In carcere e doppiamente “cattive”: le madri cui la destra vuole togliere i figli Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2023 L’appello della Società della Ragione per la Festa della mamma: visitare le detenute che hanno con sé i propri bambini. È stata da poco ripresentato un disegno di leggere che vorrebbe escluderle dalla patria potestà, perché colpevoli due volte: di aver infranto la legge e di aver tradito la propria “missione” genitoriale. “Madri Fuori: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”: questo il titolo dell’appello che invita a entrare in carcere in occasione del 14 maggio, Festa della Mamma, per portare la solidarietà alle donne detenute, alle donne madri in particolare. L’iniziativa è nata dalla proposta di togliere la responsabilità genitoriale (quella che i nostalgici reazionari continuano a chiamare la “patria potestà”) alle donne condannate con sentenza definitiva. L’idea non è nuova, era già contenuta nel disegno di legge a prima firma dell’allora senatore di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli (oggi viceministro), depositato nella scorsa legislatura e ripresentato in quella attuale. La gravità non è solo nella proposta, che si configura come un attacco ai diritti fondamentali delle persone detenute, delle donne in prima linea, guarda caso. È significativa anche l’occasione in cui l’idea è stata rilanciata: la discussione in sede di commissione parlamentare dell’annoso e dolente problema dei “bambini dietro le sbarre” che seguono le madri punite col carcere. Questione seria per un Paese civile, tanto di più se si considera che le donne sono in larghissima maggioranza condannate per reati minori, e dunque la detenzione in carcere potrebbe facilmente essere commutata in pene alternative sul territorio. Ciò che peraltro avviene in molti casi, ma non in tutti: sono le madri più povere - di relazioni, di mezzi, di domicilio stabile - ad avere necessità di portare con sé i bambini in prigione. Proprio quando in Parlamento si cercava di trovare una via per lasciarsi definitivamente alle spalle questa ingiustizia, gli esponenti della maggioranza hanno depositato emendamenti per rilanciare la campagna contro le “madri indegne”, le “madri degeneri”: perché rimangano in carcere, insieme ai loro figli. E se sono recidive o “pericolose”, che stiano in prigione senza figli. Con lo stigma e lo spettro della perdita della responsabilità genitoriale. Il rilancio ideologico della “cattiva madre” poggia sull’archetipo patriarcale della donna “doppiamente colpevole”: infrangendo la legge, queste donne hanno “tradito” la “natura femminile”, sono venute meno alla “missione” di madre. L’icona della “missione materna”, pilastro dell’assoggettamento storico femminile, è ormai stata smascherata dalle donne stesse e ha perciò poco corso nella società “fuori”. Ma “dentro” (le mura del carcere), il vento di libertà fatica a entrare. Le donne detenute convivono quotidianamente con la paura “che portino via i bambini”, sulla base del pregiudizio della “cattiva madre”. Ed è una delle “sofferenze aggiuntive” alla perdita della libertà più acute, come emerge dalle ricerche degli ultimi anni. Molte si ribellano, rivendicando con parole piene di dignità di essere madri “sufficientemente buone”, contro lo stereotipo del materno. Come si legge nel volume “La prigione delle donne”, 2020, Ediesse, p. 98: “Non ci reputano capaci di occuparci dei nostri figli solo perché abbiamo agito fuori dalla legge. Vogliono toglierci i figli che sono la nostra unica ragione di vita e l’unica speranza per un futuro diverso” (detenuta, Lecce); “L’ho cresciuta per otto anni, adesso cos’è? Improvvisamente sono diventata una madre incapace?” (detenuta, Firenze) Per rispondere a questo attacco alle donne, e all’idea di pena finalizzata al reinserimento sociale secondo Costituzione, le donne della Società della Ragione (un’associazione che si batte per i diritti e che da anni conduce ricerche e progetti sul carcere femminile) hanno promosso l’appello citato per dedicare alle donne detenute la Festa della Mamma, dando un nuovo significato, fuori dalla retorica, a questa giornata. All’appello hanno aderito in tante e tanti, insieme a molte associazioni (fra le tante, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Antigone, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza-CNCA, Altro