate Rosse in cambio della salvezza dell’ostaggio. Ma per quanto condotta ad alti livelli quella del Vaticano era pur sempre una “iniziativa privata” che non proveniva dal governo e dalle istituzioni mentre le Brigate Rosse pretendevano da queste un riconoscimento politico. Quindi era destinata a fallire. Alla fine vi è stato secondo lei un accordo tacito tra le istituzioni e le Brigate Rosse? Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, compreso il silenzio sui “verbali” di Moro, è molto probabile. lo ricorda sempre il presidente Pellegrino, che lo Stato si sia accontentato della verità, utile sul piano strettamente giudiziario ma parziale, offerta dal memoriale di Valerio Morucci e il livello di “dicibililità” si sia fermato lì. Una sorta di scambio tacito, appunto. Morucci, Moretti, con i suoi 6 ergastoli, e a seguire tutti gli altri hanno avuto i primi consistenti benefici penitenziari dopo appena una dozzina di anni di carcere, un trattamento molto più benevolo rispetto alla carcerazione subita da militanti meno noti di altri gruppi armati che però non avevano niente da vendere e rispetto anche ai condannati per delitti comuni. Chi condusse gli interrogatori di Moro? Certamente non solo Mario Moretti, un semplice perito industriale che aveva la metà degli anni di Moro e che non era all’altezza sul piano culturale di condurre un dialogo del genere. Credo che il regista degli interrogatori dello statista sia state “intelligenze”, forse il professor Giovanni Senzani, criminologo consulente del ministero di Giustizia, che operavano dalla base del Comitato esecutivo a Firenze e cioè dal back stage mai del tutto venuto alla luce di quei 55 giorni. Anche questo aspetto del sequestro è stato lasciato in ombra e anche per questo motivo le bobine degli interrogatori sono scomparse. Passando più in dettaglio alla vostra Relazione come avete lavorato nei termini di tempo ristretti dovuti allo scioglimento delle Camere? Innanzitutto per la prima volta con il lavoro di queste commissioni, la seconda Commissione Moro e la Commissione antimafia, si è offerta una ricostruzione visiva della scena di via Fani con piantine e rappresentazioni grafiche dettagliate in cui sono collocati, ognuno al suo posto, gli sparatori, i testimoni, le autovetture e le rose dei bossoli. E questo studio ha dato dei risultati. Credo che si riferisca al numero e alla posizione degli sparatori. Sono stati individuati tutti coloro che agirono in via Fani? Credo che dalla relazione emerga, sulla base di elementi oggettivi e non di dietrologie che abbiamo sempre evitato, che in via Fani abbiano agito più sparatori rispetto quelli indicati da Valerio Morucci. Mi riferisco a uno o più sparatori in alto a sinistra che annullarono il tentativo di reazione dell’agente Iozzino. Richiamo l’attenzione sul racconto di una testimone da noi sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. Poi un altro sparatore posizionato in basso a destra che colpì con precisione alle spalle il brigadiere Zizzi. Poi un testimone molto attendibile, un medico che stava passando in via Fani e che era stato praticamente dimenticato dagli inquirenti dell’epoca, ci ha confermato la presenza di una motocicletta accanto ai terroristi travestiti da avieri. Anche la presenza di una moto con funzioni di appoggio è quindi ormai una certezza. Sono protagonisti della scena di via Fani su cui non si è mai voluto dire nulla e bisognerebbe capire perché. Nella relazione si parla anche di quello che è avvenuto dopo la fuga da via Fani e del trasbordo di Moro sul furgone… Nella relazione c’è anche una ricostruzione della fuga del convoglio da via Fani da cui emerge che i brigatisti disponevano quella mattina non di uno ma di due furgoni e che ben difficilmente il trasbordo di Moro nella cassa di legno può essere avvenuto, come affermano, in una piazza frequentata, Piazza del Cenacolo. Con ogni probabilità quell’operazione è avvenuta nella zona isolata e boscosa di via Massimi, non molto dopo l’inizio della fuga, e con l’intervento di altre presenze che sono state taciute. Ancora sono emersi nuovi elementi che rafforzano l’ipotesi che l’ultima prigione di Moro, poco prima dell’omicidio, non fosse via Montalcini ma si trovasse proprio nella zona del Ghetto ebraico ove il corpo è stato ritrovato. Tutte zone d’ombra queste che dovrebbero avere una spiegazione e che si intersecano con il punto centrale e cioè la strategia e l’esito tragico di quei 55 giorni. La relazione approvata dalla Commissione antimafia è molto critica sul modo con cui furono condotte le indagini dagli investigatori e dalla magistratura già nei momenti immediatamente successivi a sequestro. Cosa ci può dire in merito? La fase iniziale delle indagini e cioè quella decisiva è stata condotta in modo artigianale. I testimoni oculari sono stati sentiti in modo più che approssimativo da differenti organi di Polizia giudiziaria e poi da magistrati che “ruotavano”, senza nemmeno una piantina che collocasse esattamente i testimoni e quanto avevano visto in un preciso punto dell’incrocio e senza fotografie con i vari modelli di vetture e furgoni da identificare. In questo modo, senza una struttura di indagine unica e dedicata, ogni audizione è avvenuta senza nemmeno conoscere il contenuto delle altre e senza quindi poter formare un quadro d’insieme e sovrapponibile. Non parlo di tecniche scientifiche, che all’epoca potevano non essere disponibili, ma di normali audizioni di testimoni la cui tecnica doveva essere un patrimonio degli investigatori e degli inquirenti. Eppure ci si trovava dinanzi al più grave delitto politico del dopoguerra. Dopo il mancato confinamento di via Fani e l’invasione dei curiosi questo è stato il secondo inquinamento colposo della scena del crimine. Poche delle conoscenze così perdute erano recuperabili, qualche testimone per fortuna è stato rintracciato e si è reso disponibile grazie all’impegno delle Commissioni parlamentari. La Commissione ha anche sentito Franco Bonisoli uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse e presente in via Fani. Come si è rapportato con voi? Franco Bonisoli ha da tempo ripudiato la lotta armata e ha partecipato a incontri anche nelle scuole sui temi del terrorismo e della riconciliazione con Agnese Moro e i familiari di altre vittime. Ma la sua audizione è stata desolante. Ci ha raccontato di non poterci dire niente perché aveva dimenticato, sì, dimenticato, dice così, tutto quello che era successo in via Fani e dopo. Come se uno dei principali protagonisti della più importante e con maggiori conseguenze azione brigatista potesse semplicemente averla del tutto rimossa dalla sua mente. Un comportamento, quello di Franco Bonisoli ma anche di altri in occasioni simili, che fa riflettere su certi atteggiamenti puramente esteriori e poco costosi che dopo la fine del terrorismo sono stati tanto apprezzati. Un vero mutamento interiore dovrebbe passare attraverso l’offerta di verità. Altrimenti la fraternizzazione anche con i parenti delle vittime rimane una scatola vuota e priva di contenuto. Cosa ne pensa del possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro dell’onorevole Moro? Non enfatizzo un possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro Moro. Può darsi che vi sia stato qualche appoggio logistico, ma non molto di più. Invece è certo che durante i 55 giorni della prigionia la criminalità organizzata, dalla banda della Magliana alla camorra, si sia proposta e sia stata attivata per individuare la prigione di Moro, anche con qualche probabilità di successo. Ma anche la disponibilità e l’attivismo della criminalità organizzata, ce lo hanno detto molte testimonianze tra cui quella di Maurizio Abbatino, fu fermata. Non per motivi etici ma perché Moro liberato non serviva più. Ma la storia dice che dietro le Br c’erano solo le Br e che agirono da banda armata e non da partito di Paolo Delgado Il Dubbio, 15 maggio 2023 I brigatisti che, travestiti da avieri, aspettavano in via Fani le macchine su cui viaggiavano Aldo Moro e la sua scorta impugnavano armi scadenti. Erano mitra vecchi e recuperati più o meno fortunosamente: nella sparatoria tre di quei mitra si incepparono, uno quasi non riuscì a sparare neanche un colpo. Non è un particolare poco significativo. Nel corso dei decenni successivi, si sarebbero infatti ipotizzate regie occulte di ogni tipo per quell’attentato che lasciò cinque vittime sul terreno e segnò l’inizio dei 55 giorni più lunghi e drammatici nella storia dell’Italia repubblicana, secondo una parte degli investigatori dilettanti anche con partecipazione diretta di agenti o malavitosi esperti per dare una mano al poco esperto “gruppo di