Due detenuti si sono lasciati morire in carcere nel silenzio e nell’indifferenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2023 on è la prima volta che accade nella più completa indifferenza. Due detenuti sono morti nel giro di un mese a seguito dello sciopero della fame. Nessuno ne sapeva nulla di questo loro atto di protesta. Nel silenzio più totale, confinato dentro le mura del carcere di Augusta, nel siracusano, si consumava questa azione senza che fosse comunicata all’esterno. E mentre Alfredo Cospito è riuscito, grazie all’attivismo degli avvocati, a far conoscere al mondo di fuori la sua estrema lotta contro il 41 bis, la notizia dei due detenuti è trapelata solo quando hanno emesso l’ultimo respiro. Soprattutto per questo motivo, il garante nazionale delle persone private della libertà richiama l’attenzione pubblica sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono. “Mentre molta doverosa attenzione - si legge nel comunicato del Garante - è stata riservata allo sciopero della fame nel caso di una persona detenuta al 41- bis, con interrogativi che hanno anche coinvolto il mondo della cultura e l’opinione pubblica, oltre che le Istituzioni, nella Casa di reclusione di Augusta il silenzio ha circondato il decesso di due persone detenute avvenute a distanza di pochi giorni, ambedue in sciopero della fame rispettivamente una da 60 l’altra da 41 giorni”. Quest’ultimo, ergastolano, protestava perché sin dal 2018 aveva richiesto l’estradizione nel proprio Paese. Il Garante nazionale sottolinea che non intende assolutamente sollevare problemi relativi all’assistenza che queste persone possono avere avuto nell’Istituto e all’adempimento dei protocolli che sono previsti in simili casi. Intende però richiamare la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti. Ricordiamo ancora una volta che l’attenzione mediatica nei confronti di Alfredo Cospito, solo miracolosamente riuscito a sopravvivere grazie anche al fatto che aveva in partenza un fisico robusto, si è avuta perché gli avvocati hanno fatto conoscere la situazione. Proprio in quel periodo, Il Dubbio ha ricordato che di sciopero della fame si muore. Ed è già accaduto che qui in Italia siano morti detenuti quasi nella più totale indifferenza. I tre casi più recenti sono quelli di Salvatore “Doddore” Meloni (2017), Gabriele Milito (2018) e Carmelo Caminiti nel 2020. Quest’ultimo caso è stato riportato da Il Dubbio dopo la segnalazione dall’associazione Yairaiha Onlus. Dopo 60 giorni di sciopero della fame, Carmelo Caminiti è finito in coma e una notte di settembre del 2020 ha esalato l’ultimo respiro. “Nel 2020 non si lascia un uomo a digiuno per 60 giorni incuranti che tali decisioni erano dettati da uno stato di depressione e mala salute”, ha affermato con dolore la sorella. Carmelo Caminiti era un detenuto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Messina. Come ha segnalato l’associazione Yairaiha, viene arrestato dalla procura di Firenze a novembre 2017. A maggio del 2018 gli vengono concessi gli arresti domiciliari per varie patologie (tra cui diabete, stenosi, canali atrofizzati e altre) per le quali gli è già stata riconosciuta invalidità civile; a novembre del 2018 viene arrestato nuovamente su ordine della procura di Reggio Calabria. L’11 marzo 2019 gli arriva un mandato di cattura dalla procura di Brescia con le stesse accuse di Firenze. Viene infine trasferito al carcere di Messina al centro clinico. Durante l’emergenza Covid 19 gli avvocati presentano istanza in quanto si trattava di un soggetto a rischio. I tribunali di Firenze e Reggio Calabria, vedendo la relazione medica del dirigente sanitario del carcere di Messina riconoscono l’incompatibilità carceraria, ma il gip di Brescia - pur riconoscendo le sue gravi patologie - rigetta l’istanza, non concede gli arresti essendo un “soggetto pericoloso” ai sensi dell’articolo 7, ovvero l’aggravante del metodo mafioso. A raccontarlo è stato l’avvocato difensore Italo Palmara: “Nello stesso momento in cui il Tribunale di Reggio Calabria e quello di Firenze hanno giudicato in due differenti procedimenti il mio assistito incompatibile col regime carcerario per gravi motivi di salute - ha spiegato - in un terzo procedimento il Tribunale di Brescia, inspiegabilmente e a fronte della medesima documentazione medica, lo ha ritenuto compatibile col regime carcerario e ha rigettato ogni mia richiesta di scarcerazione”. La situazione però si aggrava. I legali fanno ulteriori istanze per la concessione dei domiciliari. Il 30 maggio del 2020 Carmelo Caminiti inizia a fare lo sciopero della fame e sete perché si sente vittima di un sopruso. L’11 agosto si aggrava e finisce in coma. Alla fine muore. Se Caminiti aveva tante di patologie, gli altri due, Salvatore “Doddore” Meloni nel 2017 e Gabriele Milito nel 2018, erano anziani. Tutti scioperavano nell’indifferenza totale. Così come gli ultimi due, che tra l’altro fanno salire il numero dei suicidi dei detenuti, che dall’inizio dell’anno sono arrivati già a 17. Comunque rimane il dramma che il loro sciopero della fame, e abbiamo visto che non sono gli unici ad avere questo triste epilogo, si è svolto nel silenzio dei media e senza alcuna iniziativa conoscitiva da parte di forze politiche e parlamentari. Non solo Cospito, non solo 41bis. Il carcere e i media di Sergio Segio vita.it, 12 maggio 2023 Due reclusi nel carcere di Augusta sono morti in seguito a uno sciopero della fame. Il primo, siciliano, addirittura un mese fa. Il secondo, di nazionalità russa, nei giorni scorsi. Sono deceduti all’ospedale dopo il ricovero, evidentemente tardivo, e nel silenzio tombale. Morti “in seguito alla scelta di operare lo sciopero da fame”, scrive il giornale locale che solo ieri ha dedicato qualche riga all’avvenimento (e molte di più al commento di un sindacato della polizia penitenziaria, che, al solito, profitta del tragico avvenimento per le proprie rivendicazioni e per lamentare le condizioni di lavoro, tacendo di quelle di detenzione). Dunque, i due sarebbero morti per scelta propria e non per omissioni delle autorità sanitarie e carcerarie locali e nazionali, per la totale mancanza di informazione da parte dei media e di iniziativa conoscitiva da parte di forze politiche e parlamentari (questa non totale, per la verità: nei giorni scorsi il senatore Verini del PD ha incontrato il capo dell’amministrazione penitenziaria per chiedere interventi urgenti “per aggressioni ai poliziotti penitenziari nelle carceri umbre”). Il carcere è luogo altamente letale, se non proprio di guerra. Eppure, non esistono cronisti che ne documentino e investighino la quotidianità con autonomia di giudizio e di sguardo critico. Il giornalismo embedded, in realtà, è nato qui, non sui fronti dell’Iraq o dell’Afghanistan. Del resto, quel tipo di giornalismo non desta più alcuna perplessità, né tanto meno scandalo: alla Federazione nazionale della Stampa italiana di Roma, l’8 maggio è stato presentato il diciannovesimo ciclo di formazione dedicato ai “Giornalisti embedded”, organizzato dallo Stato Maggiore della Difesa in collaborazione con la Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Ordine dei giornalisti del Lazio. Molti anni fa - negli anni Ottanta del secolo scorso - Nicolò Amato, purtroppo dimenticato presidente dell’Amministrazione penitenziaria (il ruolo di vertice allora si chiamava ancora così; fu uno dei suoi successori, Giancarlo Caselli, a mutarne significativamente la definizione in Capo, più o meno quando venne espunto dalla denominazione del ministero il termine Grazia, ad accompagnare la Giustizia. Il risultato si vede, non c’è che dire) istituì sale stampa nelle carceri per favorire la comunicazione interno-esterno e per stimolare l’attenzione e l’impegno dei media verso quel complicato universo volutamente opaco e costitutivamente separato. La meritevole iniziativa rimase frustrata e le sale desolatamente vuote. In effetti, il mestiere dell’informazione stava già cambiando pelle e modalità, divenendo sempre più dipendente dai nuovi media e dalla velocità da essi richiesta (oltre che dai poteri economici), sempre meno capace di inchiesta e approfondimento, oltre che di indipendenza dalle fonti. Quelle relative al carcere, da tempo, sono pressoché esclusivamente i comunicati stampa dei sindacati penitenziari, a parte l’encomiabile lavoro delle associazioni attive in ambito penitenziario, che tuttavia non è strutturato come attività quotidiana di ufficio stampa. La rete territoriale dei Garanti delle persone detenute non ha sinora saputo o ritenuto prioritario organizzarsi anche come rete nazionale di informazione e anche i tentativi di coordinamento dei giornali del carcere - peraltro assai difformi quanto a qualità e a indipendenza - sono rimasti appunto tentativi. Dunque, a parte i casi “Cospito”, del tutto eccezionali, di carcere generalmente si parla poco e male, e la pubblica opinione rimane viziata da disinformazione e pregiudizi. È così che diventa possibile che passino del tutto in silenzio le morti di due persone in sciopero della fame e che la notizia trovi una minima diffusione nei media locali solo indirettamente, a seguito di un comunicato sindacale centrato non già sulla tragedia ma sulla richiesta “che venga modificato l’articolo 336 del codice penale, prevedendo un aggravante speciale, quindi un inasprimento della pena, per chiunque usa violenza o minaccia il Poliziotto Penitenziario”. Richiesta che è facile pensare verrà esaudita. Mentre in carcere e di carcere si continuerà a morire. In silenzio, per non disturbare. Morti nel carcere di Augusta, il Garante: “Diversamente da Cospito silenzio assordante” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 12 maggio 2023 Deceduti un russo e un italiano. La notizia resa nota solo grazie alla denuncia del sindacato di polizia penitenziaria Sippe: “Ci facciamo carico di queste situazioni di disagio con organici insufficienti”. Inchiesta della procura di Siracusa. Arriva il nuovo Garante in Sicilia, è l’ex magistrato Santi Consolo. Erano in sciopero della fame da 60 e 41 giorni. Due