Due detenuti morti in sciopero della fame. “Appelli sui casi eclatanti, resta la disperazione delle carceri” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 13 maggio 2023 Dopo il caso Cospito è tornato il silenzio. “Sembra quasi ci sia una volontà di tenere nascosti alcuni fatti”, dice Mauro Palma, sulla scarsa trasparenza all’interno dei penitenziari italiani. E poi ci sono i suicidi. Da inizio anno già 21. Dopo i sei mesi di digiuno dell’anarchico al 41bis Alfredo Cospito, di detenuti in sciopero della fame non si è più parlato. Come se quel tema - e quello delle condizioni di detenzione - non fosse più un problema. D’altra parte, “l’opinione pubblica tende a concentrarsi sui casi eclatanti. Quelli per i quali gli intellettuali firmano appelli e si mobilitano”, dice al Foglio il Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma. Che puntualizza: “Tutte cose giuste, però poi resta la disperazione per la situazione nelle carceri”. Che è quotidiana, va oltre la notizia o le prima pagine dei giornali, e invece “resta confinata negli stessi piccoli ambienti che di questo si occupano”. E così è solo grazie alla denuncia dei sindacati di polizia che, ieri, l’Italia è venuta a sapere della morte di due detenuti reclusi nel carcere siciliano di Augusta mentre erano in sciopero della fame. Si tratta di un russo e di un italiano. Il primo aveva smesso di mangiare da 41 giorni: condannato all’ergastolo, chiedeva di essere estradato nel proprio paese sin dal 2018, è morto in ospedale il 9 maggio. Il secondo protestava da 60 giorni, in quanto riteneva di essere vittima di un’ingiusta condanna: la sua morte risale ad aprile. “Sembra quasi ci sia una volontà di tenere nascosti alcuni fatti. In fondo anche Cospito ha interrotto lo sciopero della fame quando la sua battaglia sul 41 bis ha trovato riscontro esterno”. Il garante richiamare quindi l’attenzione “sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate”. Sulla trasparenza e sull’attenzione che troppo spesso manca, per quella che è ormai da anni una emergenza strutturale. “C’è questa tendenza dell’amministrazione di tenere tutto al proprio interno, senza capire che invece aprirsi verso l’esterno aiuta anche loro”, spiega ancora il Garante. “Sembra ci sia una sorta di timore verso l’opinione pubblica. E invece serve sapere”. Perché, è il ragionamento, affrontare certe questioni può aiutare a prevenire gli esiti più tragici, oltre agli annosi problemi delle carceri italiane, dove l’anno scorso si è raggiunto il record di suicidi: ottantacinque. Dall’inizio del 2023 sono già 21. “Chi sta in sciopero della fame non si sta suicidando: chi protesta in questo modo non cerca la morte, ma l’interlocuzione sul suo problema”, continua Palma. E parlarne aiuta non solo i detenuti, che vedendo riconosciuta una loro istanza, ma anche chi lavora nelle carceri. Così mentre alcune vicende vengono piegate e strumentalizzate dalla bagarre politica fine a se stessa, rimangono le difficoltà quotidiane. La percezione di uno scarso interesse al tema tuttavia rimane inalterata. Se n’era parlato, per pochi giorni, in occasione della legge di Bilancio e dei tagli denunciati dalle opposizioni sul tema del carcere. “Io stesso ero stato inizialmente critico”, ammette Palma. “Ma tagli veri non ce ne sono stati, quelli che sono individuati come tagli, che erano minori, avevano un valore più simbolico che effettivo. E altre risorse, più o meno equivalenti, sono state destinate”. Si tratta insomma di un atteggiamento strutturale, che non ha colori politici. E vale anche per il governo Meloni “La sensazione è che la maggioranza attuale non sia più disattenta di altre. Certo non c’è un’attenzione maggiore”. Sarebbe necessaria, anche a fronte del record di suicidi dello scorso anno? “Sì, c’è però una buona iniziativa da parte dell’amministrazione penitenziaria: aver chiesto a tutti gli istituti dove si sono verificati suicidi negli ultimi 3-4 anni delle relazioni per analizzare, caso per caso, i fatti e capire le criticità che portano a questo gesto estremo”. Va aggiunto che le ragioni che possono condurre al suicidio sono spesso personali e imputare ogni tragedia all’Istituzione carcere in quanto tale rischia di essere riduttivo. In questo senso, per Palma le strade da seguire sono due. Da un lato, l’amministrazione può intervenire “sul piano dell’indicazione interna, invitando gli istituti penitenziari a una maggiore fiducia verso l’esterno. In alcune realtà questo già accade”. Dall’altro, e sarebbe questo il principale strumento, “bisogna inserire molte più figure di tipo sociale nel carcere che, come del resto la realtà esterna, ha una complessità sempre maggiore. Lo vediamo nelle città e nelle periferie. Tanto più tra i detenuti. E allora - conclude il Garante dei detenuti - occorre investire su queste professionalità. Perché altrimenti tutto il peso ricade su quelli che avrebbero compiti di sicurezza e che non sono formati in tal senso”. Con le problematiche che si ripresentano e le solite, ricorrenti, tragedie. Morti in carcere. Due scioperi della fame nel silenzio generale di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 13 maggio 2023 Il caso dei due detenuti morti nell’istituto di Augusta. A seguito di un lungo sciopero della fame durato 40 e 60 giorni. Il carcere è sofferenza, solitudine, disperazione. È un grande rimosso sociale. Quando se ne parla ci si affida a stereotipi e banalizzazioni. Non possiamo comprendere cosa sia il carcere per chi lo subisce e per chi lo vive solo attraverso le categorie della politica criminale. Il carcere è afflizione. A volte il carcere è morte. Così è stato nel caso dei due detenuti morti nell’istituto di Augusta. A seguito di un lungo sciopero della fame durato 40 e 60 giorni. Non possiamo che ringraziare Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, per avere sottratto le loro storie all’oblio dove erano state confinate. Poco sappiamo di loro, nulla sapevamo della loro protesta e delle loro rivendicazioni. Sono morti nel silenzio e in silenzio. Sono morti senza avere l’opportunità di essere ascoltati. Non è importante se le loro richieste fossero o meno legittime. Nel loro caso non si è creato alcun dibattito. Ogni giorno sono alcune decine i detenuti che dichiarano di fare lo sciopero della fame. A volte aggiungono anche lo sciopero della terapia, così mettendo a rischio le loro vite. Capita che lo facciano per piccole questioni di vita penitenziaria o per grandi rivendicazioni di giustizia. Nell’uno o nell’altro caso, nel giusto o nello sbagliato, meritano ascolto. Sempre. Lo Stato non deve sentirsi ricattato da chi volontariamente mette a rischio la propria salute o addirittura la propria vita. Chiunque deve essere libero di farlo e deve essere ascoltato. La sofferenza di ogni persona deve essere presa in carico. Invece ogni protesta, anche quando è pacifica, viene trattata come se fosse una minaccia alla tranquillità e all’ordine interno. E così viene non di rado privata di dignità. Rimossa. Tenuta nascosta. Se ne sa poco, così come poco si sa dei morti in carcere. Siamo a quasi ottanta decessi dall’inizio dell’anno. Diciassette di questi sono suicidi. Allo Stato affidiamo l’esercizio della pena legale. Allo Stato affidiamo i corpi dei reclusi. Allo Stato chiediamo trasparenza nell’esercizio del suo potere di custodia. Così come la pretendiamo dalle scuole a cui affidiamo i nostri figli e dagli ospedali a cui affidiamo i nostri malati. Quando la Costituzione afferma che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità si rivolge a ogni attore della scena pubblica, ricordandogli che non è proprietario della vita delle persone. La tragica storia delle due morti nel carcere di Augusta ci racconta che c’è bisogno di riflettori sul carcere. Riflettori non alla ricerca di capri espiatori ma capaci di illuminare la sofferenza. Dunque che fare per immunizzarsi dal rischio di nuove morti e nuove tragedie? Nella consapevolezza che il carcere porta sempre con sé un tasso di dolore, questo dolore va però minimizzato. Ad esempio moltiplicando le figure di intermediazione sociale che possano prendersi cura dei detenuti e ascoltare le loro richieste, proteste, proposte. Proteggendo e valorizzando tutti quei direttori, operatori e comandanti di reparto che lavorano per ridurre la sofferenza e dare un senso alla pena. Non vanno lasciati soli o sanzionati al primo evento critico, come vengono chiamate le tragedie in carcere. Vanno accresciuti i contatti con l’esterno anche con le telefonate. Non si deve tornare alla triste epoca pre-covid, con quei risicati 10 minuti a settimana. Una telefonata può salvare la vita. Una vita è sempre una vita. E come tale va sempre protetta. Il carcere ti toglie la libertà. Non deve toglierti né la vita né la dignità, compresa quella di protestare pacificamente con il proprio corpo. Negare ascolto, togliere la voce a chi protesta significa negare la dignità. *Presidente di Antigone Lo sport strumento di inclusione: ecco il progetto “Carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2023 Lo sport diventa un’opportunità di cambiamento e crescita anche per i detenuti. In corso c’è una importante iniziativa che sta portando il potere salvifico dello sport all’interno dei penitenziari italiani, offrendo una speranza di rieducazione e una nuova prospettiva per le persone ristrette. Mercoledì scorso, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha presentato un piano ambizioso durante l’evento “Lo Sport abbatte le barriere” presso la casa circondariale femminile ‘Germana Stefanini’ di Rebibbia a Roma. Il progetto, chiamato ‘Carceri’ e promosso dal ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi, insieme al Dipartimento per lo Sport e a Sport e Salute, mira anche a trasformare le caserme dismesse in spazi sportivi per le comunità dei detenuti. Questa iniziativa ha coinvolto oltre 10.000 detenuti in 60 istituti penitenziari per adulti, 13 per minori e 25 comunità di accoglienza per minori in tutto il Paese. È stato finanziato con 3 milioni di euro, grazie alla candidatura di 116 associazioni e società sportive provenienti da 19 diverse regioni italiane. Durante l’evento, il ministro Abodi ha sottolineato l’importanza di considerare lo sport come uno strumento di difesa immunitaria sociale. Ha parlato dell’articolo 27 della Costituzione italiana, che sottolinea l’umanità e la rieducazione, entrambe valori che lo sport può aiutare a promuovere. Ha anche evidenziato che lo sport non dovrebbe limitarsi alle carceri, ma dovrebbe estendersi ai quartieri, ai parchi e ad altri spazi di inclusione sociale. Un altro protagonista di questa iniziativa è Vito Cozzoli, il presidente e amministratore delegato di Sport e Salute S. p. A., che ha sottolineato come lo sport possa contribuire al benessere psico- fisico delle persone detenute e al loro recupero in contesti difficili. Ha annunciato che a giugno inizieranno le attività formative per gli operatori e i tecnici delle associazioni e degli enti che lavoreranno all’interno dei penitenziari. Inoltre, entro la fine del 2023, verrà lanciato un altro avviso per finanziare attrezzature fisico- sportive per gli istituti penitenziari. Anche il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, ha evidenziato l’importanza dello sport come mezzo per promuovere il rispetto delle regole, il gioco di squadra e l’assistenza reciproca. Durante l’evento, sono state condivise testimonianze toccanti di atleti di successo, come Clemente Russo, Aldo Montano e Nunzio Mollo, che hanno sottolineato come lo sport abbia avuto un impatto positivo sulle loro vite. Ma la parte più interessante dell’evento è stata il momento di confronto e dialogo tra alcune detenute dell’istituto di Rebibbia e due attori della popolare serie televisiva ‘ Mare Fuori’, Giovanna Sannino e Antonio D’Aquino. Durante questa conversazione, le detenute hanno espresso i loro complimenti agli attori per aver rappresentato con sincerità ed empatia le emozioni e i sentimenti di chi vive in prigione. È stato un momento intenso e profondo, in cui le storie e le esperienze delle detenute sono state ascoltate e comprese. È emerso quanto sia importante dare voce a chi vive il periodo detentivo, cercando di superare gli stereotipi e comprendendo le sfide che affrontano quotidianamente. Lo sport, in questo contesto, diventa uno strumento di inclusione e di recupero per le persone detenute. Oltre ad offrire un’occasione di svago e di attività fisica, permette loro di lavorare in squadra e di imparare l’importanza del rispetto reciproco e delle regole. Grazie a iniziative come il progetto ‘ Carceri’, le comunità dei detenuti hanno la possibilità di riscattarsi, di trovare una nuova motivazione e di creare un cambiamento positivo nelle loro vite. Lo sport diventa un’opportunità per guardare al futuro con speranza e per creare una reale possibilità di reinserimento nella società. Il Piano Sociale per lo Sport, denominato Sport di Tutti, è stato presentato al Capo dello Stato il 1° febbraio scorso. Uno dei pilastri fondamentali di questo piano è proprio l’implementazione di progetti sportivi nelle carceri italiane, che comprendono attività di preparazione fisica, formazione tecnica e reinserimento lavorativo nel mondo dello sport per gli ex- detenuti. Il piano prevede un programma di formazione specifico sullo sport di base in carcere, rivolto agli operatori sportivi e al personale delle amministrazioni penitenziarie, al fine di fornire loro le competenze necessarie per gestire in modo efficace le attività sportive e migliorare la qualità della vita all’interno delle strutture carcerarie. Come già detto, l’entusiasmo e l’interesse per il progetto si sono concretizzati nella partecipazione di 116 associazioni e società sportive provenienti da 19 diverse regioni italiane. Lo sport rappresenta un potente strumento di cambiamento e di promozione di valori come il fair play, il rispetto e la disciplina. Attraverso la pratica sportiva, i detenuti potranno sviluppare competenze fisiche, cognitive ed emotive, migliorando il loro benessere psicofisico e apprendendo importanti lezioni di collaborazione e resilienza. Il governo porta lo sport in carcere. Abodi: “È un modo per rieducare” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 maggio 2023 Presentato il progetto che interesserà 60 istituti penitenziari per adulti, 13 istituti minorili e 25 comunità di accoglienza per minori. Sport è sinonimo di salute, ma potrebbe diventarlo anche di rieducazione alla vita. Parte un grande progetto per portare lo sport nelle carceri. Sono 3 milioni di euro stanziati dal governo attraverso un bando della “Sport e salute spa”, per gestire attività in 60 istituti penitenziari per adulti, 13 istituti minorili e 25 comunità di accoglienza per minori. Saranno coinvolti quasi diecimila detenuti. Il progetto si chiama “Sport di tutti-Carceri” e nasce da un’idea del ministero per lo Sport. Alla presentazione era infatti presente il ministro Andrea Abodi: “Lo sport nelle carceri - spiegava - è un veicolo di umanità e un modo per rieducare. Ci sono ancora ampi margini di miglioramento e insieme possiamo insieme progettare luoghi di sport che rendano più umani le strutture detentive”. Il piano mira al potenziamento dell’attività sportiva negli istituti penitenziari, alla realizzazione di progettualità destinate per sviluppare interventi di preparazione fisica e di formazione tecnica che coinvolgano detenuti anche minorenni, e al reinserimento lavorativo nel mondo dello sport degli ex detenuti. È prevista l’attivazione di un piano di formazione nazionale specifico sullo sport di base in carcere, destinato agli operatori sportivi e al personale delle amministrazioni penitenziarie al fine di dare loro uno strumento, lo sport, in grado di migliorare la qualità e la serenità nella gestione quotidiana delle attività, riducendo il disagio e aumentando la proattività sportiva dei detenuti. Al lancio era presente anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che non può essere d’accordo: “Lo sport e il lavoro sono fondamentali per la rieducazione di chi sta scontando la pena”. Naturalmente, però, sia lo sport, sia il lavoro, necessitano di spazi adeguati. “E non tutte le carceri italiane - riconosce il ministro Guardasigilli - ne hanno di idonei per le attività sportive. Visto che è molto difficile creare nuove strutture carcerarie, l’idea sarebbe quella di recuperare quelle strutture idonee sia a potenziare