fuoco”. Organizzazioni nazionali o internazionali o in compartecipazione tutte molto potenti, ricche e con depositi di armi efficienti a disposizione. Se le tennero però ben strette, mandando allo sbaraglio i brigatisti con armi vecchie e poco efficienti, rischiando di far fallire un complotto criminale che si presume ritenessero di una certa importanza. Il rischio di fallimento ci fu davvero. In via Fani, il 16 marzo 1978, la fortuna fece la sua parte in molti modi, a partire da una macchina parcheggiata abusivamente che impedì a Domenico Ricci, autista della Fiat 130 sulla quale si trovava il presidente della Dc, di sfruttare il malfunzionamento delle armi del commando per far manovra e sottrarsi all’agguato. Più della fortuna incise però l’impreparazione della scorta, di fatto disarmata. Le pistole erano nel cruscotto oppure sotto il sedile, i mitra nei bagagliai. Il convoglio seguiva sempre lo stesso percorso. Il caposcorta Oreste Leonardi, poliziotto di grande esperienza e legatissimo ad Aldo Moro, aveva predisposto un ottimo sistema di difesa da eventuali attentati alla vita del leader democristiano ma non aveva evidentemente considerato l’eventualità di un rapimento. La “geometrica potenza” dispiegata dalle Br nella loro operazione più clamorosa fu in realtà solo illusione ottica e tuttavia quell’impressione ingiustificata ma anche inevitabile di potenza è almeno in parte all’origine delle leggende fiorite in seguito sul sequestro. Possibile che una banda armata autonoma e autoctona, composta da giovani e giovanissimi (tra tutti i brigatisti coinvolti solo Mario Moretti, classe 1946, aveva superato i trent’anni), possedesse quella che sembrava una eccezionale capacità militare? A 45 anni da quella strage la dinamica dell’attacco è ancora oggetto di inchieste parlamentari, disamine e confutazioni dotte. Alcuni dei testimoni garantiscono sulla presenza di altri due brigatisti in moto, oltre ai 10 partecipanti all’azione identificati. Sono di limitata affidabilità: il principale tra loro affermò con assoluta certezza che una sventagliata di mitra aveva distrutto il parabrezza della sua moto, che però non era fornita di parabrezza. Ma il problema in realtà non è la maggiore o minore credibilità di questo o quel testimone. È la confusione indebita e anzi spesso la sovrapposizione tra due piani che dovrebbero invece restare rigorosamente distinti, quello strettamente penale e quello storico. Se anche fosse provato oltre i moltissimi e ragionevoli dubbi che in via Fani c’erano altri due brigatisti, cosa cambierebbe dal punto di vista storico? Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per la meno peregrina tra le conclusioni raggiunte nella scorsa legislatura dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro. I commissari sono convinti che lo spostamento dell’ostaggio dalla Fiat 132, sulla quale era stato caricato via Fani, al furgone che lo avrebbe trasportato, chiuso in una cassa di legno, nella prigione del popolo di via Montalcini non sarebbe avvenuto in piazza Madonna del Cenacolo, come da ricostruzione delle Br, ma in un garage molto più vicino a via Fani, di proprietà di un fiancheggiatore. Dovrebbe frenare le fantasie sbrigliate il ricordo del caso Germano Maccari, il “quarto uomo” di via Montalcini, individuato solo nel 1993. Da numerosi indizi era abbastanza evidenti che il sedicente “ragionier Altobelli” che aveva firmato il contratto d’affitto dell’appartamento di via Montalcini non poteva essere Mario Moretti. Sulla identità del misterioso Altobelli si erano moltiplicate leggende di ogni tipo: il vero capo delle Br, la raffinatissima mente che si nascondeva dietro Mario Moretti, una figura internazionale che padroneggiava molte lingue. Maccari era un militante di Centocelle, neppure un vero brigatista, arruolato per l’occasione e solo per quella da Valerio Morucci. Dal punto di vista storico, la sua individuazione non spostò una virgola. Maccari era un militante di Centocelle, neppure un vero brigatista, arruolato per l’occasione e solo per quella da Valerio Morucci. Dal punto di vista storico, la sua individuazione non spostò una virgola. Maccari era un militante di Centocelle, neppure un vero brigatista, arruolato per l’occasione e solo per quella da Valerio Morucci. Dal punto di vista storico, la sua individuazione non spostò una virgola. Del resto, se l’obiettivo dei terroristi eterodiretti, o meglio dei loro burattinai, era eliminare Moro, perché non ucciderlo subito, e anzi perché cercare di evitare l’esecuzione sino all’ultimo? Sul tentativo di Moretti di evitare la conclusione più tragica dei 55 giorni non possono esserci dubbi. Prese personalmente la decisione di disattendere la scelta omicida dell’esecutivo Br rinviando l’esecuzione di settimane. La lunghissima telefonata del 30 aprile alla famiglia Moro da una cabina telefonica della stazione Termini, quella nella quale il leader delle Br chiedeva un intervento in tv di Zaccagnini come condizione base per evitare l’uccisione dell’ostaggio, fu secondo i brigatisti che affiancavano Moretti il momento di massimo rischio dei 55 giorni. Morucci ammette senza perifrasi di essere stato convinto, mentre la chiamata si prolungava, che sarebbero stati uccisi di fronte a quella cabina telefonica. Anche dopo quella telefonata “ultimativa” Moretti lasciò passare altri 9 giorni prima di “eseguire la sentenza” comminata dall’esecutivo ma convalidata dal voto dei militanti. Inclusi quelli in carcere, i dirigenti storici che in seguito avrebbero affermato di essere stati contrari all’uccisione ma che sul momento votarono invece per l’esecuzione. In realtà il solo vero sospetto degno di nota è che lo Stato, almeno da un certo momento in poi, non abbia “voluto” provare e salvare Moro. Ipotesi che non prefigura alcuna eterodirezione delle Br ma punta su una specie di oggettiva “convergenza di interessi”. Ma è una ipotesi contraddetta da molti elementi. Paolo VI, con il sostanzioso appoggio di Giulio Andreotti, aveva raccolto una cifra enorme da offrire in cambio della vita di Moro: 10 mld. Lo stesso Andreotti aveva trattato col Pci per chiedere il semaforo verde, che ottenne. Cossiga aveva predisposto una specie di “sequestro numero due”, un bunker dove Moro avrebbe dovuto essere chiuso, se liberato, per essere “ricondizionato” psicologicamente. Gli atti delle direzioni dei vari partiti, soprattutto Dc e Pci, esaminati dallo storico Agostino Giovagnoli nel suo Il caso Moro, uno dei pochissimi titoli nella sterminata quanto depistante bibliografia sui 55 giorni, rivelano oltre ogni possibile dubbio che la Dc e il governo sperarono e cercarono anche sino all’ultimo di salvare Moro ma solo nei limiti molto angusti posti dalla necessità prioritaria di non arrivare a una rottura con Pci che avrebbe determinato la crisi di governo e le elezioni anticipate, col forte rischio che le urne risolvessero lo stallo determinatosi nelle elezioni del 1976, concluse senza un vincitore, a favore del Pci. Berlinguer era disposto ad accettare senza provocare la crisi una trattativa basata sul riscatto, che avrebbe comportato molte vittime quei 10 mld si sarebbero trasformati in armi e basi logistiche ma avrebbe permesso di rinchiudere le Br in una logica puramente criminale. Non avrebbe mai accettato una trattativa politica, anche solo limitata a quell’intervento di Zaccagnini in tv nel quale il segretario della Dc avrebbe dovuto parlare apertamente delle Br come di un’organizzazione politica comunista. Del quadro politico complessivo le Br non avevano tenuto alcun conto. Non lo avevano capito. Come si evince dal cosiddetto Memoriale, cioè dalle risposte all’interrogatorio che non è affatto sofisticato ma decisamente rozzo, avevano una visione schematica, convinta che lo Stato non avrebbe potuto evitare la trattativa una volta sequestrato “il capo”. Moro sapeva che la segretezza era condizione necessaria per trattare: a indirizzare il sequestro verso una conclusione che in realtà non auspicava nessuno fu la decisione delle Br di rendere pubblica la prima lettera di Moro a Cossiga, quella che avrebbe dovuto rimanere segreta. Non un complotto ma l’imperizia politica di un “partito armato” che al momento della verità seppe agire da banda armata ma non da partito. Torino. “Io a tre anni in cella con mia madre: un incubo che mi perseguita, ora basta bambini in carcere” di Federica Cravero La Repubblica, 15 maggio 2023 La testimonianza di Alessandro, ora cinquantenne, al convegno organizzato dalla Garante dei detenuti di Torino: una risposta al progetto del governo di togliere la potestà genitoriale ai condannati in via definitiva. La realtà è che tutti i bimbi che hanno vissuto il carcere sono così