detenuti del carcere di Augusta sono morti in ospedale a distanza di una quindicina di giorni. Uno, di nazionalità russa, condannato all’ergastolo, chiedeva l’estradizione verso il proprio paese, sin dal 2018: è deceduto in ospedale il 9 maggio. L’altro, un siciliano di 45 anni, di Gela, anche lui con un ergastolo da scontare, riteneva di essere stato condannato ingiustamente. Su questi due decessi indaga la procura di Siracusa diretta da Sabrina Gambino, allo stato i fascicoli sono “contro ignoti”. Per certo, si tratta di due casi passati sotto silenzio se non fosse arrivata la denuncia del sindacato di polizia penitenziaria Sippe. Ma i due detenuti erano già morti. Così, ora interviene il Garante dei detenuti, Mauro Palma: “È necessaria una completa informazione su queste situazioni, che deve fluire dagli istituti penitenziari all’amministrazione regionale e centrale, affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”. Il Garante ricorda che “molta doverosa attenzione” ha avuto il caso Cospito: “Il caso di una persona detenuta al 41 bis, con interrogativi che hanno anche coinvolto il mondo della cultura e l’opinione pubblica, oltre che le istituzioni”. Un silenzio assordante ha invece “circondato il decesso di due persone detenute ad Augusta”, continua il Garante, che precisa: “Non si intende assolutamente sollevare problemi relativi all’assistenza che queste persone possono avere avuto nell’istituto e all’adempimento dei protocolli che sono previsti in simili casi”. Il tema è quello della “necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”. I sindacati della polizia penitenziaria rilanciano: “Sempre più spesso siamo noi a doverci fare carico di queste situazioni di disagio - dice Nello Bongiovanni, della segretaria siracusana del Sippe - ma intanto gli organici sono ridotti sempre più all’osso”. Da Siracusa a Palermo, la situazione non cambia. Come denuncia Dario Quattrocchi, segretario nazionale dell’Osapp, che in questi giorni ha promosso una protesta insieme ai colleghi delle altre sigle sindacali: mercoledì, tutti gli agenti dell’Ucciardone non sono andati a mensa. “Un modo per denunciare la gravissima carenza di personale”, dice Quattrocchi: “Con l’integrazione di sole dieci unità non si riesce a sviluppare il servizio e il piano estivo”. La protesta della mensa proseguirà la settimana prossima in tutti gli altri penitenziari siciliani. “Le carenze di personale sono ormai croniche ovunque”, ribadiscono i sindacati. Si arriva a situazioni limite in cui un agente deve controllare quattro piani. “Accade all’Ucciardone - racconta il segretario nazionale dell’Osapp - una situazione inconcepibile. Mentre in tutta la Sicilia registriamo l’aumento delle aggressioni nei confronti dei colleghi”. Nello Bongiovanni ha vissuto in prima persona l’esperienza di una drammatica aggressione in carcere: “L’opinione pubblica deve conoscere le condizioni in cui siamo costretti ad operare - racconta - i detenuti non stanno rinchiusi in cella, ma hanno necessità di fare tante attività durante la giornata, dunque il nostro lavoro è particolarmente complesso”. I sindacati chiedono una presa di posizione della politica. Mentre in Sicilia si insedia il nuovo garante dei detenuti, l’ex magistrato Santi Consolo, che è stato anche a capo del Dap, prende il posto del professore Giovanni Fiandaca. Cari giornalisti di Report, le associazioni che si occupano di detenuti non sono colluse di Associazione Yairaiha Il Dubbio, 12 maggio 2023 È difficile trovare persone che una volta uscite dal circuito carcerario abbiano ancora voglia di parlare o anche solo sentir parlare di carcere. La maggior parte vuole solo dimenticare e riprendere a vivere. Poche, purtroppo, le eccezioni. Purtroppo perché chi meglio di una persona che ha vissuto il carcere può testimoniarne le storture? Ma che ex detenuti siano anche attivisti di associazioni che si occupano dei diritti delle persone detenute è inammissibile per i giornalisti di Report mettendo in piedi “Ombre Grigie”, ovvero l’ennesima inchiesta spot che segue di poche settimane il vergognoso servizio sul 41 bis. Per Report è impensabile che chi ha già scontato la propria pena, possa chiedere la scarcerazione dei malati rinchiusi in carcere, condizioni di trattamento più umane, denunciare abusi e maltrattamenti nelle carceri o ancor peggio sostenere campagne di sensibilizzazione contro l’ergastolo ostativo e per l’abolizione del 41- bis. Per loro il reinserimento sociale di chi ha già scontato la propria condanna non può coincidere con l’adoperarsi per il riconoscimento dei diritti fondamentali di chi si trova oggi nella medesima situazione. È chiaro che anche la trasmissione condotta da Ranucci è funzionale alla linea di pensiero dell’attuale governo e attraverso il becero tentativo di delegittimare Antigone e Nessuno Tocchi Caino pone in essere l’ennesimo tassello per cancellare l’art. 27 della Costituzione e tagliare definitivamente le gambe agli organi di garanzia dell’esecuzione penale. D’altra parte va in questa direzione anche la proposta di cancellare il reato di tortura perché, secondo la premier, “lede l’onorabilità degli uomini e donne della polizia penitenziaria”. Negli ultimi anni stiamo assistendo al progressivo smantellamento delle garanzie costituzionali in ogni ambito dell’agire sociale e quello carcerario interessa a pochi. Secondo la narrazione di Report, e non solo, chi si occupa dei detenuti o è già colluso o è in cerca di contatti con i pezzi da novanta delle organizzazioni criminali per trarne benefici personali, ma quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e l’interesse di pochi, è lo smantellamento dello stato di diritto. In ambito penitenziario lo stiamo vedendo nei tentativi di delegittimare gli avvocati, i garanti, i magistrati di sorveglianza, le misure alternative al carcere e di reinserimento. Il disegno del “buttare via le chiavi” è chiaro. Oggi è toccato alle associazioni che credono in quello che fanno, e lo fanno onestamente, essere messe alla gogna, domani a chi toccherà? La salute mentale in carcere, due pesi e due misure di Cristina Da Rold lescienze.it, 12 maggio 2023 Gli autori di un reato commesso in uno stato di incapacità mentale sono indirizzati a un percorso di cura e riabilitazione in strutture gestite dal Servizio sanitario nazionale. Per le persone che invece sviluppano un disturbo mentale durante la detenzione in carcere, dove la probabilità che insorga una malattia mentale è elevata, il percorso terapeutico è molto diverso. Da un processo in cui si è risultati colpevoli si può uscire in due modi: condannati o prosciolti. Il modo per essere prosciolti è essere ritenuti affetti da un “vizio di mente”, ossia incapaci di aver commesso il reato nel pieno delle proprie facoltà mentali. La differenza è cruciale: se sussiste il vizio di mente, il percorso che ci si para davanti sarà fuori dal carcere ma all’interno di percorsi e strutture del Servizio sanitario nazionale e, nei casi che richiedono maggiore attenzione alla sicurezza, presso strutture riabilitative dette REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Nel 2014 le REMS hanno sostituito fisicamente i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari rivoluzionando il concetto di riabilitazione del colpevole. Si tratta infatti di residenze con al massimo 20 posti letto inserite nei Dipartimenti di salute mentale del territorio, strutturate come piccole comunità, dove non vi sono guardie, né grate, né porte chiuse, né celle, ma solo personale sanitario. Se invece veniamo condannati perché “sani” quando abbiamo compiuto il crimine, finiamo in carcere, dove però la probabilità che insorga una malattia mentale durante la detenzione è elevata. Una volta che i disturbi si manifestano, la presa in carico è però molto diversa rispetto a ciò che viene offerto ai malati seguiti dai servizi esterni. Si tratta di due pesi e due misure: dal punto di vista penale, fra salute e sicurezza, in carcere a prevalere è il principio della sicurezza, mentre nelle REMS è quello della salute e della riabilitazione della persona. In queste ultime la persona è di fatto “libera”: si può uscire, e seguire un percorso riabilitativo, lo stesso garantito dai servizi di salute mentale. I numeri sulle recidive fanno pensare. I primi follow-up delle REMS danno dati bassissimi: un tasso di recidiva inferiore al 5 per cento, contro una media del 60-80 per cento fra chi esce dalle carceri. Il punto è dunque quando insorge la malattia mentale. “Nelle carceri di fatto non ci si riabilita da un disturbo mentale. Abbiamo diversi studi condotti su singole carceri che evidenziano che in media un detenuto su quattro presenti durante la detenzione sviluppa disturbi di tipo ansioso o depressivo, che vengono curati in carcere con approccio essenzialmente farmacologico. Il 5 per cento, che significa un detenuto su 20, presenta disturbi psicotici. Queste persone vengono spesso trattate in carcere o inviati agli ATSM (Articolazioni tutela della salute mentale). Ve ne sono oggi 34 in Italia, con 255 persone presenti. “Circa un detenuto su dieci riceve un’offerta formativa in carcere, anche professionalizzante, atta al reinserimento in società. Il carcere è basato sulla sicurezza.” A raccontarci lo spaccato di come funziona la salute mentale per le persone che hanno commesso un reato è Angelo Fioritti, psichiatra, presidente del Collegio nazionale dei Dipartimenti di salute mentale, che si occupa di salute mentale nelle carceri da molto tempo. In Italia ci sono 190 istituti penitenziari in cui sono recluse 60.000 persone (18.000 in attesa di giudizio) a fronte di una capacità nominale di 42.000 posti. Si sono contate in un anno 4000 aggressioni, 827 a personale penitenziario, 11.000 episodi di autolesionismo, 55 suicidi (che significa un detenuto su 1000) e 1500 tentati suicidi. Ci sono 141 sezioni di isolamento che contengono 423 persone; 1768 detenuti scontano un ergastolo, 2893 una pena superiore ai 10 anni, 12.718 una pena tra i 3 e i 10 anni, e 12.519 una pena da scontare inferiore ai 3 anni. La presa in