il lavoro sia l’attività sportiva. Ci sono decine e decine di caserme dismesse, che hanno una struttura compatibile in linea teorica con le carceri. Hanno muri, garitte, spazi chiusi e ampi spazi aperti che sono adatti, quindi, per varie attività sportive: calcio, rugby, atletica, oltre che al lavoro. La ristrutturazione delle caserme potrebbe essere affidata agli stessi detenuti: ciò contribuirebbe ad aumentare la socializzazione”. A presentare il piano per lo sport in carcere, oltre ai ministri Nordio e Abodi, c’erano il presidente e amministratore delegato di “Sport e salute spa”, Vito Cozzoli, ed il Capodipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. “Tutti i detenuti - ha sottolineato Cozzoli - hanno diritto alla riabilitazione e all’interno di questo diritto c’è anche il diritto allo sport. I progetti all’interno delle carceri possono contribuire al bene comune. Su 189 istituti penitenziari, ben 172 ne hanno uno legato all’attività sportiva (due squadre di rugby interamente formate da detenuti hanno partecipato al campionato di Serie C, ndr) che coinvolge 25mila detenuti. Ma possiamo fare di più, le politiche pubbliche non si possono fermare davanti ai cancelli blindati”. E per Russo, “la stessa parola sport è parola di libertà, ma è anche mezzo virtuoso per promuovere il rispetto delle regole e delle norme”. Niente liti con l’Anm: il dogma della premier che frena Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 13 maggio 2023 Separazione delle carriere “stralciate” dal “pacchetto costituzionale”. Inappellabilità delle assoluzioni e, soprattutto, riforma del Csm già nel mirino delle toghe. Sul progetto del ministro pesa il rischio di un conflitto che Meloni non intende in alcun modo intraprendere. Tra i tanti piccoli inconvenienti che Carlo Nordio potrà annoverare un giorno nel proprio diario di bordo ministeriale, ci sarà posto anche per l’emendamento sui fuori ruolo formulato nelle ultime ore dai vertici di via Arenula, e destinato al decreto Assunzioni. Poco fa fonti vicine al guardasigilli hanno smentito il carattere “proditorio” o “oscuro” della proposta: si tratta di una “iniziativa ufficiale”, rivendica una nota, informale, arrivata dal ministero, e non di un tentativo più o meno clandestino. Risponde a precise esigenze, tra cui la necessità di assicurare agli alti ranghi della dirigenza pubblica, e in particolare alla Giustizia, un adeguato numero di figure in grado di “dare compiuta e tempestiva attuazione agli imponenti interventi di riforma programmati nell’ambito del Pnrr”. Detto in altre parole, via Arenula ha ritenuto di precisare che se in effetti l’emendamento sui fuori ruolo avrebbe consentito, per i prossimi tre anni, l’impiego, presso il ministero retto da Nordio, di 10 magistrati in più rispetto alla quota massima di 65 attribuita per legge, tale “redistribuzione” risponde a urgenze inderogabili, ma provvisorie. Non è in pericolo, insomma, la norma delega inserita nella riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario, che prevede di ridurre il numero massimo di toghe impiegabili in funzioni extra-giudiziarie. È un incidente di percorso quanto meno per l’impatto mediatico che la notizia aveva prodotto prima della nota informale del ministro, peraltro aspramente contestata dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, il quale era stato il primo, ieri, a rivelare l’esistenza dell’emendamento. In ogni caso, la vicenda dimostra in termini generali come il rapporto con la magistratura resti, in un modo o nell’altro, la croce, la delizia e diciamo pure il pensiero più intrusivo per Nordio. Non a caso mercoledì sera, nel proprio intervento alla presentazione del libro dell’ex presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino, il guardasigilli si era soffermato sul rapporto fra il governo e la magistratura, in particolare sul rischio che si possa assistere di nuovo a un “conflitto” come quello registrato alcuni anni, fa con riferimento all’epico scontro fra il secondo esecutivo Berlusconi e l’Anm al tempo della riforma Castelli. No, ha aggiunto Nordio, stavolta ho motivo di confidare che molte delle riforme in arrivo sulla giustizia saranno condivise coi magistrati. Auspicio legittimo, ma che appunto resta sospeso. In realtà Nordio sa bene che la necessità di non strappare del tutto con l’Anm, con le correnti, col mondo togato in generale, è anche il vero punto vulnerabile del governo sulla giustizia, almeno in prospettiva. In particolare, ma non solo, per quello snodo delicatissimo che riguarda l’unica riforma costituzionale annunciata per ora dal guardasigilli, la separazione delle carriere. Direte: possibile che Nordio sia intimidito nel procedere sul “divorzio” fra giudici e pm perché teme l’ira dell’Anm? Non è esattamente così. Il punto è che sarebbe Giorgia Meloni a non tollerare, a considerare del tutto inopportuno, uno scontro all’ultimo sangue fra toghe e governo sulla riforma costituzionale della giustizia. E quindi la netta contrarietà dei magistrati all’epocale riassetto delle loro carriere è, per i riflessi che si proiettano persino su Palazzo Chigi, fortemente a rischio. Non è un caso che Meloni abbia risposto con chiarezza a Calenda quando, martedì scorso, il leader di Azione le ha chiesto di abbinare la separazione delle carriere alle riforme istituzionali: meglio non sovrapporre ambiti diversi, ha detto la presidente del Consiglio. Politica e giustizia, dunque, non devono entrare in collisione. Ma così, evidentemente, Nordio rischia di dover rinunciare al suo progetto più ambizioso. E poi, è assai probabile che un certo stridore fra governo e magistratura si registrerà anche su altre proposte di riforma. Forse non su quelle annoverate, almeno secondo le ipotesi avanzate fin qui dallo stesso ministro e dal suoi vice Francesco Paolo Sisto, nel primo ddl, che dovrebbe essere sul tavolo di Palazzo Chigi tra fine maggio e inizio giugno. Del primo slot dovrebbero far parte la revisione dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze, nuove norme sull’informazione di garanzia e sul primo interrogatorio a cui sottoporre l’indagato, in modo da anticiparlo, per i reati in cui è ragionevolmente possibile, rispetto all’eventuale esecuzione di misure cautelari. E ancora, potrebbero arrivare nel primo pacchetto anche il ripristino della prescrizione sostanziale e un primo intervento sulle intercettazioni. Tranne forse che per l’ultima voce, non si tratta di dossier particolarmente critici, rispetto ai rapport con la magistratura. Ma poi si passerà ad altre misure, come il divieto, per i pm, di ricorrere in appello contro le assoluzioni, i decreti attuativi della riforma de Csm e la stretta sui costi massimi delle stesse intercettazioni. Lì la musica sarà diversa. E quel rischio che Meloni scelga di non giocarsi l’equilibrio dell’ecosistema politico in una sfibrante tensione quotidiana con le toghe, comincerà a farsi concreto. Caro ministro Nordio, sulla giustizia ci vuole più coraggio di Guido Stampanoni Bassi* Il Foglio, 13 maggio 2023 Illustri giuristi - su tutti il prof. Sgubbi e il prof. Fiandaca - hanno più volte ricordato quanto sia diffusa, tanto nell’opinione pubblica quanto nella politica, la convinzione che il diritto penale sia lo strumento per rimediare a ogni ingiustizia. Facendo apparire queste parole quanto mai attuali, non c’è stata settimana dell’agenda politica degli ultimi mesi - se non degli ultimi anni, essendo l’ossessione repressiva un problema comune a forze politiche di diverso colore (si pensi al ddl Zan) - in cui il diritto penale non sia stato tirato in ballo. È il diritto penale degli slogan - “formula sintetica, espressiva e facile da ricordare, usata a fini pubblicitari o di propaganda” - dove, in ossequio alle regole del marketing, non conta ciò che si riesce a realizzare, ma il messaggio che si veicola. La comunicazione deve essere breve, efficace e deve parlare la stessa lingua di chi ascolta. Se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, l’attuale legislatura non ha tradito le attese e, nel giorno di insediamento delle Camere, veniva presentata una proposta in tema di atti osceni per contrastare - attraverso lo strumento del diritto penale (e come altrimenti?) - il “degrado morale che affligge la nostra collettività” proponendo di punire, tra gli altri, i clienti delle prostitute. Era solo l’antipasto di un legislatore-moralizzatore. Era poi il turno del rato di “rave party”, norma che - nella sua versione iniziale - si iscrive a pieno titolo nella politica criminale degli slogan, di cui possedeva tutti gli ingredienti. Era stata pensata in risposta ad uno specifico evento (il rave che si era tenuto qualche giorno prima a Modena), era accompagnata da proclami quali “pugno duro contro droga, insicurezza e illegalità: è finita la pacchia”, era presentata come norma necessaria (mentre era possibile applicare altri reati), era generica e il trattamento sanzionatorio era sproporzionato. All’indomani della tragedia di Cutro, il bersaglio da colpire attraverso lo strumento del penale - come se questa fosse l’unica freccia nell’arco della politica - diventavano trafficanti e scafisti e veniva introdotto un nuovo reato con pene fino a 30 anni cui si accompagnava la promessa di cercare gli scafisti “lungo tutto il globo terracqueo”. Qui le principali critiche riguardano il fatto che lo scafista, lungi dall’aver a che fare con i veri organizzatori dei traffici, è quasi sempre uno degli stessi migranti. Sempre in tema di “reati universali” - termine che ben si iscrive nella politica criminale degli slogan - si proponeva poi di punire la maternità surrogata anche qualora commessa all’estero da cittadini italiani. Tuttavia, diversamente da quanto accade per altri reati puniti in Italia anche se commessi all’estero, in questo caso le condotte sono lecite, a determinate condizioni, in altri ordinamenti. Anche in questo caso, dunque, un utilizzo per lo più simbolico del diritto penale. L’attenzione si spostava poi sull’emergenza delle “borseggiatrici rom” e si proponeva il carcere per le madri in caso di recidiva, facendo venir meno il differimento della pena per donne incinte con figli piccoli. L’obiettivo - a proposito di slogan - era far sì che la gravidanza non sia più una scusa per evitare il carcere. Nel frattempo, solo negli ultimi mesi, proposte per sanzionare penalmente chi imbratta teche nei musei, chi vandalizza beni culturali, chi occupa case abusivamente, chi truffa gli anziani, chi istiga all’anoressia o chi spaccia (anche nei casi di lieve entità). Nella precedente legislatura, solo per fare qualche esempio, proposte sulla tutela degli arbitri o - tenetevi forte - sull’impiego di tecnologie cibernetiche per procurare lo stato di incapacità o per commettere il delitto di tortura. Sullo sfondo - nel dubbio che introdurre nuovi reati non fosse sufficiente - una proposta di modifica dell’art. 27 Cost. per consentire al giudice di applicare “pene esemplari” che fungano da ammonimento per i consociati. In controtendenza, per fortuna, la recente proposta di intervenire in campo medico per contrastare la cd. medicina difensiva. È sempre più stretto il legame tra politica e diritto penale e la comunicazione passa anche attraverso il modo in cui si usa, o si mostra agli elettori di saper usare, lo strumento penale. È bene, però, che il diritto penale - che dovrebbe essere uno strumento da maneggiare con cura - si smarchi sempre di più dalla comunicazione, smettendo di essere utilizzato, a fini di propaganda, per assecondare la pretesa punitiva del momento. Perché, in fin dei conti, a chi serve il diritto penale degli slogan? *Avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale Blitz di Nordio per portare più toghe in via Arenula con la scusa del Pnrr di Liana Milella La Repubblica, 13 maggio 2023 Un emendamento alla Camera scatena la protesta di Costa di Azione che definisce “indecente” la richiesta. Da Meloni stop alla separazione delle carriere perché due referendum sarebbero “un rischio”. “Indecente” twitta Enrico Costa. Che da fan di Nordio si è trasformato in un fustigatore quotidiano. Un giorno tocca al sogno, ormai destinato a rimanere tale (e vedremo perché), della separazione delle carriere; il giorno dopo alla sorpresa - che si è materializzata ieri alla Camera - di via Arenula che tenta un blitz parlamentare per aumentare il numero dei magistrati fuori ruolo, per giunta con la scusa del Pnrr. Che, com’è noto, chiede di ridurre il numero dei processi del 25% nel penale e del 40% nel civile. E va da sé che se “rubi” altri dieci magistrati - da 65 a 75 - all’organico dei palazzi di giustizia, e li utilizzi al ministero, è come se portassi via le braccia all’agricoltura. Ma tant’è. Con le carte alla mano, Repubblica racconta oggi il blitz per portare a casa le dieci toghe in più, nonché un terzo vice capo di gabinetto, che in media costa poco sotto i 200mila euro l’anno, e anche un nuovo dipartimento con tanto di magistrato dirigente. Val la pena di ricordare che l’ex Guardasigilli Marta Cartabia, nella riforma dell’ordinamento giudiziario, aveva invece chiesto che le toghe distaccate in via Arenula calassero, e non certo che aumentassero. L’argomento è ghiotto per chi, come Costa, da sempre battaglia contro i fuori ruolo, tant’è che le sue proposte sono del tutto opposte a quelle dei magistrati del ministero. Lui chiede che il massimo degli anni concessi per lasciare il lavoro nei palazzi di giustizia passi da dieci a cinque anni; in vita Arenula vuole ridurre le toghe da 65 a 50; e vuole abbassare anche il tetto dei 200 giudici che possono passare ad altri incarichi, compresi quelli ministeriali. Un Costa già infuriato per la separazione delle carriere che va in fumo - e ne vedremo a breve i motivi - scopre che nelle commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera sta per giungere un corposo emendamento proveniente da via Arenula. Da proporre nell’ambito della conversione in legge del decreto di aprile che contiene “disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche”. Ed ecco qua la lunga proposta del ministero della Giustizia, da piazzare a ridosso dell’articolo 7, con tanto di tabelle sui costi, che formalizza la richiesta di passare da 65 a 75 magistrati, più il terzo capo di gabinetto, più un nuovo dipartimento con un capo. Motivo, “le esigenze connesse all’attuazione del Piano nazionale di rinascita e resilienza”, e quindi la deroga fino al 31 dicembre del 2026 di quanto stabilito nel lontano 1999. Secondo quanto è scritto nel testo l’emendamento “non è suscettibile di determinare nuovi e maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato”. Quanto al terzo vice capo di gabinetto pare sia necessario - si legge nel testo - per “valutare le politiche pubbliche e la revisione della spesa, nonché per supportare l’organo politico nelle funzioni strategiche di indirizzo e di coordinamento delle articolazioni ministeriali nel settore delle politiche di bilancio”. in cambio di 190mila euro all’anno... Quando sono le 18 alla Camera cominciano a girare le pagine dell’emendamento, e sale la protesta contro “la casta dei magistrati di via Arenula che cerca di allargare il suo potere”. Costa esce allo scoperto con il suo tweet in cui attacca Nordio e dice che “il ministero della Giustizia sta predisponendo un emendamento al decreto sulla Pubblica amministrazione, scritto dai magistrati fuori ruolo dell’ufficio legislativo, per aumentare il numero dei magistrati fuori ruolo in via Arenula”. Con la chiosa “indecente” e la provocazione a Nordio, “se avalla tutto questo significa che comandano loro”. Certo è che - proprio in queste ore - le toghe incassano un successo non da poco, perché l’annunciata separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero si disfa come una nuvola di primavera. E arriva proprio dalla premier Giorgia Meloni l’addio all’annunciato progetto del Guardasigilli, caro soprattutto al vice ministro della Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto, che già pregustava il cadeau da consegnare ai suoi colleghi avvocati che aveva annunciato più volte “pronto per la seconda metà dell’anno”. E invece niet. La separazione non si farà neppure in questa legislatura. Perché è stata bandita dal tavolo delle riforme, per la semplice ragione, sostiene Meloni, che due referendum costituzionali sono davvero troppo, e quello sulla carriere sicuramente ha tali e tanti nemici da rischiare di azzoppare quello sul presidenzialismo. Quindi stop alla separazione, tant’è che anche nella commissione Affari costituzionali, dove giace la vecchia proposta dell’Unione delle camere penali, ovviamente sponsorizzata proprio da Costa, i lavori rallentano fino a sparire. “Ormai Nordio è diventato un uomo politico e non ricorda più le sue battaglie di quando era magistrato” dice il responsabile Giustizia di Azione. E via tweet minaccia: “Lo dico fin d’ora. Non voterò nessuna riforma costituzionale che dovesse comportare il sacrificio della separazione delle carriere dei magistrati”. Caiazza: “Nessuna riforma possibile finché il ministero è pieno di magistrati...” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 maggio 2023 Più toghe fuori ruolo? Via Arenula smentisce il “blitz” del governo. Giandomenico Caiazza, leader dei penalisti: “L’aria che tira sulla separazione delle carriere è pessima”. Il ministero della Giustizia smentisce il blitz del Governo in merito all’emendamento al decreto sulla Pa che punterebbe a infornare nuovi magistrati a via Arenula, con la scusa del Pnrr, che impone invece di ridurre l’arretrato. Al fine di favorire il raggiungimento degli obiettivi prioritari del Piano, rende infatti noto il ministero replicando alle indiscrezioni apparse sul Dubbio, “in modo temporaneo, si propone per i prossimi 3 anni di redistribuire in modo parzialmente differente il totale dei magistrati già fuori ruolo, riducendo di 10 unità quelli assegnati ad altre amministrazioni a favore del ministero della Giustizia”. Insomma, l’aumento ci sarà, ma a numeri invariati, mentre viene confermata la futura riduzione del numero complessivo dei magistrati fuori ruolo, passando dall’attuale soglie di 200 (di cui 65 a via Arenula) a 180, ma solo a partire dal 2027. Nel frattempo continuano a susseguirsi i segnali secondo i quali la separazione delle carriere non si farà. Si tratta di due temi, o meglio cavalli di battaglia, dell’Unione delle Camere penali italiane. Vediamo che ne pensa il presidente Gian Domenico Caiazza. Aumentare i magistrati fuori ruolo al ministero della Giustizia. Che ne pensa? Nessuna riforma liberale della giustizia è possibile se non si risolve il nodo della presenza abnorme della magistratura nei ruoli chiave del ministero della Giustizia. Quindi questa notizia, che apprendiamo dall’onorevole Costa, è allarmante. Intanto perché va contro tendenza rispetto alla riforma Cartabia che prevede non solo una riduzione dei magistrati fuori ruolo ma anche un efficace depotenziamento del percorso di carriera dei fuori ruolo. Infatti, la riforma, con molta intelligenza, ha reso non premiante in termini di carriera il distacco al ministero. E difatti immediatamente si è prorogata l’entrata in vigore dei decreti attuativi della delega, che comprendono anche il fascicolo di professionalità. Nulla impedirà un’ulteriore proroga ma poi saremo curiosi di vedere come saranno scritti i decreti delegati. Il consigliere di Nordio, Bartolomeo Romano, ci preannuncia che nel nuovo pacchetto di riforme si vorrebbe sostituire il gip con il Tribunale del Riesame. Bella idea commenta Stefano Musolino di Md ma mancano magistrati. Quindi non le sembra paradossale sottrarre ai Tribunali seppur solo altri dieci magistrati quando si intende fare una riforma di quella portata? Non bisogna ragionare sui dieci magistrati in più ma sul totale di quelli distaccati soprattutto al ministero della Giustizia. Duecento toghe in organico di questi tempi farebbero la differenza. I dieci in più sono una spia che ci indica che verrà disattesa la riforma Cartabia e si andrà nel senso opposto. Quindi si ripropone il problema di carattere generale, non solo della Commistione tra poteri, che è un unicum mondiale, ma della sottrazione di 200 unità qualificate. Tema separazione delle carriere: da un lato viene alla vostra assemblea il vice ministro alla Giustizia Sisto che vi assicura che Nordio dopo l’estate presenterà un disegno di legge. Poi però i lavori in Commissione Affari Costituzionali vanno a rilento e la Meloni avrebbe risposto a Calenda, che le chiedeva di inserire nei colloqui sulle riforme istituzionali anche questa questione, “così si aprono troppi ambiti”. Come legge tutto questo? Lo dico con molta chiarezza: l’aria che tira sulla separazione delle carriere è pessima. Tanto è vero che noi già due mesi fa abbiamo lanciato una campagna di mobilitazione delle Camere penali sul territorio a sostegno del progetto di riforma. Noi siamo molto preoccupati perché tutti i segnali che ci arrivano sono negativi. Quali sono questi segnali? Il percorso parlamentare si è arenato appena all’inizio. Voi avete dato notizia di questa risposta della premier Meloni a Calenda: se non smentisce vuol dire che conferma. Pertanto paradossalmente anche il disegno di legge governativo annunciato da Sisto rischia di essere un ulteriore motivo di rallentamento del percorso. Anche perché dovendo essere di matrice costituzionale servirebbero i due terzi del Parlamento: difficile da raggiungere come obiettivo. E allora si dovrebbe andare col referendum... Sarebbe bene che qualcuno facesse notare alla presidente Meloni che tra i votanti per il referendum sulla separazione delle carriere che si sono susseguiti la prevalenza dei sì è schiacciante. Questo tema è uno dei pochi delle riforme liberali della giustizia che è autenticamente popolare. Credo che ci siano molte più probabilità che abbia la maggioranza un referendum confermativo di una riforma a favore della separazione delle carriere che quello sul presidenzialismo. Secondo il professor Tullio Padovani per affrontare bene il tema della separazione delle carriere occorre che chi si occupa di attuare il diritto - accusa, difesa, giudice - provenga da una matrice unitaria... È ovvio che ci deve essere una comune cultura della giurisdizione di tutti i giuristi che poi fanno le loro scelte. Si tratta di una idea giustissima che sottoscrivo senza riserve. Ultima domanda: voi avete dato fiducia a Nordio, persino l’astensione è stata indetta per supportare Nordio nelle sue riforme. Ma dato quello che ci siamo raccontati oggi non le sembra che diventa sempre più difficile intraprendere il percorso riformatore di Nordio che all’inizio vi ha entusiasmato? L’impressione è che il ministro sia persuaso e determinato nelle sue idee ma cresce sempre di più in noi la preoccupazione che la macchina ministeriale vada in senso opposto a quelle idee o perlomeno crei delle resistenze molto forti. Questa è la sensazione che aumenta di giorno in giorno. Arriverà un momento in cui o questa nostra preoccupazione verrà fattivamente smentita con un ministro che imponga con forza le sue linee politiche o altrimenti rilanceremo con forza la nostra iniziativa politica. Attenuante batte recidiva. La pena dell’ergastolo non può risultare fissa di Giovanni Galli Italia Oggi, 13 maggio 2023 La Consulta ha dichiarato l’illegittimità di una norma del codice penale. La pena edittale dell’ergastolo non può risultare “fissa” e “indefettibile” per effetto del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata divieto, introdotto nel 2005 come deroga alla regola generale secondo cui il giudice può fare l’ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 94 (redattore Giovanni Amoroso), depositata ieri, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dalla legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata. Più volte la Corte costituzionale ha già dichiarato illegittimo tale divieto con numerose sentenze in riferimento a reati anche molto gravi. In continuità con tali pronunce, spiega una nota, la Corte ha ribadito che, nelle ipotesi in cui la differenza tra la pena base e quella risultante dall’applicazione di un’attenuante è molto elevata, l’effetto della recidiva reiterata non può essere tale da comportare il divieto per il giudice di fare ciò che il codice penale prevede in generale quando c’è il concorso di circostanze attenuanti e aggravanti: ossia, valutarle e compararle per stabilire se le prime possano essere, eventualmente, ritenute prevalenti. In questi casi, la necessaria funzione di riequilibrio della pena, svolta dall’attenuante, è compromessa dal divieto di prevalenza. Questa considerazione vale a maggior ragione nel caso in cui la pena edittale è quella fissa dell’ergastolo. Quando ricorre una circostanza attenuante, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da 20 a 24 anni e quindi la differenza è tra una pena perpetua, di durata indeterminata in quanto potenzialmente “senza fine”, e la reclusione, che è sempre temporanea. La pena “fissa” e “indefettibile” dell’ergastolo, quale effetto del divieto suddetto, si pone, inoltre, in contrasto con il principio di necessaria proporzionalità della sanzione. Il giudice deve poter graduare la pena secondo la maggiore o minore offensività della condotta in concreto, tenuto conto delle circostanze del reato. La Corte infine ha precisato che, per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona imputata di uno dei delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, aggravato dalla recidiva reiterata, non ha più il divieto previsto dalla norma suddetta e può operare l’ordinario bilanciamento delle circostanze, come stabilito in generale dal codice penale, e, quindi, può ritenere che le attenuanti siano prevalenti sulla recidiva reiterata e conseguentemente non irrogare l’ergastolo ma rimane che questa pena può essere inflitta ove il giudice valuti che, invece, le attenuanti non siano prevalenti sulla recidiva. In caso di recidiva reiterata, la pena dell’ergastolo non è più “fissa” e “indefettibile”, ma non è esclusa. Sicilia. Il Garante dei detenuti: “I diritti e il reinserimento sociale sono le priorità assolute” di Francesco Patanè La Repubblica, 13 maggio 2023 “Serve un’assoluta trasparenza nella comunicazione e la massima attenzione al tema dei diritti dei detenuti”. Santi Consolo si è insediato solo ieri mattina nel suo ufficio di garante per i diritti fondamentali dei detenuti della Regione Siciliana e per il loro reinserimento sociale, dopo essere stato nominato dal presidente Renato Schifani per i prossimi sette anni. Settantatré anni palermitano, è stato capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria e procuratore generale presso le corti d’Appello di Caltanissetta e Catanzaro. Due detenuti morti ad Augusta per sciopero della fame, nel silenzio totale. Come può accadere? “Nell’amministrazione penitenziaria ci sono circolari e direttive che prevedono la comunicazione tempestiva di ogni evento critico. Lo stesso raccordo dovrebbe esserci anche con il servizio sanitario per assicurare ricoveri immediati e scongiurare tragedie come quelle purtroppo accadute ad Augusta”. Nello stesso penitenziario l’ultima indagine della procura di Catania racconta di telefoni e droga fatta entrare in carcere. Comunicavano tutti ad Augusta, tranne chi chiedeva disperatamente di essere ascoltato? “Ad Augusta non c’è un garante comunale come a breve sarà nominato a Palermo. Anche questa è una carenza perché questa figura, con le sue doverose visite periodiche nell’istituto penitenziario, avrebbe potuto segnalare l’evento critico. Sarà utile capire quanti detenuti hanno partecipato allo sciopero della fame e per quanto tempo. Nessuno ha avuto sentore di quanto oggi denunciamo. Possibile che nemmeno un familiare delle due vittime abbia cercato di far conoscere all’esterno quanto stava accadendo? Quanto ai sequestri di telefonini e droga, il fenomeno non è circoscritto solo ad Augusta e sui correttivi la risposta è molto articolata. Basterebbe partire dal concetto che un telefono in carcere non è un problema, basta intercettarlo”. Il garante nazionale nel caso di Augusta invoca maggiore trasparenza comunicativa, lei che ne pensa? “Sulla trasparenza sono completamente d’accordo. Da capo del Dap ho istituito un gruppo che si occupava proprio di questo e quotidianamente mi informava degli aggiornamenti su quanto accadeva in tutti i 193 istituti penitenziari italiani. Gli strumenti ci sono, vanno usati al meglio. Certo, è chiaro che ad Augusta c’è stato un difetto di comunicazione. Lunedì sarò lì per comprendere meglio la situazione con la magistrata di sorveglianza di Siracusa Monica Marchionni. Sarà il mio primo atto da garante”. Carenza di personale e di progetti di rieducazione. Il mondo delle carceri siciliane rischia di esplodere? “Amo troppo la mia terra e farò quanto in mio potere per evitare che ciò accada. Confido nella collaborazione di tutti, appartenenti all’amministrazione penitenziaria e alle istituzioni regionali, per un significativo cambiamento che, anche nelle carceri, testimoni civiltà e progresso. Fortunatamente non viviamo l’emergenza sovraffollamento come in altre regioni, in compenso c’è il dossier Lampedusa da affrontare con la situazione dell’hotspot”. Negli istituti penali minorili lo scenario non cambia. Al Malaspina di Palermo ci sono state due aggressioni in una settimana e alcuni ragazzi si sono feriti con le lamette. Come si ferma la deriva? “Sul Malaspina ho in programma una visita quanto prima. Nella mia carriera non ho mai affrontato le tematiche degli istituti minorili. Di una cosa però sono convinto: al centro deve esserci la tutela dei diritti dei giovani detenuti e gli strumenti per il loro reinserimento sociale”. Augusta (Sr). Muoiono due ergastolani in sciopero della fame, la procura apre un’inchiesta di Lara Sirignano Corriere della Sera, 13 maggio 2023 Uno denunciava di essere vittima di un errore giudiziario. L’altro, un russo, protestava contro la mancata concessione dell’estradizione. Il Garante dei detenuti: “Per Cospito trattamento diverso”. Hanno rifiutato il cibo uno per 41 giorni, l’altro per 60. Una protesta estrema che ha portato alla morte due carcerati detenuti nell’istituto di pena di Augusta (Siracusa). Sulla tragica vicenda ha aperto un’indagine la procura di Siracusa. Il fascicolo è ancora a carico di ignoti e il reato ipotizzato è l’omicidio colposo. Protagonisti del caso un siciliano di 45 anni Liborio Zarba e un cittadino russo, Victor Perschachako, morti a distanza di un mese. Entrambi scontavano la condanna all’ergastolo per omicidio. La doppia protesta dei due carcerati - Il detenuto siciliano, originario di Gela, aveva iniziato lo sciopero della fame denunciando di essere vittima di un errore giudiziario. Il russo, invece, protestava contro la mancata concessione dell’estradizione nel suo Paese richiesta dal 2018. I due carcerati, molto provati dal digiuno prolungato, sono stati ricoverati in ospedale quando ormai le loro condizioni erano gravissime. E per entrambi non c’è stato nulla da fare. I decessi sono stati resi noti dal sindacato di polizia penitenziaria Sippe. “Apprendiamo con rammarico - ha scritto la segreteria provinciale del Sippe - di queste disgrazie che dimostrano come il lavoro del poliziotto penitenziario sia unico, delicato e particolare e come tale deve essere affrontato. Purtroppo non sempre è così”. Il Garante dei detenuti: due pesi e due misure rispetto a Cospito - Sul caso è intervenuto anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, che ha richiamato l’attenzione “sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”. “Mentre molta doverosa attenzione è stata riservata allo sciopero della fame nel caso di una persona detenuta al 41-bis, con interrogativi che hanno anche coinvolto il mondo della cultura e l’opinione pubblica, oltre che le istituzioni, nella Casa di reclusione di Augusta il silenzio - ha denunciato il Garante riferendosi al caso Cospito - ha circondato il decesso di due persone detenute avvenuto a distanza di pochi giorni”. Palma ha specificato di non voler “assolutamente sollevare problemi relativi all’assistenza che queste persone possono avere avuto nell’Istituto e all’adempimento dei protocolli che sono previsti in simili casi”. “Intende però richiamare la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”, ha concluso. Palermo. Emergenza penitenziari, due ragazzi al Malaspina si tagliano con le lamette di Salvo Palazzolo La Repubblica, 13 maggio 2023 Dopo la morte dei due detenuti in sciopero della fame ad Augusta, altri casi nella crisi delle carceri. All’istituto minorile aggredito un poliziotto. Ad Augusta, due detenuti sono morti dopo un lungo sciopero della fame. Al Malaspina di Palermo, due giovani si sono tagliati in varie parti del corpo con delle lamette e un agente è stato ferito. Si riapre in