Diritto, Sbarredizucchero). Sono previste iniziative per discutere della questione e più in generale della detenzione femminile; e si stanno preparando le delegazioni (di parlamentari, consigliere regionali, volontarie, attiviste femministe, garanti dei diritti delle persone private della libertà) per visitare le donne in carcere per la Festa della Mamma (a Bergamo, Torino, Milano, Firenze, Roma, Frosinone e altre città). Partecipiamo tutte e tutti a questa Festa della Mamma fuori dall’ordinario: perché sia un giorno dedicato alla libertà femminile, al sostegno ai diritti, alla responsabilità e alla solidarietà sociale: https://www.societadellaragione.it/campagne/carcere-campagne/affettivita/madri-fuori-dallo-stigma-e-dal-carcere-con-i-loro-bambini-e-bambine/ Carcere, presto sport per 10mila detenuti di Alessio Nisi vita.it, 11 maggio 2023 Il guardasigilli Nordio e il ministro per i Giovani, Abodi, a Rebibbia per presentare il piano con cui Sport & Salute porterà nei penitenziari nuove attività fisiche per i carcerati. Coinvolti anche campioni come il nuotatore Massimiliano Rosolino e lo spadaccino Aldo Montano, che dice: “Ci sto, anche per fare” “Noi atleti delle Fiamme Azzurre siamo la punta dell’iceberg dello sport professionistico. La cosa bella dello sport è però il suo essere di base, per tutti, e questo permette di creare buone pratiche di cultura e di abitudini soprattutto nei più giovani. Lo sport nelle carceri? Gli istituti penitenziari devono essere luoghi che devono riportare alla vita, recuperando la persona sul piano sociale e non. Lo sport può essere un mezzo utilissimo in questo senso”. Parola di Aldo Montano, campione italiano della scherma, specialista della sciabola, medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Atene 2004, tra i protagonisti questa mattina alla Casa circondariale femminile di Rebibbia “G. Stefanelli”, a Roma, alla presentazione di “Sport di tutti - Carceri” - da cui provengono le foto di questo servizio. Non l’unico testimonial, c’era per esempio anche il nuotare Massimiliano Rosolino per questo progetto sostenuto dal ministro per lo Sport e i Giovani per il tramite del dipartimento per lo Sport e da Sport e salute, che mira al potenziamento dell’attività sportiva negli istituti penitenziari, in collaborazione con il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, il dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità. “Sarò, come gli altri, a disposizione dell’iniziativa non solo per veicolarne il messaggio ma anche per fare” ha aggiunto lo schermidore. Il piano coinvolgerà 10 mila detenuti. Il 24 marzo si è chiusa la piattaforma di candidatura dei progetti e a manifestare il loro interesse sono state 116 associazioni e società sportive, che opereranno in 60 istituti penitenziari per adulti, in 13 per minori e in 25 comunità di accoglienza per minori. L’obiettivo è sviluppare interventi di preparazione fisica e sportiva e di formazione tecnica che coinvolgano detenuti anche minorenni, favorire il reinserimento lavorativo nel mondo dello sport degli ex-detenuti, attivare inoltre un piano di formazione nazionale sullo sport di base in carcere, destinato agli operatori sportivi e al personale delle amministrazioni penitenziarie per dare loro uno strumento, lo sport, in grado di migliorare la qualità e la serenità della gestione carceraria. “Lo sport, come il lavoro, necessita di spazi”, entra nel dettaglio il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, “e non tutte le carceri italiane ne hanno di idonei. La nostra idea è recuperare quelle strutture in grado di potenziare sia il lavoro che l’attività sportiva. Si tratta di strutture che in Italia esistono già e sono le caserme dismesse: hanno una struttura compatibile con il carcere e spazi aperti, adatti per tutte le attività (dal calcio all’atletica). Le ristrutturazioni del caso inoltre sono di modesta entità e poco dispendiose”. Tra le ipotesi del ministro anche la possibilità di “affidare le stesse caserme ai detenuti, contribuendo ad aumentare la risocializzazione e a diminuire i disagi e le pene di chi deve scontare una condanna”. Di “sport nelle carceri” come di “un veicolo di umanità e un modo per rieducare” parla il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi. “Lo sport sia