carico della malattia mentale nelle REMS - Le REMS sono uno dei frutti della riforma strutturale epocale portata avanti fra il 2008 e il 2014: da allora la salute nelle carceri è diventata di competenza del Servizio sanitario nazionale, mentre prima era appannaggio dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Nel complesso le REMS offrono 600 posti letto: la metà della capienza rispetto agli ex ospedali psichiatrici. La riforma è nata in seguito ai lavori della Commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio Marino che aveva documentato lo stato di degrado delle carceri italiane. L’Italia era stata sanzionata dal Consiglio d’Europa per violazione dei diritti umani. “Gli ospedali psichiatrici erano sostanzialmente delle carceri, ospitanti 1500 persone per una capienza di 1200,” racconta Fioritti. “Il problema è che abbiamo cambiato la gestione di queste persone senza modificare di una virgola il codice penale.” La rivoluzione è aver stabilito per la prima volta il principio che il malato di mente autore di reato è in primo luogo malato, e quindi va prima di tutto curato. In precedenza era invece l’aspetto criminale a essere tenuto in massima considerazione, e questo comportava la prevalenza del controllo. “Si stabilisce quindi che di norma le persone prosciolte per vizio di mente vengano avviate agli stessi percorsi di cura di chi non ha commesso reati. Se sussistono comunque elementi di pericolosità, possono essere inviati presso le residenze per l’ esecuzione delle misure di sicurezza.” Il destino di alcune categorie di colpevoli è profondamente cambiato con questa riforma. “Per esempio, in precedenza le mamme che, affette da gravi disturbi post-partum, uccidono i propri bambini venivano internate negli ospedali psichiatrici giudiziari per anni, mentre oggi non finiscono neanche nelle REMS - continua Fioritti - ma nei dipartimenti di salute mentale sul territorio, insieme ad altre persone che stanno affrontando un percorso di cura, sebbene in misura di sicurezza. Ciò significa che il loro stato di libertà viene valutato periodicamente dal magistrato. Dopo un certo periodo in cui la mamma non è più considerata pericolosa, può essere rimessa in libertà.” Via via che si sono create delle alternative - le REMS oppure la possibilità di essere inseriti in strutture residenziali dei Dipartimenti di salute mentale - i magistrati hanno iniziato a usarle in misura sempre maggiore, e quindi il numero di prosciolti ha iniziato a crescere. Non esiste una banca dati nazionale ma si stima che siano circa 8000 le persone colpevoli ma prosciolte per vizio di mente, a fronte dei 600 posti disponibili nelle REMS. Una parte di queste persone confluisce nei servizi pubblici, cioè nei centri salute mentale, e nei centri diurni, ma non basta. Chi è in attesa può aspettare in libertà, ma anche in detenzione. Nel 2022 si è espressa persino la Corte costituzionale chiedendo provvedimenti urgenti a livello legislativo, o per aumentare i posti nelle REMS. La presa in carico della malattia mentale nelle carceri - Nel frattempo, chi al momento della condanna era risultato capace di intendere e di volere e che si fosse ammalato successivamente, non riceve lo stesso trattamento. La letteratura scientifica documenta inequivocabilmente la maggiore prevalenza di disturbi mentali gravi fra i detenuti rispetto alla popolazione generale. Secondo il XV rapporto dell’Associazione Antigone, del 2019, il 28,7 per cento circa dei detenuti italiani assume una terapia psichiatrica sotto prescrizione medica, e circa un detenuto su quattro ha problemi di tossicodipendenza. In un campione italiano di 300 detenuti nel carcere di Cagliari e 300 controlli di popolazione generale abbinati per eta? e sesso, tutti i disturbi indagati sono risultati sovra-rappresentati nei detenuti rispetto al gruppo di controllo. Nel 58,7 per cento dei detenuti è stata rilevata una patologia psichiatrica in atto, contro l’8,7 per cento nel gruppo di controllo. Quest’area grigia è un problema enorme. La detenzione produce un’intensa sofferenza, in un contesto che vive una contraddizione cruciale: come si fa a curare la salute mentale in una situazione intrinsecamente afflittiva? Come sviluppare il potenziale di una persona in un luogo detentivo? “Non ci sono obblighi di performance per l’assistenza sanitaria in carcere - continua Fioritti - nonostante molta ricerca in merito e alcuni linee di intervento. Il tipo di intervento oggi è essenzialmente diagnostico-farmacologico, in carcere sono pochi i percorsi psicologici, la psicoterapia e la terapia occupazionale. Semmai si pensa a un trasferimento all’esterno se la situazione è particolarmente grave. La riabilitazione tramite il lavoro riguarda meno del 10 per cento dei detenuti.” A scopo deflattivo, l’Amministrazione penitenziaria invoca di spostare i detenuti nei servizi di salute mentale sul territorio, che a loro volta sono oberati di lavoro. La Corte costituzionale ha richiamato il Parlamento alla necessità di cambiare le cose, a partire dal sistema delle pene. Nel 2019 si è espresso anche il Comitato nazionale per la bioetica, raccomandando di “provvedere a che la cura delle persone affette da grave disturbo mentale e che abbiano compiuto reati avvenga di regola sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive, in ottemperanza al principio della pari tutela della salute di chi è libero e di chi è stato condannato al carcere”, e di “rafforzare i servizi di salute mentale in carcere, superando la storica ‘separatezza’ ereditata dalla sanità penitenziaria: in modo che funzionino come parte integrante di forti Dipartimenti di salute mentale, capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi al di fuori dal carcere e di collaborare a tal fine con la magistratura di cognizione e di sorveglianza.” Al momento però tutto rimane immobile. “Limitiamo l’abuso d’ufficio e separiamo le carriere delle toghe” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 maggio 2023 Mariastella Gelmini, portavoce e senatrice di Azione, sulle riforme costituzionali spiega che “sull’elezione diretta del capo dello Stato, la maggioranza è isolata”, e che “si può anche valutare di tenere il tavolo della giustizia separato, purché poi la separazione delle carriere si faccia”. Senatrice Gelmini, Azione è la sola forza politica che abbia posto a Meloni il problema di dover considerare nel pacchetto delle riforme costituzionali anche la separazione delle carriere. Meloni ha risposto picche, spiegando che le due questioni devono rimanere su piani diversi. Ritiene che questo atteggiamento possa diventare una strategia dilatoria sulla separazione delle carriere e le altre riforme della giustizia? Faccio una premessa. Sono convinta che la riforma della giustizia sia un dossier strategico, per i cittadini, le imprese e i professionisti: i rapporti Ocse, le raccomandazioni dell’Ue trasfuse nel Pnrr e le stesse statistiche ci indicano con urgenza questa direzione sia per ragioni di competitività del Paese, che, lo dico credendo fermamente nei principi dello Stato di diritto, per motivi di civiltà giuridica. Noi sosteniamo che, se c’è la volontà di modificare la Costituzione, sarebbe bene non farlo a pezzi, ma all’interno di un quadro unitario. Anche perché, come è noto, la separazione dei poteri nella nostra Costituzione non è poi così rigida. Il presidente della Repubblica, ad esempio, è il capo del Csm. Detto ciò, si può anche valutare di tenere il tavolo della giustizia separato, purché poi la separazione delle carriere si faccia. Mentre è evidente che su poteri del premier, ruolo del Parlamento, rapporto fra governo nazionale ed enti territoriali e quindi autonomia, sarebbe assurdo separare i ragionamenti. A proposito di riforme costituzionali, voi avete fatto delle aperture rispetto a Pd e M5S, in particolare sul cosiddetto sindaco d’Italia. Ma in caso di elezione diretta del presidente del Consiglio poi non si rischia di esautorare il Parlamento dal proprio ruolo? Noi siamo favorevoli al rafforzamento della stabilità dei governi e all’indicazione da parte degli elettori del premier. Due obiettivi che si possono raggiungere in vari modi, fra i quali c’è anche l’elezione del cosiddetto “sindaco d’Italia”. Però tutto questo non corrisponde necessariamente allo svilimento del Parlamento, il cui ruolo anzi va rafforzato: siamo oramai al paradosso che le leggi le fa solamente il governo e che i decreti vengono esaminati da una sola camera mentre l’altra fa da passacarte. Ma è per questa ragione che non si può discutere di presidenzialismo in astratto, come è stato fatto fino ad ora, anche per la confusione nella maggioranza: occorre cercare un equilibrio e trovare i giusti contrappesi. Tolta di mezzo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, si può discutere senza pregiudizio di tutto, compreso della separazione dei ruoli fra le due Camere o del monocameralismo, che è la proposta di Azione. Si parla molto di premierato, cancellierato, sistema spagnolo: pensa che da questo dialogo tra maggioranza e opposizione possa nascere qualcosa di concreto o il governo andrà dritto per la sua strada con chi ci sta? Non credo sia interesse di Giorgia Meloni procedere, su un punto così delicato, a colpi di maggioranza ed è apprezzabile che non sia arrivata agli incontri con una soluzione preconfezionata. Adesso però il presidente del Consiglio deve prendere atto del fatto che, sull’elezione diretta del capo dello Stato, la maggioranza è isolata. Noi siamo disponibili al dialogo: le riforme istituzionali vanno realizzate con il più ampio consenso possibile e spero che ci sia disponibilità ad un confronto vero, da parte di tutti. Noi, per parte nostra, non sceglieremo mai l’Aventino. Lei ha presentato a inizio legislatura una proposta di legge per limitare l’abuso d’ufficio, altri nel suo stesso partito parlano di abrogazione. In attesa di capire cosa vuol fare concretamente il governo, ci può spiegare meglio la sua posizione? Oltre il novanta per cento dei casi di procedimenti penali per abuso d’ufficio contro i pubblici amministratori