Troppi rimpalli di Stato. Gaetano Bandiera sta morendo in carcere di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2023 Un condannato per mafia “incompatibile al carcere” sta morendo a Milano. È Gaetano Bandiera, 75 anni, boss della ‘ndrangheta e capo della locale di Rho (Milano). Storia di cosche e galera, ma il diritto alla salute deve essere concesso a tutti, persone perbene, corrotti o mafiosi. Come Bandiera che prima di essere arrestato il 22 novembre si portava in tasca una condanna definitiva per mafia incassata nel 2010. Già nel 2013 le sue condizioni fisiche non sono buone, ma è compatibile col carcere. Fino al 2018 quando ottiene il differimento pena nella villa di Rho. Da qui, spiega la squadra Mobile, riprenderà i suoi traffici, lasciandosi scappare la frase, intercettata: “Con me è tornata la ‘ndrangheta”. È mafia criminale: violenza e controllo del territorio. Davanti a Bandiera, sostiene l’accusa, gli imprenditori hanno abdicato. Criminalità a parte, resta il diritto alla salute e l’incompatibilità al carcere. In cella a Opera ha il treppiede per spostarsi, fuori usa la sedia a rotelle, all’aria non ci va, non è autonomo, utilizza l’ossigeno notte e giorno. Il perito di parte Marco Scaglione, il 7 gennaio scrive: “La situazione clinica è tale da dover prevedere una sua ubicazione extra-muraria”. Ospedale dunque, in alternativa i domiciliari. Un mese dopo anche i periti del Tribunale di Milano confermano e scrivono che “Bandiera va collocato nello stadio più grave, quello in cui la fatica respiratoria non abbandona il paziente neanche durante il riposo”, avendo una saturazione di ossigeno che dopo pochi passi scende “drasticamente a 85. Nel 2020 un paziente con Sars Covid 19 con una Sat 89 veniva ricoverato in Ospedale”. La conclusione dei periti del giudice, il 14 febbraio, è netta: “Un pronto ospedaliero è necessario e non rinviabile, per tutelare il diritto alla salute di Gaetano Bandiera”. Il giorno dopo il giudice dispone il ricovero nel “repartino carcerario” dell’ospedale San Paolo, lo stesso dell’anarchico Alfredo Cospito. Il reparto pur non paragonabile a uno di degenza normale, è vicino al pronto soccorso e ha i dispositivi d’emergenza. Ma Bandiera, spiega il suo legale Amedeo Rizza, per “sue pregresse esperienze” non vuole andarci. Dice che là “non lo curavano”. Il 22 febbraio il direttore di Opera scrive al Gip: “Sia il personale sanitario che la polizia penitenziaria hanno proposto nuovamente il ricovero in ospedale, evidenziando allo stesso i rischi connessi al rifiuto e alla necessità di tale procedura a tutela della propria salute (…). Si chiede a codesta Ag se questa Direzione dovrà avviare le procedure per il ricovero forzato”. Il tribunale conferma il trasferimento al San Paolo. Il 28 febbraio di nuovo la direzione di Opera scrive: “Si chiede far conoscere se debba essere individuata una struttura ospedaliera diversa. In tale caso, si chiede di voler valutare che ci si troverà nella condizione di mantenere (…) in una corsia ordinaria, alla presenza di persone comuni e malate, un detenuto appartenente alla ‘ndrangheta. E (…) far conoscere, in caso di ennesimo rifiuto (..) le modalità di esecuzione (…) specificando espressamente se debba farsi ricorso all’uso della forza fisica”. Il Tribunale risponde: “Il giudice non intende disporre il trasferimento in altre strutture ospedaliere”. Dopodiché “non si autorizza modalità di coercizione”. Il primo marzo ancora Bandiera rifiuta il ricovero, la direzione di Opera manda al gip che risponde: “Si comunichi al detenuto che non rientra tra le competenze del giudice la scelta delle strutture sanitarie esterne, che rientra tra le prerogative del Dap”. Lo stesso giorno Bandiera al giudice: “Rifiuto categoricamente di essere portato al San Paolo (…). Chiedo di essere portato in qualsiasi altro ospedale”. Che risponde: “Non rientra nelle mie competenze l’individuazione delle strutture ospedaliere trattandosi di ‘scelte’ del Dap. Il provvedimento è per la sua salute”. È il primo marzo. Oggi, mesi dopo, la situazione non è cambiata: il mafioso Bandiera rischia di morire nel centro clinico di Opera. E questo anche dopo le richieste della difesa al Dap e al tribunale per una misura domiciliare con braccialetto elettronico. Chi ne risponde per un mafioso? Nordio e l’urgenza di rivedere il diritto penale di Domenico Letizia L’Opinione, 14 maggio 2023 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intervenendo al Festival internazionale della Geopolitica europea in corso a Venezia Mestre ha concentrato la propria analisi sui prossimi passi della riforma del settore giustizia, sia a breve che a lungo termine, rilanciando anche una nuova visione del Diritto che abbracci valori universali. L’autorevole intervento di Carlo Nordio ha affrontato tematiche di importanza nazionale e internazionale: la riforma della giustizia, la certezza della pena, la lunghezza dei processi, i flussi migratori e la proposta di celebrare il 25 aprile quale festa dell’intera comunità europea. Nel corso dei lavori, il ministro ha ribadito: “Una seria riforma della giustizia non può aversi nel giro di pochi mesi. La filosofia diviene necessaria per comprendere il diritto ma è plurima e anche pericolosa perché ogni approccio filosofico può essere diverso. La storia del diritto insegna l’importanza della multiformità e insegna anche il relativismo, ove non sussistono delle regole certe valide per sempre. Non esistono leggi che possono cambiare la natura umana ma leggi che tentano di limitare i danni. Attualmente, agiamo in un sistema di diritto penale estremamente contraddittorio perché la Costituzione nella parte relativa al diritto penale è ancora quella ancorata alle leggi elaborate da Benito Mussolini. Ritengo si debba inseguire il modello anglosassone di un codice liberale accusatorio come quello elaborato da Vassalli. La legge deve cercare di risolvere i problemi individuali con il minimo danno sociale e i problemi sociali con il minimo danno individuale. Cosa bisogna fare? Spingere su una riforma della giustizia di stampo liberale. Il mio profondo convincimento è quello di rielaborare il codice anglosassone per superare la nostra visione del diritto penale”. Riguardo i flussi migratori, il ministro ha precisato che la legge che disciplina le migrazioni nel nostro Paese risale a numerosi anni fa, voluta da un governo di sinistra, con dei principi che non sono mai stati applicati e ciò rappresenta una forma di ipocrisia. “La selezione dei migranti non la facciamo noi ma prendiamo quello che i trafficanti di esseri umani mandano sulle nostre coste e siccome le povere vittime non riescono a pagare il viaggio, diventano indebitati e sono, dunque, costretti a delinquere per procacciarsi denaro e ripagare i trafficanti. Occorre che l’Europa e gli altri Paesi si accordino sui: Confini, la quantità di migranti disposti ad accettare e dove collocare questi esseri umani nel rispetto della dignità umana”. In sostanza, secondo il ministro, non si riesce a fare una selezione di persone bisognose, prendendo quello che i trafficanti di esseri umani inviano sulle nostre coste e facendone morire metà durante il tragitto. Inoltre, il ministro ha proposto che il 25 aprile diventi una festa e una ricorrenza europea perché: “la lotta al fascismo è stata una lotta dell’intera Europa, prima con gli Stati singoli e poi con una resistenza specifica interna ad ogni Paese europeo. Ricordiamo la gloriosa resistenza polacca o quella della Cecoslovacchia, la resistenza nei Balcani, quella avutasi nella stessa in Germania e quella in Italia”. Sulla durata dei processi, il Guardasigilli ha aggiunto che si sta cercando di porre rimedio all’eccessiva durata “aumentando le risorse e riducendo il target, cioè le pretese”. In particolare, il ministro ha soffermato l’attenzione sull’importanza di “velocizzare e semplificare le procedure nel civile e nell’amministrativo, eliminando tutta una serie di leggi”. Su quest’ultimo aspetto, il Guardasigilli ha evidenziato: “Stiamo mettendo in atto una cospicua assunzione di personale, nonostante la crisi economica”. Riguardo le progettualità e le riforme in corso, il ministro ha rimarcato: “Entro fine mese presenteremo in Consiglio dei ministri un primo pacchetto di riforme parziali, che vadano in una seria direzione liberale”. Magistrati: scatta la protesta contro Nordio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 maggio 2023 Stato di agitazione immediato e assemblea nazionale l’11 giugno contro il ministro che ha scaricato sulla Corte d’Appello di Milano la responsabilità della fuga di Artem Uss. Approvato un documento di Md: attenzione alla giurisprudenza difensiva. Stato di agitazione da subito e assemblea nazionale l’11 giugno. L’Associazione nazionale magistrati reagisce con determinazione, anche se forse un po’ in ritardo, all’iniziativa disciplinare di Carlo Nordio. Il ministro della giustizia il 12 aprile ha avviato l’azione contro i tre giudici della Corte d’appello di Milano che avevano concesso i domiciliari ad Artem Uss, il cittadino russo di cui gli Usa chiedevano l’estradizione e che invece è stato lasciato libero di scappare (in Russia) dalla custodia con il braccialetto elettronico. Ma mentre la procura di Milano indaga su questa clamorosa fuga (ha inoltrato rogatorie in quattro paesi europei) che solleva interrogativi sulla condotta delle strutture di pubblica sicurezza, Nordio ha puntato l’indice sui magistrati. Mettendo in discussione il merito della loro decisione, quando nemmeno la procura generale ha presentato ricorso contro la concessione dei domiciliari. Anche se al ministro non compete - per elementare rispetto della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura - contestare ai giudici la valutazione dei fatti o delle prove. Il comitato direttivo centrale dell’Anm ieri sera, dopo lunga discussione, ha approvato integralmente il documento proposto da Magistratura democratica, aggiungendo solo la data dell’assemblea nazionale. Che è un evento raro, l’ultima volta fu convocata nella primavera dell’anno scorso per a proclamare lo sciopero delle toghe contro la riforma Cartabia. Quello scioperò, contro una riforma ormai fatta, andò molto male. Stavolta invece i magistrati sperano di replicare la grande partecipazione e il clima febbrile che si è registrato nell’assemblea di Milano, convocata subito dopo la notizia dell’azione disciplinare di Nordio. Ieri sera tutte le correnti hanno approvato il documento di Md che è passato all’unanimità. Malgrado nella discussione la destra di Magistratura indipendente avesse sollevato più di un dubbio, soprattutto mettendo in discussione il passaggio centrale proposto dalle toghe di sinistra. Quello dove si paventa il rischio che l’azione con la quale il ministro ha censurato la concessione dei domiciliari “contribuisce a creare un clima da “giurisprudenza difensiva”. La misura cautelare, nel dubbio, dovrà essere sempre la più grave, ponendo al riparo il magistrato ma danneggiando i cittadini”. Alla fine voto unanime, anche sulla decisione di proclamare immediatamente lo “stato di agitazione” che in concreto significa assemblee locali aperte, per non restare in semplice attesa dell’11 giugno. I magistrati cercheranno di coinvolgere gli avvocati: se dalle Camere penali locali sono arrivate prese di posizione critiche verso il ministro, la rappresentanza nazionale dell’avvocatura penale ha glissato e le sue iniziative di lotta (scioperi) le ha usate per incalzare il ministro alle riforme che sostiene. Anche se, come ha fatto notare ieri il presidente dell’Anm Santalucia, “nulla è più lontano di questa vicenda dalle politiche del garantismo liberale che molti attendevano e in cui qualcuno ancora confida”. Demandare le misure cautelari ad un collegio? Una valutazione di impatto di Claudio Castelli Il Domani, 14 maggio 2023 La proposta ancora indefinita di demandare l’emissione delle misure cautelari ad un organo collegiale richiede un approfondimento che vada oltre le nobili ragioni di garanzia sottese alla proposta, per verificare la sua fattibilità. Tra l’altro il fatto che il provvedimento sia ancora allo studio incoraggia ad esprimere osservazioni e critiche che potrebbero essere utili al legislatore. Da quanto si è potuto sinora cogliere la proposta sarebbe di affidare l’emissione di misure cautelari personali (non si capisce se tutte o solo quelle custodiali) ad un organo collegiale, facendo diventare l’attuale Tribunale del riesame organo non più di impugnazione, ma direttamente di emissione della misura, con l’eventuale ricorso contro il provvedimento che passerebbe alla Corte di Appello. L’interrogatorio dell’indagato avverrebbe prima dell’emissione della misura con l’eventuale applicazione della misura richiesta o meno afflittiva solo all’esito dell’interrogatorio. Questo inevitabilmente comporterebbe un invito a comparire per rendere interrogatorio o più spesso un accompagnamento coattivo dello stesso (onde impedirne la fuga) davanti al tribunale completo