una difesa immunitaria sociale” sottolinea, aprendo il tema anche a “quartieri, inclusioni, parchi e spazi civici” “Ci siamo posti un obiettivo ambizioso quando, nel febbraio 2021, abbiamo sottoscritto un protocollo d’intesa con il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”, dice Vito Cozzoli, presidente di Sport e Salute, “da allora sono cresciute le sinergie con il ministro per lo sport, il dipartimento per lo sport e il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Con queste azioni concrete, nei prossimi 24 mesi romperemo la routine e cambieremo le giornate a migliaia di detenuti”. Per Cozzoli “gli anni da scontare in carcere angosciano, ma sono i pomeriggi che non passano mai a dare un contributo negativo alla vita. Tutti i detenuti hanno diritto alla riabilitazione e all’interno di questo diritto c’è anche il diritto allo sport. Questa progettualità - aggiunge - si propone di far fare attività fisico-sportiva e fornire una formazione tecnica ai detenuti, oltre a dare una formazione specifica sullo sport di base in carcere anche agli operatori, e mira al loro reinserimento nel mondo lavorativo. I progetti all’interno delle carceri possono contribuire al bene comune. Su 189 istituti penitenziari, ben 172 ne hanno uno legato all’attività sportiva che già coinvolge 25 mila detenuti. Ma possiamo fare di più, le politiche pubbliche non si possono fermare davanti ai cancelli blindati”. A breve inizieranno i lavori istruttori della commissione di valutazione e a giugno 2023 cominceranno le attività formative per operatori e tecnici di associazioni che opereranno in carcere. “Entro la fine del 2023 emetteremo un altro avviso da 1 milione di euro per dotare gli istituti penitenziari di attrezzature per l’attività fisico-sportiva”. Sport in carcere, Nordio: “Insieme al lavoro, fondamentale per rieducare” di Antonella Barone gnewsonline.it, 11 maggio 2023 “Sport e lavoro sono fondamentali per l’obiettivo costituzionale della rieducazione. La pena non deve essere né crudele né priva dell’aspirazione a rieducare, stiamo lavorando per portare sempre più sport nelle carceri”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intervenendo questa mattina alla presentazione del progetto Sport di Tutti, nell’aula teatro del penitenziario di Roma Rebibbia “Germana Stefanini”. L’iniziativa rappresenta la parte destinata agli istituti del più ampio Piano sociale per lo sport, elaborato da Sport e salute Spa, grazie alle risorse fornite dal dipartimento per lo Sport. “Come il lavoro anche lo sport necessita di spazi idonei, non presenti in tutti gli istituti” ha proseguito Nordio. “Poiché è molto difficile creare nuove strutture carcerarie in Italia, la nostra idea sarebbe quella di recuperare quelle idonee sia a potenziare il lavoro, sia l’attività sportiva”. L’idea è sfruttare edifici già esistenti: “ci sono decine e decine di caserme dismesse, che hanno un’architettura compatibile, in linea teorica, con le carceri”, ha sostenuto il Guardasigilli. “Credo che lo sport possa dare quel contributo di umanità richiesto dalla nostra Costituzione” ha aggiunto il ministro dello Sport e i giovani, Andrea Abodi, che ha definito la pratica sportiva come “una difesa immunitaria per mitigare i mali sociali”. Gli interventi, moderati da due sportivi - l’ex nuotatore Massimiliano Rosolino e l’ex ginnasta Angelica Savrayuk - sono stati introdotti dal saluto della direttrice della casa circondariale, Nadia Fontana, che ha sottolineato come l’attività fisica, in quanto linguaggio universale, rappresenti in carcere “uno strumento fondamentale per far apprendere regole e rispetto dell’avversario”. Vito Cozzoli, presidente e amministratore delegato di Sport e salute Spa ha ricordato come il progetto sia nato da alcuni protocolli d’intesa con il Dap e descritto le varie fasi di realizzazione. “All’avviso pubblico hanno aderito 116 associazioni e società sportive da 19 Regioni diverse, che hanno proposto di realizzare attività in 60 istituti penitenziari per adulti, in 13 per minori e in 25 comunità di accoglienza per minori, con un coinvolgimento previsto di circa 10.000 detenuti”. Dati rilevanti che, ha sottolineato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, “danno l’idea concreta di un notevole progresso in questo campo e del grande interesse da parte di