traumatizzati che passeranno la vita a flagellarsi, senza permettere a nessuno di amarli. Sogneranno spesso la prigionia. Sobbalzeranno quando il rumore di una serratura chiuderà la porta di una cantina. Strizzeranno gli occhi per paura se qualcuno darà loro una carezza. E si sentiranno sempre diversi, incompresi”. Ora Alessandro ha superato i cinquant’anni, ha provato a lasciarsi il passato alle spalle, ma non può. Aveva tre anni e mezzo quando i suoi genitori sono stati arrestati con pesantissime accuse e lui e suo fratello sono stati portati via. Era il 1975. Solo ora ha trovato la forza di raccontarsi. Lo ha fatto a Palazzo di Città, dove è stata presentata la campagna “ Madri fuori” su iniziativa della garante dei detenuti Monica Gallo che, in occasione della Festa della mamma, ha voluto sollevare il tema delle donne detenute con i loro figli. “In pochi istanti io e mio fratello ci trovammo in custodia a persone sconosciute - racconta Alessandro - Ci portarono all’orfanotrofio e avevamo paura, eravamo convinti che mamma e papà fossero morti, ammazzati”. Pensavano, inoltre, che la causa di tutto fosse il fatto di aver nascosto una bicicletta. E quando per il più piccolo venne il momento di andare a trovare la mamma in prigione, era “ ancora convinto che lo portassero al cimitero”. Alessandro ricorda tanti dettagli di quel giorno, il muro alto e protetto con i mitra, la mamma in cima a una scala, il divano di pelle verde scuro, la guardia fuori dalla porta. “ L’assistente sorrideva. Mia mamma piangeva, era tutto straziante”. Il distacco fu tremendo, solo dopo fu concesso di andare in carcere con lei. “Dormivo su una branda, come i carcerati. Ricordo ancora gli odori, i rumori, lo spazio stretto, il fatto che non potevo correre”, dice Alessandro oggi. E ricorda quei sensi di colpa lancinanti: quando era dentro per il fratello più grande rimasto fuori, quando tornava nell’orfanotrofio per aver lasciato la mamma da sola. “Nel 1975 non c’era la possibilità di restare e crescere con la mamma, come ora. C’erano solo periodi più o meno lunghi”, racconta Alessandro ricordando anche quando compilava le “domandine” per la mamma detenuta, “così impari a scrivere e la maestra è contenta”: domandine per il sopravvitto, per poter fare la doccia... Era un gioco, “come scrivere una lettera a Gesù bambino chiedendo, come regalo, una doccia calda e più cibo per la mamma e per me”. Due anni sono passati così, prima che la mamma e il papà venissero rilasciati, prosciolti da tutte le accuse. Senza però poter cancellare il trauma per lui e per suo fratello. Ieri i senatori Anna Rossomando e Andrea Giorgis hanno fatto visita all’Icam (la struttura dedicata alle madri) del carcere di Torino, dove al momento c’è solo una donna con un bambino. “Invece di superare lo scandalo delle madri detenute con i figli - dice Monica Gallo - il Parlamento ha rilanciato la proposta di togliere la responsabilità genitoriale a tutte le donne condannate in via definitiva a pene oltre i 5 anni. Ma è una nuova violazione dei diritti”. Per contro, invece, la Regione sta lavorando al superamento delle sbarre e ha aperto un bando di avviso pubblico per enti gestori per ospitare le donne carcerate con i bambini all’interno di comunità esistenti. “È una formula più flessibile - spiega il garante regionale Bruno Mellano - per rispondere a esigenze diverse; è stata creata una cabina di regia di cui fanno parte anche il Prap, centro di giustizia minorile, e l’Uepe, l’ufficio della magistratura per le esecuzioni penali, per affrontare i singoli casi delle madri detenute”. Roma. Festa della Mamma a Rebibbia: il destino di due bimbi “detenuti” di Adelaide Pierucci canaledieci.it, 15 maggio 2023 Sono due i bimbi reclusi a Rebibbia, un terzo nascerà a giugno: festa della mamma dietro alle sbarre. Festa della mamma in carcere per due bimbi detenuti. Sono due i piccoli attualmente ristretti insieme alle loro due mamme nel carcere di Rebibbia, un maschietto di 2 anni e una femminuccia di 8 mesi. Un terzo bimbo, figlio di un’altra detenuta all’ottavo mese di gravidanza, nascerà il prossimo mese. A far loro visita ieri mattina, 14 maggio festa nazionale della mamma, alcune consigliere capitoline, l’assessora Barbara Funari, la senatrice Cecilia D’Elia Riviello e i Garanti delle persone private della libertà personale, regionale e di Roma, Stefano Anastasìa Giagni e Valentina Calderone. “Una iniziativa organizzata nell’ambito della campagna “Madri Fuori”, spiega la consigliera capitolina e avvocata penalista Cristina Michetelli. Nell’occasione c’è stato un incontro oltre che con la neo-direttrice di Rebibbia, Nadia Fontana, anche con le mamme detenute e i loro piccoli, compresa una terza mamma che per il suo stato di gravidanza avanzata e a rischio è stata associata nella sezione nido. “I figli hanno assolutamente bisogno di socializzare con i loro coetanei e le madri di un percorso inclusivo che, oltre a stare con i loro figli, consenta loro una formazione e un reale lavoro di rieducazione”, spiega Michetelli. La promessa: il servizio anagrafico in carcere - Intanto su iniziativa della Garante per i detenuti di Roma Capitale verrà presto attivato un servizio di anagrafe in carcere. Tra le criticità avanzate dalle detenute, sia quelle coi figli in carcere che non, l’impossibilità di avere documenti anagrafici. “Per tutte le detenute i problemi rimangono sempre gli stessi: accesso ai servizi anagrafici, strutture dove poter usufruire di benefici e misure alternative all’esecuzione della pena in carcere, una casa e un lavoro dopo la fine della pena”, aggiunge la consigliera. Problematiche che si ripercuotono sui piccoli costretti a vivere nel carcere, nonostante gli spazi per i giochi, i giardini e il personale attento, non hanno possibilità di uscire e socializzare con gli altri bimbi “liberi”. Padova. Kevin, dalle sbarre al rap. “Mi sono ripreso la vita. Ora voglio aiutare gli altri” di M.T. Il Mattino di Padova, 15 maggio 2023 La musica come seconda possibilità. Kevin Pungu Luscima, ventottenne padovano originario del Congo, ha scelto di ripartire dal rap dopo l’esperienza di oltre due anni al Due Palazzi. È iniziata nel 2017. “È stata davvero dura: ti cambia la percezione che hai di te e del mondo che ti circonda” racconta il rapper, in arte Kevin Mopao. “Cerchi solo di rimanere sano di mente. Le giornate sono lunghe e tutte uguali, gli spazi stretti soffocano. poi sei sotto il costante controllo delle guardie con le quali non è sempre semplice andare d’accordo. Chi mi ha davvero aiutato sono state le persone esterne, come Rossella Favero (Cooperativa AltraCittà) e Lara Mottarlini (Polisportiva Pallalpiede) solo per citarne due”. A contribuire alla rinascita di Kevin, infatti, anche le numerose attività offerte dal carcere. Oltre alla scuola superiore, ha partecipato al campionato di calcio con la Polisportiva Pallalpiede e a Ristretti Orizzonti, il giornale dalla casa di reclusione. “Ho fatto una valanga di gol, ero il bomber della squadra” ricorda con orgoglio “mi sono divertito davvero tanto. Ma l’esperienza più bella della mia vita l’ho vissuta con Ristretti Orizzonti. Ho incontrato tantissimi studenti. Inizialmente avevo paura, mi chiedevo cosa avrei mai potuto dirgli. Poi sono stati i ragazzini a mettermi a mio agio. In quel momento non mi sono sentito un criminale, ma un possibile esempio per i più giovani, e loro lo sono stati per me”. Oggi Kevin Lushima fa musica rap, con le sue canzoni racconta sé stesso, la sua esperienza, e dentro al Due Palazzi non ci vuole tornare più. Non a caso il suo primo singolo, uscito nel 2019, si intitola “Non tornerò dentro”. “Quando sono uscito è stato davvero bello, la testa mi girava, l’aria era più leggera” continua “ho sentito che finalmente avrei potuto riappropriarmi della mia vita. La musica per me è stata una ripartenza. Ora so che è la mia strada e voglio che diventi il mio lavoro. L’esperienza del carcere mi è servita anche per capire cosa volessi fare nella vita. Oltre a fare musica mi piacerebbe diventare sindaco della mia città, Padova. Si possono davvero tante cose per aiutare le persone più fragili, chi è in difficoltà e rischia di prendere decisioni sbagliate. Io tutto questo l’ho vissuto, so cosa significa e per questo penso di poter essere d’aiuto”. Sassari. Il detenuto si laurea dietro le sbarre: prove di normalità anche a Bancali di Andrea Sini La Nuova Sardegna, 15 maggio 2023 Per la prima volta nel carcere sassarese la discussione della tesi avverrà in presenza. Dietro le sbarre, per definizione, non si può respirare aria di libertà. La normalità però è un concetto che si può costruire e ricreare. Persino in carcere, persino in un