si concludono con assoluzioni. È un problema di cui ci siamo fatti carico anche durante il governo Draghi: era una richiesta che arrivava dai sindaci e dagli amministratori locali perché la paura della firma rischiava di compromettere perfino gli investimenti del Pnrr. Per questo, a inizio legislatura, ho presentato un disegno di legge nel solco dei ragionamenti che stavamo facendo in seno al precedente esecutivo per delimitare meglio il reato. Crede ci possa essere su questo punto un dialogo con Forza Italia, che tra le forze di maggioranza è quella più vicina, sulla giustizia, alle vostre idee? Sulle nostre posizioni siamo disponibili a discutere con tutti. Segnalo che Nordio è stato indicato come ministro della giustizia da Fratelli d’Italia, partito nelle cui fila è stato peraltro eletto. Voglio sperare che il garantismo animi tutta la maggioranza di governo e non solo una parte di essa. Anche perché Carlo Nordio è un galantuomo e credo che non rinuncerà ai suoi principi. Tra le tante riforme della giustizia, quella che dovrebbe partire dal Senato è quella sulle intercettazioni: condivide l’impostazione del ministro Nordio di limitare ulteriormente la trascrivibilità delle conversazioni intercettate in modo da oscurare tutte quelle che riguardassero terzi estranei alle indagini o comunque fatti che hanno una rilevanza esclusivamente privata? Certo che sono d’accordo con Nordio: il tema delle intercettazioni, o meglio l’espansione abusiva che queste hanno conosciuto negli ultimi anni, rappresenta esattamente uno di quei problemi di civiltà giuridica che invocavo all’inizio. L’impiego pervasivo del trojan ne è forse il simbolo più emblematico. Occorre limitare tutto ciò che non è necessario all’accertamento e al perseguimento dei fatti di reato. Dobbiamo tornare a una visione liberale del diritto penale che non può essere mai un mezzo di propaganda politica o visibilità mediatica. Rispetto a queste derive, c’è una forte responsabilità sia della classe politica che dei media: le responsabilità si accertano nel processo e non sulle prime pagine dei giornali. Il reato di abuso d’ufficio ormai serve solo allo sputtanamento di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 maggio 2023 Il 96 per cento dei procedimenti per questa fattispecie di reato finisce con l’archiviazione degli indagati. Nel frattempo l’immagine degli amministratori pubblici coinvolti è già stata danneggiata dal tritacarne mediatico-giudiziario. Il 96 per cento dei procedimenti per il reato di abuso d’ufficio finisce con l’archiviazione degli indagati. Quando c’è un rinvio a giudizio e si va a dibattimento, la percentuale non cambia, tanto che le condanne si contano sulle dita di poche mani: 18 nel 2021, 37 nel 2020. Sono i dati principali che emergono dalla relazione predisposta da Giusi Bartolozzi, vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio, e inviata nei giorni scorsi al presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio. Il contenuto del dossier è stato anticipato da alcuni quotidiani, in particolare quelli abituati a mettere alla gogna le persone imputate o semplicemente indagate. Così, i dati comunicati da Via Arenula sono stati interpretati secondo una singolare prospettiva: visto che le condanne per abuso d’ufficio sono poche, tanto vale lasciare in vita il reato così com’è e occuparsi di altro. Nessuna considerazione sul fatto che in questo paese il semplice coinvolgimento di un politico o amministratore pubblico in un’indagine per abuso d’ufficio costituisce già di per sé un danno - spesso irreparabile - in termini di reputazione e di immagine. Quando l’assoluzione o anche solo l’archiviazione arriva, il politico è già stato distrutto dal tradizionale tritacarne mediatico-giudiziario. Insomma, è sufficiente cambiare prospettiva per esaminare i numeri forniti dal ministero arrivando a conclusioni diverse: perché tenere in vita un reato così evanescente? Solo per permettere per qualche mese o anno lo sputtanamento dei malcapitati amministratori pubblici? Sarebbe questo l’obiettivo di una norma penale? “Anche quando il procedimento termina con l’archiviazione, questa può arrivare con molto tempo di ritardo rispetto all’inizio della vicenda giudiziaria. Nel frattempo, però, la notizia dell’indagine è stata sbandierata dalla stampa e l’immagine del sindaco o di chi ne è coinvolto è stata già profondamente danneggiata”, sottolinea al Foglio il deputato Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione. “Abbiamo verificato - aggiunge - che in moltissimi casi le inchieste prendono avvio da esposti da parte delle forze politiche di opposizione. Questo non è un modo di fare politica. Esistono le interrogazioni, le interpellanze e altri strumenti di indirizzo e controllo. Ormai invece l’abuso d’ufficio è diventato un argomento per gettare fango, indipendentemente da come va il processo”. Costa riporta alcuni casi paradossali in cui si è arrivati a contestare l’abuso d’ufficio: “La nomina di un semplice segretario, l’assunzione di un dipendente, la variante del piano regolatore, la trascrizione di nozze gay, la mancata autorizzazione a usare una piazza per un comizio”. “Ormai tutto è lecito per contestare l’abuso d’ufficio. Poi quando si arriva all’udienza preliminare o al dibattimento, emerge tutta l’infondatezza di queste accuse”, conclude Costa, firmatario di una proposta di legge che prevede la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio. Anche il ministro Nordio, fino a qualche mese fa, si era mostrato favorevole all’idea di abolire il reato, raccogliendo il malcontento dei sindaci. Negli ultimi tempi, però, la situazione sembra essere cambiata e il Guardasigilli sarebbe orientato a mantenere il reato, ma riformandolo profondamente così da attenuare la “paura della firma” da esso generato. Secondo quanto trapela dai corridoi parlamentari, sarebbe stata la Lega, in particolare con Giulia Bongiorno, a schierarsi contro l’eliminazione tout court del reato, per mantenere l’immagine di partito impegnato nella lotta al malaffare in politica. I numeri forniti dal ministero, tuttavia, dimostrano come il reato di abuso d’ufficio, anziché garantire giustizia, serva ormai soltanto a sputtanare gli amministratori pubblici. Tre innocenti arrestati o condannati ogni giorno: gli errori giudiziari e i risarcimenti beffa dello Stato di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone Il Riformista, 12 maggio 2023 Quando avrete finito di leggere questo articolo, dalle casse dell’Erario saranno usciti circa cinquecento euro per risarcimenti alle vittime di errori giudiziari. Al ritmo di 55 euro al minuto, lo Stato cerca di arginare il fenomeno dei propri cittadini arrestati o condannati da innocenti, versando loro somme di denaro il più delle volte risibili, sempre e comunque inadeguate per riparare la tragedia personale che hanno vissuto. Il fenomeno degli errori giudiziari è il più sottovalutato, misconosciuto e trascurato problema della giustizia in Italia. Negli ultimi trent’anni ha colpito 30.231 persone, l’equivalente di un “tutto esaurito” in uno stadio di calcio di serie A come quello del Torino. Alla media di 975 casi l’anno, tutti gli anni, da un trentennio. Significa tre innocenti arrestati o condannati (e per questo risarciti dallo Stato) ogni giorno. Uno ogni otto ore. Con tutto quello che ne consegue sia per le vittime dirette di questo scempio - sotto forma di perdita del lavoro, della reputazione, della dignità, degli affetti - sia per i familiari, condannati loro malgrado a subire l’ingiustizia. A fronte di questa emergenza, lo Stato sembra assistere imperterrito anche a un argomento che dovrebbe interessarlo ancor più direttamente, toccandolo nel portafoglio. Dal 1991 al 2021 dalle casse dell’Erario sono usciti poco meno di novecento milioni di euro in indennizzi e risarcimenti, circa 29 milioni di euro l’anno. E il tassametro dell’ingiustizia continua a correre allo stesso ritmo. I magistrati obiettano: “Gli errori giudiziari veri e propri ogni dodici mesi si contano sulle dita di una mano”. È vero, i condannati con sentenza definitiva - e in seguito assolti dopo un processo di revisione (gli errori giudiziari in senso tecnico) -, sono in media sette all’anno. Ma poi c’è la cosiddetta “ingiusta detenzione”, che riguarda tutti quelli finiti in custodia cautelare salvo poi essere riconosciuti innocenti, e sono tanti, e sono troppi, citando Enzo Tortora. Costituiscono più del 99 per cento di quegli oltre trentamila di cui sopra. E riesce difficile non considerarli vittime di errori giudiziari solo perché non rientrano nella definizione di un codice. Un numero enorme di loro si è ritrovato con un’ordinanza di custodia cautelare sul groppone per colpa di sciatteria o superficialità investigativa, errori di interpretazione di intercettazioni, scambi di persona, dimenticanze e negligenze di ogni tipo. Se ne volete un campionario, non avete altro che da sfogliare le pagine di www.errorigiudiziari.com, l’archivio web che noi stessi abbiamo fondato ormai quasi vent’anni fa e che costituisce una casistica unica in Italia con i suoi oltre 870 casi di innocenti in manette. Non tutti sono stati risarciti. Ogni anno solo il 25 per cento del totale delle istanze di riparazione per ingiusta detenzione viene accolto. Tutto il resto è respinto. Sulla base di un comma del codice di procedura penale la cui interpretazione è stata resa sempre più restrittiva, e anche in omaggio alla necessità per lo Stato di arginare la colossale spesa in risarcimenti. Così, chi si vede respingere la domanda e sfumare i 235 euro e spiccioli per ciascun giorno di custodia cautelare in carcere (la metà in caso di domiciliari), finisce nell’esercito degli “innocenti invisibili” insieme con coloro che, usciti da una vicenda spesso lunga, non ne vogliono più sapere di aule giudiziarie e rinunciano a chiedere un indennizzo; e insieme a quelli che, avendo già speso somme altissime per difendersi, non hanno più risorse per permettersi di continuare il percorso che li porterebbe a un risarcimento. Se consideriamo tutti questi, arriveremmo