associazioni e di agenzie del terzo settore”. “Stiamo pensando di costituire un hub con Sport e salute per coordinare le tante attività, a volte anche frammentarie o spontaneistiche, esistenti in tutti i 190 istituti penitenziari” ha aggiunto il capo del Dap, che ha evidenziato come il progetto comprenda anche iniziative per tutto il personale penitenziario. Stando ai dati dell’ufficio statistiche del Dap, nel 2022 sono state 380 le iniziative sportive strutturate, organizzate negli istituti, che hanno coinvolto 11.014 detenuti, operatori di 123 associazioni e 35 volontari non appartenenti a istituzioni. Nel corso dell’evento, incontro con gli atleti del gruppo sportivo delle Fiamme Azzurre, Clemente Russo, Aldo Montano e Nunzio Mollo. Ci sono state esibizioni dei karateki Asia Agus e Carmine Luciano, mentre Daniele Pino e Alessandro Baciocchi si sono sfidati a ping pong, prova a cui non si sono sottratti i due Ministri presenti. Al termine, spazio per i due attori interpreti della fiction Rai “Mare Fuori”, Giovanna Sannino e Antonio d’Aquino. Presenti, tra il pubblico, le detenute della squadra di calcio a cinque “Atletico diritti”, prima formazione femminile in Europa nata all’interno di un carcere. L’arte del teatro per ripensare il carcere di Lorenzo Cipolla interris.it, 11 maggio 2023 L’intervista al responsabile area comunicazione dell’Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio (Acri) Giacomo Paiano sul progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Dalle lunghe attese nelle camere detentive alle assi del palcoscenico, dove il mondo “di dentro” e il mondo “di fuori” si incontrano, annullando la temporanea cesura che li separa per la durata della rappresentazione. Da un’esperienza la cui durata è scandita in termini di minuti può scaturire una consapevolezza che ci si porterà dentro per la vita: ogni persona può rigenerarsi e riscattarsi. Il teatro in carcere è una delle pratiche che si hanno a disposizione per applicare l’articolo 27 della Costituzione, nella parte dove recita che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Con l’arte si possono ripensare gli istituti penitenziari, dando alle persone private della libertà personale gli strumenti per un lavoro su di sé e sulla relazione con gli altri e per acquisire competenze lavorative nei mestieri del teatro. Questi sono gli obiettivi del progetto Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, nato nel 2018 su iniziativa dell’Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio (Acri). Questa esperienza, che ad oggi vede una rete nazionale formata da una decina di compagnie teatrali tenere laboratori dall’autunno alla primavera in 15 tra case di reclusione, carceri e due istituti minorili, e dal 2018 in avanti ha coinvolto un migliaio di detenuti, è stata riconosciuta anche dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che nel 2021 ha sottoscritto con Acri un protocollo d’intesa. Obiettivi culturali e reinserimento - L’idea è stata generata dal lavoro che da più di trent’anni compie una delle principali figure del teatro di ricerca italiano, il regista e drammaturgo Armando Punzo, fondatore nel 1988 della Compagnia della Fortezza, la prima nata all’interno di un carcere, quello di Volterra, in provincia di Pisa. Tra i soggetti che la sostengono, anche la Fondazione Cassa di risparmio di Volterra che alcuni fa, spiega a Interris.it il responsabile area comunicazione di Acri Giacomo Paiano, ha coinvolto alcune delle altre associate ad assistere a uno spettacolo nella casa di reclusione del comune toscano. “L’esperienza ha convinto i presenti, i quali hanno deciso di proporre un’iniziativa a carattere culturale simile adottando la ‘formula’ di Punzo e di estenderla ad altre città italiane”, racconta Paiano, “così è nato il progetto Per Aspera ad Astra, in seno alla Commissione per le Attività e i beni culturali dell’associazione, con obiettivi, appunto, culturali, che hanno anche ricadute positive in termini di reinserimento, sociale e lavorativo, delle persone detenute”. Attori e maestranze - Il carcere come luogo che si ripensa: l’istituzione cui spetta regolamentare la vita delle persone che ha in custodia deve essere capace di adattarsi alla flessibilità propria dell’arte. Il teatro vi entra quando una delle fondazioni bancarie associate di Acri