carcere pieno di problemi come quello di Sassari. A Bancali però in questi giorni ci si prepara a un evento “normale”, e per questo straordinario: la laurea di un detenuto, con la discussione della tesi all’interno dell’istituto penitenziario. È la prima volta in assoluto. Merito dello studente, ovviamente, ma senza il “Pup” niente di tutto questo sarebbe possibile. “Il “Polo Universitario Penitenziario” dell’Università di Sassari è un sistema integrato di coordinamento delle attività volte a consentire il conseguimento di titoli di studio di livello universitario ai detenuti e agli internati, secondo le intese siglate dall’Ateneo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sardegna”. A parlare è Emmanuele Farris, docente della facoltà di Chimica e Farmacia, nonché delegato rettorale per il Pup dell’ateneo sassarese. “Per noi si tratta di un evento davvero rilevante - spiega il professor Farris -. È un risultato raggiunto con fatica e difficoltà, ma significa che c’è speranza. Significa che le carceri non sono solo luoghi di espiazione della pena e di afflizione, significa che si può anche dare applicazione al dettame costituzionale che prevede che la pena debba avere un fine rieducativo, di riscatto, di reinserimento. In questo caso è così e questo secondo noi è un fatto che riguarda tutti”. Lo studente laureando è iscritto al corso di laurea in “Progettazione, gestione e promozione turistica di itinerari della cultura e dell’ambiente”, che ha sede nel polo universitario di Nuoro e fa parte del dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’università di Sassari. “Tra un collegamento su Teams e una laurea in presenza all’interno delle mura del carcere c’è tutta la differenza del mondo e il covid da questo punto di vista ci ha un po’ frenati - sottolinea Salvatore Gaias, docente di Diritto pubblico comparato e delegato per il corso di laurea in oggetto -. Bancali di solito finisce sotto i riflettori per fatti non piacevoli. Questa laurea è un fatto enorme, perché spesso ci dimentichiamo che anche le carceri sono luoghi pubblici, come gli ospedali o gli atenei. E in questo caso ci sarà infatti la commissione e anche il pubblico, che sarà composto da parenti autorizzati, docenti e da altri detenuti. Il carcere è pena e restrizione della libertà, ma la vita delle persone che sono là dentro non può essere considerata finita. Il merito è tutto dello studente, ma niente di tutto questo sarebbe possibile senza il supporto morale, motivazionale ma anche pratico di educatori, volontari, personale penitenziario e accademico”. Le carceri non sono tutte uguali e la diversa complessità si riflette anche sul diritto allo studio dei detenuti. “Le case di reclusione sono stabili perché vi si trovano persone con condanna definitiva - spiegano ancora Farris e Gaias. Le case circondariali hanno rami e sezioni, e dentro c’è di tutto, con un’instabilità che rende complicato studiare. Bancali è un istituto ad alta complessità, il secondo in Sardegna dopo Uta per numero di detenuti, con quattro circuiti principali: maschile, femminile, sicurezza e 41 bis. Più sottocircuiti”. Top secret, ovviamente, le informazioni relative al detenuto, che ha scritto una tesi in Storia economica e sociale della Sardegna romana, intitolata “Una rilettura della Tabula di Esterzili attraverso lo ius honorarium”. “Lo studente - aggiungono i docenti - ha affrontato il suo percorso accademico come tutti i suoi colleghi di questa laurea triennale. Gli studenti detenuti sono regolarmente iscritti, sostengono esami veri e pagano le tasse come gli altri, anche se il regime di tassazione tiene conto dello stato detentivo. L’unica differenza è che tutto si svolge all’interno della struttura penitenziaria e che gli esami vengono fatti in videocall”. Quello che è straordinario, anche se non dovrebbe esserlo, è la sessione di laurea dietro le sbarre, con la commissione che si recherà fisicamente all’interno del carcere e andrà a sedersi di fronte allo studente, come in un qualsiasi luogo pubblico. “Per fare questo bisogna ovviamente presentare un’istanza al personale di sorveglianza - conclude Farris - e infatti da parte dell’università c’è grande apprezzamento dell’ateneo per la disponibilità del personale dell’istituto, senza il quale non sarebbe stato possibile dare allo studente questa opportunità”. Varese. Il lavoro dei detenuti e una rete territoriale al centro di un convegno luinonotizie.it, 15 maggio 2023 Il 29 maggio le realtà interessate, riunite intorno a un tavolo di lavoro dal Prefetto Pasquariello, si incontreranno per dialogare sul tema con anche la presenza del Sottosegretario Delmastro. Si è tenuta nel corso della mattinata del 5 maggio, presso la Sala Motta della Prefettura di Varese, una riunione del gruppo di lavoro incaricato di organizzare un convegno sulla tematica del lavoro dei detenuti all’interno e all’esterno dei luoghi di detenzione, come stabilito nella precedente riunione plenaria del 17 aprile scorso. All’incontro, presieduto dal Prefetto Salvatore Pasquariello, erano presenti l’onorevole luinese Andrea Pellicini, i consiglieri regionali Giuseppe Licata e Samuele Astuti, il sindaco di Varese Davide Galimberti, il dottor Francesco Maresca in rappresentanza della Provincia di Varese, il Garante regionale dei detenuti Avv. Gianalberico Devecchi, il Comandante della Polizia Penitenziaria Rossella Panaro e il Cappellano don David Maria Riboldi della Casa circondariale di Busto Arsizio, la responsabile dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Varese Lidia Galletti, il Presidente della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Varese Mauro Vitiello ed esponenti di organizzazioni sindacali, di associazioni di categoria a livello locale nonché di enti di formazione e di enti del terzo settore. I partecipanti all’incontro, dopo aver ribadito l’importanza dell’iniziativa in programma, hanno discusso in ordine ai dettagli delle questioni che saranno affrontate nel convegno, che si è stabilito di tenere il 29 maggio prossimo presso le Ville Ponti di Varese. In particolare, richiamando le opportunità offerte dalla cosiddetta Legge Smuraglia, che prevede sgravi contributivi e fiscali per le aziende che assumono detenuti o ex detenuti, è emersa l’esigenza di proporne una modifica finalizzata all’ampliamento della platea dei soggetti beneficiari. Si è evidenziata, inoltre, la necessità di creare un più intenso collegamento tra “il dentro e il fuori”, anche attraverso l’istituzione di uno sportello che favorisca l’incontro tra domanda e offerta di lavoro a beneficio delle persone detenute, e che, al contempo, consenta a queste ultime di accedere agevolmente alle prestazioni sindacali cui hanno diritto. Da ultimo, al fine di consentire una maggiore conoscenza e diffusione dei reali benefici del lavoro delle persone in esecuzione penale, si è proposto di riportare nel convegno le testimonianze dirette di due soggetti detenuti, di un rappresentante di un’azienda attivamente impegnata nell’obiettivo di promuovere il valore del reinserimento sociale della persona detenuta e di un rappresentante del Comune di Varese che ha in corso la realizzazione di un progetto avente le medesime finalità. Al convegno parteciperanno anche i parlamentari e i consiglieri regionali residenti e/o eletti nella provincia di Varese e, per le conclusioni, il Sottosegretario alla Giustizia, l’onorevole Andrea Delmastro. Torino. Il carcere e lo specchio: il CESP e la Rete delle Scuole ristrette al Salone del Libro di Anna Grazia Stammati tecnicadellascuola.it, 15 maggio 2023 “Siamo in carcere, noi ristretti, uomini e donne che devono espiare una condanna, proviamo a guardarci allo specchio all’interno di queste mura per vedervi riflesso il nostro vero volto, ma nello specchio, vediamo l’immagine di un’intera società. Una contraddizione: il sogno di un mondo perfetto che si scontra con lo Sguardo della realtà. Anche noi, come “Alice nel paese delle meraviglie”, abbiamo uno specchio da attraversare: purtroppo, di là, il paese che troviamo è reale. (Paolo - Rebibbia NC-Roma). Così, Paolo, uno degli studenti impegnati nel corso “Biblioteche innovative in carcere”, promosso dal CESP-Rete delle scuole ristrette presso la Casa Circondariale di Rebibbia-Roma (la Rete vuole far approvare progetti simili in vari istituti penitenziari), sottolinea la particolarità dell’esperienza maturata nel “trattamento” in carcere. Nel corso di quest’anno, gli studenti si sono misurati con l’immaginario utopico e, dai miti all’utopia di More, Campanella, Bacon, alle pagine di Mandeville, Voltaire e Swift, hanno incontrato l’opposto distopico di Huxley, Orwell e Bradbury. Così, tra i corsisti, è