ad almeno cinquantacinquemila innocenti, più o meno i residenti di una città come Trapani. Finire arrestato o condannato da innocente può capitare a tutti. È successo al pastore sardo Melchiorre Contena, accusato di sequestro di persona e di omicidio di un imprenditore milanese. Scontò tutti e trenta gli anni di reclusione che gli erano stati inflitti: i giudici avevano dato credito alle dichiarazioni di un uomo che aveva 35 denunce sulle spalle per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Contena entrò in carcere a 38 anni, ne uscì quando ne aveva 69 nel 2007. È il caso più grave mai registrato in Italia. Secondo, ma solo per lunghezza della detenzione, fu quello di Giuseppe Gulotta. Con un interrogatorio violento fu costretto a confessare di aver partecipato all’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, vicino a Trapani. Era il gennaio 1976. Condannato all’ergastolo, ha ritrovato la libertà solo dopo aver scontato 22 anni di carcere. È stato scagionato, con un processo di revisione, grazie alle dichiarazioni di un carabiniere presente il giorno dell’arresto. E poi c’è la surreale vicenda di Angelo Massaro, che ha passato 21 anni in una cella con l’accusa di omicidio per colpa di una consonante. In un’intercettazione una “S” diventa “T”, la parola “muers”, in dialetto tarantino oggetto ingombrante, diventa “muert”, cadavere. Un delitto mai dimostrato: mancavano il corpo, l’arma e il movente. Uno dei più gravi errori giudiziari italiani di sempre, raccontato nel recente docufilm “Peso Morto”, che abbiamo scritto e prodotto. In cella con Massaro c’era un altro uomo accusato da innocente (dallo stesso pm) di un duplice omicidio, Domenico Morrone. Malgrado avesse un alibi confermato da più persone, fu condannato in base a testimonianze di persone che avevano motivi di rancore nei suoi confronti. Scontò 5.475 giorni in carcere, 15 anni. Fu scagionato completamente solo grazie alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Sì alla messa alla prova anche se la parte civile in udienza si oppone di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2023 Con la sentenza n. 19931 depositata ieri i giudici di Piazza Cavour affermano che è legittimo il via libera del giudice alla messa alla prova per l’imputato malgrado l’opposizione della parte civile, se questa ha depositato memorie e partecipato con il suo difensore al dibattimento, anche se non ascoltata personalmente. La Suprema corte ha respinto il ricorso della parte lesa ed escluso la violazione dell’articolo 464-quater del Codice di rito penale che prevede l’obbligo per il giudice di sentire le parti e la persona offesa, a tutela del contraddittorio e per acquisire elementi utili a bilanciare i contrapposti interessi in gioco. Nel caso esaminato la ricorrente riteneva che i suoi interessi non fossero stati considerati, visto che il giudice aveva deciso di sospendere il procedimento per messa alla prova, senza procedere alla sua audizione e malgrado il parere negativo espresso dal suo legale. Secondo i giudici è l’opportunità di partecipare all’udienza con il difensore e di depositare una memoria a rendere legittimo l’operato del giudice che aveva applicato la norma di favore. Sulle misure cautelari incompatibilità del giudice più limitata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2023 Con la sentenza n. 91 la Consulta afferma che non è illegittima l’assenza di incompatibilità a partecipare al giudizio nei confronti del giudice che si è pronunciato in sede di riesame su una misura cautelare reale. Respinta la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna. Scongiurata la situazione che avrebbe messo in grave difficoltà gli uffici giudiziari, soprattutto se di dimensioni medio-piccole, considerata la frequenza dell’annullamento con rinvio di misure cautelari reali. Per il Tribunale di Ravenna non sarebbe terzo e imparziale, né apparirebbe tale, il giudice che, dopo essersi pronunciato nel giudizio cautelare adottando una decisione di merito sull’esistenza del fumus e del periculum in mora, venisse di nuovo chiamato a decidere della medesima questione. Secondo i giudici delle leggi occorre una decisione di merito sull’accusa penale perché possa insorgere una situazione di prevenzione che comporti l’incompatibilità del giudice. Milano. Valerio Onida, dall’Università a Bollate innamorato della Costituzione di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 12 maggio 2023 Si può insegnare la Costituzione con metodo per così dire socratico, facendo zampillare negli studenti curiosità e senso civico intorno ai dilemmi delle sentenze della Corte costituzionale, argomenti così apparentemente lontano dal loro mondo? È quello che Valerio Onida ha sempre fatto, suscitando non solo curiosità ma addirittura passione fra i suoi allievi. Racconta una delle gemme illustri, Marta Cartabia, ex ministra della Giustizia, conquistata “di schianto” per l’originalità dell’insegnamento e per la disponibilità: “Ci radunava intorno a un tavolo, in una saletta dell’Università Statale di Milano. Leggevamo e discutevamo per ore le sentenze, sforando sempre l’orario ufficiale. Discutevamo - se si può dir così - da pari a pari. Prendeva sul serio ogni nostra osservazione. Insegnava con modalità che avrei poi visto nelle università anglosassoni, in un contesto, quello di allora a Giurisprudenza, in cui tutti insegnavano ex cathedra”. Valerio Onida, costituzionalista anomalo e docente dalla maniera del professor Keating dell’Attimo fuggente, era uomo e studioso innamorato della Costituzione, e riusciva a farla amare. Aveva cominciato con studio disperatissimo nelle aule della Università Statale a Milano, qui iscritto perché alla Cattolica il padre Pietro insegnava aziendalistica, e lui voleva sfuggire ogni sospetto di favoritismo, e non aveva mai dismesso la sua passione, fino a diventare nel 2004 presidente della Corte Costituzionale. Cattolico, iscritto alla Fuci, ha sempre trattato laicamente e da un punto di vista indipendente le sue sentenze, a favore del No nel 1974 nel referendum sulla abolizione del divorzio, nel 2016 argomentò contro il Referendum renziano anche in dissenso con amici storici come Franco Bassanini, e nel 2018 ritenne “impropria” dal punto di vista costituzionale la scelta del presidente Mattarella di opporsi a Paolo Savona ministro. Amava Milano che percorreva a piedi, in tram, in metro e in bici (rinunciando all’auto di servizio) e nel 2010 si è candidato alle primarie cittadine del centrosinistra, arrivando terzo dopo Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Un modello anche nella pensione, fautore della giustizia riparativa (“che riesca in qualche modo a riparare il tessuto personale e sociale lacerato, e a migliorare il futuro di tutti”) ha fatto il volontario nel carcere di Bollate, difendendo gratis deboli ed extracomunitari. Ha raccontato sul Corriere Luigi Ferrarella: “Un giorno un giovane avvocato d’ufficio si sentì chiamare dal carcere di Bollate, al telefono c’era uno sconosciuto che con tatto gli suggeriva una linea difensiva per un detenuto suo assistito, chiedendo se avesse mai esplorato una certa questione giuridica per quel caso. Idea acuta, convenne stupito il legale, e ancora di più si sorprese quando, dovendo ritelefonare al carcere per farsi dire come si chiamasse l’educatore gentile, scoprì che era Valerio Onida, l’ex presidente della Corte Costituzionale”. È morto a Milano il 14 maggio 2022, rimpianto da 5 figli: “Non è stato un padre ingombrante, eppure avrebbe potuto esserlo, con tutti i suoi titoli. Nessuno di noi lo ha seguito negli studi e nella professione e lui non ci ha mai manifestato dispiacere. Ci ha educati alla libertà e ha rispettato la nostra libertà”. Benevento. Reinserimento lavorativo per detenuti: il carcere incontra imprese e artigiani ntr24.it, 12 maggio 2023 Il 18 maggio 2023, alle ore 10,30, presso la Casa Circondariale di Benevento, si terrà un incontro tra la direzione dell’Istituto penitenziario e le rappresentanze del mondo artigianale, industriale e agricolo della provincia di Benevento. Tale evento - si legge in una nota - si inserisce nel più vasto quadro di iniziative intraprese dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, allo scopo di sensibilizzare la società esterna e, in particolar modo, il settore produttivo alla realtà detentiva, mostrando le potenzialità del lavoro penitenziario. Il lavoro rappresenta per la popolazione reclusa uno strumento essenziale di rieducazione e di sostentamento. Per questo motivo, la volontà del legislatore di aumentare le possibilità occupazionali dei detenuti alle dipendenze di datori di lavoro privati ha trovato attuazione con la legge Smuraglia del 2000. Tale legge, infatti, promuove l’inserimento lavorativo dei soggetti privati della libertà attraverso una serie di agevolazioni destinate alle imprese e alle cooperative sociali che assumano detenuti o svolgano attività di formazione in loro favore attività formativa retribuita. Oltre alla possibilità di ottenere in comodato d’uso locali e attrezzature interne, le imprese e cooperative hanno diritto a un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, nella misura di € 520,00 mensili. Tale credito d’imposta ammonta a € 300,00 mensili per ogni detenuto assunto che sia ammesso alla semilibertà. Inoltre, quanto ai contributi previdenziali, è prevista un’aliquota ridotta nella misura del 95%. L’incontro del 18 maggio costituisce allora un importante momento di conoscenza della realtà del lavoro penitenziario, durante il quale dare avvio a fruttuose collaborazioni tra le imprese e l’Amministrazione penitenziaria. Si invitano, pertanto, gli imprenditori, le associazioni, le cooperative ecc. interessati a far pervenire la propria richiesta di partecipazione, corredata da un documento di identità, alla mail istituzionale della Casa Circondariale di seguito riportato: cc.benevento@giustizia.it entro le ore 12 del 16 maggio p.v. Rimini. La scuola entra in carcere, studenti oltre le sbarre: “Un’esperienza di vita” di Lorenzo Muccioli Il Resto del Carlino, 