individua una compagnia locale, che abbia già avuto esperienza di laboratori teatrali del genere o meno, fa una valutazione insieme a quella della Fortezza e in seguito si mette in contatto con il penitenziario del territorio per far partire il progetto. “Le compagnie si riuniscono a Volterra per un periodo di formazione e di condivisione di esperienze, poi da ottobre tengono i laboratori e tra aprile e maggio portano in scena gli spettacoli, che aperti alla cittadinanza”, continua Paiano. Dall’autunno alla primavera si svolgono laboratori che non si limitano a insegnare alle persone prive della libertà personale come recitare una battuta e come muoversi sul palco, ma comprendono la formazione delle maestranze. “Il progetto riguarda tutti: ci sono detenuti che fanno gli attori, altri lavorano sul testo in veste di drammaturghi - a meno che non ce ne sia già uno - altri ancora si occupano di realizzare i costumi, oltre a coloro che ‘diventano’ addetti alle luci”, illustra il responsabile area comunicazione di Acri. Per Aspera ad Astra punta a fornire esperienze professionalizzanti, anche con tirocini al di fuori del carcere, per cercare di assolvere in pieno alla funzione di reinserimento di queste persone. L’incontro - Le rappresentazioni si svolgono sia all’interno degli istituti che in teatri all’esterno. Nel secondo caso, le persone detenute tornano temporaneamente “fuori”, mentre nel primo sono gli altri a entrare dentro il carcere. “L’incontro fra i due mondi consente di capire che la cesura che li separa è provvisoria, temporanea”, argomenta Paiano, “anche grazie al fatto che ci sono compagnie in cui attori, reclusi e non, si mescolano”. “Il pubblico si trova, per un’ora o un’ora e mezza, a fare i conti con una realtà in cui, quando si è coinvolti dalla storia che viene rappresentata in scena, non ci si ferma a pensare al vissuto di quelle persone detenute”, conclude. La separazione delle carriere sacrificata sull’altare del presidenzialismo di Valentina Stella Il Dubbio, 11 maggio 2023 Azione teme che l’esecutivo abbia deciso di affossare la riforma annunciata da Nordio. “Così si aprono troppi ambiti”. Avrebbe risposto così la premier Giorgia Meloni sollecitata dal leader di Azione Carlo Calenda sul tema della separazione delle carriere durante l’incontro di due giorni fa, organizzato per discutere di riforme istituzionali. Il segnale che la giustizia fosse fuori dalla partita delle riforme si era capito già dalla nota di Palazzo Chigi di convocazione dei Ministri chiamati per il confronto coi partiti, dalla quale mancava il guardasigilli Carlo Nordio. Eppure anche la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti andrebbe a smuovere gli equilibri della Costituzione. A ciò si aggiunge il fatto che in teoria le condizioni politiche, a differenza di quanto accadde nella scorsa legislatura, per procedere ad una riforma così importante come questa ci sono tutte. E invece la presidente del Consiglio non vuole mettere troppa carne al fuoco e preferisce strategicamente togliere dal tavolo un tema molto divisivo. Anche se era stata proprio lei a fine 2022 a rilanciare la questione nella conferenza stampa coi giornalisti; arrivò a sostenere che l’obiettivo sarebbe stato raggiunto addirittura nel giro di mesi. Ma ormai abbiamo imparato a capire che in pochi mesi può cambiare tutto. In realtà ufficialmente ci sono due strade da poter percorrere per arrivare a meta: quella parlamentare e quella governativa. La prima è quella della discussione di quattro proposte di legge (Azione, Lega, Forza Italia, Italia Viva) incardinate in commissione Affari costituzionali della Camera, tre delle quali ricalcano il testo della proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione camere penali. Fonti parlamentari sostengono che Nazario Pagano, deputato di Forza Italia e presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, non sappia come gestire il dossier, che stia subendo pressioni per non mandare avanti i lavori. Ma con noi il diretto interessato smentisce: “Abbiamo fatto già delle audizioni. Poi abbiamo sospeso per dare priorità a questioni più urgenti ma contiamo di riprendere entro giugno la discussione. Smentisco categoricamente di subire pressioni sia per portare avanti i lavori sia per frenarli. Andremo avanti con l’istruttoria. Certo poi se ci