maturata l’immagine di uno spazio, quello della Biblioteca in carcere, quale luogo “utopico” altamente positivo, al di fuori del quale, una volta usciti per tornare in cella (specchio attraversato), si viene catapultati, però, nella realtà distopica del pianeta carcere. È su questo presupposto che è stata costruita la partecipazione della Rete alla XXXV edizione del Salone internazionale del Libro con un programma, organizzato e condiviso con il Salone “Il carcere e lo specchio. Due giornate di discussione intorno alla pena e al diritto”, con il quale la Rete porta il carcere fuori dal carcere, su una ribalta internazionale (l’altro importantissimo palcoscenico internazionale sul quale saranno gli studenti ristretti, a luglio, è il Festival dei Due Mondi di Spoleto). L’utopia legherà i momenti di partecipazione al Salone: nel pomeriggio del 21 maggio, nella Sala Blu, si svolgerà una Tavola rotonda sul carcere, tra giustizia e riparazione; nella serata del 21 maggio, sul Palco Live, ci saranno gli studenti e attori “ristretti” della #Compagnia SIneNOmine che, ispirati da Shakespeare, Caroll, Neruda, Poe, Pessoa, Freud e numerosi celebri scrittori, metteranno in scena i testi nati dai loro sogni ad occhi aperti; nella mattinata del 22 maggio, nella Sala Rossa, con gli scrittori di “Adotta uno scrittore in carcere”, che quest’anno hanno incontrato i detenuti di 14 carceri di sei regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Piemonte, Puglia, Veneto); tra fine mattinata e primo pomeriggio del 22 maggio, nella Sala Rosa, si svolgerà una Tavola rotonda “Perché è tutto in una lingua che non conosco. Il tempo e lo spazio della cultura in carcere”, articolata in due momenti: “Studiare dentro”e “Quando sono i non-detenuti a varcare la soglia del carcere”. Incontro emozionante, quello tra lettura, teatro, biblioteca e carcere, un’utopia che, pur se solo in parte realizzata, ha scoperto scenari inediti e nuove prospettive, sino ad incidere profondamente sul Programma nazionale di innovazione per l’esecuzione penale, presentato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel luglio scorso, nel quale si prevedono interventi in favore dei detenuti che tengono conto dei progetti realizzati dalla Rete. Attraverso l’azione costante dei docenti e con il bagaglio di esperienze per garantire il diritto di accesso della popolazione detenuta al patrimonio culturale della comunità, infatti, in questi 11 anni i docenti e studenti “ristretti” della Rete, con l’obiettivo di rendere istruzione e cultura centrali nell’esecuzione penale, sono riusciti a porre all’Amministrazione penitenziaria attività “trattamentali” per il reinserimento qualificato dei “ristretti”, grazie all’intenso coinvolgimento degli studenti, coinvolti in un percorso che li vede attori consapevoli delle proprie scelte future. Ciò non significa che il progetto complessivo sia realizzato: le difficoltà di portare nel quotidiano penitenziario quanto ottenuto attraverso il Programma nazionale per l’esecuzione penale, sono enormi perché, come recita il titolo della sessione pomeridiana del seminario del 22 maggio al Lingotto Fiere “Perché è tutto in una lingua che non conosco. Il tempo e lo spazio della cultura in carcere”, è proprio nella quotidianità del carcere, più che nelle norme scritte, che si sconta la difficoltà del cambiamento che la Rete sta incessantemente promuovendo per passare da una cultura della pena come “controllo” ad una cultura della pena come “conoscenza” del detenuto. Come accade a molti dei docenti e volontari (e a me stessa dopo 24 anni di insegnamento in carcere), ogni volta che si varcano i cancelli dell’istituto di pena in cui si svolge la nostra attività, ci si sente “respinti”, come immigrati alla frontiera di un paese straniero, persone non gradite, forestieri che parlano una lingua diversa e incomprensibile, non come risorse che permettono all’istituto di realizzare quanto pure previsto dall’Ordinamento Penitenziario “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona. […] Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. […]Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi” (art 1 Trattamento- Legge 26 luglio 1975 n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). *Presidente CESP La Spezia. Al via “Parole liberate”, tre appuntamenti fra Santo Stefano, Castelnuovo e Luni cittadellaspezia.com, 15 maggio 2023 Parte il giorno 18 maggio la rassegna Parole Liberate, curata dalla associazione ‘Parole liberate; oltre il muro del carcere’ e dalla etichetta sarzanese Baracca & Burattini. Si svolgerà il 18 maggio a Santo Stefano di Magra presso l’Opificio Calibratura area Vaccari, il 19 al centro sociale di Molicciara (Castelnuovo Magra) ed il 21 nell’anfiteatro romano di Luni. Parole Liberate è un progetto che parte con un bando, creato dalla omonima associazione ed emanato dal Ministero della Giustizia: si propone ai detenuti di scrivere un testo che diventa canzone grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana. L’album, prodotto da Baracca & Burattini, è distribuito da The Orchard-Sony Music ed ha avuto la collaborazione di Oliviero Toscani che si è occupato della grafica e della immagine di copertina. L’iniziativa è stata presentata nella sala stampa della Camera dei deputati e presso la sala Gonfalone della Regione Lombardia. L’album ha vinto il Premio Lunezia 2022 e si è classificato secondo alle Targhe Tenco 2022. Il Ministero della Cultura ha premiato l’iniziativa Parole Liberate come miglior progetto speciale 2022, tra le oltre 500 proposte presentate da associazioni, fondazioni, enti, filarmoniche. Lo stesso riconoscimento (e sempre al primo posto in Italia) è stato accordato dal ministero anche per l’anno 2023. La rassegna, realizzata grazie al patrocinio ed all’impegno delle tre amministrazioni della Valdimagra, vedrà le esibizioni degli artisti collegati al progetto oltre alla partecipazione di detenuti, ex detenuti ed operatori del mondo carcerario. Il programma musicale. A Santo Stefano di Magra: Ambrogio Sparagna (il più importante esponente della musica popolare italiana) con i Lumenea e Finaz (autore e chitarrista della Bandabardò). A Castelnuovo Magra: oltre agli Emis del chitarrista Dome La Muerte ed allo storico gruppo degli Yo Yo Mundi suoneranno, grazie a speciali permessi della amministrazione penitenziaria, i Khod che sono una band musicale formata all’interno del carcere di Volterra. A Luni si svolgerà, invece, l’edizione annuale del Premio Parole Liberate che proclamerà il testo vincitore per l’anno 2023. Si esibirà per l’occasione (oltre a Nuovo Normale, Teresa Plantamura, Luca Faggella e Max Bianchi) un personaggio mitico della musica leggera italiana; Enrico Maria Papes, storico leader dei Giganti. Concluderà la serata Andrea Chimenti che, nella sua lunga carriera, si è avvalso della collaborazione di artisti internazionali quali David Sylvian, Steve Jansen, Mick Karn e Mick Ronson (chitarrista e produttore di Bowie, Lou Reed e Bob Dylan). Brescia. StraOrdinarie Visioni, dodici anni di carcere di Valerio Gardoni popolis.it, 15 maggio 2023 È partito nel 2011 il progetto al carcere di Verziano è realizzato dalla Compagnia Lyria, in collaborazione con Ministero di Giustizia-Casa di Reclusione, elaborato sulla base di attività d’integrazione tra realtà carceraria e società civile, e in particolare dei giovani, utilizzando come elemento principale lo stimolo culturale. Si traduce nell’anno di Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura nell’evento: “StraOrdinarie Visioni # dodici anni di carcere” in programma dal 19 al 28 maggio in diversi spazi di MO.CA Centro per le Nuove Culture, Palazzo Martinengo Colleoni in centro città. La manifestazione offre uno sguardo ampio e appassionato sul Progetto Verziano, realizzato da Compagnia Lyria, con laboratori annuali di danza contemporanea, scrittura creativa e Metodo Feldenkrais® incontrano di volta in volta il teatro, le arti visive, la musica e il canto, per dare vita a produzioni video e azioni performative con la partecipazione di detenute, detenuti e liberi cittadini. Un concreto contributo all’operazione di recupero del senso degli Istituti Penitenziari come luoghi che interagiscono con la collettività, per sviluppare una reale cultura dell’inclusione e creare un ponte tra il dentro e il fuori. Il programma è denso di eventi che si sgranano sino a fine maggio, tra mostre, proiezioni di video e spazi di dialogo, presentazione di libri, spettacoli, convegni e due eventi riservati ai detenuti degli Istituti penitenziari di Brescia e Bergamo. Da segnalare l’inaugurazione di venerdì 19 maggio, nel cortile del MO.CA alle 18, ingresso libero. Il