di imputazione e di elementi a carico onde consentire una difesa sostanziale. In concreto a fronte della richiesta della procura e di una delibazione confermativa del tribunale collegiale, l’indagato comparirebbe davanti al collegio ove verrebbe sottoposto ad interrogatorio di garanzia, all’esito del quale la richiesta di misura verrebbe accolta, modificata o respinta. La fattibilità - Tralasciando altri aspetti e limitandosi ad una valutazione di fattibilità va subito osservato come sia del tutto impossibile che questa attività venga svolta dai tribunali dei diversi circondari, trattandosi in larga parte di piccoli o medi tribunali, che non hanno un numero di magistrati sufficienti a impegnare un numero così significativo di magistrati in questa attività pur fondamentale, che determina ulteriori inevitabili massicce incompatibilità. E difatti sembra che la proposta parli di affidare questi compiti a quello che attualmente è il tribunale del riesame distrettuale. Ciò ha comunque risvolti ordinamentali e pratici, di cui è bene essere consapevoli. Questo vuol dire anzitutto proseguire nella politica in corso da tempo di prosciugare le materie trattate dai tribunali circondariali, che vengono ad avere sempre meno competenze e meno specializzazione, a vantaggio di tribunali distrettuali sempre più oberati, specializzati e importanti, con la negativa creazione sempre più di tribunali di serie A e di serie B. I problemi pratici - In secondo luogo vi sono indubbi problemi pratici. La persona “fermata” a Sondrio dovrà essere invitata a comparire o coattivamente accompagnata a Milano con una progressiva centralizzazione e trasferimenti sia per gli agenti di pg che per i difensori. Non solo, ma inevitabilmente i provvedimenti con cui il tribunale del riesame disporrà l’interrogatorio si limiteranno inevitabilmente ad una delibazione della richiesta della procura, limitandosi a imputazione, elementi di prova e valutazione di fondatezza e non ad una compiuta ed esauriente motivazione (oggi si arriva a centinaia di pagine),sia perché si tratta di un provvedimento interlocutorio, sia per dare spazio alle ragioni della difesa, mentre il vero provvedimento verrà effettuato all’esito del contraddittorio. Ciò indubbiamente restringe gli spazi della difesa sia per la sommarietà della contestazione, sia per i tempi contratti. E ciò non è positivo per le garanzie dell’indagato. L’appello - Un cenno particolare va poi riservato all’appello, in quanto la proposta nei fatti sposta il riesame presso corti di appello già enormemente oberate che dovrebbero distaccare diverse unità (a volte decine) a svolgere tale attività. Proposta oggi del tutto irrealistica e che porterebbe le corti al dissesto. Infine il meccanismo pensato è del tutto inattuabile per le richieste di misure cumulative. Certo si potrebbe limitare ai processi che non riguardano la criminalità organizzata, ma non risolverebbe tutti i casi (non pochi) di reati associativi che non rientrano nelle ipotesi della criminalità organizzata. Ed inoltre accentuerebbe ancor di più il doppio binario con trattamenti del tutto differenziati tra processi “ordinari” e di criminalità organizzata. Due considerazioni si impongono comunque: l’Italia con il PNRR si è preso un impegno ambiziosissimo di riduzione di tempi e pendenze da far tremare i polsi e i riscontri che emergono dai dati ministeriali sul settore penale non sono per ora soddisfacenti. Sarà possibile raggiungerli solo con determinazione e impegno e mantenendo per un congruo lasso di tempo una stabilità normativa e organizzativa. Un’altra rivoluzione dopo l’enorme sforzo posto in atto ed in corso per l’attuazione dei decreti legislativi c.d. Cartabia vuol dire semplicemente abbandonare gli obiettivi del PNRR. Ogni politica legislativa, che ovviamente spetta al parlamento, deve comunque fare i conti con l’impatto complessivo che avrebbe sul sistema giudiziario e con l’impegno di risorse che implica. Continuare a far finta di avere risorse infinite e far ricadere su altri l’esito di riforme poco ponderate porta solo a proporre riforme finte o con fortissime controindicazioni. Si tratta di un metodo di legiferare ormai consolidato, ma non per questo meno pericoloso e da abbandonare al più presto. Errore di governo: colpo al diritto di difesa gratis di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2023 L’Ordine degli avvocati di Roma ha impugnato davanti al Tar del Lazio il decreto ministeriale sul gratuito patrocinio alla difesa, penale e civile. Altri ordini regionali faranno lo stesso. Il costo della vita aumenta di giorno in giorno, l’inflazione ha superato il 9%, ma il ministero della Giustizia ha abbassato la soglia di reddito massimo per accedere al gratuito patrocinio. E così 2 milioni di cittadini (su circa 17 milioni di potenziali interessati), rischiano di essere esclusi dal diritto costituzionale alla difesa in caso di processi penali e almeno un milione e cento in caso di procedimenti civili. “È una battaglia a favore dei cittadini più deboli - dice l’avvocato Antonino Galletti, consigliere del Cnf e presidente di Azione legale - La Costituzione garantisce il diritto di difesa a tutti”. Il ministero della Giustizia non ha tenuto in considerazione la grave inflazione e nel decreto del 27 aprile ha abbassato il limite del reddito per accedere al gratuito patrocinio da 11.746,68 a 11.743,93 euro. Può sembrare una differenza insignificante, ma così non è. Lo sbaglio sta nella errata applicazione dell’articolo 77 della legge del 2002 che obbliga il ministero a fare riferimento al biennio precedente al decreto nella valutazione dell’inflazione: “I limiti di reddito sono adeguati ogni due anni in relazione alla variazione Istat dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati nel biennio precedente…”. Quindi, il ministero avrebbe dovuto considerare l’indice del biennio 2020-2022, con inflazione galoppante, invece ha fatto riferimento alla tabella del biennio 2018-2020 con l’inflazione media a 1,9%. “Ma dal primo luglio 2020 al 30 giugno 2022 - spiega Alberto Vigani, vice presidente del Movimento Forense - la variazione è stata del 9,2%. Il ministero avrebbe dovuto innalzare il limite da 11.746,68 a 12.827,37 euro, con un incremento di 1.080,69 euro rispetto al valore attuale”. Come si arriva all’esclusione dal gratuito patrocinio di 2 milioni di potenziali aventi diritto? “Perché - prosegue Vigani - su oltre 41 milioni di contribuenti, la fascia che dichiara da 12 a 15 mila euro è di 3 milioni e 200 mila”. La platea potenziale in ambito penale è più larga rispetto al settore civile (1 milione e 100) perché per legge bisogna aggiungere al tetto massimo di reddito anche 1.032 euro per ogni familiare convivente. I più penalizzati vivono al Sud, in particolare in Calabria. In generale le fasce più colpite sono i pensionati, gli stagionali, i migranti e i part-time. In base all’ultima relazione, firmata dall’ex ministra Cartabia, nel 2020 sono stati ammessi nel penale 175 mila 863 cittadini, di questi, quasi 23 mila erano parti civili. In ambito civile, ammesse 223 mila persone. Le spese: nel civile sono stati liquidati nel 2020 oltre 121 milioni, ma potrebbero essere somme riferite anche a processi di anni precedenti perché il ministero è in ritardo nei pagamenti. Nel penale il liquidato ammonta a oltre 179 milioni. “Cifre non banali - - conclude Vigani - ma inferiori alla media dei 38 Paesi del Consiglio d’Europa”. Legge Saman, ora lo Stato è pronto a proteggere chi fugge dai matrimoni forzati di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2023 La proposta di legge Saman che ho presentato anche nella scorsa legislatura è stata approvata definitivamente alla Camera la scorsa settimana, seppure all’interno di un decreto del governo che possiamo definire incivile, razzista e disumano. Questa legge è uno spiraglio di luce tra i disastri del Governo, che continua a non ascoltare e a non confrontarsi con nessuno. Adesso grazie alla mia legge sarà possibile concedere il permesso di soggiorno alle vittime del reato di costrizione o induzione al matrimonio, in modo da evitare quanto capitò a Saman Abbas, la ragazza diciottenne pakistana residente in provincia di Reggio Emilia. Saman aveva fatto tutto quello che lo Stato chiede di fare in caso di violenza, aveva denunciato la famiglia, le minacce e le vessazioni subite per avere rifiutato un matrimonio forzato ed era entrata in un percorso di protezione. Qui però si era verificato il cortocircuito. In contesti familiari retrogradi, sessisti e criminali, i documenti delle figlie femmine vengono solitamente sequestrati dai genitori. Saman era tornata a casa con la promessa che le sarebbe stato restituito il permesso di soggiorno e questo avrebbe significato autonomia, indipendenza e possibilità di crearsi una nuova vita. Ma come è purtroppo noto dal maggio 2021, di lei si persero le tracce e pochi mesi fa, a seguito della confessione del cugino, il suo corpo è stato ritrovato vicino alla casa di famiglia. Ad ucciderla presumibilmente sono stati i familiari con la fondamentale complicità della madre che l’ha convinta a tornare a casa. Sull’intera vicenda pende tuttora un processo penale presso il Tribunale di Reggio Emilia. Il caso di Saman non è isolato purtroppo, in quanto, secondo i dati del Ministero dell’Interno, il numero dei reati commessi dal 2019 - anno in cui con la legge Codice Rosso è stato introdotto il reato di costrizione o induzione al matrimonio - al 2021 è andato progressivamente aumentando, attestandosi nel 2021 a 20 eventi con un terzo delle vittime minorenni, per lo più straniere. L’ultimo episodio è accaduto qualche giorno fa in provincia di Modena. Una diciannovenne, di origine indiane, ha rifiutato un matrimonio forzato perché innamorata di un altro ragazzo e per punizione i familiari l’hanno tenuta segregata in casa, picchiata e le hanno sequestrato i documenti e il cellulare. Sono stati gli insegnanti della sua scuola, con cui lei si era confidata, ad attivarsi per proteggerla e a denunciare tutto alla polizia. La burocrazia ancora una volta non ha aiutato perché, prima di trovare un centro protetto, la ragazzina è stata affidata alla preside, una privata cittadina che ha messo a repentaglio anche la propria incolumità mentre la famiglia della ragazza la stava cercando. Se prima le donne per paura rinunciavano a opporsi a regole patriarcali e misogine come la costrizione al matrimonio, oggi la storia sta cambiando. Sempre più ragazze si ribellano e denunciano. Lo Stato, però, deve essere pronto ad abbracciarle e a metterle in salvo. Perciò la mia proposta di legge Saman è una misura fondamentale di tutela e di civiltà perché, estendendo il rilascio immediato del permesso di soggiorno a tutte le vittime di matrimonio forzato, permette loro di svincolarsi subito dalla famiglia e di salvare la propria vita. Abbiamo compiuto un passo in avanti a favore dell’autodeterminazione delle donne, della loro liberà di scegliere, della loro vita. Voglio ringraziare le associazioni Telefono Rosa e Senza Veli Sulla Lingua, con le quali abbiamo scritto la proposta di legge e ci siamo battute per farla approvare. Ogni vittima di matrimonio forzato deve sapere che lo Stato è pronto a proteggerla. Nessun’altra dovrà subire ciò che ha subito Saman. *Avvocata e deputata Perché in Italia quando si parla di baby gang lo si fa spesso a sproposito di Massimiliano Carrà ed Edoardo Prallini L’Espresso, 14 maggio 2023 Ci sono gruppi strutturati come clan con leader e fini economici. Ma anche gruppi fluidi caratterizzati da disagio e rivalsa. Uno studio dell’Istituto di scienze forensi a Milano spiega le enormi differenze tra i fenomeni. Una realtà a due facce dove accanto a vere gang organizzate sul modello dei clan giovanili delle altre metropoli internazionali emerge un fenomeno diverso e più sfumato, definito bullismo da strada. È la fotografia aggiornata dell’universo, sbrigativamente liquidato dai media sotto l’onnicomprensivo cappello di “baby-gang”, della realtà minorile milanese scattata dall’Istituto di scienze forensi nel lavoro “Criminalità minorile, non solo baby gang. Analisi del fenomeno dello street bullying” nell’area metropolitana di Milano. L’Espresso ha potuto consultarla in anteprima. La ricerca evidenzia il fenomeno emergente dello street bullying. In qualche modo più fluido e per questo sfuggente e non meno insidioso delle baby gang vere e proprie. I sodalizi organizzati, strutturati, hanno infatti caratteristiche precise: tre o più membri con un’età compresa tra i 12, sporadicamente anche al di sotto di questa soglia, e i 24 anni, un nome, simboli d’identificazione, dal modo di comunicare e di vestire. E soprattutto un leader oltre che un territorio da marcare e controllare, in rapporto ad attività delinquenziali che producono vantaggi economici. Elementi identificativi di un fenomeno che non si ritrovano nello street bullying, verso il quale la devianza può non corrispondere a quella normata dal codice penale. Qui si tratta