modo drammatico il fronte delle carceri. O forse, non si è mai chiuso. “C’è solo un grande silenzio sulla questione carceraria in Italia”, continuano a denunciare i sindacalisti della polizia penitenziaria. Un silenzio diventato assordante dopo la morte dei due detenuti di Augusta, che facevano lo sciopero della fame da 41 e 60 giorni. “Una situazione gravissima che a noi non era stata segnalata”, denuncia Daniela De Robert, che fa parte del collegio del Garante dei detenuti. Un silenzio istituzionale. Il primo febbraio, il senatore del Pd Antonio Nicita aveva presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia sulle gravi carenze che soffocano le carceri di Augusta, Noto e Siracusa. “La risposta del sottosegretario, il 24 marzo, fu del tutto insoddisfacente - dice oggi Nicita - si limitò ad annunciare l’assunzione di altri poliziotti. Tralasciando invece il tema della preoccupante crescita dei suicidi”. Protesta al Malaspina - Il segretario generale del Sappe Donato Capece racconta: “Due detenuti dell’istituto di rieducazione minorile hanno dato vita a una protesta folle e pericolosa, lesionandosi completamente i corpi con delle lamette da barba. Dopo vari tentativi di persuasione, l’intervento della polizia penitenziaria ha fermato l’autolesionismo dei due giovani, anche se uno degli agenti è stato preso a morsi alle braccia”. È l’ennesimo episodio al Malaspina. “Ancora una volta l’azione di mediazione della polizia penitenziaria è stata determinante per la risoluzione pacifica dell’evento che avrebbe potuto essere molto pericoloso - dice ancora Capece - ma la situazione che si sta vivendo da settimane nell’istituto palermitano è allarmante e stupisce l’assenza di provvedimenti da parte delle autorità competenti”. Il sindacato denuncia una grave situazione di malessere fra gli agenti: “Si sentono abbandonati dalle istituzioni penitenziarie”, aggiunge il segretario del Sappe. E la questione non è solo di sicurezza. Cosa c’è dietro il disagio crescente dei ragazzi del Malaspina? La denuncia del Garante - Victor Pereshchako, 52 anni, faceva lo sciopero della fame perché chiedeva di scontare l’ergastolo nel suo paese, la Russia. Liborio Davide Zarba aveva invece 42 anni, era originario di Gela, stava scontando una condanna per violenza privata e maltrattamenti in famiglia, sarebbe uscito dal carcere il 12 aprile 2029: riteneva di essere finito in carcere ingiustamente. “Noi monitoriamo quotidianamente i dati sulle situazioni critiche e quelli sui detenuti che iniziano o minacciano lo sciopero della fame - spiega Daniela De Robert, componente del collegio del Garante dei detenuti - attualmente ci sono 19 casi in tutta Italia, due in Sicilia. Lo sciopero della fame è sempre una forma di protesta, per richiamare l’attenzione. E questa attenzione deve essere data”. L’Ufficio del Garante lamenta soprattutto la mancanza di comunicazione: “Quando c’è una situazione critica, non bisogna nasconderla - prosegue Daniela De Robert - Per i due detenuti deceduti abbiamo saputo che avevano iniziato lo sciopero della fame e poi del ricovero e della morte. In mezzo c’è il vuoto”. Dei 19 casi di sciopero della fame in tutta Italia, due sono già rientrati dopo un giorno. “Spesso questa forma di protesta dura anche solo qualche ora - spiega l’Ufficio del Garante - viene messa in atto perché il detenuto vuole sollevare l’attenzione degli operatori, su questioni che poi molto spesso risultano risolvibili: oggi, ad esempio, una persona voleva parlare con il direttore e l’altra voleva lavorare”. In altri casi, come accaduto ad Augusta, le richieste sono più complesse. “Una maggiore condivisione della loro situazione e l’attivazione delle istituzioni che possono interfacciarsi con i reclusi avrebbero potuto fare la differenza”. Invece, resta l’assordante silenzio attorno alla situazione delle carceri in Sicilia. Dopo l’interrogazione del senatore Nicita, il ministero della Giustizia ha comunicato che ad Augusta i detenuti sono 481, dovrebbero essere 364, c’è un indice di sovraffollamento pari al 142,31 per cento. Gli agenti sono 184, ne mancano 67. “Ho presentato un’altra interrogazione - dice il senatore Nicita - la situazione è sempre più grave”. Palermo. Al Malaspina trent’anni fa, il lavoro infinito per strappare quei ragazzi al crimine di Massimo Lorello La Repubblica, 13 maggio 2023 Tanti detenuti dell’istituto penale minorile di Palermo non avevano il padre, erano figli dei caduti nella guerra di mafia degli anni Ottanta. Sono passati trent’anni da quando varcai per la prima volta l’ingresso dell’Istituto penale minorile di Palermo. Non mi avevano arrestato, semplicemente stavo cominciando il servizio civile che scelsi al posto della leva militare obbligatoria. Nella mia mente scorrevano le immagini del film “Mery per sempre” ed ero certo che avrei trovato adolescenti trattati come scimmie in gabbia e agenti dal facile abuso di potere. Prima di ogni cosa, superato l’ultimo cancello della sezione, notai l’abbigliamento dei secondini: non erano in divisa, come immaginavo, ma indossavano vestiti borghesi, questo serviva a rendere meno tesi i rapporti con i detenuti. Quanto ai ragazzi, ti venivano sempre in contro per stringerti la mano con lo sguardo spavaldo o con gli occhi bassi. E poi tornavano sul banco della scuola o nella stanza del corso di artigianato o nell’atrio per riprendere la partita di calcio. Dall’altra parte dell’istituto, educatori, psicologi e assistenti sociali ragionavano sui percorsi educativi da mettere in piedi. Qualcuno lavorava bene, qualcun altro meno ma per ogni ragazzo erano previste periodiche riunioni d’equipe che si concludevano con una relazione scritta (da dattilografo ne riscrissi tante) per definire il da farsi. Usciti dalle stanze della segreteria che puzzavano di fotocopiatrice, gli educatori andavano in sezione per ascoltare i ragazzi. In tanti erano orfani di padre, erano figli dei caduti nella guerra di mafia degli anni Ottanta, guerra che non si era ancora interrotta. Ad agosto uno dei ragazzi detenuti apprese dal telegiornale che avevano ucciso suo fratello. Urlò, pianse, poi con gli occhi ancora gonfi, iniziò a passare lo straccio nella sua stanza chiedendo di fare altrettanto nelle altre. “Si comporta così perché vuole un permesso per uscire e andare a vendicare il fratello”, mi disse il suo “compare” di detenzione. Non era certo un collegio, il Malaspina. C’erano i leader e i gregari, c’era chi soffriva il primo arresto sperando che fosse l’ultimo e chi dentro un carcere sembrava esserci nato. E ogni tanto qualcuno scappava approfittando del permesso. Ma per la latitanza servono tanti soldi e nessuno di quei ragazzi ne aveva. Così, nell’arco di un paio di giorni arrivava puntuale la telefonata all’educatore: “Ho fatto una minchiata, sto tornando”. Di botte tra detenuti ne ho viste pochissime, ma non erano molto differenti da quelle che potevano scambiarsi gli studenti di un liceo. Quell’anno i ragazzi giocarono una partita allo stadio, andarono almeno due volte al cinema e salirono sul palco del Teatro Biondo acclamati dal direttore Roberto Guicciardini. Finita la pena, ognuno di loro andò in contro al proprio destino, in molti continuarono a delinquere. Ma le esperienze positive vissute durante la detenzione sarebbero potute servire per cominciare un’esistenza nuova: per questo sono state vissute. Trent’anni dopo, resta una domanda. Che fine ha fatto quel Malaspina? Avellino. “Arresti domiciliari”, ma non ha casa: detenuto di 75 anni in carcere di Valerio Papadia fanpage.it, 13 maggio 2023 La storia dell’uomo, 75 anni, detenuto nel carcere di Avellino è emersa dal report presentato dall’Unione Camere Penali, dal Garante dei detenuti di Avellino e dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Amara la storia di un uomo di 75 anni, detenuto nel carcere di Avellino, che potrebbe scontare la sua condanna ai domiciliari ma resta in galera: l’uomo, infatti, non ha una casa e non ha i soldi per poter prendere un appartamento in affitto e scontare lì la condanna. La storia è emersa dal report che conclude il progetto “Viaggio della speranza”, presentato oggi e promosso dall’Unione Camere Penali, dal Garante dei detenuti della provincia di Avellino e dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”. “Un viaggio molto spesso nel buio perché lo Stato non investe nella rieducazione e nel reinserimento tra le maglie della giustizia-lumaca e le falle del sistema penitenziario” ha detto Carlo Mele, Garante dei detenuti di Avellino. “Luci e ombre nel carcere di Avellino - ha detto Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino -: da un lato c’è l’impegno per garantire ai detenuti di lavorare e studiare, dall’altro strutture fatiscenti e nel degrado”. Per Giovanna Perna, responsabile dell’Osservatorio carceri per l’Unione Camere Penali, invece “La carenza di psichiatri e assistenti sociali è una criticità ormai diventata permanente nonostante sia stata più volte segnala e denunciata. Una situazione che rende più difficile il lavoro dei direttori degli istituti e degli agenti penitenziari oltre a non garantire il rispetto della dignità di questi particolari detenuti”. Firenze. Lieto fine per Youssef, dalla tenda in un parcheggio alla nuova vita di Sara Benedetti Corriere Fiorentino, 13 maggio 2023 Dopo il racconto della sua storia sul Corriere Fiorentino, un’associazione di volontariato gli ha offerto un alloggio. E un’azienda gli ha offerto un impiego come operatore di sala di controllo. “Sarò sempre grato a Firenze”. Nel giro di poche settimane, la vita di un ragazzo è cambiata. Youssef Ghaffari - il 25enne programmatore informatico che per giorni ha chiamato “casa” la tenda comprata con i suoi ultimi risparmi, vivendo in un parcheggio nei pressi della stazione fiorentina di Rifredi - ha finalmente trovato il suo lieto fine: un tetto sopra la testa e un lavoro che gli permetterà di crearsi la propria indipendenza. A seguito della pubblicazione della storia di Youssef da parte del Corriere Fiorentino, un’associazione di volontariato (che chiede di mantenere l’anonimato), con sede a Firenze, si è offerta attraverso il suo principale progetto di accoglienza di supportare Youssef mettendo a disposizione un alloggio. Il progetto è rivolto ai giovani indigenti (immigrati e non) e si estende per un arco di 12 mesi, nei quali i ragazzi devono adoperarsi nel trovare lavoro, alloggio e dedicarsi a del volontariato. “Non dimenticherò mai tutto il bene che ho ricevuto, questo per me è un nuovo inizio” racconta Youssef. Il tono della sua voce è cambiato, non traspare più rassegnazione; e aggiunge: “Lavorerò come operatore di sala controllo presso un’azienda basata a Firenze. Il mio ruolo riguarderà il controllo delle infrastrutture, garantendo una supervisione costante 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Sarà impegnativo, capiteranno anche i turni di notte, ma non vedo l’ora di rimettermi in gioco”. Tra le diverse proposte di lavoro provenienti da tutta Italia, Youssef ha scelto di restare a Firenze: “È la città a cui per sempre sarò riconoscente, oggi per me è casa. Sento che qua potrò crescere sia professionalmente che a livello umano”. Youssef non sa cosa il futuro ha in serbo per lui, ma sa per certo cosa farà non appena si sarà reso autosufficiente: “La prima cosa che farò sarà contraccambiare l’aiuto che mi è stato dato. Questa volta è il mio turno fare la differenza nella vita di chi ha bisogno”. Rimini. Carcere. Nella prima sezione “trattamento inumano e degradante” newsrimini.it, 13 maggio 2023 I bagni delle celle attigui all’angolo cottura e direttamente comunicanti con la zona dei letti. Questo, purtroppo, è quello che accade nella prima sezione del carcere di Rimini che ospita attualmente 32 detenuti (9 in più della capienza). Un trattamento inumano e degradante, in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Una situazione, più volte denunciata dai radicali riminesi e dalla Camera Penale, e ora messa nero su bianco in una ordinanza del magistrato di sorveglianza di Bologna che (dopo una visita in carcere) ha riconosciuto ad un detenuto il risarcimento connesso alla privazione delle condizioni minime dignitose di detenzione. “È intollerabile che sul nostro territorio ci sia una situazione così grave - dice Ivan Innocenti, consigliere del Partito Radicale - /noi chiediamo che quella sezione debba subito essere chiusa e fare in modo che venga rapidamente ristrutturata”. La sezione, che presenta anche problematiche di carattere sanitario evidenziate dall’Ausl (nel novembre 2021 aveva parlato di “rischio sanitario per i detenuti”), è infatti destinata da tempo ad un intervento di ristrutturazione ma i tempi non sono certi. Non mancano poi altre criticità: 139 detenuti su una capienza di 118 posti, personale penitenziario sottodimensionato (a fronte di un organico di 150, gli effettivi sono 114 ma 13 tra poco andranno in pensione e 14 sono in malattia prolungata). Ombre ma anche luci. La situazione ai Casetti, evidenziano radicali e legali della Camera Penale, è migliorata. Finalmente c’è un direttore a tempo pieno e di grande competenza, Palma Mercurio, e dopo 4 anni è stato nominato il Garante dei detenuti Giorgio Galavotti che oggi ha partecipato alla visita in carcere. Vi si recherà ogni venerdì per raccogliere le sollecitazioni dei detenuti. Tra le priorità, aprire la struttura alla città avvicinando anche le imprese (con debite agevolazioni) e permettendo così ai detenuti di avere una prospettiva di lavoro una volta fuori, abbassando il tasso di recidiva che nel riminese è purtroppo molto alto. Altra urgenza, con l’estate alle porte e il consueto picco di detenuti, far sì che in carcere ci stia solo chi deve: ci sono infatti persone che potrebbero scontare la pena ai domiciliari ma non hanno un posto in cui andare. A questi potrebbe, e forse dovrebbe, cercare di dare risposte il comune e il garante Galavotti si farà carico di portare avanti anche queste istanze nei confronti dell’amministrazione. Benevento. Open day nel carcere per trovare lavoro ai detenuti di Anna Liberatore Il Mattino, 13 maggio 2023 Il carcere di Benevento apre le porte al mondo imprenditoriale ed associativo in un open day pensato per far conoscere alla società le potenzialità del lavoro detentivo e portare all’interno delle mura strumenti e competenze in grado di aumentare l’occupazione tra i reclusi. “All’interno dell’istituto - ha spiegato il direttore, Gianfranco Marcello - la stragrande maggioranza di detenuti si trova in regime di alta sicurezza e non può uscire. Sono solo sei, al momento, i reclusi meritevoli di misura alternativa che possono recarsi all’esterno. Abbiamo un protocollo siglato con il consorzio Asi, con la rete Sale della Terra, con la questura e con il tribunale: si tratta di inserimenti lavorativi o di attività di volontariato con rimborso spese, ma vorremmo incrementare queste attività. Questo è il motivo per il quale abbiamo organizzato l’open day: vogliamo creare opportunità di occupazione esterna ma soprattutto portare lavoro dentro la casa circondariale. Con le imprese che parteciperanno alla nostra iniziativa verificheremo che ci siano spazi e possibilità per inserire ulteriori lavorazioni e consentire anche a chi non può uscire di essere occupato”. Padova. Università in carcere, via al ventesimo anno di corsi: “Studio per ritrovare la dignità” di Manuel Trevisan Il Mattino di Padova, 13 maggio 2023 Sessantatré studenti detenuti seguiti da 21 tutor. Una sezione de Due Palazzi trasformata in Polo universitario con biblioteca e sale comuni. Nella mattinata di venerdì 12 maggio è stato inaugurato il ventesimo anno del Progetto Università in carcere nell’auditorium della Casa di reclusione. “Festeggiamo il diritto allo studio, che insieme al lavoro rappresenta la base per il reinserimento sociale, che è il fine ultimo della pena” ha detto Claudio Mazzeo, direttore della Casa di reclusione. Oltre a Mazzeo alla cerimonia di inaugurazione erano presenti la rettrice dell’Università Daniela Mapelli, la delegata del Progetto Francesca Vianello e il presidente dell’associazione Operatori Carcerari Volontari (Ocv) Attilio Favaro. A portare i saluti dell’amministrazione comunale l’assessora al Sociale Margherita Colonnello. All’università in carcere sono iscritti 63 studenti detenuti, che sono seguiti da 21 tutor, i professori universitari e numerosi volontari. Quindici studenti ristretti scontano la propria pena