pubblico viene accolto nel cortile del MO.CA con l’azione performativa Istantanea #01, esito finale del Laboratorio di danza contemporanea, Metodo Feldenkrais® e scrittura svoltosi presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia nel corso del Progetto Verziano 12^ edizione. Istantanea #01 è una performance di composizione istantanea creata e interpretata da un gruppo di detenute e detenuti insieme ai performer di Compagnia Lyria. Comporre istantaneamente richiede presenza, la capacità di essere in contatto con se stessi e, contemporaneamente, di sintonizzarsi con gli altri, coglierne gli stimoli per creare un dialogo imprevedibile attraverso il movimento. Il processo creativo e l’atto performativo rappresentano un momento fondamentale per riconnettere le persone in stato di detenzione al tessuto sociale, obiettivo primario delle attività condotte da Compagnia Lyria presso il carcere di Verziano. La performance viene riproposta giovedì 25 maggio. L’evento StraOrdinarie Visioni # dodici anni di carcere è intitolato a Daniele Gussago, dal 1995 fotografo ufficiale di Compagnia Lyria. Il suo sguardo attento, discreto e intelligente ha colto istanti preziosi di questo lungo, denso straordinario viaggio, a cui è dedicata la mostra fotografica: Nell’ombra la luce. Nell’ombra vedere. Il programma completo a questo link: www.compagnialyria.it/straordinarie-visioni/ Pontremoli (MS). Mostra delle opere realizzate dalle ragazze dell’Istituto penale per minorenni Ristretti Orizzonti, 15 maggio 2023 Dal 15 al 28 maggio al palazzo del tribunale di Pontremoli. Da lunedì 15 a domenica 28 maggio, in occasione dell’appuntamento annuale Premio Bancarellino, il palazzo del Tribunale di Pontremoli ospiterà il grande evento espositivo patrocinato dal Comune di Pontremoli (MS) dal titolo ARKE. Si tratta di una mostra itinerante che espone le opere realizzate dalle giovani ristrette nell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli. In seguito al successo riscosso a Firenze il 29 aprile scorso durante l’evento “Invisibili” che proponeva uno scambio tra le opere degli Istituti Penali per Minorenni di Firenze e Pontremoli, i prossimi giorni le opere delle ragazze riempiranno i muri del bellissimo palazzo di Pontremoli in piazza della Repubblica. ARKE celebra la tappa finale di un percorso artistico a cura dell’associazione La Poltrona Rossa, messo in atto a favore delle giovani ristrette. Il progetto triennale, sostenuto dal Ministero della Giustizia (dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità), conclude la seconda annualità attraverso questo evento aperto alla cittadina pontremolese e ai turisti che in questo periodo popolano la città. Quest’anno le ragazze hanno scelto un tema che rimanda alla ricerca delle origini, al concetto dell’essere, degli equilibri delle forze della natura e al principio, all’ARKE. Attraverso un percorso di scrittura e pittura creativa, le giovani artiste hanno potuto sognare una dimensione “altra”, dove la potenza dei quattro elementi, acqua, fuoco aria e terra, hanno potuto dialogare fra di loro e determinare la quintessenza e l’equilibrio della vita, la vita delle ragazze. È così che le giovani artiste si sono fatte ispirare dagli elementi del filosofo greco Empedocle. Con la lettura di testi classici, lo studio di storia dell’arte e tanta creatività leragazze hanno prodotto opere uniche che rimandano al concetto del “infinito”. L’evento ospiterà anche alcuni quadri realizzati dai giovani dell’Istituto Penale per Minorenni di Firenze e messi a disposizione dalla direzione dell’Istituto fiorentino e dall’associazione Progress che ne cura i progetti artistici. La mostra, organizzata dagli operatori dell’associazione La Poltrona Rossa, è resa possibile grazie alla disponibilità del Direttore Domenica Belrosso, dell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli (MS). L’evento ARKE sarà inaugurato lunedì 15 maggio alle ore 18:00. Al taglio del nastro saranno presenti le autorità, Tiziana Di Donna responsabile delegata della direzione dell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli e Ivana Parisi presidente dell’associazione La Poltrona Rossa. Oltre agli interventi il programma prevede la presenza di Maria Carla Centineo della Compagnia delle Erinni che leggerà alcuni testi “ristretti” del libro “Castelli di Lunae” realizzato con le ragazze della struttura detentiva pontremolese grazie ad un progetto sostenuto con i Fondi Otto per Mille della Tavola Valdese a cura della Poltrona Rossa. A seguire ci sarà la proiezione del video “La Mia Tempesta” fatto con le ragazze della struttura detentiva, per la regia di Ivana Parisi e prodotto dalla stessa associazione. Il video è stato proiettato all’evento espositivo fiorentino “Invisibili” promosso dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere. La Poltrona Rossa sviluppa progetti artistici e teatrali nelle strutture detentive in Toscana e Sicilia. Per info: Ivana Parisi presidente La Poltrona Rossa info@lapoltronarossa.it - 3400760481. Cosa si nasconde dietro la nostalgia del manicomio di Franco Corleone L’Espresso, 15 maggio 2023 L’attacco del Governo alla legge 180 e la costituzione di un nuovo tavolo tecnico sulla salute mentale da parte del ministro Schillaci destano preoccupazione. Il pensiero di Franco Rotelli ci può aiutare, contro la demagogia e la propaganda. Psichiatra legato a Basaglia, alle esperienze di apertura dei manicomi prima della loro chiusura nel 1978 con la legge 180, il suo orizzonte si era allargato. Sognava che la salute mentale fosse affidata non agli specialisti, ma ad altri attori: ad artisti, a persone di cultura, in altre parole al mondo della vita. La chiusura degli OPG, gli orrendi manicomi giudiziari, mi vide protagonista come commissario unico e trovai in Franco Rotelli un alleato prezioso. Al contrario di chi paventava che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) si rivelassero dei mini Opg, comprese che si era aperta una felice contraddizione e che tante energie erano coinvolte in una rivoluzione, che io definii “gentile”. La decisione del tribunale di Trieste di assolvere l’assassino di due poliziotti, in quanto incapace, ci scandalizzò e fu l’occasione per presentare la proposta di legge elaborata dalla Società della Ragione per cancellare il doppio binario del Codice Rocco. Oggi la proposta torna di attualità, dopo l’assassinio della psichiatra Barbara Capovani da parte di un soggetto che la dottoressa stessa aveva definito consapevole e capace, seppure narcisista. L’urgenza è dettata dalla strumentalizzazione di una tragedia per manifestare l’odio contro i basagliani ed esprimere senza pudore la nostalgia del manicomio. Si accusano le REMS di essere poche, con posti insufficienti, nascondendo che sono destinate ai prosciolti e non sono un luogo di internamento preventivo. Vengono richieste misure per prevenire atti violenti, trascurando che esiste già la libertà vigilata in seguito a un giudizio di pericolosità sociale. La verità è che mentre registriamo la riduzione dei reati gravi e in particolare degli omicidi (318 nel 2022 rispetto ai 1916 del 1991), assistiamo a un aumento della sofferenza mentale. L’evidenza dei dati ci dice che la soluzione dei contesti chiusi fa esplodere gli eventi critici. La sicurezza sociale richiede altri interventi, in primis la costruzione di un patto sociale con risorse adeguate. L’attacco è forte e la risposta non può essere difensiva. Occorre una riforma radicale. È indispensabile affermare il criterio della responsabilità anche dei soggetti con disabilità psicosociale, come prevede la Convenzione dell’Onu del 2006. Il processo aiuta la consapevolezza e il giudizio, senza accanimento, può facilitare percorsi individuali di cura per scontare la pena in strutture non carcerarie. Insomma la responsabilità è terapeutica. Al contrario, la designazione di “incapace di intendere e volere”, lungi dal proteggere la persona, spinge inesorabile verso la vecchia logica custodiale, travisata da cura. La proposta di legge n. 1119 presentata dall’on. Riccardo Magi permette di sciogliere questa contraddizione e rappresenta anche una risposta alla sentenza n. 22/2022 della Corte costituzionale: con cui la Consulta, salvando la legge 81/2014 che chiuse gli Opg, ha lanciato un forte monito al legislatore per risolvere alcuni dei nodi, ancora oggi aperti. Le case, il lavoro e il fisco ingiusto di Marianna Filandri La Stampa, 15 maggio 2023 La manifestazione dei sindacati porta all’attenzione pubblica alcune tra le più evidenti problematiche del lavoro. Una è rappresentata dal basso salario. È fondamentale, infatti, che con il lavoro si sia in grado di soddisfare