di gruppi di ragazzi che hanno come unico scopo quello di affermare la propria autorità attraverso la prepotenza, l’arroganza e a volte la violenza, senza alcun fine economico e senza un’organizzazione criminale alle spalle. Distinguere è fondamentale: “Si rischia altrimenti di considerare tutti i comportamenti devianti, alcuni tipici tra gli adolescenti, come la provocazione nei confronti degli adulti o il poco rispetto verso l’autorità dei genitori o dell’insegnante, come necessariamente delinquenziali”, spiega Hillary Di Lernia, responsabile del Centro di ricerca dell’Istituto di scienze forensi. In fenomeni come questi l’aspetto criminale è meno marcato e non ci sono le dinamiche da gruppo consolidato: “Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, ad agire sono gruppi fluidi, senza un leader e soprattutto senza alcun obiettivo economico”, spiega Di Lernia. In soccorso dell’analisi arrivano, del resto, anche i dati dell’ultima ricerca del 2022 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Smentiscono l’aumento di reati compiuti dai giovani. L’ultima ricerca del 2023 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità smentisce l’aumento di reati. Il numero di minorenni e giovani adulti in carico agli uffici di servizio sociale dal 2007 al 2022 è pressoché stabile (addirittura nel 2016 erano più dei 21.551 registrati nel 2022). Ciò non significa che non esista un problema sociale o che non esistano baby gang in Italia, bensì che la percezione del problema, a fronte di un allarme sociale indiscriminato, debba essere trattata in modo diverso. Conoscere, insomma, per comprendere e, se è possibile, intervenire in modo adeguato. Durata complessivamente un anno - da aprile 2022 ad aprile 2023 - la ricerca condotta dal team dell’Istituto si è concentrata esclusivamente su Milano. Un territorio che nel 2022, secondo quanto evidenziato da uno studio de Il Sole 24 Ore realizzato sulla base dei dati forniti dal dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, è primo in Italia per criminalità, con quasi seimila reati ogni 100 mila abitanti. La ricerca ha indagato sul campo la situazione nelle nove circoscrizioni in cui è diviso il comune. Nel quadro restituito spicca la presenza di un gruppo in particolare, che sembra incarnare tutte le caratteristiche di una baby gang. Gli investigatori dei carabinieri del comando provinciale della città la identificano con il nome di Barrio Banlieue. Composta da gruppi misti di ragazzi e ragazze, per la maggior parte provenienti da famiglie di migranti di cui sono la seconda generazione, con un’età media che oscilla tra i 15 e i 22 anni, con alcuni esponenti in età preadolescenziale (al di sotto dei 10 anni), la Barrio Banlieue controlla e opera in Zona 1, quella più centrale di Milano, esattamente nel punto nevralgico della città: il Duomo. La sua base si trova in Piazza dei Mercanti, già conosciuta per diversi episodi violenti di accoltellamenti e rapine per mano di giovani, oppure per la maxi-rissa che si è verificata tra 50 ragazzini nel giugno del 2021. “A differenza di tutti gli altri gruppi di giovani che compiono atti criminali nelle diverse zone di Milano, la Barrio Banlieue incarna tutte le caratteristiche di una baby gang. Fin dai primi appostamenti, infatti, abbiamo potuto notare il coinvolgimento di adulti di oltre 30 anni, la presenza di un sistema piramidale e quindi di un leader, e soprattutto il fine economico, attraverso la redistribuzione del giro d’affari creato con la merce rubata e la vendita di droghe, che avviene sia all’esterno sia all’interno della fermata della metro Duomo”, spiegano i ricercatori. Ma non è tutto. Oltre a essere molto attenti a ciò che li circonda e a situazioni sospette nell’ambiente nella loro zona di azione, la Barrio Banlieue sembra tenere sotto controllo gli ingressi dell’entrata secondaria di una nota catena di fast food, proprio in piazza dei Mercanti. “Dopo aver visto che molti di loro stazionavano all’interno, abbiamo provato a entrare da quell’ingresso. Ma è accaduto qualcosa di strano: il bodyguard ci ha guardati e ci ha detto: non vi ho mai visto, incoraggiandoci a non entrare. Inoltre, una volta finiti gli appostamenti, siamo stati pedinati per una parte del nostro tragitto”, racconta Di Lernia. Se la Barrio Banlieu risulta una delle baby gang presenti a Milano, contestualmente sono diversi i gruppi di giovani ragazzi che acuiscono il fenomeno del bullismo da strada. Tra le zone più calde ci sono San Siro - un quartiere dalle due facce - Calvairate, Corvetto, Quarto Oggiaro, NoLo, Giambellino e Lorenteggio. Quelle zone in cui, come evidenzia la stessa ricerca, si riscontra una forte presenza di abitazioni Aler e di case occupate. In due parole, povertà e disagio sociale. “La precarietà delle condizioni abitative spinge i più giovani a cercare un luogo dove possa instaurarsi la socializzazione con i coetanei. E dato che ciò non può avvenire all’interno delle mura domestiche, la strada, o meglio il quartiere, assume una funzione formativa”, sottolinea Di Lernia. A tal punto da incarnare un tratto distintivo, “familiare” con il quale identificarsi. Basti pensare che spesso i gruppi prendono il nome dal proprio quartiere di riferimento, della via, oppure ancora dal cap. Come nel caso di Z4, il gruppo di via Zamagna, una delle vie del quartiere San Siro considerate più problematiche. Per compiere atti criminali, i componenti decidono però di spostarsi al di fuori del proprio quartiere. Anche di poco, soprattutto dal momento che le criticità e il disagio “si scontrano quotidianamente con le condizioni di benessere e agio delle vie limitrofe”. È proprio la rabbia sociale, infatti, a guidare le azioni di questi gruppi. Una rabbia dettata “dall’eccessiva ricchezza circostante, da un senso di ingiustizia sociale” e che si scatena “verso coloro che non appartengono alla loro stessa comunità”. La stessa collera che incontra don Claudio Burgio, collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kairos: “Accogliamo una cinquantina di ragazzi, la maggior parte dei quali arriva dal penale minorile. Nei loro racconti notiamo diverse forme di rabbia contro le istituzioni, l’avversione nei confronti dello Stato, delle forze dell’ordine. Questa rabbia si estende laddove lo Stato, per educare, sceglie la linea più repressiva. È come se volessero dire: esistiamo anche noi, abbiamo una nostra dignità e questa educazione di tipo punitivo non la riconosciamo più. Rifiutano l’esercizio dispotico di potere”. Tuttavia l’aggressività spesso non viene esercitata, ma solo esibita, specialmente sui social media e attraverso la musica, soprattutto di genere Trap. Su Instagram, TikTok e su YouTube circolano numerosi video nei quali vengono mostrate armi da taglio e da sparo, soldi e ci si esibisce in gesti che emulano le gang. “La musica viene usata come strumento di riscatto economico, sociale, d’immagine”, continua don Claudio Burgio. “Non si tratta solo di una passione, ma di un mezzo di denuncia sociale, attraverso il quale consolidare e trasmettere al pubblico l’appartenenza al quartiere”. Uno strumento per scagliarsi contro un sistema che non guarda al minore ma al reato. Per questo la stessa ricerca suggerisce approcci differenziati ai fenomeni che tengano conto delle possibilità offerte dalla giustizia riparativa, dalla scuola e dalle politiche giovanili che rispondano a esigenze reali. La Consulta: “Con la recidiva l’ergastolo non è automatico” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2023 Ecco perché Alfredo Cospito può sperare in uno sconto di pena. Se Alfredo Cospito può sperare di evitare il fine pena mai è perché la condanna all’ergastolo non va considerata come l’unica condanna possibile per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano. Lo scrive la corte Costituzione nella sentenza emessa il 18 aprile scorso. La Consulta doveva valutare l’articolo del codice penale che per il reato di strage politica impedisce sconti di pena nei casi di recidiva aggravata. Oggi la corte ricorda di aver già fatto cadere la norma che avrebbe vincolato la Corte d’assise d’appello di Torino a condannare l’anarchico all’ergastolo. Quella norma considerava l’ergastolo come pena “fissa” e “indefettibile” nei casi di recidiva reiterata. Questo per effetto del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata. Divieto introdotto nel 2005 come deroga alla regola generale secondo cui il giudice può fare l’ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti. “Più volte la Corte costituzionale ha già dichiarato illegittimo - afferma una nota della Consulta - tale divieto con numerose sentenze in riferimento a reati anche molto gravi. In continuità con tali pronunce, la Corte ha ribadito che, nelle ipotesi in cui la differenza tra la pena base e quella risultante dall’applicazione di un’attenuante è molto elevata, l’effetto della recidiva reiterata non può essere tale da comportare il divieto per il giudice di fare ciò che il codice penale prevede in generale quando c’è il concorso di circostanze attenuanti e aggravanti: ossia, valutarle e compararle per stabilire se le prime possano essere, eventualmente, ritenute prevalenti. In questi casi, la necessaria funzione di riequilibrio della pena, svolta dall’attenuante, è compromessa dal divieto di prevalenza”. Questa considerazione “vale a maggior ragione nel caso in cui la pena edittale - si aggiunge nella nota della Corte - è quella fissa dell’ergastolo, perché la differenza è ancor più marcata di quella esistente nei reati ai quali si riferiscono le precedenti sentenze. Quando ricorre una circostanza attenuante, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da venti a ventiquattro anni e quindi la differenza è tra una pena perpetua, di durata indeterminata in quanto potenzialmente ‘senza fine’, e la reclusione, che è sempre temporanea”. E ancora: “la pena fissa e indefettibile dell’ergastolo, quale effetto del divieto suddetto, si pone, inoltre, in contrasto con il principio di necessaria proporzionalità della sanzione. Il giudice deve poter graduare la pena secondo la maggiore o minore offensività della condotta in concreto, tenuto conto delle circostanze del reato”. La Corte “ha precisato che, per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona imputata di uno dei delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, aggravato dalla recidiva reiterata, non ha più il divieto previsto dalla norma suddetta e può operare l’ordinario bilanciamento delle circostanze, come stabilito in generale dal codice penale, e, quindi, può ritenere che le attenuanti siano prevalenti sulla recidiva reiterata e conseguentemente non irrogare l’ergastolo; ma rimane che questa pena può essere inflitta ove il giudice valuti che, invece, le attenuanti non siano prevalenti sulla recidiva”. Sicilia. Si insedia il nuovo Garante dei detenuti: “Presto incontro ad Augusta” Quotidiano di Sicilia, 14 maggio 2023 Santi Consolo dopo sette anni prende il posto di Giovanni Fiandaca. Si è insediato il nuovo garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, Santi Consolo, che dopo sette anni prende il posto di Giovanni Fiandaca. Classe ‘51, magistrato in pensione, è stato nominato con decreto del presidente della Regione e rimarrà in carica per i prossimi sette anni. È stato capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia e nel 2014 ha svolto funzioni di procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e quella di Catanzaro. È anche stato componente togato del Csm. La cerimonia di avvicendamento si è svolta alla presenza dello staff dell’ufficio del garante con a capo il dirigente, Pietro Valenti. Hanno partecipato anche Gianfranco De Gesu, direttore generale della Direzione detenuti e trattamento del Dap, e Anna Internicola, dirigente dell’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna (Uiepe). “Sugli episodi molto tristi e dolorosi accaduti al carcere di Augusta, con la morte di due detenuti in seguito allo sciopero della fame, il mio impegno è immediato - ha detto il neo garante -. Ho già preso contatti sia con il provveditore a livello regionale per avere approfondimenti, che con la direzione dell’istituto di reclusione. Abbiamo già programmato un incontro con tutto il personale per comprendere le ragioni di un epilogo così tragico e drammatico”. “In questi sette anni - ha sottolineato il professore Fiandaca - ho avuto modo di conoscere la realtà carceraria in tutti i suoi aspetti, anche drammatici, e da questo punto di vista mi sono anche arricchito in termini di conoscenza e anche come studioso. In termini operativi ho cercato di impegnarmi secondo le mie capacità personali e ritengo di avere dato un contributo importante”. Torino: La campagna “Madri fuori” presentata ieri mattina a Palazzo di Città di Simona Lorenzetti Corriere Torino, 14 maggio 2023 Al momento nel carcere di Torino vive una mamma con una figlia di due anni. Ma nel recente passato le donne con bambini recluse erano arrivate a essere anche 11 con