nel Polo universitario, una sezione del Due Palazzi pensata ad hoc per gli studenti che mette a disposizione una biblioteca, ambienti comuni in cui studiare e un limitato collegamento a internet. A prendere parola nel corso della cerimonia è stato anche Marius, uno studente detenuto, che ha spiegato l’importanza dell’attività offerta dal carcere di Padova in collaborazione con l’Ateneo nel percorso rieducativo e di reinserimento sociale: “Studiare ci dà la possibilità di ritrovare la nostra dignità” ha detto. Padova. Augusto, l’ex boss con due lauree: “Lo studio mi ha reso libero” di Sara Busato Corriere del Veneto, 13 maggio 2023 Marcus, Augusto e Leonard: sono solo tre degli studenti del progetto università in carcere, avviato due decenni fa dal Bo per portare l’offerta formativa universitaria in carcere e garantire l’accesso all’istruzione alle persone detenute. “La cultura, l’istruzione e il diritto allo studio sono fondamentali assieme al lavoro - ha commentato Claudio Mazzeo, direttore del carcere di Padova - per costruire percorsi di inclusione e di reinserimento sociale”. Ieri mattina al Due Palazzi la rettrice Daniela Mapelli ha inaugurato, alla presenza delle istituzioni, il ventesimo anno accademico: “Penso sia giusto - ha commentato - richiamare il valore fondamentale del nostro Ateneo, ovvero la libertà. Sono fortemente convinta che il sapere è sempre una delle varie forme di libertà e che la cultura restituisce dignità e valore al tempo della pena”. Lo scorso anno, inoltre, è stato attivato il corso universitario sociologia del carcere interamente in presenza: primo del suo genere in Italia, permette agli studenti di confrontarsi con l’ambiente penitenziario e agli studenti ristretti di guardare la realtà detentiva da una prospettiva diversa, interagendo con persone al di fuori dell’ambiente carcerario. Padova, quindi, rappresenta un modello nazionale. “Abbiamo aperto - ha aggiunto la professoressa Francesca Vianello - una strada condivisa con altri quaranta atenei. A livello italiano sono circa 1.200 gli studenti che da un carcere provano a laurearsi”. A Padova sono invece 63, di cui 52 nella casa di e i restanti nel Polo universitario: una cittadella che offre un ambiente adeguato allo studio dotato di spazi comuni, orari di visita estesi per i docenti e i 21 tutor nonché collegamento a Internet (con limitazioni) e biblioteca. “Mi sento orgoglioso - ha commentato Marcus, studente di Scienze Politiche - di far parte di questa Università. La conoscenza è un aspetto importante nella crescita di una persona: grazie allo studio e al lavoro ho potuto riacquisire la mia dignità”. Poi c’è Augusto, sessantenne napoletano autore di due pubblicazioni. La sua è una carriera universitaria già avviata: due lauree, un master e tra due mesi una laurea in Sociologia. Ora è iscritto al primo anno di Filosofia: “Lo studio mi rende libero. L’ignoranza, al contrario, rende le persone fragili e può diventare strumento di manipolazione”. Prosegue, nel frattempo, la protesta di Studenti per Udu davanti all’ingresso di Palazzo Bo, dove per la terza notte consecutiva hanno dormito nelle tende posizionate sotto ai portici dello storico edificio che ospita il rettorato per protestare contro il caro affitti degli alloggi. Nella mattinata di ieri hanno ricevuto la visita del sindaco Sergio Giordani e degli assessori Antonio Bressa e Francesca Benciolini, con gli studenti stessi che sottolineano: “Abbiamo registrato delle aperture dall’amministrazione, ad esempio sull’estensione all’intera provincia del contratto a canone concordato per studenti, ma servono da tutti risposte efficaci e tempestive”. A tal proposito, intorno alle 16.30 di ieri, una delegazione è stata ricevuta anche dalla rettrice Daniela Mapelli. Torino. L’Arcivescovo Repole nel dolore del carcere minorile di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 13 maggio 2023 L’incontro commosso con i giovani detenuti punta dell’iceberg del malessere che cova nelle nuove generazioni. L’appello ai lettori per allestire una sala per la ricreazione. C’è un luogo a Torino che da sempre è lo specchio del malessere che cova nelle nuove generazioni, soprattutto nei giovani più fragili, di chi ha avuto di meno dalla vita sia in termini di povertà materiale che esistenziale. È l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”, un microcosmo in cui i disagi dei ragazzi detenuti - amplificati dalla pandemia - rispecchia il degrado delle periferie cittadine o l’assenza di senso di tanti nostri adolescenti alienati dall’illusione dei social o dalla precarietà della nostra società. È qui che l’Arcivescovo Roberto Repole, nella mattinata di giovedì 4 maggio, ha trascorso alcune ore con i minori reclusi durante la sua prima visita al Ferrante, non a caso proprio nei giorni in chi ricorre il suo primo anno dall’ingresso in diocesi. “Mi può benedire questa mano? Mi sono fatto male, sto passando un brutto periodo”. Omar (nome di fantasia), 17 anni, è uno dei 46 giovani detenuti, per la maggior parte stranieri, alcuni figli di immigrati di seconda generazione, altri non accompagnati, giunti nelle coste italiane sui barconi, facile preda dell’illegalità. La domanda, in italiano stentato, è rivolta all’Arcivescovo che si informa da dove viene, lo abbraccia e lo incoraggia a non mollare, ad utilizzare bene il tempo della pena con lo studio e le opportunità di formazione offerte al “Ferrante”. E lo benedice, tra la commozione dei compagni. Una benedizione estesa anche agli operatori che ogni giorno si dedicano con la scuola, i laboratori, lo sport al riscatto di questi giovani “nati nelle culle sbagliate”. È uno dei numerosi toccanti incontri della visita dell’Arcivescovo (un ragazzo marocchino canta una preghiera in arabo, un altro legge una poesia composta per la mamma “che mi manca”) accolto dalla direttrice Simona Vernaglione, dalla vice direttrice Gabriella Picco e dal cappellano, il salesiano don Silvano Oni. Proprio per ricordare che tra queste mura, da quasi due secoli, ci si imbatte nelle cause del disagio giovanile, l’Arcivescovo è subito stato accompagnato alla targa che ricorda che qui, nel 1855, don Bosco, durante le sue visite alla “Generala” (allora riformatorio per minorenni oggi “Ferrante Aporti) inventò il “sistema preventivo”, pilastro dell’impianto educativo del “santo degli oratori”. Don Bosco intuì che se ci fosse stata una famiglia solida, una comunità accogliente e una scuola con adulti significativi non ci sarebbero le carceri. E, durante le giornate trascorse al riformatorio con i “giovanetti discoli e pericolanti”, studiò soluzioni per prevenire lo sbando in cui versavano migliaia di adolescenti delle periferie torinesi, esattamente come accade oggi. Per questo è tradizione che i cappellani del “Ferrante” siano salesiani, come ha spiegato don Oni - successore del confratello don Domenico Ricca, andato in pensione lo scorso anno dopo oltre 40 anni di servizio - e che ha coinvolto alcuni novizi salesiani che ogni settimana “si fanno le ossa” in questo “oratorio dietro le sbarre”. Prima dell’incontro con i minori nelle aule dove ogni mattina studiano italiano, informatica, frequentano corsi professionali di cucina, ceramica e grafica, la direttrice e i suoi collaboratori hanno spiegato all’Arcivescovo che oggi l’Istituto è a capienza massima con giovani “che stanno scontando pene per reati contro il patrimonio aggravati per episodi di violenza. Fenomeno preoccupante è l’aumento dei reati contro la persona con episodi di rabbia anche di gruppo ingiustificata e un distacco empatico da ciò che si è commesso: uno squarcio desolante sul futuro delle nuove generazioni”. Perché i ragazzi reclusi al “Ferrante” sono la punta dell’iceberg dei ragazzi “fuori” che, come ha sottolineato mons. Repole, “sono lo specchio di una società nichilista che non offre prospettive e valori ai giovani”. Ringraziando tutto il personale (insegnanti, agenti, psicologi, educatori, sanitari ed obiettori) per la passione educativa con cui si impegnano per costruire un futuro migliore, perché una volta fuori i ragazzi non tornino a delinquere, l’Arcivescovo ha richiamato l’urgenza di un’alleanza educativa di tutte le forze in campo, tra cui la comunità cristiana, per riempire di senso la vita dei nostri giovani in modi diversi tutti fragili. Nell’aula di italiano c’era un ragazzo che ha mostrato all’Arcivescovo una foto del Papa. “Lei lo conosce? Lo saluti, gli voglio bene”. L’insegnante consegna a mons. Repole una lettera che Papa Francesco ha inviato nei giorni scorsi ai ragazzi in risposta ad un loro scritto accompagnato dalle foto del presepe “multiculturale” che hanno allestito a Natale: accanto alla grotta con Gesù bambino un barcone di giovani migranti con i soccorritori della Croce Rossa che li hanno accolti. Ecco le parole del Papa: “Grazie per aver voluto condividere con me la vostra esperienza, che mi ha commosso. Quello che avete realizzato è un grande segno di speranza… Accettate con coraggio la sfida di sognare. Siate sempre ‘fratelli tutti’ e non perdete mai il sorriso!”. Infine, Pasquale Ippolito, responsabile della formazione professionale di Inforcoop e presidente dell’Associazione di volontariato “Aporti Aperte” lancia un appello ai nostri lettori: “Stiamo allestendo per i ragazzi una sala per la ricreazione: abbiamo bisogno di un calcio balilla e giochi da tavolo e anche di abiti maschili e prodotti per l’igiene personale. Grazie” Per informazioni e donazioni: aporti.aperte@gmail.com - tel.335.6325109. Bologna. Conoscere il carcere attraverso l’esperienza di Luigi Pagano e Giacinto Siciliano cronacabianca.eu, 13 maggio 2023 I due direttori di strutture carcerarie presenteranno il prossimo 18 maggio a Bologna i loro libri “Il direttore: 40 anni di lavoro in carcere” e “Di cuore e di coraggio: memorie di un direttore di carcere”, introduce il garante regionale Cavalieri. Luigi Pagano e Giacinto Siciliano ci raccontano, in un incontro dedicato, la loro esperienza alla guida di diverse strutture carcerarie italiane. Un’occasione per presentare i loro due volumi, il primo di Pagano “Il direttore: 40 anni di lavoro in carcere” e il secondo di Siciliano “Di cuore e di coraggio: memorie di un direttore di carcere”. L’appuntamento è fissato per il prossimo 18 maggio, dalle ore 16, nell’aula magna di viale Aldo Moro 30 a Bologna. Un viaggio tra le pieghe del sistema penitenziario italiano: Pagano e Siciliano, attraverso i loro libri, ci daranno la possibilità di entrare nella storia carceraria del nostro paese, prefigurando una necessaria trasformazione incentrata su inclusione sociale e pene alternative. Introduce Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti. Modera Marco Bonfiglioli del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per l’Emilia-Romagna e le Marche. Per iscriversi all’incontro (gratuito) compilare il forum online: www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/figura-direttore-cc. Luigi Pagano, classe 1954 di Caserta, riceve il primo incarico a venticinque anni. Da allora ha guidato numerosi istituti penitenziari italiani: Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia, Taranto e San Vittore e Bollate a Milano. Dal 2012 al 2015 viene chiamato a Roma dal ministero della Giustizia ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), per poi tornare a Milano alla guida del Provveditorato (dopo aver ricoperto lo stesso incarico per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, e prima dell’incarico al ministero sempre in Lombardia). Oggi è consulente del difensore civico della Regione Lombardia. Giacinto Siciliano, classe 1966 nato a Lecce, ha alle spalle una lunghissima carriera ai vertici del sistema carcerario italiano, attualmente è il direttore della casa circondariale San Vittore di Milano. Dal 1993 lavora nell’amministrazione penitenziaria dove ha ricoperto incarichi dirigenziali in importanti strutture: Busto Arsizio, Monza, Trani, Sulmona e Milano Opera (a Milano sotto scorta per dieci anni a causa delle minacce ricevute da Totò Riina). Svolge poi attività di docenza nelle scuole di formazione del personale della stessa amministrazione penitenziaria e collabora con enti di formazione manageriale sui temi della leadership e del cambiamento organizzativo. Firenze. La mattinata rock di Sollicciano, con Pelù di Simone Innocenti Corriere Fiorentino, 13 maggio 2023 Il cantante si è esibito davanti ai detenuti: “Ragazzacci ora cantate insieme a me”. È proprio il caso di dire “Ragazzacci”, afferma Piero Pelù appena agguanta il microfono e si piazza di fronte al palco del teatro del carcere di Sollicciano. Mezz’ora di canzoni: Piero alla voce e Finaz alla chitarra. Mezz’ora tiratissima di fronte a un centinaio di spettatori, tra detenute e detenuti. E sotto lo sguardo attento e complice di Antonella Tuoni, direttrice di Sollicciano, che a fine concerto commenta: “È stato emozionante, una giornata di festa per i detenuti e per il personale di sorveglianza. La musica è un collante universale”. La musica di Pelù, in questo caso. Che attraverso sei canzoni - Io ci sarò, Gigante, Musica Libera, Regina di cuori, El diablo e Panam - invade chiunque sia lì davanti, con un ritmo coinvolgente. Pelù, che ha già suonato nelle carceri di Pistoia e di Massa Marittima, sembra dare il meglio di sé. “La musica crea qualcosa che lega tutti”, dice a fine esibizione. Durante la performance, Pelù si muove, balla, dialoga con il pubblico, come se fosse su un palco qualunque. Anche se qualcosa di diverso c’è: “Ragazzi, suonare alle 11 del mattino è un problema”, dice. Poi invita i detenuti a chiedere cosa vogliono in carcere: una donna spiega che le piacerebbe “avere lezioni di canto” mentre un uomo chiede “il calcio”. Poi riprende a suonare e prende per la mano la direttrice del carcere, facendole fare il giro del teatro al suono della chitarra. Fa così “visto che non mi posso “scapezzolare”“, spiega divertito. E a fine concerto accade qualcosa di proibito e di bello: due detenuti - un uomo e una donna - si baciano. E gli altri applaudono. Pelù lo saprà in un secondo momento: “Non me ne sono accorto, ma so che è accaduto: è una cosa bellissima”. Sono piccole schegge di umanità dentro un mondo fatto, molto spesso, di violenza. Perché in sala ci sono persone che scontano una condanna per vari tipi di reato: ricettazioni, truffe, rapine, scippi, omicidi. A fine concerto i detenuti regalano a Pelù una specie di trofeo fatto con la carta: “Bellissimo”, commenta il rocker che poco prima sul palco aveva detto: “Bisogna pensare alle cose positive e darsi altre possibilità”. Il pubblico di Sollicciano - agenti della polizia penitenziaria compresi - per quasi un’ora sembrano dimenticare tutto: molti di loro cantano, i piedi ritmano la musica, gli applausi scrosciano in maniera spasmodica. A fine concerto Pelù dice: “La situazione dei penitenziari, come quella degli ospedali e della nostra scuola pubblica ci impone di stanziare più soldi possibili del Pnrr per aumentare sensibilmente il personale in tutte queste strutture, e per migliorare le condizioni di studenti, pazienti, detenuti e detenute nonché insegnanti, medici e personale penitenziario, perché anche da loro dipende la qualità della società italiana futura”. Bologna. “E State alla Dozza!”