12 maggio 2023 Gli studenti delle scuole medie e superiori entrano in carcere. Per conoscere da vicino la realtà vissuta ogni giorno dalle persone sottoposte a misure di detenzione. Ma anche per riflettere sui rischi connessi ai reati derivanti dall’uso o abuso di alcol e stupefacenti. Tutto questo è il progetto sperimentale “Divertirsi in sicurezza”, promosso dalla sottosezione di Rimini dell’Associazione nazionale magistrati in collaborazione con il consiglio dell’ordine degli avvocati di Rimini, la camera penale ‘Veniero Accreman’ di Rimini, la polizia penitenziaria e la direzione della casa circondariale. Il progetto, che rappresenta la prima esperienza di questo tipo a livello nazionale, è stato presentato ieri in conferenza stampa dal presidente e dal segretario dell’Anmi Rimini, i sostituti procuratori Annadomenica Gallucci e Luca Bertuzzi, dagli avvocati Alessandro Sarti e Monica Rossi, dalla direttrice del carcere Palma Mercurio e dal commissario capo Aurelia Panzeca. I riflettori si accenderanno nuovamente il 19 maggio prossimo, nel corso di un incontro pubblico in programma alle 15 nell’aula Q del tribunale. Saranno presenti, tra gli altri, il sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad e la deputata Beatriz Colombo, ma anche un ragazzo impegnato in un percorso di recupero all’interno della comunità di San Patrignano. Come ricordato dalla presidente Gallucci, l’iniziativa si inserisce “nel 31esimo anniversario della strage di Capaci” e mira anzitutto a creare una rete virtuosa tra magistratura, avvocatura e il mondo carcerario allo scopo “di sensibilizzare le nuove generazioni al rispetto delle regole e alla prevenzione dei rischi”, promuovendo allo stesso tempo la “cultura della legalità specialmente tra chi, come i più giovani, non possiede una piena consapevolezza delle ricadute connesse alla reiterazione dei reati”. “La Riviera è terra di divertimento - prosegue Gallucci - un divertimento che può e deve essere orientato a modelli sostenibili, lontani dagli accessi legati a droghe e alcol”. Ecco perché, in un’ottica di prevenzione dei reati, accanto a incontri e momenti educativi, formativi e campagne di sensibilizzazione, diventa importante “l’esperienza diretta e il contatto con persone che hanno vissuto sulla propria pelle determinate esperienze”. Tutto questo grazie anche al contributo prezioso della polizia penitenziaria e della casa circondariale, che metterà a disposizione i propri spazi dedicati alla formazione per favorire l’incontro con gli studenti. Agrigento. Lettura e scrittura al carcere Petrusa, al via il progetto “Emozioni di carta” di Irene Milisenda grandangoloagrigento.it, 12 maggio 2023 Il progetto è promosso da Buk Agrigento in collaborazione con la Caritas. La lettura e la scrittura come strumento di inclusione per i detenuti del Carcere Pasquale Di Lorenzo di Agrigento. Questo è l’obiettivo del progetto “Emozioni di carta”, promosso dal gruppo di lettura Buk in collaborazione con la Caritas. “Siamo molto orgogliosi di portare avanti questo progetto. Proviamo ad entrare e a descrivere il mondo delle emozioni e dei nostri sentimenti che condivideremo con i detenuti e con i ragazzi delle scuole”, dichiara Monica Brancato di Buk Agrigento. I membri del gruppo di lettura, incontreranno i detenuti, e si confronteranno con loro con delle letture e con delle parole appositamente selezionate dal libro “l’Atlante delle emozioni umane” e successivamente, sulla scorta di queste, i partecipanti saranno invitati a produrre un elaborato scritto, in prosa o poesia, o un disegno, mettendo in evidenza quelle che sono state le loro emozioni e sensazioni rispetto alla parola al centro dell’incontro. “Il nostro desiderio si è avverato e oggi usciamo fuori da quella che è la nostra zona confort, e ci dedichiamo ad una realtà, quella dei detenuti, persone che stanno già scontando la loro pena, e che devono essere riabilitati e quali miglior strumento se non quello della lettura che ci rende liberi in qualsiasi posto ci troviamo e ci fa parlare tutte le lingue del mondo”, dichiara Paola Gaglio, Buk Agrigento. Progetto che è allargato agli studenti dell’Istituto comprensivo “Falcone e Borsellino” di Favara e del liceo “R.Politi” di Agrigento. Modena. Dal carcere al palco. “Nel mio Amleto solo attori” di Maria Silvia Cabri Il Resto del Carlino, 12 maggio 2023 Stasera e domani al teatro Dadà di Castelfranco in scena i detenuti. Il regista Stefano Tè: “Non c’è distinzione con gli artisti professionisti”. Shakespeare in scena stasera e domani al Teatro ‘Dadà’ di Castelfranco, con il debutto di ‘Amleto’, il nuovo spettacolo di Teatro dei Venti realizzato all’interno dei progetti nel carcere di Castelfranco Emilia. Un’anteprima realizzata in coproduzione con Emilia Romagna Teatro Ert Teatro nazionale: un riconoscimento importante come spiega regista del Teatro dei Venti Stefano Tè. Stefano, capitolo finale della trilogia? “Esatto, con ‘Amleto’ si conclude la trilogia che Teatro dei Venti ha dedicato a Shakespeare e composta da ‘Giulio Cesare’ (con i detenuti del Sant’Anna) e ‘Macbeth’ (con i carcerati sia di Modena che di Castelfranco) in versione radiofonica. Il nostro ‘Amleto’ vedrà in scena sia carcerati-attori che attori esterni professionisti”. Perché la coproduzione con Ert è importante? “Segna lo spostamento dal ‘teatro-sociale’ al ‘teatro-teatro’. I detenuti che fanno parte del progetto hanno un regolare contratto da attori e sono retribuiti” Come nasce la sua collaborazione con il carcere di Castelfranco? “Ha radici lontane: dal 2006 collaboro con questa realtà per realizzare progetti di creazione artistica e di professionalizzazione. In questi anni il sostegno della direzione, degli educatori e della Polizia penitenziaria è stato essenziale anche nell’ideazione dei progetti, nel trovare soluzioni, nel creare occasioni di incontro tra carcere e città, attraverso il teatro. Nei mesi scorsi abbiamo allestito in carcere uno spazio teatrale attrezzato, l’ex falegnameria, per provare in un ambiente funzionale, prima di entrare al ‘Dadà’ per le ultime prove e il debutto”. Cosa significa professionalizzazione in questo ambito? “Questo spettacolo segna il primo esperimento di professionalizzazione dei detenuti nell’ambito del progetto europeo AHOS All Hands On Stage, a cui aderiscono per 30 mesi organizzazioni e Istituti penitenziari di 5 paesi (Italia, Germania, Polonia, Romania e Serbia) per coinvolgere i carcerati in processi di inserimento lavorativo nell’ambito dello spettacolo dal vivo”. Prospettiva inclusiva? “Certo. Le scenografie e costumi sono stati disegnati da Francesco, uno dei partecipanti, detenuto. La nostra ambizione è quella di creare un Laboratorio di scenografia in carcere, al servizio dei teatri. Il carcere può essere un luogo dove si produce cultura, pensiero. E ciò può essere visto anche nell’ottica del reinserimento nel mondo sociale e del lavoro, una volta terminata la pena. Reinserimento che è molto difficile per il persistere anche di tanti pregiudizi”. Quanti attori sul palco? Quindici: dieci detenuti e cinque professionisti. Amleto è interpretato da un carcerato, come il re, mentre Ofelia da un’attrice esterna”. Bari. Nel carcere inaugurato uno spazio per bimbi e genitori detenuti ansa.it, 12 maggio 2023 Sostenere l’accompagnamento educativo dei figli minori e dei familiari delle persone detenute, diventando un presidio che fa dell’accoglienza, e dell’attenzione nei confronti dei bambini e delle bambine che vivono la separazione forzata dai propri genitori, i propri punti di forza. Sono gli obiettivi dello spazio di incontro fra detenuti e figli minori, realizzato nell’ambito del progetto “Genitorialità oltre le sbarre”. Il programma è promosso dall’assessorato al Welfare del Comune di Bari, è realizzato dagli educatori del Centro servizi per le famiglie dei quartieri Carrassi, San Pasquale e Mungivacca ed è gestito dalla cooperativa sociale Progetto città. L’inaugurazione è avvenuta questa mattina nel carcere per adulti di Bari “F. Rucci”. Presenti, fra gli altri l’assessora comunale al Welfare Francesca Bottalico e la direttrice del carcere Valeria Pirè. Lo spazio è stato allestito con materiali ludici e artistici ed è stato abbellito con un grande murales realizzato durante i laboratori educativi e artistici che hanno coinvolto proprio i figli minori dei detenuti. L’area è colorata e confortevole ed è stata pensata per offrire ai più piccoli la possibilità di svolgere attività ludico-ricreative nel contesto carcerario durante gli incontri con i genitori detenuti, contribuendo così a sostenere bambini e ragazzi nel ricostruire una relazione segnata dal trauma di un allontanamento forzato. Il nostro rap da mille euro come un giorno di galera di Luca Pakarov Il Manifesto, 12 maggio 2023 Intervista. Collettivo Exagora, l’Ep di Attitude Recordz, casa discografica che lavora con ragazze e ragazzi provenienti da situazioni di violenza e di disagio. La provocazione è palese, 1.000 euro per un Ep perché “ogni giorno in carcere un singolo detenuto costa più o meno la stessa cifra e questo ricade su tutta la società” - così da comunicato. È l’iniziativa di Attitude Recordz, etichetta discografica con vocazione sociale che pubblica Collettivo Exagora dell’omonimo collettivo con sede a Milano, Ep uscito a fine 2022 e da poco ampliato con nuove tracce. Un’etichetta discografica con uno scopo nobile verso le categorie più fragili che ha le sue radici nelle vicende personali dei tre fondatori, Matteo, Yassa e Bongi. Tre ragazzi con alle spalle un passato complicato, che vogliono incanalare le energie di chi non ha avuto altre possibilità che mettersi nei guai, permettendo loro di esprimersi col rap. Esordienti che hanno storie da raccontare, che hanno visto il carcere, le comunità penali o psichiatriche, ex tossicomani o provenienti da situazioni di disagio e violenza. In questo senso i dati nazionali (almeno relativi alla detenzione) sono drammatici, parlano di 70% di recidiva, mentre il costo giornaliero per un singolo detenuto è stimato in circa 137 euro (non mille, che certo