altrettanti bambini. “Questa mamma è in attesa di trovare spazio in una comunità - fa sapere l’assessora alle Politiche per la sicurezza, Gianna Pentenero, che l’altro giorno è andata in visita alle Vallette. L’isolamento di una sola detenuta in queste condizioni rischia infatti di rendere ancora più pesante la reclusione, vissuta quasi come un isolamento”. Arriva così anche a Torino la campagna per la dignità e i diritti delle donne condannate, dei loro figli e delle loro figlie. “Madri fuori” è stata presentata ieri mattina a Palazzo di Città. Un’iniziativa dell’ufficio della garante delle persone private della libertà personale, dedicata al tema delle madri che scontano la pena in carcere insieme ai loro figli. “La campagna nasce da una risposta immediata di una rete nazionale di donne - chiarisce Susanna Ronconi, una delle promotrici - soprattutto rispetto alla proposta del senatore Cirielli, di Fratelli d’Italia, che prevede di negare la potestà genitoriale a tutte le donne che abbiano una sentenza definitiva. Abbiamo davvero pensato di ribellarci a questo perché ci sembra una violazione grave dei diritti delle donne e dei bambini”. La garante, Monica Gallo, ha sottolineato che “a Torino abbiamo avuto una discesa consistente dal 2019 ad oggi per la pandemia. Su 11 mamme e 12 bimbi ad oggi ne abbiamo ancora una con un bimbo”. Per questo, sostengono le promotrici della campagna, “pensiamo che se la pena è quello che la Costituzione dice, ovvero qualcosa che serva al reinserimento delle persone, mantenere le relazioni familiari e sociali è una questione cruciale. Lavorare per fare l’opposto e distruggere queste relazioni ci sembra una cosa a cui opporsi”. Per l’assessore comunale alle Pari opportunità, Jacopo Rosatelli: “Le persone ristrette in carcere conservano diritti e dignità: lo dice la Costituzione ma evidentemente chi è al governo non lo sa. Bisogna quindi lottare per fermare questo disegno di legge che purtroppo è coerente con altre proposte per me contrario alla costituzione che il governo sta portando avanti”, conclude. Cagliari. Ha finito di scontare la pena ostativa nel 2014, ma è ancora in alta sicurezza di Eleonora Demurtas sardegnareporter.it, 14 maggio 2023 Inascoltate le istanze al Dap. Regime AS3 impedisce accesso a benefici penitenziari. È in carcere dal 2009. Dopo essersi costituito a Roma, ha conosciuto 7 Istituti Penitenziari. Nel 2013, processato per concorso esterno viene condannato a 6 anni e 8 mesi e passa dal regime della media sicurezza e quello dell’alta sicurezza. Nel 2023, nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, è ancora ristretto in AS3. Nonostante diverse istanze al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non riesce ad ottenere risposta. “Una storia amara - sottolinea Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”. Caligaris si fa interprete del disagio e disappunto del detenuto Massimo Vanlese. Napoletano, 50 anni, l’uomo è stato trasferito in Sardegna 9 anni fa, prima a Tempio e poi a Oristano Massama. Lì ha potuto frequentare con successo l’Istituto Artistico arrivando al quarto anno. Ha tuttavia dovuto interrompere il percorso scolastico, suo malgrado, per il trasferimento a Cagliari-Uta”. Le parole dell’avvocato del detenuto - “Dal 2017 - ha spiegato l’avv. Dessalvi - Vanlese ha ottenuto il permesso di recarsi a Napoli per incontrare il figlio disabile. Una concessione del Magistrato di Sorveglianza che ha accolto la sua richiesta. Questo spostamento, che avviene a spese del detenuto, è un percorso a ostacoli. È infatti condizionato dalla disponibilità della scorta che lo deve accompagnare fino al carcere della Penisola. Anche lì deve attendere però la disponibilità degli Agenti per essere accompagnato dal figlio. L’incontro peraltro avviene a casa di un’altra figlia che ovviamente deve dare la disponibilità. Se fosse declassificato potrebbe fruire di un permesso premio e/o di avvicinamento per i colloqui rendendogli l’incontro con l’unico familiare con il quale ha una relazione “costante” meno problematico”. “La vicenda di Massimo Vanlese - osserva Caligaris - appare come quella di qualcuno abbandonato a se stesso. All’umanità della Magistratura di Sorveglianza si contrappone quella di un Dipartimento sordo e cieco. Un caso che richiama ancora una volta l’esigenza che la pena sia umanizzata. Vanlese è consapevole dei reati che ha commesso e non sta chiedendo la libertà ma soltanto che qualcuno al Dipartimento presti attenzione alle sue istanze e proceda con la declassificazione. Dopo 14 anni ininterrotti di carcere forse lo si può ascoltare. L’auspicio è che l’ultima istanza di declassificazione, in ordine di tempo, presentata sia accolta in tempi rapidi”. Milano. Il pusher confessa e il giudice lo lascia libero di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 14 maggio 2023 “Lei è giovane e voglio darle una possibilità, non la sprechi”. L’uomo era stato arrestato in flagranza di reato a Milano. Il giudice in direttissima ha convalidato l’arresto ma non ha dato nessuna misura cautelare. Lui: “Lo faccio solo da qualche mese per arrotondare”. Lontano dalle luci di San Siro e dai suoi euroderby, corre dietro al pallone nei campi di provincia come calciatore dilettante, e in cambio rimedia i rimborsi per la benzina. Durante la settimana, invece, da un annetto fa l’apprendista operaio e porta a casa quasi 600 euro al mese di stipendio. “Prendo qualcosa, ma i soldi non mi bastano”, racconta questo ragazzo milanese di 26 anni, felpa, tuta e sneaker, pusher (quasi) per caso catapultato nell’Aula 1 per i processi in direttissima in un grigio sabato mattina di maggio. I poliziotti lo hanno beccato e fermato mentre vendeva una dose di cocaina a uno sconosciuto. In tasca aveva altri sette involucri contenenti la stessa sostanza. L’arresto è stato convalidato ma la giudice Mariolina Panasiti non gli ha dato alcuna altra misura cautelare. Insomma, è libero. Stavolta. “Lei è giovane, le do questa possibilità. Non la sprechi”, l’avvertimento della magistrata. L’appuntamento in aula è alle 10,30, l’operaio-calciatore arriva affiancato dall’avvocato, si siede davanti alla giudice e lei comincia con le domande di rito. “Vuole rispondere?”. “Voglio rispondere”. Lui confessa tutto: “È vero, avevo sette dosi di cocaina, me le hanno date delle persone straniere. È vero, ho ceduto un involucro a un giovane di cui non conosco il nome. Mi aveva dato quaranta euro. Il resto della cocaina? Volevo venderla ad altri, io non ne faccio uso”. E perché questo “lavoretto”, chiede il giudice. “Ho una paga normale, non sono un operaio qualificato. Prendo qualcosa ma non mi basta. Non arrivo a 600 euro. Lo faccio solo da qualche mese. La mia ragazza guadagna gli stessi soldi, viviamo insieme a casa dei suoi genitori”. Torna al suo posto, la pm in aula chiede per lui soltanto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, l’avvocato chiede che non venga data nessuna misura considerato anche che di fatto non ha precedenti (a parte un decreto penale di condanna al quale ha fatto opposizione). La giudice si ritira per decidere, il ragazzo si siede e si alza il cappuccio nero sulla testa. Passano i minuti, torna la toga. Convalida l’arresto ma non ordina nessuna misura cautelare, nemmeno la più blanda. “Ha confessato, un po’ di autocritica l’ha fatta e questo lascia sperare che sia l’ultima volta”, sottolinea. “Per mia abitudine, la prima volta si cerca di andare incontro alla persona. Lei ha 26 anni, è giovane, se comincia e continua (con lo spaccio, ndr) non ne esce. Le voglio dare questa possibilità, non la sprechi”. A luglio è fissata la nuova udienza. Se tutto filerà liscio, un periodo di messa alla prova ai servizi sociali cancellerà questo grigio sabato mattina. Roma. Detenuti-studenti: all’università di Roma Tre 90 iscritti che seguono i corsi dal carcere di Lorena Loiacono leggo.it, 14 maggio 2023 Il polo universitario carcerario della Capitale è il terzo in Italia. Gli indirizzi più seguiti per conseguire la laurea? Filosofia e Giurisprudenza. Stanno scontando la loro pena in carcere ma, nel frattempo, si preparano al futuro che li aspetta fuori. Come? Studiando all’università. E possono farlo grazie all’ateneo di Roma Tre che, con i suoi 90 studenti detenuti iscritti, si colloca al terzo posto in Italia tra le strutture di alta didattica che hanno un Polo Universitario Penitenziario, preceduta solo dalla Statale di Milano e dalla Federico II di Napoli. Un bel risultato visto che nel Belpaese sono 40 le università dotate di un Polo Universitario Penitenziario, con oltre 1450 studenti detenuti. Purtroppo questi studenti sono soggetti ad un alto tasso di abbandono a causa dei trasferimenti, dei regimi alternativi e del fine pena. Paradossalmente è più semplice, per loro, laurearsi in carcere. Così negli ultimi 7 anni le iscrizioni sono triplicate. Il 40% degli iscritti segue i corsi di laurea del dipartimento Filosofia-Comunicazione-Spettacolo, seguono il 16% Giurisprudenza, il 13% Economia e Gestione aziendale, il 13% Lingue e Letterature, circa il 10% Scienze della Formazione, il 5% Scienze politiche e il 3% Studi umanistici. La maggior parte sono detenuti a Rebibbia: 22 nella casa di reclusione, 2 nella casa circondariale e altre due nel reparto femminile, 17 presso a Viterbo, 16 a Velletri e altri 16 e nei due istituti di Civitavecchia. Tre studenti sono detenuti a Frosinone e altri singoli sono in carcere a Benevento, Bologna, Parma e al femminile di Sollicciano, vicino Firenze. Catanzaro. Progetto “CasaMia”: accoglienza per i detenuti che stanno per lasciare il carcere catanzaroinforma.it, 14 maggio 2023 Stipulato ieri un protocollo di Intesa tra l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, la Casa Circondariale “Ugo Caridi” e la Caritas diocesana. È stato stipulato ieri un protocollo di Intesa tra l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna di Catanzaro, la Casa Circondariale “Ugo Caridi” e la Caritas diocesana di Catanzaro-Squillace per avviare il progetto “Casa Mia”, finalizzato a realizzare interventi di accoglienza residenziale in favore di soggetti in esecuzione penale intramuraria ed esterna. Tale accordo prevede interventi di accoglienza abitativa temporanea e di inclusione sociale rivolti ai dimittendi, ossia ai destinatari di un procedimento di scarcerazione. Infatti la fuoriuscita dall’ambiente detentivo è un momento estremamente delicato per chi si trovi in difficoltà economiche e senza reti familiari, per cui l’obiettivo del progetto sarà favorire il reinserimento sociale, la presa in carico e l’accompagnamento dei soggetti beneficiari degli alloggi. La Caritas, attraverso i fondi CEI 8×1000, ha messo a disposizione quattro appartamenti siti nel quartiere nord di Catanzaro, con un contratto di locazione fino al 31 dicembre 2023. Le abitazioni saranno, inoltre, destinate ai familiari dei reclusi per il tempo necessario per espletare i colloqui visivi con il proprio congiunto, favorendo le situazioni di notevole distanza geografica tra il luogo di residenza e il luogo di detenzione. Gli alloggi potranno anche essere sfruttati dai detenuti senza fissa dimora o soggetti di nazionalità straniera per la fruizione di permessi premio o per la concessione di una misura alternativa, qualora presentino esigenze abitative temporanee e urgenti. L’importanza dell’iniziativa e del coinvolgimento delle associazioni di volontariato è stata sottolineata dalla Direttrice della CC di Catanzaro, Patrizia Delfino e dal Direttore dell’UIEPE, Emilio Molinari, il cui personale sarà impegnato a segnalare i casi al referente Caritas per concordare le concrete modalità operative e di accoglienza dei beneficiari. Entusiasmo e senso di carità verso le persone in difficoltà è ciò che anima gli operatori Caritas ed i volontari ex art. 78 o.p., coordinati dal Sacerdote Sergio Pulitanò, che hanno già attivato interventi di aiuto, sostegno e controllo finalizzati alla rieducazione dei condannati. Un bel banco di prova per il primo beneficiario dell’alloggio che ha firmato una “dichiarazione di impegno” e sta intraprendo il suo percorso di riabilitazione sociale, tentando di superare lo stigma legato all’esperienza restrittiva vissuta. Livorno. L’appello dei Garanti: “Non chiudete la sezione femminile delle Sughere” toscanaindiretta.it, 14 maggio 2023 No all’ipotesi di dismissione: “Grave danno ai rapporti familiari, specie per i figli minorenni”. Le previsioni di non riapertura della sezione femminile del carcere ‘Le Sughere’ di Livorno al centro dell’appello lanciato in occasione della Festa della mamma dalla presidente della commissione Pari opportunità Francesca Basanieri, insieme alla titolare della Difesa civica Lucia Annibali al Garante dei detenuti Giuseppe Fanfani e il Garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano. L’ipotesi di dismissione del reparto a seguito della ristrutturazione della casa circondariale perché inagibile desta particolare preoccupazione e provocherebbe un “grandissimo danno ai rapporti affettivi e familiari, in particolar modo ai figli di minore età”. Il caso di Livorno è stato sollevato dalla componente della commissione regionale per la Pari opportunità Cinzia Simoni. A detta dei tre Garanti, le criticità in caso di mancata riapertura sono evidenti: in tutto il territorio della Toscana attualmente sono attivi solo due reparti femminili, uno a Pisa e uno a Firenze. “Se la capienza in questi due istituti venisse meno e considerata anche l’estensione della provincia di Livorno che arriva fino all’Isola d’Elba, si rischia di dover collocare le detenute o nella vicina Umbria o presso altre strutture del Paese”. “Il diritto ai rapporti affettivi e familiari - concludono - deve essere garantito, in particolar modo per le detenute madri, che non dispongono di facoltà economiche tali da poter sostenere costi di trasferta e di un difensore”. Bologna. Il cortile del carcere diventa teatro di Amalia Apicella Il Resto del Carlino, 14 maggio 2023 Il carcere diventa palcoscenico. Lo sarà per tre serate di teatro e musica, le prime presentate nell’ambito del cartellone di ‘Bologna Estate’, dal 6 all’8 giugno. Si intitola ‘E state alla Dozza!’ il progetto nato dall’idea della direttrice della Casa circondariale, Rosa Alba Casella, a cura del Teatro del Pratello in collaborazione con Teatro dell’Argine, l’associazione Bologna in musica (che organizza il Bologna Jazz Festival) e sostenuto dal Comune. Da un lato, la rassegna vuole offrire ai detenuti un’offerta culturale di qualità, dall’altro aprire le porte del carcere ai cittadini, rendendolo uno dei luoghi che ospitano gli eventi dell’estate bolognese. La semplicità ingannata - Satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne di Marta Cuscunà apre la rassegna, martedì 6 giugno, con un gruppo di giovani suore clarisse che, nel Cinquecento, rivendicano la libertà di pensiero e di critica nei confronti della cultura maschile. Mercoledì 7, Antonella Questa porta in scena ‘Vecchia sarai tu!’: tre generazioni a confronto offrono un ritratto divertente e amaro sullo scorrere del tempo. La rassegna si chiude, l’8 giugno, con il concerto ‘Lost Mona Lisa’ della bolognese Eloisa Atti (foto) insieme a Marco Bovi, Emiliano Pintori, Stefano Senni e Marco Frattini. “Il cortile della Dozza si apre come luogo d’incontro tra cittadini detenuti e cittadini esterni al carcere - ha sottolineato Elena Di Gioia, delegata alla Cultura del sindaco. È uno di quei segnali che raccontano, attraverso mappa di luoghi in cui vogliamo portare cultura, un’idea di città”. Per la direttrice della Casa circondariale, “il progetto è una tappa del percorso di integrazione. Per realizzarlo bisogna consentire ai cittadini di entrare nel carcere. Una struttura appositamente costruita in periferia, lontano dagli occhi delle persone, ma favorire l’integrazione tra carcere e città è fondamentale per la riuscita dei percorsi di rieducazione”, sottolinea Casella. Nella platea allestita nel cortile, quindi, ci saranno 150 posti a sedere, equamente divisi tra spettatori esterni e detenuti. È necessario fare richiesta di partecipazione. Info: teatrodelpratello@gmail.com o 3331739550. Il Sessantotto e la lotta italiana per il potere, una rivolta che non ha ucciso i padri ma i fratelli di Luigi Manconi La Stampa, 14 maggio 2023 Pubblichiamo un brano di Luigi Manconi tratto dal libro “Poliziotto-Sessantotto”, in uscita per Il Saggiatore. Nel nuovo saggio del sociologo, scritto con Gaetano Lettieri, l’analisi delle radici della società di oggi: “Il rito della successione non si è compiuto e ha rinnovato un’epoca di guerre fratricide”. La pubblicistica italiana contemporanea torna frequentemente l’evocazione di una poesia scritta da Pier Paolo Pasolini oltre cinquant’anni fa, Il Pci ai giovani!!. (...) A dar retta alla versione pressoché unanime, in quella poesia Pasolini avrebbe preso le parti dei poliziotti, in odio agli studenti contestatori, secondo una grossolana distinzione tra i primi (proletari e sottoproletari, “figli dei poveri”) e i secondi (borghesi e piccoloborghesi, “figli di papà”). Fu lo stesso Pasolini a chiarire: “Nessuno si è accorto” che i versi iniziali erano “solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore su ciò che veniva dopo dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio”. Le caserme dei poliziotti erano dunque considerate come “ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica”. Dunque, secondo Pasolini, il senso di Il Pci ai giovani!! sarebbe stato ribaltato da letture ideologicamente interessate. Ma il tema vero e la sostanza poetica e politica consistevano nell’affermazione che “il potere ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti”. Eppure, nonostante l’interpretazione offerta dal suo stesso autore, quei versi sono stati ridotti alla falsa rappresentazione di un conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosceva nella contestazione, da una parte; e il proletariato e il sottoproletariato, identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere, dall’altra. E la lettura “autentica”, proposta per primo dal regista Davide Ferrario, è stata costantemente ignorata a favore dell’interpretazione “paradossale”, secondo la definizione dello stesso poeta. Un ulteriore episodio, pressoché sconosciuto, che aiuta a comprendere meglio quale fosse il reale pensiero di Pasolini, è costituito dal ruolo da lui avuto nella realizzazione del film 12 dicembre. (...) Pasolini viene indicato, nei titoli di testa, come autore dell’idea da cui è tratto il film, firmato come regista e produttore dal militante di Lotta continua Giovanni Bonfanti, su sceneggiatura dello stesso Bonfanti e di Goffredo Fofi. In realtà, la partecipazione di Pasolini a questo progetto, promosso da Lotta continua, fu ben più importante. (...) “Ci ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ho girato circa un sessanta per cento, ma l’ho montato tutto io. Però - e questo è il punto - non ci ho messo la mia ideologia. Da una parte ho messo quella che è la realtà, dall’altra ho fatto dire le loro idee a questi di Lotta continua”. Il film prende spunto dalla strage di piazza Fontana e dalla morte di Giuseppe Pinelli e si sviluppa, poi, come un vero e proprio “viaggio in Italia” che, partendo da Milano, arriva fino a Reggio Calabria. Il coinvolgimento così intenso di Pasolini nella realizzazione del film e l’esperienza di cooperazione tanto stretta con Lotta continua confermano come le posizioni del poeta - in tutta la loro contraddittorietà e irregolarità - sono nient’affatto lontane da quelle della sinistra extraistituzionale dell’epoca e, in particolare, da quelle di Lotta continua. Tuttavia, non si può ignorare che, per tornare al conflitto Poliziotto-Sessantotto, quella lettura della poesia, anche quando deformata in senso antistudentesco, manteneva un grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione “fratricida” della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: “Gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbia, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo con il parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione”. Per uno scarto della fantasia, la citazione di Saba mi ha portato a immaginare una possibile e tutta personale interpretazione del film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù. Ho pensato, cioè, quel film come interamente costruito intorno alla figura di Matteo, il giovane che diventa poliziotto e che, nella parte conclusiva, si toglie la vita. Questa interpretazione (del tutto arbitraria, ovviamente) mi ha avvicinato maggiormente al film: anche in ragione del riferimento obbligato alla poesia di Pasolini. Come detto, quella maldestra interpretazione “antistudentesca” (e reazionaria, in senso letterale) conteneva, in ogni caso, una formidabile sollecitazione intellettuale, che sarebbe sciocco ignorare. E non perché il movimento degli studenti fosse sociologicamente, o politicamente, borghese o piccoloborghese (antagonista, dunque, dei “Proletari in Divisa”); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel rapporto tra il movimento studentesco e gli “altri”: i possibili, riottosi alleati (gli operai, gli “sfruttati” tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti). Il sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida. Di conseguenza, mi viene da ipotizzare che il conflitto sotteso al passaggio rappresentato dal Sessantotto sia stato solo parzialmente un conflitto generazionale: vale a dire una rivolta “contro il padre”. Per ragioni storiche complesse - che hanno a che vedere con il “carattere nazionale” e con i tratti peculiari del nostro modello di sviluppo sociale, economico e culturale - quel movimento non è stato in grado di consumare adeguatamente il rito della successione, il “padre” non è stato “mangiato” e la tensione “cannibalica”, che presiede a tutte le rivolte, si è indirizzata, piuttosto, contro i “fratelli”. Il Sessantotto ha rinnovato, dunque, un’epoca di “guerre fratricide” (si pensi, sullo sfondo e sul piano più strettamente politico e ideologico, all’infinita contesa tra socialisti e comunisti e tra riformisti e massimalisti). “Guerra fratricida” nel senso che la fase unitaria, di movimento generazionale, è stata breve; ha appena sfiorato i padri, senza sconfiggerli (e, tanto meno, spodestarli): e comunque, quando lo ha fatto, la rottura è avvenuta soprattutto sul piano del costume e degli stili di vita (il che, beninteso, non è affatto poco). Ma, il conflitto, ben presto, si è come ripiegato su se stesso: sia perché ha tardato a individuare oggetti esterni e avversari identificabili, sia perché si è tradotto rapidamente in scontro per l’egemonia tra “fratelli separati” (tra “fascisti” e “comunisti”). Infine, perché quest’ultimo scontro - in particolare, a seguito della strage del 12 dicembre del 1969 - è diventato “guerra” tra “nemici assoluti”. E questo ha fatto sì che il trauma di quella strage assumesse (per una parte considerevole di futuri terroristi) la forma irrigidita di un meccanismo autogiustificativo e autolegittimante. Per la grande maggioranza il conflitto finì, in ogni caso, per isterilirsi e per rivelare di avere, come posta in gioco, risorse scarse (mentre era nato in una condizione, vera o illusoria, di risorse affluenti): e, quindi, poco da contendere e da distribuire. L’Italia è uno dei Paesi più diseguali d’Europa: serve una svolta o la Repubblica è a rischio di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 14 maggio 2023 “L’assenza di una controffensiva culturale e politica mette a rischio la condizione materiale di milioni di persone”. Associazioni e forze politiche d’opposizione elaborano un’Agenda sociale. Il 22 aprile scorso si è tenuta a Roma, presso la Casa internazionale delle Donne, l’assemblea tra i promotori dell’Agenda sociale lanciata dalla Rete dei Numeri Pari e i rappresentanti delle forze politiche che l’hanno sottoscritta: M5S, Pd, Si e Up. Proposte concrete elaborate da centinaia di soggetti colpiti dalla crisi, quotidianamente impegnati sulle questioni al centro dell’Agenda: reddito, salario, welfare, casa, accoglienza, genere, lotta a mafie e corruzione. Proposte ancora più urgenti e necessarie dopo 15 anni di crisi che hanno reso l’Italia uno dei Paesi più diseguali d’Europa, come denunciato nell’ultimo rapporto Bes dell’Istat. Il Def del governo Meloni, la guerra in Ucraina e l’assenza di un’opposizione unitaria in grado di costruire alternative per il Paese e per l’Europa sono i fattori che stanno determinando un ulteriore aumento delle disuguaglianze, dell’insicurezza sociale, dello sconforto e del distacco dei cittadini dalla partecipazione alla politica. In assenza di una controffensiva culturale e politica, a rischio non è solo la condizione materiale di milioni di persone, ma la Repubblica. Perché le destre al governo un progetto ce l’hanno e lo portano avanti: autonomia differenziata e presidenzialismo al posto dell’unità della Repubblica e della democrazia parlamentare, abolizione dello Stato sociale, istituzionalizzazione della povertà, criminalizzazione della solidarietà e suprematismo culturale. La consapevolezza della fase e la necessità di cambiare le prospettive sono le motivazioni alla base del confronto a cui hanno partecipato Conte, Schlein, Fratoianni, de Magistris, assieme ad altri deputati e dirigenti delle rispettive forze politiche. Perché per ricostruire la partecipazione necessaria all’azione collettiva su proposte concrete c’è bisogno di fiducia e di ascolto, di disponibilità della politica al confronto con le istituzioni sociali, costanza e coerenza sugli impegni presi: tutte condizioni mancate in questi anni. Dall’assemblea è emersa la necessità di una svolta. Non basta sottoscrivere le proposte. C’è bisogno di una politica organizzata, non volatile, capace sin da subito di dare voce e spazio alla geografia della speranza. I rappresentanti dell’opposizione sociale hanno avanzato tre richieste ai leader dei partiti presenti: opposizione