. Musica e teatro tra le mura del carcere di Paola Gabrielli Corriere di Bologna, 13 maggio 2023 Novità sotto il cielo bolognese. Si tratta di “E State alla Dozza!”, tre giorni di teatro e musica dal 6 all’8 giugno, ospitati nel cortile della Casa Circondariale Rocco D’Amato di via del Gomito 2. Tutto nell’ambito di Bologna Estate 2023. Il progetto, che prevede anche un pubblico esterno, è nato in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Rocco D’Amato ed è curato da Teatro del Pratello insieme con Teatro dell’Argine. Il fine di questa prima edizione è quello di dare un’offerta culturale di qualità alle persone detenute e al tempo stesso aprire le porte alla città. Protagoniste saranno le donne, con due attrici e una cantante in scena. Si apre il 6 con La semplicità ingannata, spettacolo satirico sul lusso d’esser donne di e con Marta Cuscunà, liberamente ispirato alle opere letterarie di Arcangela Tarabotti e alla vicenda delle Clarisse di Udine e le lotte delle donne nel Cinquecento contro le convenzioni sociali e per la libertà di pensiero e critica nei confronti della cultura maschile. Il 7 sarà di scena Vecchia sarai tu! di Antonella Quarta, con al centro tre generazioni a confronto. In chiusura, l’8, il concerto della cantante e musicista bolognese Eloisa Atti, insieme a Marco Bovi, Emiliano Pintori, Stefano Senni, Marco Frattini (inizio ore 18.30. Info: teatrodelpratello.it/agenda-eventi). Fossano (Cn). Al carcere Ivano Porpora e il suo “Nero e bollente”: la presentazione il 20 maggio di Fabrizio Biolè targatocn.it, 13 maggio 2023 Gli organizzatori invitano il pubblico interessato a accreditarsi gratuitamente entro lunedì 15 maggio. Anche quest’anno, all’interno della programmazione del Salone Off, che propone decine di eventi complementari al Salone internazionale del Libro di Torino, i quali si tengono in contesti diversi dalla sede principale della manifestazione, ritorna il progetto “Voltapagina”. L’iniziativa conduce gli autori protagonisti del Salone e le loro produzioni letterarie dentro gli istituti di reclusione, coinvolgendo contemporaneamente la popolazione carceraria e la cittadinanza in eventi letterari di livello. Il progetto, giunto alla quattordicesima edizione, è in crescita e riscontra un ottimo successo di pubblico e di apprezzamento delle finalità. A partire dalla distribuzione del libro oggetto dell’incontro agli ospiti delle strutture, per arrivare al momento dell’incontro con i lettori “esterni” e con l’autore, il percorso coinvolge fattivamente gli operatori che si occupano di educativa negli istituti piemontesi. In prima fila come contesto candidato al progetto la struttura fossanese, che anche nel 2023 ha aderito e ospiterà uno degli eventi: l’incontro con l’autore Ivano Porpora, che presenta il suo saggio fresco di stampa “Nero e Bollente - autobiografia del caffè”. Ivano Porpora è scrittore, insegnante di scrittura e specialista in narrazione in ambito terapeutico. È stato selezionato tra i migliori esordienti nel 2008 per Scrittoricittà. Ha esordito per Einaudi con il romanzo “la conservazione metodica del dolore”. In seguito ha pubblicato “Nudi come siamo stati” (Marsilio 2012), “La vera storia del leone Gedeone” (Corrimano 2016), “Fiabe così belle che non immaginerete mai” (LiberAria 2017), “Parole d’amore che moriranno quando morirai” (Miraggi 2017), “L’argentino” (Marsilio 2018) e “Il giorno in cui nonno scese in cielo (Corrimano 2019). Nel 2021 pubblica il saggio sul mondo degli scacchi “Un re non muore mai” per UTET ed è da poche ora in libreria il suo secondo saggio “Nero e bollente”. Dal sito di UTET: “Secondo una leggenda, tutto iniziò quando l’arcangelo Gabriele portò a Maometto una bevanda nera come la pietra della Mecca per rinvigorirlo dai malanni. Ma la storia tramanda anche che papa Clemente VIII, chiamato a deciderne il divieto per le sue virtù eccessivamente eccitanti, dopo un primo assaggio non solo non proibì il caffè ma lo battezzò per renderlo bevanda “in grazia cristiana”. In questo libro delizioso, Ivano Porpora ci porta tra le piantagioni di Arabica del Brasile o di Robusta del Vietnam, quando le bacche sui rami diventano rosse e le drupe pronte per essere estratte, per poi farci assistere all’essiccatura e setacciatura dei chicchi, nonché alla loro tostatura nelle torrefazioni. Tutte queste fasi, fino alla messa in tazzina, con le sue infinite variabili identificative - macchiato freddo, caldo, lungo, corretto -compongono un ciclo rituale governato da precise regole e credenze, destinate e tramandarsi per generazioni. Ma la storia del caffè non si limita al suo processo produttivo o alle centinaia di varianti che sono state inventate per raggiungere il perfetto equilibro tra aroma e gusto. Da quando si diffuse in tutto il mondo arabo prima di raggiungere l’Italia, sua patria d’elezione, intorno al 1570, questa bevanda subito popolarissima entra con prepotenza nel nostro immaginario collettivo, da prodotto quasi di contrabbando smerciato nelle erboristerie a vero e proprio fenomeno sociale nella Venezia del Settecento, fino alla consacrazione dell’irrinunciabile rito quotidiano che conosciamo oggi. Nero e bollente è un elogio corale in cui le voci di García Márquez e Hrabal, Rimbaud e Brodskij riecheggiano insieme a racconti di vita familiare e a scene di grande cinema, canzoni della musica popolare ed esegesi bibliche, componendo un inno intimo e raffinato della bevanda del diavolo”. A introdurre e dialogare con l’autore: Fabrizio Biolè, collaboratore di Targatocn.it. L’appuntamento è per sabato 20 maggio alle ore 15 presso la Casa di Reclusione a Custodia Attenuata della città degli Acaja. Gli organizzatori invitano il pubblico interessato a accreditarsi attraverso un messaggio di posta elettronica all’indirizzo educatori.cr.fossano@giustizia.it oppure attraverso una telefonata al numero 0172.635791, interno “5” e a lasciare i propri dati anagrafici - nome, cognome e luogo di nascita. In alternativa è possibile prenotarsi presso la libreria Le Nuvole di via Cavour 23 o alla mail libreria.lenuvole@libero.it. Il tutto improrogabilmente entro il giorno lunedì 15 maggio. Maratona online sulle sottrazioni traumatiche dei minori alle madri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2023 Oggi dalle ore 10,30 alle 23 maratona online dalla parte dei bambini contro la violenza istituzionale e i prelievi forzati sulla pagina Facebook Folsom Prison Blues. I gestori della pagina Umberto Baccolo (del direttivo di Nessuno tocchi Caino) ed Elisa Torresin introdurranno oltre 12 ore di interventi sul tema delle sottrazioni traumatiche con forza pubblica dei minori alle madri per accuse di alienazione parentale e degli abusi e dei business nascosti dietro molte case famiglia e della vittimizzazione secondaria nei Tribunali, presso i servizi sociali e in CTU delle madri già vittime di violenza. Partiranno dal libro di recente uscito per Edizioni Magi “Senza Madre” parlandone con le autrici, le femministe storiche Nadia Somma, Emanuela Valente, Paola Tavella, Franca Giansoldati, Flavia Landolfi Martinelli, Silvia Mari, Assuntina Morresi (vice- capo di Gabinetto del Ministro della Famiglia Eugenia Roccella, molto attenta e sensibile su questo tema: infatti su richiesta di Baccolo il Ministero ha pochi mesi fa fatto un incontro a Palazzo Chigi per aprire un dialogo sul tema con lui e con le associazioni Il Coraggio Onlus, Aurea Caritate e Maison Antigone), Monica Ricci Sargentini e Livia Zancaner (al posto di Clelia Delponte parlerà una delle protagoniste del suo capitolo, Fiorentina Abate) e con Monica Lanfranco che ha firmato la postfazione, ma si discuterà anche del saggio francese ‘La legge dei padri’ di Patric Jean con la traduttrice italiana avvocata Simona D’Aquilio e dei libri sempre a tema ‘La mangiatrice di sole’ di Lucie Huskova e ‘La vittoria del cuore’ di Liliana Zecchinato. Parteciperanno al dibattito magistrati come Otello Lupacchini, ex parlamentari come Cinzia Leone, Veronica Giannone e Marco Taradash, neuropsichiatri infantili come Andrea Mazzeo Fazio, avvocati come Andrea Coffari, Carlo Priolo, Michela Nacca, Ilaria Boiano, Maria Teresa Manente e Francesca Scudiero, giornalisti come Luisa Betti Dakli, Daria Lucca, Rita Rapisardi, Federica D’Alessio, Flavia Perina, Marco Gregoretti e Antonello Sette, le rappresentanti dei sindacati che hanno organizzato mobilitazioni sul tema Alessandra Menelao e Giorgia Fattinnanzi, i vertici di associazioni attive nel settore come le già citate Il Coraggio, Maison Antigone, Aurea Caritate e poi Comitato Madri Unite, MovimentiAMOci e altre, tra cui la criminologa e CTU Marinella Maioli e l’ambasciatore di pace Stefano Maioli e ovviamente molte madri vittime di questo sistema a partire da Giada Giunti, Laura Massaro, Deborah Delle Donne, Luana Valle, Barbara Piccioli e pure alcuni loro figli. Ci sarà infine una canzone originale contro i prelievi per PAS di Marco Chiavistrelli, presentata in anteprima. Un evento di riflessione e dibattito su un tema che è una vera tragedia nascosta dei nostri giorni e sul quale speriamo grazie anche a Nordio e Roccella questo governo possa intervenire. “Un altro domani”, la violenza contro le donne è un problema che riguarda gli uomini di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 13 maggio 2023 Cinema. Il documentario di Silvio Soldini e Cristina Mainardi è un’“indagine” tra relazioni tossiche. Storie, vissuti, voci di chi lavora coi maltrattanti per una nuova consapevolezza. In una città, nella sera che scende fra tetti, antenne, lampioni e insegne, spiccano alcune finestre illuminate. È, quella luce, il confine tra un fuori e un dentro dove può esserci di tutto, rapporti felici o relazioni tossiche, quindi un inferno. Comincia con questa immagine fortemente simbolica Un altro domani, documentario diretto da Silvio Soldini e scritto dal regista con Cristiana Mainardi. Il sottotitolo, Indagine sulla violenza nelle relazioni affettive, spiega in che cosa si scava, che cos’è, come si entra e come si può uscire da un rapporto violento, prima che sia troppo tardi. Prima di arrivare a un punto di non ritorno, la relazione violenta semina infiniti segnali. Come riconoscerli? Come far sì che quel percorso si arresti? A queste domande cerca di rispondere Un altro domani con testimonianze di donne, magistrati, forze dell’ordine, autori di violenze che hanno intrapreso una terapia, volontarie del Cadmi (Casa delle donne maltrattate di Milano), terapeuti del Cipm (Centro italiano per la Promozione della Mediazione). Il ritenersi padrone di una donna dentro una relazione, e quindi in diritto di maltrattarla, picchiarla, nasce da una cultura patriarcale secolare. Non la si cambia in pochi anni e non solo in modo repressivo, ma nel frattempo si può agire sui comportamenti. In quest’ottica, nel 2020, è nato il Protocollo Zeus che permette al questore di emettere un ammonimento con cui si intima al soggetto di non reiterare quelle condotte e lo si informa che può sottoporsi a un programma di prevenzione. È qui che si si assiste, dentro e fuori dal carcere, alle sedute dei terapeuti del CIPM con gli uomini. C’è chi cerca di giustificarsi, chi si tormenta, chi dice che non voleva fare del male, tutti hanno lo sguardo smarrito, si dicono consapevoli di avere sbagliato, di volere cambiare, “Perché finora ho sparso solo merda”, “Perché ho un figlio e non voglio perderlo”, ma riuscirci significa intraprendere un percorso il cui primo atto è riconoscere la propria parte oscura, la propria violenza, il secondo è imparare a bloccarla sul nascere. Paolo Giulini, presidente del Cipm, dice: “I nostri non sono interventi terapeutici. Non curiamo nessuna patologia. Lavoriamo con queste persone per renderle consapevoli degli effetti delle loro azioni. Nell’80% dei casi le molestie si fermano, bloccando il rischio di escalazione”. Perché ormai lo sappiamo, e lo conferma anche Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano: “Il problema della violenza sulle donne non è delle donne, ma degli uomini. Sono loro a dover cambiare”. Per contro, anche le donne hanno bisogno di un’alfabetizzazione degli affetti. Alcune testimoni, ex vittime di maltrattamenti, raccontano di aver impiegato anni a riconoscere i segnali allarmanti “Perché lo amavo e lui diceva di amarmi”, “Perché speravo di cambiarlo”. Altre narrano l’incubo di essere perseguitate da un ex che non picchia, ma si infila nella quotidianità con una pervicacia talmente ossessiva da essere arrivate a sperare che lui le malmenasse per poterlo denunciare, perché qui sta l’altro problema, che le botte reali le vedi e quindi hai una prova, le minacce psicologiche non le puoi dimostrare, e quindi puoi solo sperare che qualcuno ti ascolti. Come dice Cristina Carelli, coordinatrice del Cadmi, “Con la denuncia bisogna costruire un sistema di protezione e consapevolezza attorno alla donna, non basta chiederle di denunciare”. Se è vero che la denuncia da sola non risolve il problema alla radice, non cambia la cultura, può evitare di arrivare a un punto di non ritorno, l’omicidio. Emblematiche sono le storie di Francesca e Giovanna. La prima a cinque anni ha visto il padre ammazzare la madre, alla seconda il marito ha ucciso una figlia, una bambina. Entrambe hanno voluto incontrare tempo dopo l’omicida, per capire se c’erano tracce di pentimento. Hanno trovato solo silenzio, nessuna consapevolezza di ciò che avevano fatto. Chiusi dentro il loro gesto di possesso e di morte. “Libertà come terapia”. La pazza idea di Basaglia al traguardo dei 50 anni di Maria Novella De Luca La Repubblica, 13 maggio 2023 Nel 1973 lo psichiatra e i suoi pazienti dietro la statua di “Marco Cavallo” ruppero il muro del manicomio. Dagli ospedali psichiatrici uscirono centomila pazienti che vivevano in condizioni disumane. Cosa resta oggi di quella riforma che portò alla legge 180 del 1978? Giovanna Del Giudice e Peppe Dell’Acqua: “Senza risorse e operatori rischiamo di tornare alla segregazione dei malati”. Ciò che resta è prima di tutto un roseto. Magnifico. Perché la bellezza cura e ripara. Dove c’erano segregazione e violenza, dove sbarre, grate, camicie di forza, elettroshock e volti senza luce separavano il mondo dei (cosiddetti) normali, dal mondo dei (cosiddetti) pazzi, oggi c’è un immenso giardino che esplode nel rigoglio di primavera, tra seimila rose di infinite e diverse varietà. Parco San Giovanni, ex manicomio di Trieste, “la libertà è terapeutica” dice la grande scritta oltre il cancello, svetta sul viale la sagoma in ferro di Marco Cavallo, cinquant’anni fa lo psichiatra veneziano Franco Basaglia apriva le porte di questo enorme complesso dove erano internati, in una condizione “de-umanizzata” più di 1.200 pazienti (vecchi, adulti, bambini) dando vita ad una delle più grandi rivoluzioni sociali e scientifiche del Novecento. “Il manicomio non si cambia, si distrugge” affermava Basaglia, mentre in quelle carceri sanitarie di tutta Italia vegetavano più di centomila disperati. Corpi nudi, teste rasate, stoviglie di ferro, punizioni, sopraffazione, celle di isolamento. L’iconografia poteva essere migliore o peggiore, ma poco cambiava. I bambini. Buttati là non perché malati ma semplicemente poveri, abbandonati, rifiutati, “figli della colpa” scardinati dalla vita. “Noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società”. Appunto. Era il 1973 e portando in corteo la statua azzurra del cavallo “Marco” costruita dai pazienti dell’ospedale, Basaglia e i “matti” sfondano i cancelli del San Giovanni ed entrano, finalmente, nella città. La reclusione diventa cura, fuori, nei territori, nell’inclusione. Bisogna partire da qui, dai tavolini del bistrot “Il posto delle fragole” gestito da una cooperativa sociale dove lavorano persone con sofferenza mentale, per provare a capire, a 45 anni dal varo della legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi, a 43 anni dalla morte di Franco Basaglia e a quasi due mesi da quella di Franco Rotelli, suo collaboratore ed “erede” a Trieste, cosa resta e quanto resta di quella rivoluzione. Tra tagli di risorse, nuove segregazioni, reparti blindati e contenzione. Ora che la morte della psichiatra Barbara Capovani per mano di un suo ex paziente Gianluca Seung (capace di intendere e di volere) ha portato in piazza centinaia di operatori della salute mentale che chiedono sicurezza, anche in aperta contestazione della legge 180 (accusata di essere inattuale e inapplicabile) è dal cuore battente del “laboratorio Trieste” che possono però, ancora, arrivare risposte. Giovanna Del Giudice è stata una delle giovani collaboratrici di Basaglia e di Franco Rotelli, direttore dell’ospedale psichiatrico dal 1979 al 1995, poi a lungo alla guida dell’azienda sanitaria di Trieste. “Avevo 24 anni e arrivavo dal Sud. Volevo soltanto una cosa: lavorare con Basaglia” ricorda con passione e indomita tenacia. È proprio accanto al roseto voluto nella discarica del manicomio da Franco Rotelli, in una giornata di ricordo dello psichiatra appena scomparso, tra l’affetto dei colleghi di una vita come Peppe Dell’Acqua e giovani psichiatri con la voglia di ripartire da quell’eredità che Giovanna Del Giudice, presidente di Copersamm, (Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia) prova a tracciare un bilancio. Insieme a Devora Kestel, direttrice del Dipartimento di salute mentale dell’Oms: “Ho vissuto alcuni anni proprio qui, al San Giovanni, per studiare il modello Trieste. Ancora oggi”, dice Kestel, “quando devo fare un esempio realizzato di salute mentale, con servizi accessibili a tutti, cito Basaglia e questo luogo dove abbiamo imparato che le cose possono succedere e cambiare”. L’utopia realizzata della de-istituzionalizzazione, i muri che si sgretolano, la luce che torna in vite considerate scarti. Se è vero, come sottolinea Kestel, che “la legge 180 non è mai stata del tutto applicata”, di fronte a tragedie come quella di Pisa, bisogna però chiedersi “cosa non ha funzionato, perché non abbiamo agito prima, piuttosto che invocare repressione e leggi più dure”. Il sole è forte, Peppe Dell’Acqua è seduto sotto un gazebo, lo abbracciano colleghi, amici, pazienti, come fosse, un po’, il padre di tutti. Da cinquant’anni difende, strenuamente, la libertà dei matti. “La legge Basaglia viene sempre chiamata in causa per coprire il disinteresse di regioni, governi e ministeri verso la malattia mentale, per nascondere investimenti miseri, disorganizzazione, ostilità burocratica e resistenza al cambiamento. Ci accusano addirittura di aver armato culturalmente la mano dell’assassino di Pisa. Che assurdità, che amarezza. Tacendo invece quei risultati meravigliosi di re-inclusione nella vita di migliaia di persone là dove ci è stato permesso di operare. Quanti sono vivi ancora grazie alla legge Basaglia, quanti hanno avuto una vita dignitosa nonostante la malattia mentale?”