è cifra tonda ma tradisce anche un lato del marketing e di promozione tipico del mercato del rap, che si muove con operazioni sensazionalistiche). Matteo dell’etichetta trae le sue conclusioni: “Solo il 2% dei fondi statali destinati al carcere vengono investiti in cultura, il resto viene quasi tutto sborsato in sicurezza, quindi in polizia, per un totale di circa 3,5miliardi l’anno di spesa. Sono soldi buttati, se si investisse in formazione o in attività capaci di individuare i talenti delle persone recluse, forse si creerebbero percorsi di rinascita e di sicurezza collettiva”. Attitude Recordz fa leva sul rap, il genere più in voga fra i più giovani, un linguaggio che facilmente può coinvolgere i ragazzi e le ragazze che hanno attraversato delle difficoltà: “Il rap è un genere diretto, si può essere espliciti, in un testo scritto su un pezzo di carta bastano due note ed è già un rap”. Forse una certa dose di sana ingenuità dei produttori viene compensata dalla loro grande volontà che permette ai ragazzi di avvicinarsi all’etichetta, e magari di registrare un disco: “Arrivano per passaparola, tramite Instagram o mail. Ognuno si crea la propria strada, i passaggi per raggiungere un obiettivo sono intimi, c’è chi si dichiara subito un artista e chi non riesce a reggere due settimane di concentrazione. Se un detenuto vuole venire a registrare basta che ci mandi una mail e tramite la cooperativa avviamo un dialogo con il carcere identificando i nostri interlocutori. La perseveranza fa la differenza”. È particolarmente interessante il discorso sull’immaginario del rapper ricco e famoso che esalta la malavita a confronto con le realtà che possono celarsi dietro a quell’immaginario: “Si capisce subito se uno ha vissuto certe cose o le scimmiotta, così come si capisce se le ha vissute fino in fondo, quanto cioè è grave la propria emarginazione. La malavita e il margine se vengono raccontati con lo stile di un cantastorie, come denuncia sociale, sono molto interessanti. Non ci incuriosisce chi si atteggia a criminale, ci interessa l’evoluzione umana e non l’affermazione di quel modello. Un discorso è l’arte, un altro è la vita, specialmente se attraverso l’arte riesci ad emanciparti”. Ora russi e ucraini contano le vittime di Domenico Quirico La Stampa, 12 maggio 2023 I morti sono esigenti. Non vogliono essere dimenticati, non possono essere dimenticati. I morti della guerra ancor di più. Si ha un bel dire che oggi la morte non è più la stessa cosa, che non è più visibile come un tempo tra noi. Che perfino la sua esistenza spirituale si è ampiamente cancellata. Insomma che non crediamo più alla morte. Poi scoppia la guerra, una guerra visibile, geograficamente prossima, che ci assomiglia in modo così orribile come quella in Ucraina e la morte di nuovo è. Semplicemente. È una storia sempre eguale: nelle opposte trincee si ammassano i naufraghi delle offensive e delle controffensive come quelli del mare e del deserto, i sepolti vivi dei bunker, i buoni e i cattivi, chi invade e chi si difende, rassegnati a caderci dentro, a questa inumazione in mezzo ai vortici delle bombe e del metallo. E noi, europei, atlantici, convinti di appartenere a una civiltà superiore a deprecare altezzosamente queste guerre che ci sembrano risse fra teppisti in un terreno smesso di periferia. Per infiniti mesi, da non belligeranti, abbiamo fatto finta di non contarli, gli uccisi, i mutilati, i fuori combattimento, come se le armi che forniamo fossero destinate a funzionare da sole, innescate dalla necessità della legittima difesa. Li abbiamo lasciati nella loro solitudine inenarrabile perché censurata, perduti nelle loro tane in mezzo a questi vasti spazi brulli e corrosi dove lo scorrere delle stagioni era solo un dettaglio tattico, un particolare dell’arte della guerra. E invece i morti erano lì, si accumulavano, morivano. Cerchiamo di renderli invisibili, di allontanarli, i morti, privandoli della loro irrimediabile fisicità, non li contiamo, non li mostriamo. Gli ucraini coprono con il segreto i loro. Mostrano i soldati russi uccisi; ma la morte la si fa scorrere come accade per un omicidio o un incidente, in un modo cinematografico, filmata con i telefonini, semplice immagine ripetibile all’infinito, quindi senza consistenza, solo virtuale. I russi invece mostravano, all’inizio della guerra, i morti civili ucraini, i vecchi e le donne gettate nei fossi: in fondo una reinvenzione della morte, perché quei cadaveri esibiti erano soprattutto un messaggio, una lezione, una grammatica della morte più sinistra della morte stessa perché usata come discorso pubblico e derubata della pietà. Così finora. Ma i giorni, i mesi di guerra si allungano e il mistero dei morti, il segreto del loro numero relegato alle poco credibili moltiplicazioni della opposta propaganda, silenziosamente cresce come un lievito mostruoso. E arriva un giorno in cui i vivi, la carne da cannone, i sacrificabili cominciano a scarseggiare. È allora che i morti impongono le loro ragioni, urlano che la loro non è la morte irrealizzata, che non sono un niente, che non sono cenere. È in fondo logico che sia stato per primo un imprenditore della morte, un capitalista della merce umana necessaria per far marciare la catena di montaggio della violenza, l’amministratore delegato della Wagner Prigozhin, a svelare con obitoriale crudezza i suoi morti. I cadaveri sì, allineati uno a fianco dell’altro, lividi, infangati, irrigiditi in pose da oranti, senza equipaggiamento come disertori, in un bosco in cui forse avevano pensato di trovare riparo, un bosco intatto con gli alberi e l’erba. Uomini della Wagner sbraitava Prigozhin, i suoi morti, vittime delle incapacità dello Stato maggiore, dei generali, forse di Putin stesso. Non ci ha lasciato neppure l’illusione del silenzio del nulla Prigozhin. La guerra li ha vinti quei russi, mercenari, per cui inferno e paradiso non saranno mai separati perché hanno fatto l’esperienza irrimediabile del nulla. Scelta sconcertante esibirli si è detto, come se le immagini di quel bosco avessero infranto il vetro dietro cui guardavamo la nostra placida guerra senza morti, asettica, fatta di matematica di munizioni esplose e fabbricate e di luccicanti saloni dove si esponevano e si provavano meravigliose armi. Una apparizione così brutale che per esorcizzarla si sono montate su quei morti acrobatiche teorie su complotti e ricatti al Cremlino. Ecco: ancora una volta i morti che sfumano, perdono il loro scandalo. Poi anche Zelensky e Putin hanno iniziato a fare cenno ai morti, a ammettere con cautela che sono tanti, troppi. Loro che fino ad oggi sembravano raccontare la loro guerra come se fosse una esplosione della natura, e le pallottole e le bombe uscissero dalle viscere della terra e sgorgassero in faccia a quegli uomini mandati nelle trincee a inseguire il fantasma della Vittoria. Nascondendo i morti, chiamandoli eroi, arruolabili perché il loro è ormai un mondo buio dove il sole si è spento, si possono rimestare impunemente veleni e attizzare tutti i fuochi dell’inferno. Si è dunque scavalcato il punto in cui i morti diventano testimoni irrecusabili. Sono prove mute, non si può opporre nulla alle bocche contratte nelle ultime suppliche della agonia, spalancate per sputar fuori l’anima come un grumo di sangue. Il momento in cui si cominciano a contare i morti e la trasformazione dell’assassino in eroe è smentita, travolta dai numeri, allora la possibilità di un processo che interrompa la carneficina è possibile. Non per il ravvedimento dei capi, né per i machiavellismi della diplomazia. Semmai per il furore dei combattenti dell’una e dell’altra parte che rifiutino di essere ancora strumenti dell’assassinio organizzato e si ribellino alla morte in nome dei morti. I morti ahimè! sono il migliore argomento della pace. Francia. Carceri sovraffollate come trappole per topi. Il j’accuse della garante: “Stato inerte e colpevole” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 maggio 2023 Violenze, insicurezza e degrado generale nel rapporto annuale sullo stato delle prigioni transalpine: sovraffollamento al 142%. La scorsa settimana Dominique Simonnot, garante francese delle persone private della libertà (Cglpl), era uscita indignata dalla visita al carcere di Bois-d’Arcy in Ille de France, una delle prigioni più affollate e fatiscenti del Paese, denunciando le condizioni di detenzione disumane e chiedendo di sospendere le carcerazioni all’interno della struttura: “È qualcosa di indegno, non esiste igiene, non esiste il diritto all’integrità fisica, non c’è sicurezza né organizzazione”. Proprio oggi la stessa Simmonot ha pubblicato il rapporto annuale sullo stato delle prigioni transalpine, circa duecento pagine dalle quali emerge una radiografia impietosa sulle condizioni di vita all’interno dei penitenziari che ha trasmesso al ministro di Giustizia Dupond Moretti. Il guardasigilli si è detto preoccupato della situazione promettendo interventi strutturali. Leggendo il rapporto sembra quasi di osservare di una nazione in via di sviluppo, a cominciare dalla popolazione carceraria che con oltre 73mila detenuti recensiti allo scorso 1 aprile ha raggiunto un nuovo record storico. Con poco più di 60mila posti letto disponibili il tasso di sovraffollamento in Francia è oggi del 142% uno dei più elevati dell’intera Unione europea. Ciò costringe i carcerati ad avere appena “un metro quadro di spazio vitale, ammassati in tre dentro celle di 8 metri quadri, oltre in 2000 sono costretti a dormire su materassi gettati per terra, assediati dalle pulci, dai pidocchi, da ratti e scarafaggi”. Simmonot non evita esempi specifici, additando ad esempio la prigione di Toulouse-Seysses, definita “una trappola per topi”; quello che doveva essere in teoria un carcere modello è diventato in pochi anni un inferno in terra: “All’interno regnano una violenza e una sporcizia spaventose, le toilette sono quasi tutte ostruite, un detenuto ha anche contratto la leptospirosi, una malattia trasmessa dall’urina dei ratti, ci sono alcune celle di sei metri quadri che ospitano tre