radicale e ostruzionismo per fermare il progetto eversivo dell’autonomia differenziata; mobilitazione contro il Def; costituzione di un Tavolo permanente tra Rete dei Numeri Pari e forze politiche che sostengono l’Agenda sociale. Tutte le richieste sono state accettate dai partiti. Ma una novità sostanziale è rappresentata dalla costituzione di un Tavolo permanente. Che porterà avanti gli obiettivi dell’Agenda attraverso sei sottogruppi: autonomia, democrazia costituzionale e guerra; diritto all’abitare; politiche industriali, lavoro, salario e riconversione; politiche sociali, disuguaglianze di genere, reddito e fisco; accoglienza; lotta alle mafie. Una piattaforma intersezionale con una leadership plurale, inclusiva, che unisca concretezza e visione su come affrontare i principali problemi: disuguaglianze, guerre e collasso climatico. Questioni legate tra loro, conseguenza di un modello culturale patriarcale e coloniale. Nessuno può anticipare l’esito del percorso, ma riconoscere che nessuno ce la fa da solo e che abbiamo bisogno di un metodo diverso per costruire consapevolezza e prendere decisioni è una prima buona notizia. Facciamo Eco. Il disagio mentale tra i giovani continua a crescere di Enzo Risso Il Domani, 14 maggio 2023 Il pieno benessere mentale è in calo rispetto al 2021 in Germania di 4 punti (dal 27 per cento del 2021 al 23), di 5 punti in Svizzera (dal 36 al 31), in Italia di 2 punti (dal 20 al 18). A livello globale i fattori che alimentano maggiormente il disagio giovanile sono: l’incertezza sul futuro (62 per cento), la solitudine (59) e l’immagine corporea (46). Tra i giovani italiani pesa anche il tema dei cambiamenti climatici (43). Incombenze familiari, commenti indesiderati, capacità messe in dubbio, generano tensioni e stress nel 55 per cento delle donne; stati di ansia nel 19 per cento e forme di depressione nel 7 per cento. I livelli di benessere mentale delle persone in Europa e in Italia mostrano segnali di preoccupante peggioramento, specie tra i giovani della generazione Z e le donne. Il pieno benessere mentale è in calo rispetto al 2021 in Germania di quattro punti (dal 27 per cento del 2021 al 23), di cinque punti in Svizzera (dal 36 al 31), in Italia di due punti (dal 20 al 18). Nella classifica generale redatta da Ipsos per Axa Mind Health Report 2023, emerge che l’Italia, con il suo 18 per cento, è in fondo alla classifica dei paesi per livello di benessere mentale, superata da Thailandia (37 per cento), Francia (33) e Messico (31). Cina e Usa sono al 29 e 28 per cento, la Gran Bretagna al 23, il Giappone al 18 come l’Italia. Zumando sull’Italia scopriamo che il 33 per cento afferma di stare languendo in una situazione di disagio, tra demotivazione e difficoltà a concentrarsi, con il rischio di sviluppare malattie mentali; il 12 per cento denuncia un disagio emotivo e avverte come compromesso il proprio status psicosociale. Divario di genere - Nel confronto tra generi e generazioni, il divario appare marcato. Nel nostro paese ad affermare di avere uno stabile livello di benessere mentale sono soprattutto gli uomini (20 per cento) rispetto alle donne (15 per cento). Un divario simile e anche maggiore lo troviamo in Belgio (30 per cento gli uomini contro il 19 delle donne), in Irlanda (28 a 20 le donne), in Germania (29 a 17 le donne), per esplodere in Francia (40 per cento gli uomini e 26 le donne). Complessivamente sono le donne ad avvertire un peggiore livello di benessere mentale. Molti sono i fattori che determinano questa situazione, ma quello più rilevante è il sessismo quotidiano. Sempre a livello globale oltre il 40 per cento delle donne ha visto mettere in dubbio le proprie capacità per via del genere e una su tre ha ricevuto commenti indesiderati. L’Italia è il terzo paese in Europa in cui più donne hanno visto mettere in dubbio le loro capacità per via del genere (48 per cento), superata da Spagna (51 per cento) e Irlanda (54 per cento). Incombenze familiari, commenti indesiderati, capacità messe in dubbio, generano tensioni e stress nel 55 per cento delle donne; stati di ansia nel 19 per cento e forme di depressione nel 7 per cento. Se i dati sull’universo di genere sono pesanti e ci parlano di una società ancora marcatamente maschilista, il quadro sull’universo giovanile è a dir poco allarmante. Nei vari paesi monitorati i giovani segnalano il minor livello di benessere e il più alto numero di disturbi mentali (da moderati a gravi). A livello globale i fattori che alimentano maggiormente il disagio giovanile sono: l’incertezza sul futuro (62 per cento), la solitudine (59) e l’immagine corporea (46). Tra i giovani italiani pesa anche il tema dei cambiamenti climatici (43). Tutti questi fattori generano una diffusa sensazione di malessere e irrequietezza, alimentano forme di depressione, ansia, stress, ma determinano anche alterazioni del benessere e della salute mentale più gravi. Non solo. Questi fattori generano nei giovani livelli più bassi di auto-accettazione e li frenano nelle scelte e nella capacità di crescere. Tradotto in numeri, il 66 per cento dei giovani italiani denuncia di vivere una situazione di stress, il 37 afferma di vivere stati di ansia e il 18 per cento parla chiaramente di avvertire stati di depressione. Il quadro dei dati mostra quanto alcune dinamiche già presenti sotto traccia da anni stiano sempre più affiorando. Quelle derive perniciose come la vita in emergenza, le derive violente per il decadere del senso di limite, la fragilità dei giovani di cui parlava lo psicoanalista Miguel Benasayag in L’epoca delle passioni tristi, oggi si stanno aggravando. Un processo che determina l’acuirsi di una crisi esistenziale generalizzata, di cui paga il prezzo maggiore la generazione Z lasciata sola di fronte all’incombere della società dell’incertezza. Con l’incedere della polifonia delle crisi (dal Covid alla guerra, dal clima al caro vita, dalla crisi delle banche all’intelligenza artificiale), siamo entrati in una fase di complessità massima e assai perturbante. Di fronte a questa situazione le ragazze e i ragazzi non possono essere lasciati soli, ma hanno il bisogno di gestire le complessità con gli altri, con gli amici, con genitori all’altezza del compito di guida e non solo degli eterni ragazzini. Il terreno della solitudine e dell’isolamento è pernicioso per i giovani e per la società, perché permette il radicamento di forme di violenza contro se stessi e gli altri, ma anche forme di fondamentalismo, complottismo e distruzione della ragione e del senso civico. Giovani e salute mentale: il buio in una stanza di Elena Stancanelli La Stampa, 14 maggio 2023 Sempre più adolescenti scelgono il ritiro volontario da ogni interazione sociale. Boom di crisi d’ansia, autolesionismo e depressione: si comincia già dai nove anni. Hikikomori. È il termine giapponese per gli adolescenti che rifiutano il mondo e si rinchiudono nella propria stanza. In italiano si dice “ritiro sociale prolungato”, un’espressione assai meno fascinosa ma forse è meglio così. L’incubo della psichiatria è ancora l’effetto Werther, chiamato così dall’epidemia dei suicidi che seguì la pubblicazione del romanzo di Goethe. Se infatti la diminuzione dello stigma sociale legato al disagio mentale, soprattutto dei minori, è una conquista, dall’altra il pericolo è sempre quello di trasformare il dolore in un modello da imitare, una moda. Ai ragazzi e le ragazze deve essere chiaro quanto è dannoso confondere la diagnosi con l’identità, quanto questo ostacoli la guarigione, o peggio ancora la faccia apparire poco attraente. Sono a Roma, in via dei Sabelli, nel famoso reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I, quello del film di Francesca Archibugi, “Il grande cocomero”. Fondato da Giovanni Bollea e animato a lungo da Marco Lombardo Radice. Pensatore geniale, medico, scrittore (autore di “Porci con le ali” insieme a Lidia Ravera), morto a quarant’anni: era la meglio gioventù. Si festeggiano in questi giorni i cinquant’anni della legge Basaglia, che servì a chiudere i manicomi e cambiò per sempre la psichiatria. E’ bene ricordarlo e non abbassare la guardia dal momento che c’è nell’aria una celeste nostalgia per tutto, persino le idee più spaventose. Nel reparto ci sono i poster dei Peanuts, un’atmosfera strampalata da Giovane Holden, medici e infermieri abitati da quella dedizione allegra e sincera al proprio mestiere/vocazione che era il marchio di fabbrica di Lombardo Radice. Federica di Santo, neuropsichiatria infantile e Emanuela Carletti, coordinatrice infermieristica, mi accompagnano nel giro e mi mostrano le stanze dove dormono i pazienti, ognuna delle quali ha una parete su cui si può scrivere e dipingere. Qua dentro le pazienti sono quasi tutte donne. C’è un calcio balilla, la piscina, un cortile. Ci sono insegnanti (oggi la lezione di francese si fa su “Formidable” la canzone di Stromae) e volontari. C’è persino tutto il materiale per togliere e mettere lo smalto, attività molto amata dalle ragazzine. I bagni sono chiusi a chiave e il telefonino si può usare solo un paio d’ore al giorno. La sera si chiacchiera sulle scale, prima di andare a dormire, tutti insieme. È qui che a volte si ascoltano le cose più sincere, mi dice la dottoressa Di Santo. Tra le cose che ho imparato da quando ho iniziato questo viaggio nel disagio mentale dei bambini e adolescenti è che le malattie sono divise per genere. E che c’è un’enorme sproporzione nell’incidenza “Su 16 posti letti, 15 sono occupati da ragazze con disturbi alimentari, autolesionismo, tentato suicidio, e raramente qualche episodio psicotico” mi racconta il prof Ignazio Ardizzone, neuropsichiatria infantile che ha lavorato a lungo in questo reparto. Difficile capire da cosa dipenda. Anche al prof Mauro Ferrara, responsabile di una delle due unità operative del dipartimento di pediatria e neuropsichiatria infantile del Policlinico ho chiesto perché le ragazze paghino un prezzo più alto in questa crisi “Mai avrei immaginato, trent’anni fa, di trovarmi davanti tante adolescenti in un periodo storico in cui si annunciava una maggiore presenza, una maggiore identità di ruolo. Un dato storico-medico è che, nella fascia adolescenziale i disturbi dell’umore, depressione, sono sempre più frequenti nelle ragazze. Andando avanti nell’età si pareggiano i conti. Ma la differenziazione secondo me è data dal fatto che c’è una fascia di vulnerabilità sociale, e soprattutto vulnerabilità legata al giudizio, al corpo, all’estetica in cui tante ragazze che forse, in altre epoche, avrebbero vissuto un disagio, una fase negativa, un malumore, una difficoltà, invece adesso arrivano a segnalarlo”. “C’è un altro problema” continua il professor Ardizzone, “le ragazze si trovano meglio qui che a casa o fuori. Ci sono state delle ragazze che hanno messo il reparto su TikTok e Instagram, facendo pubblicità, incitando le altre a venire qui in reparto. È una cosa terribile. Per i malati psichiatrici la libertà è ansiogena, ma ancora più grave è l’identificazione con la malattia. Il loro riconoscimento avviene attraverso la patologia, la diagnosi. Le cure possono anche funzionare, e funzionano, però, ma ci vogliano anni di lavoro molto intenso sulla ragazza, sulla famiglia, sulle strutture. Che consiste soprattutto nel disidentificarle. Abbiamo quasi il 90% di ricadute, perché queste ragazze tornano nel mondo e senza la loro malattia non si riconoscono più. Tra le pochissime patologie che riguardano quasi esclusivamente i maschi c’è invece l’hikikomori, o ritiro sociale prolungato. Di cui il professor Ardizzone si occupa da molti anni, tanti da potermi fornire una cifra impressionante: negli ultimi dieci anni questa patologia è aumentata di circa il 70%. “In Italia - dice - attualmente ne soffrono tra i 70 e gli 80 mila ragazzi. Ma la cosa che colpisce è che la linea d’ombra si è spostata. Eravamo abituati a considerare il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori come il momento nel quale il bambino prendeva coscienza dell’idea dell’altro. Si confrontava, nel bene e nel male, con il mondo, costruendo attraverso questo confronto la sua identità. Adesso quel passaggio è stato anticipato. Così l’angoscia, le crisi d’ansia, l’autolesionismo, le crisi depressive iniziano molto prima, più o meno dai nove anni. Questo significa che gli insegnanti delle scuole medie si trovano di fronte bambini per le cui esigenze non sono stati formati, precoci e precocemente afflitti da disturbi del comportamento. “Le scuole medie - dice il professor Ardizzone - sono dunque la nuova frontiera”. Perché si è spostata l’età, chiedo. “Perché il contatto con l’altro avviene prima. L’altro che ti giudica, che ti fa vergognare e arrabbiare e nei confronti del quale puoi provare invidia. Ci si accorge prima di quello sguardo che provoca vergogna. “L’inferno sono gli altri”, diceva Sartre, ed è vero. Un inferno che si presenta sempre prima nella vita di questi ragazzi”. Crescere significa affrontare l’altro, e questo scatena quelli che il dottor