sarà il voto, questa è un’altra questione”. L’altra strada da percorrere è quella annunciata dal vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto all’assemblea dell’Unione camere penali qualche settimana fa: “Ho parlato con il ministro Nordio e posso dirvi che il ministero presenterà un disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere nella seconda parte del 2023, probabilmente dopo l’estate”. Ma trattandosi un ddl di natura costituzionale avrebbe bisogno del voto favorevole dei due terzi del Parlamento: risultato difficile da ottenere. Seguirebbe poi il referendum. Insomma una strada tortuosa che porta l’onorevole Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, a esprimere un forte pessimismo: “Il governo, per accelerare il presidenzialismo, accantona la separazione delle carriere. Non ne parla più, non avanza una proposta, rallenta i lavori della commissione Affari costituzionali. Inoltre Fratelli d’Italia non propone come gli altri partiti di maggioranza e come il Terzo Polo una proposta di legge ad hoc. Da via Arenula poi i magistrati distaccati fanno trapelare che si troverà il modo per annacquare in qualsiasi modo la riforma. È bene che l’Unione delle camere penali ne sia consapevole, perché c’è una grande volontà di sabotare il progetto. L’idea di annunciare il ddl dopo l’estate rappresenta solo una tecnica dilatoria per fermare i lavori parlamentari”. In pratica: non perdete tempo voi alla Camera che poi ci pensa il ministro. Ma in verità non sarà così. “Insomma - conclude Costa questa riforma nessuno la vuole tranne noi e i penalisti, perché troppo invisa alla magistratura e troppo divisiva tra le stesse forze politiche che sorreggono il governo. Qualcuno abbia il coraggio di dirlo”. Bongiorno sferza i pm: “Le leggi ci sono, ma vanno applicate. Basta interventi in ritardo” di Viviana Ponchia Il Giorno, 11 maggio 2023 La senatrice e avvocato sul Codice rosso: aiuto immediato alle donne “Se un magistrato non ascolta la vittima in 3 giorni, il caso gli viene tolto. Se una denuncia resta sulla scrivania è tradimento allo Stato. Il violento? Mai perdonarlo”. Le leggi ci sono. Il Codice Rosso ha introdotto nuovi reati, aumentato le pene, rafforzato le tutele processuali delle vittime. Ed è in dirittura d’arrivo quello rinforzato, che dovrebbe garantire maggiore velocità alle indagini e più tutela alle donne precipitate nell’incubo dei maltrattamenti in famiglia, dello stalking e dell’abuso. Un altro passo avanti fortemente voluto dall’avvocato Giulia Bongiorno, senatrice leghista che ha spinto il disegno di legge che porta il suo nome. Eppure le violenze sessuali crescono. Cosa non ha funzionato, avvocato Bongiorno? “Voglio spiegarlo così. Se dico a mio figlio di tornare a casa alle sette, devono essere le sette e non le undici. Se la legge dice che una vittima di violenza dev’essere ascoltata dal pm entro 3 giorni, non possono passare settimane. A volte i ritardi sono fatali perché in poco tempo si passa dallo schiaffo all’omicidio. Se una donna dice di essere in pericolo e sente che il pericolo è imminente, va aiutata subito”. E quindi si tratta della proverbiale sciatteria italiana di non applicare la legge? “Non parlerei di sciatteria, ma è vero che una norma per avere senso e dare risultati deve poter contare su gambe, braccia e cervelli. Tre giorni sono pochi? I pm non ce la fanno? Di certo servono più magistrati, ma anche una migliore organizzazione. Ecco perché vogliamo coinvolgere anche il Procuratore capo. Ma bisogna fare in fretta. Perché là fuori c’è una donna che rischia la vita e qualsiasi ritardo, qualsiasi inerzia possono essere decisivi. Detto questo, non basta una legge per risolvere il problema”. Se lo dice lei, poveri noi... “La violenza non scomparirà mai, su questo non facciamoci illusioni. Ma è fondamentale che emerga e che sia arginata da provvedimenti tempestivi. Dal piccolo osservatorio della nostra Fondazione (la onlus Doppia Difesa costituita nel 2007 con Michelle Hunziker, ndr) abbiamo potuto verificare che adesso si denuncia di più. Ma c’è molta strada da fare: per denunciare serve coraggio e non tutte lo trovano”. E anche chi quel coraggio lo trova in quei famosi tre giorni, rischia di restare da sola... “Una denuncia di violenza che giace tanto tempo sulle scrivanie è un tradimento dello Stato. Da