detenuti”. Secondo la garante, che senza peli sulla lingua accusa lo stato francese di inerzia e colpevole passività, la costruzione di strutture più moderne e spaziose non è una misura sufficiente a contrastare il degrado, anche perché nei fatti si è rivelata una promessa illusoria: “Nel 2017 erano previsti 15mila nuovi posti letto, ma in sei anni ne hanno creati appena 2000”. Per questo è necessario agire in modo immediato sullo strumento giuridico: “Ci vuole un meccanismo che permetta ai detenuti che vanno verso il fine pena di beneficiare della libertà condizionata, ma è necessario modificare le leggi ma purtroppo non abbiamo avuto nessuna risposta positiva da parte delle autorità”. Infine Simmonot ha ringraziato i presidenti degli ordini degli avvocati che in virtù di una legge approvata nel 2022, oggi hanno il diritto di visitare le prigioni assieme ai parlamentari. Stati Uniti. Il Covid è finito: boom di migranti dal Messico di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 12 maggio 2023 Decade il “Titolo 42” applicato dall’ex presidente Trump per poter respingere i richiedenti asilo per il Covid. È scaduta formalmente alle 24 di ieri notte la norma che va sotto il nome di titolo 42 ovvero la controversa politica degli Stati Uniti nei confronti dei migranti che vogliono attraversare il confine provenienti dal Messico. Il Titolo 42 deriva da una legge sulla salute pubblica abbastanza misconosciuta che risale al 1944. È stata però riproposta però per la prima volta nel marzo 2020 dall’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump, sostenendo che era necessaria per arginare la diffusione di Covid-19. Fin da subito le organizzazioni che si battono per i diritti umani hanno sostenuto che si trattava di un pretesto per rendere impermeabili i confini e respingere i migranti. La norma infatti ha consentito di negare l’ingresso negli Usa e impedito ai rifugiati di poter chiedere protezione. Sono i dati a confermare che da quando è stata messa in atto per la prima volta, gli Stati Uniti hanno registrato oltre 2,8 milioni di espulsioni, dati del governo. Ciò include anche persone che potrebbero essere state allontanate più volte. Arrivato alla Casa Bianca Biden ha tentato di revocare il titolo 42 l’anno scorso, dopo che i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno dichiarato che tale politica non più necessario per rispondere alla pandemia. Tuttavia, gli stati a guida repubblicana hanno intentato una causa, è quindi seguita una lunga battaglia legale, ora tutto viene rimesso in gioco. A Washington ci si aspetta che il confine sia preso d’assalto, l’amministrazione democratica ha schierato truppe aggiuntive per porre un argine ai valichi di frontiera anche perché le pressioni dei repubblicani nelle ultime ore sono diventate molto forti e l’opinione pubblica non e insensibile a messaggi allarmisti. In realtà più di 10mila migranti e rifugiati sono già stati sorpresi a compiere attraversamenti irregolari tra lunedì e martedì scorsi. Gli agenti di frontiera di El Paso, hanno esortato le centinaia di persone (provenienti dall’America Latina oltre che da Cina, Russia e Turchia) ammassate per le strade della città ad arrendersi alle autorità. In Texas, lo stato maggiormente interessato, diverse città come Brownsville e Laredo hanno dichiarato lo stato di emergenza. Il governatore repubblicano Greg Abbott, acceso nemico delle politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Biden, ha dichiarato lunedì che avrebbe schierato una forza speciale di frontiera per coprire i punti caldi lungo il confine. Iniziativa che non ha fatto altro che aumentare la tensione gia al massimo. Una situazione i cui effetti si sono manifestati immediatamente anche nel versante messicano con lunghe file di persone in attesa a Tijuana, Ciudad Juarez e Metamoros. Dal punto di vista legale Biden ha messo in campo una strategia volta comunque a limitare gli ingressi scaduto il titolo 42. Alcuni provvedimenti sono volti a offrire percorsi legali verso gli Stati Uniti, ma altri contengono un approccio più punitivo e indeboliranno la capacità di richiedere asilo. La Casa Bianca ha recentemente annunciato che avrebbe istituito centri di elaborazione nei paesi dell’America Latina e mercoledì ha reso noti criteri stringenti che secondo avvocati e attivisti renderanno la maggior parte dei migranti e dei rifugiati che arrivano al confine con il Messico non idonei ad entrare negli Stati Uniti. Stati Uniti. Abu Zubaydah, prigioniero di Guantanamo che ha denunciato le torture con i disegni di Enrico Franceschini La Repubblica, 12 maggio 2023 Arrestato nel 2002 durante le indagini sull’attacco all’America dell’11 settembre 2001, è stato una “cavia per le tecniche di interrogatorio della Cia”. Il rapporto, pubblicato dal Guardian, è stato preparato dai suoi avvocati per sensibilizzare l’amministrazione Biden sul suo caso. Sbattuto contro un muro. Costretto a mangiare contro la sua volontà. Tenuto con la testa sott’acqua. Sottoposto a un vortice di gelo, fame e intenso rumore. Legato nudo a una sedia di fronte a una donna per umiliarlo. Minacciato di venire stuprato con un bastone. Minacciato di dissacrazione di una copia del Corano con i suoi stessi escrementi. Sono alcune delle tecniche di tortura ritratte in una serie di impressionanti disegni da Abu Zubaydah, un cittadino saudita catturato dalla Cia in Pakistan nel marzo 2002 durante le indagini sull’attacco all’America dell’11 settembre 2001 e da allora detenuto nel carcere Usa di Guantanamo. Le immagini, rese note per la prima volta, fanno parte di un rapporto preparato dai suoi avvocati per sensibilizzare l’amministrazione Biden al suo caso e cercare di ottenerne il rilascio. Abu Zubaydah ha 52 anni e da ventun anni è sotto custodia a Guantanamo senza essere mai stato incriminato. Secondo i suoi legali le autorità americane sono convinte che è innocente. Eppure, non è stato fissato alcun termine per la sua carcerazione o per un processo. Per questa ragione gli avvocati che lo rappresentano e le associazioni per la difesa dei diritti umani lo hanno soprannominato “the forever prisoner”, il prigioniero per sempre. I disegni ritraggono le torture da lui stesso subito, ma sono tipiche di tecniche di interrogatorio usate contro tutti i detenuti a Guantanamo e nelle altre prigioni segrete della Cia in Europa o in Medio Oriente, afferma il professor Mark Denbeauk, il legale che guida il suo collegio difensivo. Il Guardian ha messo ieri online il rapporto, intitolato “American torturers - Fbi and Cia abuses at Guantanamo” (I torturatori americani - gli abusi dell’Fbi e della Cia a Guantanamo), con l’avvertenza ai lettori che le immagini possono risultare scioccanti per la violenza che descrivono. Secondo gli avvocati le immagini sono così realistiche, che il team difensivo ha deciso di oscurare il volto di alcuni dei torturatori affinché non possano essere riconosciuti. Ogni disegno è annotato con spiegazioni scritte da Abu Zubaydah. “È il primo prigioniero ad avere subito torture ed è diventato una specie di cavia per le tecniche di interrogatorio della Cia”, sostiene il professor Denbeaux. È stato sottoposto a “waterboarding”, una tecnica simile all’annegamento, 83 volte, dice il suo avvocato. Sulla vicenda degli abusi e delle torture sofferti dai prigionieri nel programma di anti-terrorismo americano dal 2001 in poi è stata condotta un’inchiesta dal Senato di Washington, che nel 2013 ha completato un dossier di 6.700 pagine sull’argomento: ma il documento non è mai stato reso pubblico. Le sue conclusioni, tuttavia, sono note, scrive il Guardian: gli abusi non hanno fornito nuove informazioni all’intelligence Usa. La pubblicazione dei disegni arriva in un momento particolare per Abu Zubaydah. La settimana scorsa un’agenzia dell’Onu ha chiesto la sua immediata liberazione, definendo la sua lunghissima prigionia un crimine contro l’umanità. Gli avvocati affermano che la richiesta, insieme alle immagini delle violenze che ha subito, dà un barlume di speranza che il suo trattamento venga riesaminato dall’amministrazione americana. Stati Uniti. Giudice dichiara incostituzionali le leggi che vietano la vendita ai minori di 21 anni di Enrico Franceschini La Repubblica, 12 maggio 2023 La sentenza dalla Virginia, il giudice Robert Payne nel caso di quattro ragazzi che volevano acquistare una pistola. Un giudice della Virginia ha dichiarato incostituzionali le leggi federali che vietano la vendita di armi ai minori di 21 anni, affermando che chiunque abbia più di 18 anni deve poterlo fare. Robert Payne ha emesso la sentenza in un caso intentato da quattro ragazzi che avevano più di 18 anni ma meno di 21 quando volevano acquistare delle pistole. In base alla legge i genitori possono acquistare pistole per i figli oppure, questo è il dettaglio bizzarro, i minori di 21 anni possono acquistare un fucile. Il giudice ha citato una recente decisione della Corte Suprema che ha ampliato il diritto alle armi e il secondo emendamento. Nella sua sentenza di 71 pagine, Payne ha scritto che molti dei diritti e delle responsabilità della cittadinanza vengono concessi all’età di 18 anni, incluso il diritto di voto, arruolarsi nell’esercito senza il permesso dei genitori e far parte di una giuria federale. “Se la Corte dovesse escludere i giovani di età compresa tra 18 e 20 anni dalla protezione del Secondo Emendamento, imporrebbe limitazioni al Secondo Emendamento che non esistono con altre garanzie costituzionali”, ha scritto Payne. Il dipartimento di giustizia può ora impugnare la sentenza e il caso finirà con tutta probabilità davanti alla Corte Surpema. Everytown Law, un’organizzazione per la prevenzione della violenza delle armi, ha attaccato la sentenza del giudice. “Non solo sono la principale causa di morte dei bambini e degli adolescenti negli Usa ma i dati mostrano che i giovani di età compresa tra 18 e 20 anni commettono omicidi ad un tasso triplo rispetto agli over 21”. La sentenza arriva proprio dopo un’ondata di sparatorie di massa che ha attraversato gli Stati Uniti e provocato decine di morti.