Ardizzone chiama “i tre cavalieri del narcisismo” (ben pasciuti in una società come la nostra che del narcisismo ha fatto la sua bandiera): invidia, vergogna e rabbia. “La vergogna è per sua natura riconoscimento, non ci si vergogna da soli ma nello sguardo dell’altro. Ma la vergogna è anche un passaggio cruciale nel processo di crescita, a patto che non si trasformi in senso di colpa, che non si blocchi. Sviluppando quella che ho definito “noosfobia”, la fobia della mente dell’altro, delle sue emozioni, delle sue intenzioni, dei suoi movimenti. La noosfobia insegna modalità e tecniche difensive per tenere a distanza la mente dell’altro e per proteggere il sé in modo autarchico, indipendente e autogestito. Inizia con la noosfobia l’evoluzione folle dei processi di socializzazione, la separazione tra linea di sviluppo narcisistico e oggettuale che nei casi più gravi porterà alla scomparsa del fascino della relazione con l’altro e la fuga verso il non umano”. L’hikikomori è dunque generalmente un maschio, intelligente, capace di argomentare, terrorizzato dagli altri (dall’osservazione degli altri su di lui) e ossessionato dal controllo. Tutto ciò che non riesce a controllare non ha diritto di accesso, rimane fuori dalla sua porta. Gli altri, ma anche il tempo. Questi ragazzi rifiutano l’idea di un tempo evolutivo e si organizzano un tempo circolare, fittizio, dove niente accade. Un tempo immobile, fatto di ritualità. Un eterno presente, il kairos, segnato da una inesorabile coazione a ripetere. La ragione per cui non si lavano, o non si tagliano le unghie o i capelli (come il Pierino Porcospino della omonima fiaba di Heinrich Hoffmann, che era un infatti un medico psichiatra) è che non intendono creare condizioni perché qualcosa accada: i capelli e le unghie ricrescano, il corpo si sporchi di nuovo. Oltre al fatto che rifiutano una relazione reale col loro corpo. Chiusi nelle loro stanze, non fanno sport, non si muovono e mangiano in maniera selettiva, spesso cibo spazzatura. Si deformano e rifiutano qualsiasi accesso alla sessualità. Gli chiedo come sia possibile che riescano a eludere la bomba della pubertà. “Carlo, il mio primo paziente - racconta Ardizzone - aveva 14 anni e quando l’ho incontrato era chiuso in casa da tre anni. Particolarmente intelligente e acuto, forse stanco di una situazione che appariva in stallo decise di darmi un suggerimento e preso un vocabolario che giaceva tra i libri della mia biblioteca mi disse: adesso leggiti il termine “annichilire” e forse capirai qualcosa di me e qualcosa di quello che ho provato nel passato. Annichilire va oltre, il giudizio, la vergogna e l’umiliazione ha a che fare con la passivizzazione, la distruzione e con la morte in questo caso psichica e sociale. Un’azione malvagia che se da una parte presuppone un distruttore fuori da sé, dall’altra, in questo caso, presupponeva che Carlo fosse contemporaneamente l’annichilatore di se stesso”. Annichilirsi, cancellarsi, reprimere qualsiasi forma vitale, gli hikikomori hanno una passione per culture e società fortemente ritualizzate. Non si sentono malati, trattano il loro disturbo come una scelta esistenziale. Il loro obiettivo è trasformare l’esistenza in una cerimonia della quale sono gli unici officianti, cibo, sonno, studio sono organizzati secondo regole che loro stabiliscono, immutabili e diverse da quelle di tutti. Sono collegati alla rete costantemente, sono immersi nel cyber-spazio, nel mondo virtuale dei giochi di ruolo. “Dove, parafrasando Walter Benjamin e Mario Perniola, impera il sex appeal dell’inorganico. E sparisce il fascino della relazione reale e vitale con l’altro”. Mi spiega il significato del termine “reificazione”, citando un saggio di Axel Honneth, filosofo sociale. “Reificazione significa smettere di trattare l’altro come una persona per trasformarlo in un oggetto. Le persone diventano merci, cose. E questo provoca un oblio del riconoscimento”. Che succede quando questi ragazzi arrivano a diciott’anni ed escono dalla vostra giurisdizione? “La questione ancora più importante è che succede quando rimangono da soli. Problema che loro non si pongono, ma che i genitori e noi medici dobbiamo porci, anche rispetto alle cure. Ho seguito per anni un ragazzo di 21 anni che, all’età di 14 anni, è stato portato a Roma dalla Basilicata. È stato ricoverato, poi è stato dimesso. Adesso gli ho fatto mettere un amministratore di sostegno. Lui ora non sta malaccio, ma ancora non esce quasi mai. Sua madre è morta dopo aver convissuto a lungo con una malattia cronica. Disegna benissimo ed è molto intelligente. Adesso ha un rapporto affettivo con una ragazza che vive dall’altra parte del mondo. Si sono conosciuti online”. Alla domanda su chi arriva al Pronto Soccorso il professor Ferrari mi dà un risposta sorprendente: “Non sono tanto quelli che hanno bevuto o assunto sostanze. Qualche anno fa temevamo che sarebbero cresciuti di più. Invece sono soprattutto pensieri suicidari. È una massa così grande che oscura anche le altre cose. Ogni giorno arrivano 5 tentativi di suicidio di bambini e adolescenti. Tanti, tantissimi, troppi”. Migranti. I legali di Iuventa: reato di favoreggiamento illegittimo, intervengano Consulta e Corte Ue di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 maggio 2023 Depositata un’istanza al giudice di Trapani sull’articolo 12 del Testo unico immigrazione. La decisione attesa entro giugno. Il procedimento contro l’equipaggio della nave umanitaria, sotto sequestro da sei anni, è ancora in fase di udienza preliminare. Colpo di scena nell’affaire Iuventa. Giovedì gli avvocati che difendono l’equipaggio della nave umanitaria, sotto sequestro da sei anni, hanno depositato un’istanza che potrebbe cambiare radicalmente i contorni della vicenda. I legali Francesca Cancellaro, Alessandro Gamberini e Nicola Canestrini chiedono al giudice di Trapani di sollevare davanti alla Consulta una questione di legittimità costituzionale relativa al famigerato articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione (Tui). Contemporaneamente sollecitano un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea sul Facilitators package, cioè l’insieme di norme Ue che regolano lo stesso tema a livello comunitario. “Il ricorso è l’opportunità per ribaltare il piano di chi vuole confondere volontariamente trafficanti e difensori dei diritti umani”, afferma Elisa De Pieri, ricercatrice di Amnesty International Europa. Il procedimento penale, le cui radici affondano nei soccorsi ai migranti del 2016 e 2017 e coinvolge anche Medici senza frontiere e Save the Children, si trova ancora in fase di udienza preliminare ed è l’unico contro le Ong che potrebbe portare a un rinvio a giudizio. Tutti gli altri sono stati archiviati prima. Gli indagati rischiano fino a 20 anni di carcere. Gli avvocati sono convinti che la normativa nazionale ed europea sulla cui base sono state formulate le accuse si ponga in contrasto con la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Due gli aspetti principali di cui si chiede di valutare la legittimità alle massime corti. Il primo è la confusione prodotta dalle scelte del legislatore tra chi facilita l’ingresso irregolare di uno straniero nel territorio dello Stato per ragioni di profitto e chi invece lo fa per ragioni umanitarie, ad esempio amici e familiari dei migranti o attivisti per i diritti umani. Il secondo è il duro regime sanzionatorio che non rispetterebbe il principio di proporzionalità della pena (quella minima è stata recentemente aumentata da cinque a sei anni, quella massima con le aggravanti può arrivare anche a 30). Se il giudice accettasse la remissione alla Corte costituzionale il maxi processo contro le Ong verrebbe sospeso in attesa del pronunciamento. Se questo fosse positivo, in toto o parzialmente, avrebbe effetti dirompenti su tanti altri procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in corso in Italia. L’ambigua, e complessa, formulazione dell’articolo 12 è all’origine di molte accuse che negli anni sono state mosse contro attivisti - dagli equipaggi delle navi Ong ai membri di Baobab o a chi aiuta le persone in transito a Ventimiglia e Trieste - e migranti. Questi ultimi spesso condannati a pene severe in dibattimenti dove non sempre è stato possibile far valere adeguati standard difensivi. In primis per i cosiddetti “scafisti”, figura che viene spesso confusa con quella dei trafficanti ma sintetizza in moltissimi casi una condizione ben diversa. Un eventuale pronunciamento sul regime sanzionatorio del reato, inoltre, inciderebbe anche sulla legittimità del “decreto Cutro”. “Se la Consulta accogliesse questa parte delle nostra istanza - spiega Cancellaro - si determinerebbe una situazione di illegittimità derivata della nuova legge che aumenta minimi e massimi della pena. Dunque se venisse riconosciuta una sproporzione della disciplina che vigeva in precedenza tanto più riguarderebbe quella aggravata di recente”. Punto di partenza dell’istanza depositata giovedì è la sentenza 63/2022 della Consulta che ha eliminato due aggravanti dell’articolo 12: la facilitazione dell’ingresso irregolare attraverso documenti falsi e quella dell’utilizzo di mezzi di trasporto internazionali. Al di là della loro specificità, il giudice delle leggi ha espresso due principi importanti che potrebbero andare a favore degli argomenti dei ricorrenti. Il primo è la distinzione tra le condotte di natura solidaristica da quelle poste in essere da organizzazioni criminali con lo scopo del lucro (è questo il principio fondamentale su cui si basa il ricorso degli avvocati di Iuventa). Il secondo è che occorre differenziare concretamente i casi anche in base alla posizione del migrante: se è un soggetto beneficiario delle attività dirette all’attraversamento della frontiera oppure se, al contrario, è sottoposto a una relazione di sfruttamento che lo mette in pericolo o lo espone a trattamenti inumani. Nella prossima udienza il pm potrà fare le sue osservazioni sull’istanza. La decisione del giudice è attesa per giugno. “Dopo che si pronuncerà pubblicheremo il testo del ricorso in modo che possa essere utilizzato in tutti i casi in cui viene contestato l’articolo 12 del Tui. Il nostro obiettivo è creare una base culturale e giuridica condivisa su questa vicenda”, afferma Canestrini. L’avvocato esplicita una delle caratteristiche fondamentali della linea difensiva di Iuventa: tutelare i membri dell’equipaggio, ma anche perseguire effetti più generali su chi soffre gli effetti della criminalizzazione che deriva dal regime europeo dei controlli di frontiera. Attivisti e, soprattutto, persone in movimento. L’Europa per i “diritti dell’uomo” di Giuliano Pisapia* Corriere della Sera, 14 maggio 2023 Sono passati 70 anni da quando il voto contrario del Parlamento francese ha impedito la nascita della Comunità Europea di difesa. A distanza di soli due anni dalla fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio i padri fondatori dell’Europa - De Gasperi in testa - vedevano nella CED il primo, autentico organismo “politico” in grado di raggiungere una vera ed effettiva federazione europea. Come sappiamo quel processo si è fermato e l’Unione europea ancora oggi è una comunità economica più che politica, anche se da allora sono stati fatti importanti passi in avanti. La costruzione di un continente di pace e giustizia, nel quale lo stato di diritto e i diritti fondamentali siano riconosciuti e tutelati, è uno degli obiettivi fondamentali del processo di integrazione europea e dello “spazio europeo di libertà, sicurezza, giustizia”. Un obiettivo che, che purtroppo non si raggiungerà in tempi brevi ma che, passo dopo passo, potrà diventare realtà. In questi ultimi anni, e spesso lontano dai riflettori, si sono raggiunti obiettivi che sembravano irraggiungibili. Si pensi ad esempio che, malgrado le resistenze di molti, finalmente è stato raggiunto l’accordo per l’adesione dell’Ue alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Adesione che rafforzerà la tutela dei diritti fondamentali in Europa e che, tra l’altro, consentirà ai singoli cittadini di presentare ricorsi contro l’Ue dinanzi a una giurisdizione internazionale indipendente. Attualmente, infatti, questo è possibile solo in caso di violazione commesse da singoli Paesi nell’attuazione di politiche europee. Il completamento dell’adesione alla CEDU permetterebbe anche l’armonizzazione dei diritti fondamentali sull’intero continente europeo, garantendo un’armonica coerenza tra le decisioni della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e la Corte di giustizia europea di Lussemburgo. Si tratta di un passo avanti perché la Corte di Strasburgo ha emesso sentenze importanti - come quelle sui diritti delle persone LGBTQI, sul funzionamento del sistema giudiziario, sulla violenza domestica e sugli standard minimi delle condizioni di detenzione - che hanno portato alcuni Paesi europei a modificare positivamente le loro politiche in queste materie. Altra importante recente novità è