necessità e bisogni innanzitutto materiali. Come farlo? Aumentando i salari ma allo stesso tempo guardando al costo di questo soddisfacimento. A questo proposito, la questione della casa è emblematica. In Italia ci sono più proprietari di casa che lavoratori. L’Istat ci dice che le famiglie proprietarie dell’alloggio in cui vivono negli ultimi anni si sono assestate intorno al 75-76%. La diffusione della proprietà riguarda tutte le classi sociali ed è associata a buone condizioni abitative. Cosa significa? Significa che vivono in proprietà dirigenti e cassiere, insegnanti e infermiere, funzionarie e operai. Significa anche che vivendo in proprietà si accede a buoni standard abitativi: si cura maggiormente l’alloggio e si investe nella manutenzione. Tuttavia, questo non esclude l’esistenza di un problema casa. Il più evidente è sollevato dalla protesta dei giovani in tenda davanti alle università: mancano abitazioni in affitto a prezzi accessibili. Insomma, ragazzi e ragazze che vogliono frequentare l’università senza rimanere nella casa dei genitori cercano alloggi, magari piccoli e per periodi transitori, ma economici. Alloggi che però non si trovano. E non li trovano neanche i giovani che l’università non la frequentano e neppure le famiglie che non accedono all’acquisto. Vi sono infatti molte richieste per poche abitazioni. Come è possibile dato che il numero di case supera ampiamente il numero di famiglie? Parliamo infatti, sempre secondo Istat, di quasi 28 milioni di abitazioni per circa 25,6 milioni di nuclei. Vi sono diverse ragioni, qui ne citiamo due particolarmente rilevanti. La prima è che non tutti gli alloggi si trovano in località di interesse. Quando parliamo del problema abitativo, facciamo riferimento a contesti urbani, ossia alle difficoltà di trovare alloggi a buon mercato a Milano, Roma, Bologna, Firenze. Un piccolo appartamento in affitto in un paese delle prealpi liguri, per intenderci, non avrà molto mercato, a meno di non essere di interesse turistico. La seconda ragione è che le case nei centri urbani - e vale anche per le località turistiche - sono diventate uno strumento di finanziarizzazione. Dove la domanda abitativa è molto intensa, infatti, il mercato degli affitti brevi consente a famiglie proprietarie di seconde, terze e quarte case, di arricchirsi molto di più rispetto all’affitto con contratti residenziali. In questi casi, gli immobili non soddisfano più il bisogno primario dell’abitare ma come strumento finanziario, tolgono a una serie di individui e famiglie l’accesso a una condizione abitativa adeguata, per dare ad altri individui e ad altre famiglie l’opportunità di sfruttare la locazione temporanea per svago o affari. Cosa fare allora? Di nuovo la risposta non è univoca e sono diverse le misure da considerare. Due sono certamente le più urgenti. La prima riguarda la regolamentazione del mercato degli affitti. È infatti possibile definire il tetto massimo a cui affittare un alloggio. Oggi questa norma non esiste e anzi gli affitti vengono aumentati automaticamente in base all’inflazione. La seconda - che potrebbe inserirsi all’interno della riforma fiscale - riguarda la tassazione sulle rendite immobiliari. Queste ultime sono spesso soggette a un’imposizione del 21% per tutti coloro che optano per la cosiddetta cedolare secca, quando l’imposta sul reddito delle persone fisiche, l’Irpef, sarebbe più alta. E tornando al lavoro, citato all’inizio, questa bassa percentuale stupisce perché è meno della metà della tassazione di competenza del lavoratore sommata a quella dell’impresa. Dunque, due interventi dello Stato che mirano a riportare la casa ad acquisire il suo valore di bene primario a disposizione di individui e famiglie e non più di investimento finanziario. Migranti. La veterana dei salvataggi: “I miei 8 anni sulle navi umanitarie” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 maggio 2023 “Troppa morte, troppo odio attorno a noi, ho deciso di lasciare”. Ani Montes Mier, la pioniera dei volontari a bordo delle imbarcazioni prima di Open Arms e poi di Msf, si ferma e racconta: “La Libia, i naufragi, le mille storie di dolore, lo stress, le emozioni, mi porto dietro un bagaglio di dolore insopportabile”. “Josefa, ricordate tutti Josefa, la donna camerunense, unica sopravvissuta ad un naufragio, che salvammo dopo due giorni passati in mare aggrappata a quel che restava del gommone affondato? Ecco, solo la vita di Josefa, l’emozione fortissima di quella mano che si muoveva appena nell’acqua, gli occhi stravolti di quella donna, sarebbe valsa la vita di questi sette anni e mezzo trascorsi a soccorrere uomini, donne, bambini nel Mediterraneo. Ma non ce la faccio più: troppa morte, troppo dolore e anche troppo odio attorno a noi. Lascio”. Anabel Montes Mier, 35 anni, la bagnina asturiana dai capelli blu, la pioniera dei volontari a bordo delle navi umanitarie, un volto diventato famoso quando, nel 2017, la sua foto con in braccio un neonato strappato alla morte nel Mediterraneo dall’equipaggio della spagnola Open Arms fece il giro del mondo, è appena scesa a terra a La Spezia dalla Geo Barents. Quella sulla nave di Medici senza frontiere è stata la sua ultima missione. Anabel, perché questa decisione così inattesa da una come lei, punto di riferimento per centinaia di volontari che lavorano sulle navi umanitarie? “È stata una decisione difficilissima da prendere, questi sette anni e mezzo in mare mi sono sembrati venti. Rifarei tutto quello che ho fatto ma il livello di intensità, di tensione emotiva, la potenza delle esperienze drammatiche vissute sono diventati insopportabili. Capisco che è difficile comprendere per chi non è mai salito su una nave Ong, ma tutti gli orrori visti e ascoltati in questi anni hanno reso fragile anche una persona come me che si è sempre ritenuta forte. Sindrome da stress post-traumatico, la diagnosi che ho ricevuto, io soccorritrice. Provate a capire come stanno quelle persone dopo anni passati in Libia...”. Quante persone ha salvato in questi anni? “Non so dirlo, centinaia di soccorsi, migliaia di persone con le loro storie terribili che ho ascoltato per anni, decine di cadaveri, molti ma molti di più di quelli che avrei mai pensato di vedere. Persino la felicità per le vite salvate in mare macchiata dalla consapevolezza che poi a terra in pochi li aiuteranno. In fondo il compito delle Ong è evitare che queste persone muoiano in mare, poi dovrebbero essere gli Stati ad aiutarli. Ma sappiamo cosa accade poi. I bambini magari, come i tanti neonati che ho tenuto in braccio, riusciranno a costruirsi un futuro, ma gli anziani? L’altro giorno a La Spezia è sbarcata con me una profuga di più di 60 anni. Lei che vita avrà? Finirà per strada?”. Il clima attorno alle Ong da quando lei è salita per la prima volta su una nave è assai cambiato. Ha inciso anche questo? “Odio, quanto odio, e davvero non riesco a farmene una ragione. Mi hanno insultato in tutti i modi, augurato il carcere, lo stupro, la morte. Molto ma molto di più di quello che è umanamente tollerabile. Come è possibile che chi si prodiga per salvare vite sia ripagato così?” Anche in occasione del salvataggio di Josefa siete stati vittime di una violenta campagna di odio... “Una cosa terribile. Ci hanno accusato di aver inscenato quel salvataggio, hanno insinuato che quella foto fosse un montaggio, aggredito quella povera donna con la storia delle unghie laccate. Invece di commuoversi, come faccio ancora io oggi, a distanza di anni, quando ripenso a quella mano che si muoveva appena tra i rottami di un gommone. Ho pianto a dirotto a pensare al terrore di quella donna rimasta da sola per due giorni e due notti in mare”. L’esperienza più dura? “Un soccorso in cui fummo costretti a scegliere. C’erano decine di persone in acqua quando arrivammo, io ero su uno dei rhibs, non potevamo prenderli tutti insieme. Ricordo lo sguardo implorante di un ragazzo che tendeva la mano, ma dovemmo prima prendere donne e bambini, e quando dopo alcuni minuti tornammo da lui non c’era più, era andato a fondo. Quegli occhi ancora oggi mi perseguitano”. Lei è stata anche accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poi è stata testimone d’accusa al processo contro Matteo Salvini. Ora ha vissuto anche la stagione dei porti lontani alle Ong. Cosa pensa di tutto questo? “Quando mi indagarono, era il 2018, avevo 30 anni e tanti sogni e non capivo davvero cosa stava succedendo, come era possibile che improvvisamente da benefattori ci trasformassero in malviventi. Ero a bordo di Open Arms nei 20 giorni in cui Salvini si rifiutò di farci sbarcare i naufraghi, io sono stata prosciolta, lui è ancora a processo e io ho testimoniato