. “Toccare la terra, bagnare le rose, cambiare le cose” diceva Franco Rotelli. Racconta Giovanna Del Giudice: “Le criticità oggi sono moltissime, anche in Friuli Venezia Giulia, ma l’impianto della legge 180 è saldo. C’è stato un salto storico da cui non si torna indietro: il manicomio non lo vuole più nessuno, né gli operatori né tantomeno le famiglie. Le persone con sofferenza mentale, grazie a Basaglia, sono oggi cittadini con diritti e identità, non più una folla indistinta di reclusi considerati per legge socialmente pericolosi, semplicemente perché malati”. È nel passaggio dall’ospedale psichiatrico, luogo di segregazione, ai centri di salute mentale sul territorio, di cui Trieste è stata anticipatrice, con gli ex degenti che via via venivano dimessi e inseriti in appartamenti, case, in cooperative lavorative, il fulcro della riforma che porterà alla legge 180 del 13 maggio 1978. (Ci vorranno però altri 20 anni perché l’ultimo manicomio, Santa Maria della Pietà a Roma, chiudesse i battenti, nel 1999). In un’idea della cura che comprendeva - e comprende - pure i farmaci, come ricorda Giovanna Del Giudice, ma anche quelle ragioni sociali e ambientali, povertà, disagio, esclusione, abuso “che insieme ad una eziologia biologica e psicologica sono causa della sofferenza psichica”. Ossia la grande intuizione di Franco Basaglia, a lungo osteggiata dalla psichiatria tradizionale: la follia si nutre di disuguaglianze. Sul palco del roseto si alternano le voci degli operatori sociali, dei tecnici della riabilitazione, ma anche artisti, ex pazienti, scrittori, musicisti. Esemplificazione plastica della barriera inesistente tra normalità e follia. “Per affrontare la malattia mentale bisogna anche farsi carico del contesto in cui la persona vive. Ed è quello che a Trieste per lungo tempo siamo riusciti a fare, partendo dai quattro centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in relazione con tutte le realtà della città” spiega Del Giudice. Pubblico, privato, terzo settore, borse lavoro, budget di salute, l’arte, la musica, il teatro. “Oggi soffriamo un drammatico calo di risorse e di colpevole distrazione della politica. Mancano migliaia di operatori. I fondi per la salute mentale sono a livello nazionale soltanto il 2,6% di tutta la spesa sanitaria, erano il 3,1%, addirittura diminuiti nell’ultimo anno, mentre la sofferenza mentale in particolare tra i giovanissimi è esplosa. C’è una regressione culturale sia delle pratiche sia dei dispositivi organizzativi, pensate che sono soltanto 20 su 320 i servizi di diagnosi e cura che non legano i pazienti”. (Si stima che 4 milioni di persone in Italia soffrano di disturbi psichici ma sono soltanto tra 800 e 900mila quelle assistite nei dipartimenti di salute mentale, con pesanti ricadute sulle famiglie). “La terapia sta tornando ad essere unicamente farmacologica - ammette con amarezza Giovanna Del Giudice - ed avanza la cultura dell’internamento”. Con la psichiatria chiamata, di nuovo, non solo a curare, ma anche a “custodire” pazienti. In quell’ottica segregazionista che porta ad alzare muri e a rinchiudere: dai vecchi nelle Rsa ai migranti incarcerati nei centri di accoglienza. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, dove i detenuti vivevano i condizioni disumane, conclude idealmente nel 2015 la riforma Basaglia. Ma il passaggio alle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non ha funzionato. Gli autori di reato con problemi mentali vengono dimenticati nelle carceri o “scaricati” nei servizi diagnosi e cura (ex reparti psichiatrici) degli ospedali. “Pensare di addossare alla legge 180 tragedie come l’assassinio di Barbara Capovani invocando la riapertura dei manicomi è inaccettabile. I malati di mente, dicono le statistiche, non delinquono più degli altri. Ma di certo - conclude Del Giudice - dovremo capire perché Seung non è stato intercettato dai servizi, se per lui era in atto un progetto di presa in carico. Sono tutti interrogativi dolorosi ai quali, però, non ci possiamo sottrarre”. Salute mentale. A 45 anni dalla Legge Basaglia, liberarsi ancora dal manicomio di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 13 maggio 2023 L’uccisione della psichiatra Capovani solleva il nodo del rapporto tra psichiatria e giustizia, tra sofferenza mentale, capacità “di intendere e di volere” e pericolosità sociale. La coincidenza fra i 45 anni della “legge 180” del 13 maggio ‘78 e l’uccisione, il 21 aprile scorso, della psichiatra Barbara Capovani da parte di Gianluca Seung, che era stato suo paziente nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) di Pisa, non può che farci guardare alla riforma partendo da quel fatto. Non per rievocarlo ma per cogliere la questione che pone e che è centrale nella legge di riforma. E nella formazione della psichiatria occidentale moderna: il rapporto tra psichiatria e giustizia, e in particolare tra sofferenza mentale, capacità “di intendere e di volere” e pericolosità sociale. Questi temi si sono in gran parte persi nelle discussioni di questi giorni, segnate da toni di diffamazione della riforma e degli operatori che la prendono sul serio, che non si sentivano più dagli anni 80. Si capisce che questa destra al governo rafforzi le speranze di restaurazione, ideologica e giuridica, di quella psichiatria che ha sempre mal digerito la riforma e che vorrebbe spostare il discorso sulla legge. Va ripresa invece la questione psichiatria e giustizia, perché solo da qui può passare un rilancio vero del sistema della salute mentale in Italia ormai ridotto in miseria, che certo ha bisogno di più soldi ma anche di riprendere a ragionare e fare ricerca sui propri strumenti, sui modelli organizzativi, sui fondamenti. Sia chiaro: il dramma dei giorni scorsi interroga non una ma due istituzioni, servizi psichiatrici e psichiatria da una parte, polizia e giustizia penale dall’altra. Il 30 marzo Seung era andato in questura a Lucca per presentare delle denunce, come faceva spesso e non mancava di divulgarlo via social. Di cosa sia accaduto non sappiamo che il finale: Seung spruzza spray al peperoncino contro i presenti, la Questura lascia che si allontani chiedendo a Comune e Asl di attivare un accertamento sanitario obbligatorio che nessuno mette in atto. Sul giovane pendeva già una misura di sicurezza disposta da un magistrato di Lucca per l’aggressione, nel 2022, contro un vigilante del tribunale. Il perito psichiatra aveva dichiarato Seung “incapace di intendere e di volere” e “di accertata pericolosità sociale”, e a gennaio di quest’anno era diventata definitiva la sentenza che avrebbe comportato libertà vigilata o ricovero in una struttura, ma anche questa disposizione nessuno la mette in atto. Starà alla magistratura dipanare il problema delle responsabilità. Intanto però una domanda possiamo farcela: perché Seung non è stato preso sul serio? Solo sciatteria? Lentezza burocratica? Ma forse il problema è che le sue parole e i suoi ripetuti gesti significativamente violenti (anni fa aveva ferito al volto un operatore del servizio psichiatrico) sono stati rubricati come solo malati e quindi di pertinenza solo psichiatrica, motivando così il gioco di scaricabarile delle persone “disturbanti” che i servizi psichiatrici conoscono bene ma in cui la psichiatria non è innocente affatto. La “Legge 180” ha liberato la psichiatria dal controllo della pericolosità, anche nel momento del trattamento obbligatorio. La pericolosità resta un compito di polizia e giustizia penale che non sono esentate dall’eseguirlo anche quando la persona presenti un disturbo mentale. Questa è la legge, che quindi obbliga a costruire protocolli di comunicazione e collaborazione tra psichiatria e giustizia, dei quali fa parte, quando è inevitabile, anche la cura di una persona in condizioni di sofferenza mentale sottoposta a misure restrittive o detenuta. Questi protocolli ci sono, ma non ovunque, comunicazione e collaborazione lasciano a desiderare, mentre i servizi di salute mentale troppo spesso sembrano non aver interiorizzato affatto la fine del mandato al controllo, sembrano organizzati cioè come se pensassero ancora al malato di mente pericoloso e incapace, con cui non si può interloquire né negoziare, da sedare e custodire per poterlo poi curare. Come spiegare altrimenti il fatto che la gran parte degli Spdc hanno porte e finestre chiuse, minimi o assenti spazi esterni, usano i rituali di spoliazione degli oggetti, costringono alla vita in pigiama, usano la contenzione meccanica insieme a quella farmacologica? Certo, finché i centri di salute mentale sono solo ambulatori per il controllo dei farmaci, con colloqui radi e sporadiche visite domiciliari, diventa inevitabile questo tipo di Spdc, in cui può anche accadere di morire legati a un letto. Non si dica che queste constatazioni gettano discredito sulla psichiatria: al contrario sono quegli psichiatri che programmano, con gli amministratori, e che gestiscono questo tipo di servizi a screditare la psichiatria, confermandone lo stigma di figlia ed erede del manicomio. Né si dica che questi sono solo effetti dei tagli perché da decenni vengono denunciati questi problemi e indicate le soluzioni: si veda ad esempio il disegno di legge nato nel 2017 e ripresentato da Serracchiani alla Camera e Sensi al Senato. Anche il tema della modifica del Codice penale per il superamento dell’istituto dell’incapacità per vizio di mente ha un suo disegno di legge, presentato dal deputato Magi. Questo per dire che gli strumenti per il rilancio del sistema pubblico della salute mentale nel nostro paese ci sono, a condizione che crescano le risorse ma anche la volontà di liberarci davvero dal manicomio. Sulla Costituzione la destra è analfabeta, sbaglia chi ignora il diritto d’amore di Donatella Stasio La Stampa, 13 maggio 2023 Davanti a Consulta e Corte Ue il governo fa orecchie da mercante e tira in ballo la maternità surrogata. La famiglia non è più soltanto quella “naturale” di 70 anni fa ma è una comunità di affetti e di cura. Lealtà e slealtà istituzionale. Da un lato i sindaci, li abbiamo visti ieri sul palco del teatro Carignano di Torino, sono trecento, di ogni colore politico, sentono la responsabilità di rendere effettivo il diritto dei figli delle famiglie arcobaleno di essere uguali a tutti gli altri figli, legittimi, adottivi, naturali, incestuosi. Così vuole la Costituzione, quella “vivente” rappresentata dalla voce della Corte costituzionale, e così stabilisce il diritto europeo, quello applicato dalla Corte di Lussemburgo, vincolante per tutti gli Stati Ue. Quei trecento sindaci che urlano l’urgenza di una legge per dare attuazione a quel diritto - che è anzitutto diritto d’amore - e per dare più voce alle istituzioni di garanzia rimaste finora inascoltate - Consulta e Corte Ue - sono molto più di un fatto politico rilevante. Sono un esempio straordinario di lealtà istituzionale, quella che invece manca al governo Meloni e alla sua maggioranza: tutelare i diritti fondamentali della persona dovrebbe essere un dovere primario - altro che necessità e urgenza dei rave - ma il centrodestra non ne vuole sapere, incrocia le braccia e fa ostruzionismo, un perfetto esempio di slealtà istituzionale e di analfabetismo costituzionale, tanto più gravi se provengono da chi propone di riformare le istituzioni. È nota a tutti - ma il governo finge di ignorarla - la pressante richiesta rivolta dalla Corte costituzionale al legislatore per una “indifferibile” e “non più procrastinabile” disciplina che tuteli in modo compiuto ed efficace i diritti di questi figli. In attesa di una legge, per colmare il vuoto di tutela costituzionale, la Corte ha aperto la strada alla stepchild adoption (poi confermata dalla Cassazione) che però resta una soluzione temporanea e inadeguata. Tanto più se, alla fine del percorso, i genitori vanno a sbattere contro l’ostruzionismo del governo che si rifiuta di rilasciare documenti con la dicitura “genitori”, invece che “madre” e “padre”. È altresì noto che tutti i paesi dell’Ue devono rispettare le sentenze della Corte di Giustizia, conformemente al principio del primato del diritto dell’Ue. Pertanto, pur essendo sovrani in materia di matrimoni gay e di genitorialità, gli Stati membri (Italia compresa) non devono ostacolare o rendere eccessivamente difficile il diritto del figlio di una coppia gay di circolare liberamente con entrambi i genitori soltanto perché sono dello stesso sesso, e, a tal fine, devono riconoscere il legame di filiazione già attestato da un altro Stato membro. Sono parole del presidente della Corte Ue Koen Lenaerts in un’intervista a questo giornale. Ebbene, il governo fa orecchie da mercante. Il contrario della leale collaborazione istituzionale, regola aurea di ogni democrazia costituzionale che intenda restare tale. Per giustificarsi tira in ballo la maternità surrogata, che con il riconoscimento dei figli arcobaleno non c’entra nulla, e punta ad affermare la propria cultura della famiglia, del tutto opposta a quella costituzionale. Bene ha fatto, quindi, il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky a indicare ai sindaci la via della “disubbidienza civile” per poter portare nuovamente il caso davanti alla Corte. Sbaglia chi pensa che il nostro sistema di valori costituzionali non contempli un “diritto d’amore” come quello riconosciuto da una storica sentenza della Corte suprema federale indiana, che nel 2018 dichiarò incompatibile con la Costituzione la criminalizzazione dei rapporti omosessuali. Quella sentenza si apriva con una citazione: “Ciò che dà significato alla vita è l’amore. Il diritto che ci rende umani è il diritto all’amore”. Era una frase Leila Seth, prima donna a diventare Chief Justice di un’alta Corte statale in India e madre di Vikhram Seth, scrittore di successo e dichiaratamente omosessuale. I giudici della Corte suprema ricavarono da una serie di principi costituzionali, tra i quali il diritto alla vita privata, l’esistenza di un diritto fondamentale ai rapporti affettivi, compreso il diritto all’intimità sessuale. La stessa prospettiva si trova nella nostra Costituzione che, pur senza menzionare il diritto d’amore, riconosce il diritto fondamentale a sviluppare la propria personalità nell’ambito di relazioni affettive al riparo da ingerenze indebite dello Stato, senza che la legge possa indicare un unico modello di relazione al quale attenersi. Allo stesso modo, riconosce la genitorialità “sociale” quando vi siano legami affettivi stabili con chi ha svolto, concretamente e a prescindere da vincoli biologici, la funzione di genitore, prendendosi cura del bambino. Per la Costituzione, quindi, la famiglia non è più soltanto quella “naturale” di 70 anni fa, fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, ma è una comunità di affetti e di cura e, come tale, è “un forte elemento del diritto all’identità del minore”. Il governo ne prenda atto. Decidere della nostra vita, per essere liberi fino alla fine di Marco Cappato* Il Riformista, 13 maggio 2023 “A chi appartiene la tua vita?”