l’adesione dell’Ue alla Convenzione di Istanbul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che mira a prevenire e a lottare contro la violenza nei confronti delle donne. Dopo diversi tentativi da parte di alcuni governi di rinviare la ratifica, a fine febbraio tutti hanno dato il loro via libera all’adesione che, dopo il voto a larga maggioranza del Parlamento europeo, dovrebbe essere formalizzata entro l’estate con voto a maggioranza qualificata del Consiglio. Altro recente e positivo passo in avanti viene dalla recente modifica dello statuto della Corte di Lussemburgo per accelerare i tempi delle decisioni giudiziarie. La Corte sta svolgendo un ruolo sempre più importante a difesa dello stato di diritto, come dimostra, per fare un esempio, la sanzione di un milione di euro al giorno inflitta nel 2021 alla Polonia per una legge che incideva negativamente sull’autonomia e indipendenza della magistratura. Queste novità dimostrano un rinnovato interesse per il progetto di costruzione di uno spazio europeo del diritto e dei diritti. Certo, come ci insegna la storia dell’integrazione europea, ogni obiettivo richiede “tempo e pazienza”. Queste ed altre novità dimostrano comunque che si stanno facendo riforme mirate a rafforzare la tutela dei diritti e migliorare la qualità della giustizia in Europa. Piccoli passi che devono essere riconosciuti e sostenuti perché potranno avere un impatto positivo sulla vita di milioni di cittadini e cittadine europei. Occorre avere la forza mite della perseveranza. La stessa forza e visione che ha animato inizialmente i padri fondatori europei. *Vicepresidente Commissione Affari Costituzionali Parlamento Europeo Ucraina. Retorica della vittoria e vie della pace di Francesco Strazzari Il Manifesto, 14 maggio 2023 Mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale. I combattimenti di queste ore preparano il campo della massiccia controffensiva. La visita a Roma del comandante in capo Volodymyr Zelensky è parte di un lungo tour interamente volto a rinsaldare il supporto alleato, compattandolo nella fase decisiva. Non si tratta di una missione per parlare di pace, come hanno titolato alcuni media italiani, ma di una missione di guerra, nella quale si è riaffacciata con enfasi la retorica della vittoria. Incontrando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il leader ucraino ha incassato l’appoggio all’ingresso nella Nato e stretto i rapporti con quella parte del governo italiano che, spesso convertendosi last-minute, ha tenuto la linea di deciso sostegno impostata da Mario Draghi. Per ragioni di sicurezza ormai spesso vediamo Zelensky parlare su uno sfondo bianco e spostarsi con un corteo di macchine uguali, anche se il messaggio resta invariato: servono urgentemente armi a gittata più lunga ed occorre rafforzare la capacità di manovra. A sottolineare lo stretto nesso che esiste, sul fronte atlantico, con le opinioni pubbliche, Zelensky ha significativamente dichiarato che l’Ucraina porterà a termine la liberazione prima delle elezioni statunitensi del prossimo anno. Un’immagine di efficienza, dunque, a rassicurare sui rischi di escalation e protrazione della guerra e dei suoi costi per tutti. E così arrivano sia i missili Storm Shadow da Londra, sia un nuovo pacchetto di carri armati Leopard e Gepard da Berlino, dove domani è atteso il presidente ucraino. Sul piano diplomatico, mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale, verosimilmente a Parigi. Dopo quasi un anno di lentissimi e sanguinosi avanzamenti, l’arretramento di Mosca verso posizioni difensive anche sul fronte di Bakhmut è avvenuto in modo precipitoso, con tanto di voci di miliziani Wagner che sparano sui soldati russi in fuga. Gli ucraini hanno ristabilito una via di rifornimento, e questa circostanza segna probabilmente un punto di culmine per l’iniziativa militare russa: affrontando costi umani molto alti gli ucraini hanno assorbito le molteplici offensive russe, disarticolandole. Le incognite principali delle prossime settimane riguardano la capacità di sfondamento delle linee pesantemente fortificate dalle forze di occupazione. Nel frattempo, i sistemi militari occidentali hanno mostrato la loro efficacia: il tentativo russo di affossare le difese antimissile Patriot con un missile ipersonico è stato affossato dalla risposta del sistema Patriot stesso. Le iniziative diplomatiche sono condizionate da questi eventi sul campo di battaglia. Nella politica internazionale Roma è anche (talvolta soprattutto) il Vaticano: quando si entra nella Santa Sede, però, si esce dai binari dell’atlantismo, per incontrare i fili di una diplomazia esplicitamente schierata sul dialogo e per la pace. Nei mesi scorsi la posizione del Papa ha attirato le pesanti critiche dei più accesi sostenitori di Kyiv, convinti che in ogni appello a far tacere le armi si celi un favore fatto all’aggressore che ormai sarebbe sempre più all’angolo. Il Vaticano gestisce le complesse vicende del dialogo ecumenico, e non perde occasione per ricordare come il ‘martirio dell’Ucraina’ sia una guerra fra popoli fratelli, famiglie vicine per lingua e religione. Rispetto al solco di odio e crescente disumanizzazione su cui si erigerà questa frontiera europea il messaggio di fratellanza e perdono cristiano agisce su molteplici livelli. Il Vaticano dichiara di essere disponibile in ogni momento per iniziative che facciano tacere le armi. Sappiamo di canali diplomatici vaticani che agiscono discretamente e sottotraccia, sappiamo del desiderio del Papa di portare di persona il proprio messaggio ai popoli in guerra. Di rientro dall’Ungheria, Francesco ha spiazzato tutti parlando apertamente di un’iniziativa di pace in corso. Difficile sapere quale ruolo di preciso la Chiesa cattolica si stia ritagliando rispetto ai calcoli strategici e tattici delle Grandi Potenze o aspiranti tali. È possibile l’impegno su alcune iniziative che riumanizzino il conflitto, ad esempio sul ritorno alle famiglie dei bambini ucraini portati in Russia. Di certo il messaggio del Papa è fra i pochi che si sono distinti, in questo anno orrendo, per rifiuto della logica che porta alla crescita senza fine della spesa per armamenti. L’unico lontano dalla retorica della vittoria, fra i pochi a prendere le distanze dal nazionalismo armato e dalle ossessioni identitarie come fucina della storia europea. Gran Bretagna. Julian Assange va difeso con tutte le nostre forze di Stefania Limiti* Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2023 L’indifferenza del sistema politico-informativo per il caso Assange è una deliberata scelta di affossare un giornalista al quale non si perdona di aver svelato i crimini di guerra di Stati Uniti e Gran Bretagna in Iraq e Afghanistan. Cioè di aver colpito il cuore militare dell’impero. Di recente un giovane militare americano di 21 anni, Jack Teixeira, noto anche come OG, ha combinato un quarantotto svelando documenti segreti in un forum tra amici. OG era stato assegnato ai servizi di intelligence di una base della Air National Guard del Massachusetts, forse quella di Cape Code secondo il Corriere; aveva una posizione di tutto riguardo che gli consentiva di maneggiare segreti del Pentagono, ma il suo caso è stato trattato con ben altra animosità dai nostri media. Leggendo qui e là i vari resoconti si comprende che, in fin dei conti, gli stessi americani, sì molto arrabbiati, hanno valutato il loquace giovane come un tipo a posto perché, scrive sempre il Corriere, “non stava spiando per conto dei russi o dei cinesi, non aveva trafugato documenti segreti con in mente un progetto politico di svelare aspetti occulti della politica estera e di spionaggio americana che considerava abusivi, come aveva fatto dieci anni fa Edward Snowden e, prima di lui, Julian Assange con WikiLeaks”. Capito? Il disgraziato non ci aveva messo la testa, gli altri sì, c’era un pensiero dietro il loro fare. Certo che c’era, ed era proprio ciò che rende preziosa la battaglia informativa che tutti dovremmo sostenere: aver svelato le porcherie di un sistema di potere che si dice paladino assoluto di diritti assoluti, validi però non in assoluto ma solo dove a loro conviene. Julian Assange dal 2019 è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, il più duro del Regno Unito, in attesa della decisione sull’estradizione richiesta dagli Usa dove rischia fino a 175 anni di carcere: lì di sicuro morirà. Neanche ai tempi del Vietnam il Pentagono poté fare razzia della libertà di informazione come ora viene fatta sulla pelle di Assange: i Pentagon Papers, svelati nel 1971 dall’analista Daniel Ellsberg, trovarono spazio sul New York Times e per lui valse il primo emendamento sulla libertà di stampa. Eppure non erano quisquilie: capovolgevano la verità su quella sporca guerra. Ora l’impero, nella morsa di una profonda crisi di sopravvivenza, non si può permettere tanta magnanimità e persegue chi svela le sue debolezze e le sue crudeltà. Per questo si rafforza l’esigenza di un fronte di contestazione che difenda Assange e l’esperienza di WikiLeaks e denunci le gravi violazioni che egli ha subito: il diritto a un giusto processo, le prove manipolate, la tortura psicologica, la sorveglianza costante, diffamazioni e intimidazioni. Neanche un mese fa è stata negata la visita in carcere di Reporters sans frontieres, a riprova della crudeltà che gli viene riservata. Eh sì, Assange va difeso con tutte le nostre forze. Firma anche tu per Julian Assange: salviamo lui e tutta Wikileaks: https://www.ioscelgo.org/petizioni/liberiamo-julian-assange-le-istituzioni-italiane-rompano-il-silenzio/ *Giornalista e scrittrice Iran. Giustiziate 118 persone negli ultimi dieci giorni, sono prevalentemente sunniti La Repubblica, 14 maggio 2023 I dati di Nessuno Tocchi Caino. Mai prima d’ora si era raggiunto un livello così alto di esecuzioni dopo il Ramadan. E l’Arabia Saudita non è da meno. Sono almeno 118 le persone impiccate in Iran dal 29 aprile all’8 maggio scorso. Tra loro ci sono anche due donne. Lo si apprende da Nessuno Tocchi Caino, la lega internazionale di cittadini e parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, associazione senza fine di lucro fondata a Bruxelles nel 1993 e riconosciuta nel 2005 dal Ministero degli Esteri italiano come ONG abilitata alla Cooperazione allo sviluppo. Ogni anno, durante il mese sacro del Ramadan (quest’anno dal 22 marzo al 21 aprile), le esecuzioni vengono tradizionalmente sospese. Ed è dunque “normale” che alla fine del digiono religioso si registri un forte aumento delle esecuzioni, come se si dovesse recuperare il tempo perduto. Mai prima però si era raggiunto un livello così alto: 118 esecuzioni in 10 giorni, quasi 12 al giorno. Uccise soprattutto persone d’etnia baluca: sunniti. Una straordinariamente alta percentuale di queste esecuzioni riguarda cittadini e cittadine di etnia baluca: 24 uomini e 2 donne. I Baluchi, o Beluci, sono l’etnia preponderante che vive nella regione del Belucistan (Balucistan, Baluchistan), una regione arida dell’Asia sud-occidentale, politicamente suddivisa tra Pakistan, Iran e Afghanistan. Gli abitanti di questa regione sono circa 15 milioni, divisi al 60% tra Pakistan, 25% Iran, e la restante parte in Afghanistan, nella zona di Kandahar. Sono prevalentemente musulmani sunniti. Le città più importanti della ragione iraniana denominata amministrativamente ‘Sistan e Balucistan’ sono Zahedan e Zabol. Nonostante la regione iraniana, che nel complesso ha circa due milioni e mezzo di abitanti, sia nota per la sua ricchezza di minerali, gas, petrolio, oro e risorse marine, il Balucistan iraniano resta una delle province più povere e meno sviluppate dell’Iran, la cui popolazione ha in un certo senso una ‘tradizione’ di traffico internazionale di droga. I Baluci paragonabili ai curdi. Da questo punto di vista, i Baluchi sono paragonabili alle minoranze curde, anche loro tenute volutamente in condizioni di sottosviluppo nella regione che occupano al confine tra Iran, Iraq, Siria e Turchia. I curdi, attraverso il fenomeno dei ‘Kolbar’, praticano il contrabbando di merci e prodotti petroliferi (non di droga) sui sentieri montuosi della loro regione, e subiscono ogni anno diverse decine di uccisioni da parte delle pattuglie di frontiera iraniane, che cercano di arginarli anche utilizzando mine antiuomo. L’Aabia Saudita non è da meno. Le esecuzioni prevalenti imposte dalla giustizia vigente nella monarchia sunnita sono sostanzialmente tre: la crocifissione, la lapidazione e la decapitazione, ma quest’ultimo metodo è senza dubbio il più applicato. L’Arabia Saudita, nonostante diverse e periodiche dichiarazioni di voler applicare moratorie della pena di morte, di fatto continua a giustiziare le persone condannate, secondo le leggi della shari’a: fino a tutto il 2022, è stata registrata una media di 129,5 esecuzioni all’anno, con un aumento dell’82% rispetto al periodo precedente. La maggior parte dei giustiziati è accusata di omicidio, reati legati alla droga, rapina a mano armata e incesto.