contro di lui. Ho visto tanta manipolazione degli eventi, quarantene solo per le navi umanitarie, ora il tentativo di mandarci lontano per chiudere gli unici occhi nel Mediterraneo. Ho visto l’indifferenza omicida di Malta, i guardiacoste libici finanziati dall’Europa che ci sparavano addosso, ho visto la loro violenza sulle persone che dicevano di voler salvare. Un bagaglio di esperienze invisibile ma gigantesco”. La flotta umanitaria quanto resisterà in queste condizioni? “I rischi ci sono sempre stati ma oggi sono legittimati dalle politiche della Ue. Chi lavora a bordo delle navi non ha alcuna protezione, se ti sparano addosso e chiami, non viene nessuno, se chiedi aiuto per un soccorso ti osteggiano e perdono tempo e la gente continua a morire in silenzio nell’indifferenza generale. Il naufragio di Cutro emoziona perché avviene sulle spiagge italiane, ma ogni giorno c’è gente che perde la vita e nessuno lo sa”. Consiglierebbe ad altri ragazzi di fare la sua esperienza? “Certo, io sono eternamente grata a chi altruisticamente rende questo mondo migliore. Non dimenticherò mai l’affetto che ho ricevuto in questi sette anni dai miei compagni e da chi abbiamo soccorso. Oggi mi fermo, ma continuerò a seguire dalle retrovie quello che succede nel Mediterraneo dove l’aiuto delle Ong è purtroppo indispensabile. Quello che mi porto dietro lo scriverò con la penna, non voglio che niente, nessun nome, nessuna storia vada perduta. Buon vento a tutte le navi Ong”. Nigeria. Le carceri sono stracolme di condannati a morte di Valentina Giulia Milani africarivista.it, 15 maggio 2023 La Nigeria ha più di 52.446 detenuti in attesa di giudizio e 3.298 nel braccio della morte attualmente nei centri correzionali dei 36 Stati e del Territorio federale della capitale (Fct). Lo riferisce The East African riportando che gli attivisti per i diritti hanno continuato a lamentarsi della congestione delle carceri causata dai detenuti nel braccio della morte e dalle persone in attesa di giudizio. Gimba Dumbulwa, Assistente del Controllore Generale del Servizio Correzionale Nigeriano (NCoS), ha confermato nei giorni scorsi che i detenuti in attesa di giudizio stanno sovraccaricando le strutture dei centri di detenzione. In occasione di una conferenza di alto livello sul decongestionamento e l’amministrazione delle carceri ad Abuja, Dumbulwa ha affermato che alcuni dei detenuti sono rinchiusi senza processo da oltre 10 anni. Al 9 maggio 2023, i detenuti in carcere erano 75.436 in tutto il Paese, mentre 52.446 erano in attesa di giudizio. “Di questi, oltre il 70 per cento è rimasto in carcere a causa del ritardo con cui sono stati condannati e tenuti in custodia per più tempo del dovuto. Oltre 2.000 detenuti sono rimasti in carcere per più di 10 anni senza essere processati”, ha dichiarato. La pena di morte è legale in Nigeria e viene ancora utilizzata come punizione per vari reati, come l’omicidio, il traffico di droga e la rapina a mano armata. Tuttavia, negli ultimi anni, il governo nigeriano ha dimostrato un certo grado di riluttanza nell’esecuzione delle condanne a morte, poiché l’opinione pubblica e gli attivisti dei diritti umani si sono mobilitati per chiedere l’abolizione della pena di morte. Nel 2021, la Nigeria ha fatto un passo significativo verso l’abolizione della pena di morte quando il governatore dello stato di Lagos, Babajide Sanwo-Olu, ha commutato le condanne a morte di 2 detenuti in ergastolo. Inoltre, alcuni stati della Nigeria hanno adottato una moratoria sulla pena di morte, sospendendo temporaneamente l’esecuzione delle condanne a morte. Tuttavia, ci sono ancora molti casi in cui la pena di morte viene ancora inflitta e eseguita in Nigeria, e gli attivisti dei diritti umani continuano a fare pressioni sul governo per abolirla completamente. Nel sistema giuridico nigeriano, il processo penale si divide in due fasi: la fase di giudizio e la fase di appello. Durante la fase di giudizio, il tribunale ascolta le prove e le testimonianze dei testimoni e decide se il detenuto è colpevole o innocente. Se viene condannato a morte, il detenuto ha diritto a presentare un ricorso in appello. Tuttavia, il sistema giuridico nigeriano è noto per i ritardi nella giustizia penale e gli abusi dei diritti umani, incluso l’uso di confessioni estorte con la tortura e la detenzione prolungata senza processo. Ci sono state anche segnalazioni di esecuzioni sommarie e ingiuste di detenuti nel braccio della morte in Nigeria. In sintesi, l’attesa del giudizio nel braccio della morte in Nigeria può essere lunga e incerta, e il processo penale in generale può essere caratterizzato da violazioni dei diritti umani e ritardi nella giustizia. Tailandia. Le opposizioni vincono le elezioni. Ma per cacciare i militari al potere può non bastare di Gianluca Modolo La Repubblica, 15 maggio 2023 Netta affermazione alla Camera di Move Forward e Pheu Thai. Per eleggere il premier però servono anche i senatori, nominati dagli ex golpisti. Un’onda arancione. Specialmente nella capitale Bangkok, dove si prendono tutti i seggi in palio tranne uno. Move Forward, il partito del 42enne Pita Limjaroenrat, trascinato dal voto dei giovani thailandesi, è la sorpresa più grande di questa notte elettorale. Secondo lo spoglio ancora in corso, è davanti (115 seggi) seppur di poco, a quello che alla vigilia veniva dato come il favorito, il Pheu Thai guidato dalla 36enne Paetongtar Shinawatra, altro partito dell’opposizione che vuole mettere fine a quasi un decennio di governi filo-militari (112 seggi). Militari che registrano una pesantissima sconfitta: 40 seggi per il partito al governo, il Palang Pracharat, e appena 25 per il premier uscente, l’ex generale golpista Prayuth Chan-ocha. Nel quartier generale di Move Forward, dove quelli sopra i 45 anni si contano sulle dita di due mani appena, pare di stare in un pub piuttosto che in una sede di partito: i volontari propongono birre artigianali locali, si mangia e si canta. Ognuno ha qualcosa di arancione, il colore del movimento: la borsa, lo smalto, un cappellino, una maglietta. Un ragazzo ne porta una con su scritto in inglese: “No more toxic democracy”, basta con la democrazia tossica. “I militari alimentano soltanto la corruzione in questo Paese”, ci dice la diciottenne Kaohom. “C’è bisogno di una svolta”. Una valanga di voti chiedevano e una quasi-valanga hanno ottenuto, entrambi gli schieramenti dell’opposizione. Pheu Thai e Move Forward, sono destinati ora ad unire le forze. “Spingeremo per una coalizione con loro”, dice col sorriso il 42enne laureato ad Harvard, presentandosi in conferenza stampa cinque minuti dopo le 22, accolto dai suoi sostenitori al grido di “primo ministro, primo ministro!”. “Contiamo di arrivare a 160 seggi”, dice. I due partiti, mettendosi insieme, potrebbero arrivare, secondo le proiezioni, a circa 280 seggi (su 500) alla Camera. Ma per i risultati definitivi potrebbe volerci molto più tempo: la commissione elettorale si è data sessanta giorni per certificarli definitivamente, visto il complesso sistema elettorale thai. Per controbilanciare l’influenza dei 250 senatori nominati dai militari, l’opposizione avrebbe bisogno però di 376 seggi. Questo perché il primo ministro viene scelto a maggioranza semplice da un voto congiunto della Camera e del Senato. Si apriranno ora settimane, se non mesi, di discussioni. Se l’establishment al potere dovesse escludere dal nuovo governo i due partiti usciti vincitori, si potrebbe aprire un nuovo periodo di instabilità per la Thailandia. Uno scenario che consentirebbe ai partiti sostenuti dall’esercito di rimanere al potere è infatti possibile, visto che il Paese non è nuovo a interventi militari e giudiziari nel processo democratico. Negli ultimi 90 anni ci sono stati 12 colpi di Stato. Rilevante sarà anche il partito centrista, Bhumjaithai, attualmente terzo con 65 seggi: il partito - che spinse per la depenalizzazione della marijuana lo scorso anno - potrebbe essere indispensabile per qualsiasi potenziale coalizione. La performance di Move Forward evidenzia la popolarità del partito nei principali centri urbani della Thailandia, in parte dovuta al suo sostegno tra gli elettori più giovani, all’uso efficace delle piattaforme social, alla volontà di modificare la Costituzione scritta dai militari e alla revisione di quell’articolo 112 della Carta, il reato di lesa maestà, che è oggi uno dei più severi al mondo e può portare fino a 15 anni di carcere in un Paese dove il sovrano, Maha Vajiralongkorn, gode di uno status quasi divino. Oltre a Bangkok, il partito sembra destinato a vincere anche nelle province di Chiang Mai e Phuket. Un’onda arancione sulla Tailandia. Chissà se basterà.