. È la domanda dalla quale partire e alla quale tornare in ogni confronto sull’eutanasia. Ci si può addentrare nella selva terminologica dei metodi per far sopravvivere o per lasciar morire. Ma non si può eludere il nodo di fondo, che impone scelte che si ripercuotono sulla pelle delle persone. Per pazienti in condizioni irreversibili di sofferenza insopportabile, che chiedono lucidamente un aiuto per terminare serenamente la propria vita, lo Stato può scegliere se fornire l’aiuto oppure girare la testa dall’altra parte, lasciando che la tortura prosegua. Lo Stato può scegliere tra l’eutanasia legale, fatta di informazione, prevenzione dei suicidi attraverso il potenziamento dell’assistenza psichiatrica e sociale e della terapia del dolore, oppure l’eutanasia clandestina, degli atti nascosti, a volte “pietosi” ma sempre fuori controllo, e dei suicidi di malati terminali nelle condizioni più terribili. Il codice penale del fascismo del 1930 è netto: fino a 12 anni di carcere per l’aiuto al suicidio, fino a 15 anni di carcere per l’omicidio del consenziente. Nessuna eccezione è ammessa. Nessuna pietà, né misericordia. La Costituzione del 1948, dopo gli orrori del nazifascismo, rimette sui binari giusti: “nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la propria volontà”. Resta però largamente inattuata, tanto che, quando il Co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, è stato aiutato a morire nel 2006 col distacco dalla respirazione artificiale sotto sedazione, il medico Mario Riccio è stato prima incriminato e poi prosciolto. Da lì l’autorizzazione alla sospensione delle cure per Eluana Englaro nel 2009, e l’imposizione giudiziaria ad aiutare a morire Walter Piludu, nel 2016. Nel frattempo, nel 2013 con l’Associazione Luca Coscioni, avevamo depositato la legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale, mai discussa in Parlamento. Perciò avviammo con Mina Welby la disobbedienza civile, accompagnando in Svizzera “Dj Fabo” e Davide Trentini. Proprio durante il processo a mio carico, il Parlamento approvò la legge che recepiva la giurisprudenza e attuava la Costituzione sull’interruzione delle terapie. Su quella base, la Corte costituzionale depenalizzò l’”aiuto al suicidio” a determinate condizioni e portò alla mia assoluzione. La depenalizzazione dell’aiuto a morire realizzata dalla Consulta rimane però sulla carta: in quattro anni, solo Federico Carboni è riuscito ad ottenerlo nel 2022, dopo due anni di battaglia legale di Filomena Gallo e di nuovo grazie al coraggio di Mario Riccio. Rimanevano - e rimangono - escluse dalla possibilità di essere aiutate a morire le persone che non siano “dipendenti da trattamenti di sostegno vitale” (ad esempio non lo sono i malati terminali di cancro), oppure che non possono autosomministrarsi la sostanza letale (ad esempio le persone totalmente paralizzate). Contro queste discriminazioni residue, raccogliemmo le firme di 1 milione e 250.000 persone per indire un referendum, bloccato dalla Corte costituzionale. Abbiamo dunque ripreso l’azione nonviolenta, accompagnando altre 4 persone in Svizzera con l’aiuto di altre “disobbedienti”: Felicetta Maltese, Chiara Lalli, Virginia Fiume. Sono ventisette le persone “associate a delinquere” con noi. Nel frattempo, i sondaggi riportano un sempre maggiore sostegno popolare alla legalizzazione, ma le istituzioni sono paralizzate. Per questo, stiamo raccogliendo le firme su leggi di iniziativa popolare regionali che impongano tempi certi e procedure chiare. Anche la legge sul testamento biologico rimane sulla carta, inattuata nella parte che prevede l’obbligo per il Governo e le Regioni di realizzare una campagna informativa. Risultato: nessuno ne sa alcunché, lo 0,5% della popolazione ne ha usufruito. Che la nostra vita appartenga a ciascuno di noi, e che ciascuno di noi abbia bisogno di ogni tipo di aiuto, ma non di imposizione, nel morire come nel vivere, è ormai un fatto che appartiene al vissuto del popolo italiano, senza distinzioni politiche né religiose. Il ceto di potere invece no, non ci è ancora arrivato. Pensano che la gente abbia paura a “parlare di morte”. Sono loro a essere impauriti e a non voler capire che stiamo parlando di vita, cioè di essere liberi fino alla fine. *Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni Stati Uniti. Code di migranti al confine col Messico: “Da qui non si passa” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 13 maggio 2023 Dopo che la norma sulle espulsioni facili per il Covid è scaduta, alle frontiere si sono ammassate 150mila persone. I repubblicani accusano Biden. Una famiglia venezuelana ha abbandonato tutti gli oggetti personali sulla riva del Rio Grande mercoledì scorso, dopo averli portati per oltre 3.000 chilometri, fino a Matamoros, città messicana al confine con il Texas, racconta il New York Times. Avevano attraversato la giungla, incontrato trafficanti che volevano rapirli per ottenere un riscatto e poliziotti corrotti che hanno estorto loro del denaro. Ora dovevano convincere la figlia di 4 anni ad attraversare l’acqua alta. “Non voglio affogare!”, diceva la bambina alla mamma che con le lacrime agli occhi la spingeva sulla riva. “Amore, è tutto ok, dobbiamo entrare in acqua ed è finita”. Nell’ultima settimana la Croce Rossa ha trovato tre migranti annegati nella zona. Ma quella famiglia ha raggiunto il Texas, con la convinzione che, qualunque cosa succeda, dall’altra parte li attende una vita migliore. Circa 150.000 persone nel nord del Messico aspettano di entrare negli Stati Uniti. L’ora X è scoccata a mezzanotte di giovedì: è “scaduta” Title 42, la norma approvata durante la pandemia da Trump e rimasta in vigore sotto Biden, che permetteva di espellere i richiedenti asilo con la giustificazione che potessero diffondere il Covid. La spinta di crisi globali ha motivato decine di migliaia di persone provenienti da Venezuela, Haiti, Nicaragua, Cuba, ma anche dalla Russia, dall’Afghanistan, dall’India a raggiungere la frontiera Usa. Con l’incertezza se fosse meglio passare con Title 42 o Title 8, la norma precedente tornata in vigore. Title 42, che sulla carta è durissima, sebbene usata per 2,7 milioni di respingimenti dal 2020 non è stata sempre applicata: l’amministrazione Biden ha consentito l’ingresso di 1,8 milioni di migranti, in attesa di udienza per l’asilo. Ora il governo afferma di volere politiche più umane, ma senza incoraggiare un flusso ingestibile. E avverte i migranti che l’ingresso non sarà più facile. “Non credete alle bugie dei trafficanti: il confine non è aperto”, dice il segretario per la Sicurezza nazionale Mayorkas. Nuove regole, contestate dagli attivisti, negano l’eleggibilità all’asilo a quanti entrano illegalmente (con pene come il divieto a ritentare per 5 anni) e a quanti non abbiano fatto domanda in Paesi di passaggio. C’era più ansia che caos ieri al confine: gli arrivi illegali (11mila al giorno nella scorsa settimana, il doppio del solito) sono stati un po’ meno (10 mila) ma migliaia di migranti ammessi nei centri della Guardia di frontiera verranno presto rilasciati. Il sistema sarà messo alla prova. Le immagini sono potenti: i repubblicani le usano per paragonare il “caos al confine con il caos del ritiro da Kabul”. Stati Uniti. Decade il Titolo 42, ma fra gli Usa e il “sud” resta il filo spinato di Luca Celada Il Manifesto, 13 maggio 2023 Da mezzanotte non è più in vigore la legge trumpista: centinaia di persone cercano di attraversare il confine verso “El Norte”. Dozzine di migranti si sono gettai nelle acque del Rio Grande per attraversare al guado il fiume che separa Matamoros, Messico, da Brownsville, Texas. Altre centinaia si sono svegliati ieri sui primi metri di suolo americano, all’ombra della barriera di confine che divide El Paso da Ciudad Juarez, vicino ai rotoli di filo spinato dispiegati di fresco. In Arizona i municipi di Douglas, Nogales, San Luis e Somerton hanno chiesto una dichiarazione di stato di emergenza per far fronte ad un’attesa ondata attraversamenti. Il confine fra Messico e Stati uniti - la linea nella sabbia lunga 3.000 km fra sviluppo occidentale e povertà meridionale - torna a sanguinare, o almeno a farlo sotto i riflettori dell’attenzione mondiale. Nella terra di nessuno fra le doppie barriere d’acciaio che separano San Ysidro (Usa) e Tijuana, alcune centinaia di persone hanno improvvisato un bivacco da cui si levavano fili di fumo. È l’immagine palpabile del limbo generato dalla fine dello stato di emergenza imposto da Trump ed il passaggio ad un nuovo regime migratorio adottato dall’amministrazione Biden. Il cosiddetto Title 42 invocato da Trump con l’insorgere della pandemia nel 2020 era stato pretesto per abrogare di fatto le procedure di richiesta di asilo su confine meridionale. Negli ultimi tre anni ogni immigrante “non autorizzato” che ha tentato di passare il confine, o si è volontariamente consegnato alle autorità sperando di richiedere asilo, è stato automaticamente rispedito in Messico. In questo periodo è cresciuta a dismisura, sul lato messicano del confine, una popolazione transitoria in attesa permanente in improvvisati campi profughi e centri di accoglienza allo stremo. Il nord del Messico - come Libia o Turchia o Libano - è diventato a tutti gli effetti parte di quella geografia del dislocamento contrattato con paesi limitrofi alla fortezza occidentale. L’emergenza che aveva di fatto sigillato il confine usando la salute pubblica come pretesto per fermare gli “untori” del sud era stata il culmine del pugno di ferro di Trump sull’immigrazione. Frutto del progetto di Stephen Miller, consigliere estremista anti-immigrati di Trump, fautore oltre che del famigerato muro di frontiera, della regola Remain in Mexico (che già in precedenza imponeva di attendere l’esito delle procedure di asilo oltreconfine). La politica comprendeva provvedimenti di rara crudeltà, come la sottrazione forzata dei figli alle famiglie che tentavano l’entrata non autorizzata. Furono migliaia i casi di bambini strappati ai genitori deportati, in alcuni casi dati in affidamento a famiglie americane con una politica non molto diversa da quella dei furti di figli nell’Argentina di Videla. In campagna elettorale Biden aveva promesso di cambiare rotta e tentato già l’anno scorso di sospendere l’emergenza (allora era stato bloccato da un tribunale federale). Ma le nuove regole introdotte ieri sono semmai più severe delle precedenti. Il nuovo sistema introduce l’obbligo di formulare la richiesta d’asilo online nei paesi d’origine e gestire gli appuntamenti per le interviste tramite una app che non accetta più di mille richieste al giorno ed ha già dimostrato la (non) funzionalità che ci si può attendere da questo tipo di dispositivo. È prevista infine la delocalizzazione delle pratiche in appositi centri “satellite” predisposti in paesi terzi a cominciare da Guatemala e Colombia. Chi tenta di entrare senza rispettare la procedura diventa passibile di deportazione, sanzioni penali ed un’interdizione a presentare nuove domande per cinque anni. Si tratta, in sostanza, solo di una diversa formulazione delle stesse restrizione al diritto di asilo che ha gettato nello scompiglio la comunità di migranti, molti di quali hanno tentato di “passare” prima che entrasse in vigore, temendo di rimanere permanentemente esclusi. Ad incrementare panico sono state una serie di ricorsi ai tribunali federali, da un lato da parte di associazioni per i diritti civili che hanno contestato la validità del piano Biden, dall’altro, dai conservatori che hanno ottenuto una sentenza che vieta alle autorità di ammettere provvisoriamente una quota di profughi per alleviare il sovraffollamento dei centri di accoglienza. Della confusione si è giovato soprattutto il business del contrabbando che in Messico è in mano ai cartelli criminali e che ha usato la disinformazione per incrementare il flusso di disperati lungo la filiera della migrazione che comprende le giungle che separano Panama e Colombia, il confine fra Messico e Guatemala ed i pericolosi treni merci spesso utilizzati per raggiungere “El Norte”. Mentre ieri il segretario dell’Homeland Security Alejandro Mayorkas andava di programma televisivo in programma televisivo ad ammonire i migranti che “il confine non è aperto”. Le nuove regole mantengono eccezioni per cittadini di Haiti, Venezuela Cuba e Nicaragua che godono di accesso prioritario (a patto di avere uno sponsor finanziario), eccezioni che si ricollegano ad anacronistiche politiche emisferiche e ad una dottrina del “cortile di casa” suddiviso in amici e nemici anche in materia umanitaria. Una politica soprattutto, che continua a fingere di ignorare le dinamiche di base che sottendono il fenomeno. Innanzitutto l’abissale disavanzo di benessere lungo la linea arbitraria che divide qui l’occidente benestante dal Sud del mondo. E la sottostante dinamica della conveniente importazione di proletariato precario essenziale al funzionamento dell’economia Usa. Una rimozione che dimostra come anche l’attuale amministrazione sia ostaggio del prevalente clima politico occidentale che nel tema immigrazione ravvisa sopra a tutto uno strumentale grimaldello per aggregare consensi di base con una retorica che, nella prossima stagione elettorale, è destinata solo ad inasprirsi. La Camera controllata dai repubblicani Maga giovedì ha votato un disegno di legge per il completamento del muro di frontiera ed altri provvedimenti draconiani che non verranno ratificati dal Senato ma confermano che il Gop ha ogni incentivo per accentuarle il caos e boicottare possibili politiche sensate. Prevarranno quindi prevedibilmente gli atti dimostrativi come la deportazione interna di rifugiati usati come missili politici - quelli ad esempio rastrellati sul confine e spediti su torpedoni dal governatore reazionario del Texas, Greg Abbott, all’indirizzo della residenza della vice presidente Kamala Harris a Washington. Stati Uniti. I detenuti si prendono cura dei gatti altrimenti destinati alla soppressione di Daniela Borghi La Stampa, 13 maggio 2023 I gatti entrano in carcere per essere salvati. E migliorano la vita dei detenuti. Succede nel carcere dell’Indiana, negli Usa, dove uno speciale programma consente alle persone recluse di prendersi cura dei mici randagi altrimenti destinati all’eutanasia. I risultati sono entusiasmanti: i detenuti trovano giovamento dalla convivenza con i felini e la maggior parte mantiene una buona condotta perché non sopporta di stare lontano dal proprio gatto. Accarezzare gli animali riduce lo stress e l’aggressività. L’effetto terapeutico dei gatti porta giovamento ai detenuti in una prigione americana. E anche i mici ne traggono beneficio. È stato scientificamente provato che alleviano lo stress quando li accarezziamo e li coccoliamo. Più stretto è il rapporto con l’animale, maggiore è l’effetto delle coccole, secondo un rapporto dell’agenzia di stampa tedesca Dpa. L’ossitocina, il cosiddetto ormone delle coccole, viene rilasciata non solo negli esseri umani, ma anche negli animali. “Per questo bastano cinque minuti”, dice al Frankfurter Rundschau Andrea Beetz, psicologa qualificata e docente di relazioni uomo-animale all’Università di Rostock. Quindi, se un animale ci piace molto, fa bene alla nostra salute e al nostro umore, e viceversa. Questo progetto della prigione dello Stato americano dell’Indiana ha anche lo scopo di garantire che i gatti di strada vengano salvati dalla soppressione. I detenuti hanno l’opportunità di prendersi cura di un gatto se non infrangono le regole della prigione. Il progetto, chiamato Forward (Felines and Offenders Rehabilitation with Affection, Reformation and Dedication), è reso possibile dagli attivisti per i diritti degli animali dell’organizzazione The Animal Protection League (Apl) in Indiana. Questa iniziativa prevede che i gatti del ricovero della Pendleton Correctional Facility siano accuditi dai detenuti, secondo le regole dell’Apl. I gatti hanno l’opportunità di interagire con gli umani, aumentando le loro possibilità di adozione, e i detenuti si responsabilizzano nutrendoli e pulendoli. C’è anche la possibilità per il personale carcerario e le famiglie dei detenuti di adottarli. Se un micio trova una nuova casa in questo modo, gli attivisti per i diritti degli animali della Animal Protection League portano un nuovo gatto in carcere. Numerosi follower su Instagram hanno apprezzato il video sul canale di Earthofcats. Molti hanno anche lasciato un commento, come i seguenti: “Lo adoro. Sono già stato in prigione e se avessi potuto avere un animale sarebbe stato di grande aiuto”; “I gatti sono creature curative”.