avvocato, purtroppo ho imparato a conoscere bene l’escalation dallo schiaffo all’omicidio. È necessario ascoltare per comprendere la gravità del pericolo e le misure di tutela più adeguate. Il Codice Rosso rafforzato va in questa direzione: se il pm non convoca chi denuncia la violenza entro tre giorni, il caso passa al capo della Procura. Lo Stato non può abbandonare nessuno dopo essere stato chiamato in causa”. Il rafforzamento del Codice Rosso è stato criticato da sinistra... “Nessuno ha votato contro. L’astensione del Pd è chiaramente politica. Mi hanno molto stupita le considerazioni della senatrice Valeria Valente, che non trovando argomenti lamenta che c’è altro da fare. Certo che è così, e la Commissione che presiedo sta ancora lavorando sul tema. Ma questa legge aiuta a velocizzare i tempi di intervento a favore delle donne. Comunque è chiaro che serve anche specializzazione. Cosa serve per preparare meglio chi affronta questi casi? “Servirebbero pool di esperti. Già nel 2018 avevo previsto corsi di formazione per chi deve misurarsi con questo fenomeno. Ci sono eccellenze, ma la preparazione in Italia è a macchia di leopardo. Bisogna lavorare per fare in modo che chiunque si trova ad ascoltare una vittima di violenza riesca ad affrontare la complessità di questi casi: le donne sono ferite , impaurite, e spesso provano grande vergogna”. È difficile denunciare qualcuno a cui si è voluto e si vuole ancora bene? “Sì, ma perdonare il violento è un errore. Nella mia esperienza difficilmente la violenza si ferma da sola. So bene che è difficile denunciare e che se la donna non ha una indipendenza economica lo è ancora di più. Le case rifugio sono una soluzione validissima però solo temporanea. Bisogna rifondare un’identità e un’indipendenza. Su questo fronte c’è tanto da fare: ad esempio con corsi di formazione alle vittime si potrebbero aiutare le donne a trovare un lavoro. Non è facile”. Perché occorre depenalizzare l’errore medico. Parla Magi (Omceo Roma) di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 maggio 2023 “Il 90 per cento delle cause intentate contro i medici sul piano penale si conclude con un’assoluzione”, sottolinea Antonio Magi, presidente dell’Ordine dei medici romani, appoggiando la proposta di depenalizzazione avanzata dal ministro Schillaci. “Il 90 per cento delle cause intentate contro i medici sul piano penale e il 60 per cento su quello civile si concludono con l’archiviazione o con l’assoluzione. Questa montagna di controversie giudiziarie ha però un impatto pesantissimo sulla serenità dei medici, per questo siamo d’accordo sulla proposta di depenalizzare la responsabilità medica, tranne ovviamente che nei casi di dolo e colpa grave”. Lo dichiara al Foglio Antonio Magi, presidente dell’Ordine dei medici di Roma (Omceo Roma), commentando l’ipotesi di una depenalizzazione degli errori medici avanzata dal ministro della Salute Orazio Schillaci. L’ondata di cause penali e civili, spiega Magi, “è il motivo principale per il quale ogni mese dieci colleghi abbandonano il servizio sanitario nazionale, soprattutto determinati reparti dove c’è un altissimo rischio di contenzioso, come pronto soccorso, attività chirurgica, ortopedia, radiologia”. “Insomma - aggiunge Magi - i medici non vivono soltanto una situazione di stress psicologico causato dal periodo dell’emergenza Covid, ma anche la preoccupazione legata al rischio di incappare in contenziosi”. Questa situazione sta addirittura già producendo effetti sugli orientamenti dei medici emergenti: “Nelle scuole di specializzazione - evidenzia il presidente dei medici romani - negli ultimi anni si è registrato un forte aumento delle branche cliniche rispetto a quelle chirurgiche, perché ovviamente in ambito ambulatoriale il rischio di contenzioso diventa molto meno probabile rispetto all’ambito chirurgico e di pronto soccorso”. “Ciò di cui sono molto preoccupato, e non riesco a comprendere come mai non si stiano prendendo iniziative importanti - prosegue Magi - è la situazione vissuta dai pronto soccorso: tra poco ci sarà il rischio concreto di recarsi in pronto soccorso e di trovarlo chiuso per mancanza di personale”. Con un risvolto ancora più paradossale: “Ormai il mercato dei pronto soccorso lo fanno i medici a gettone. Quando si vede che un medico strutturato viene pagato 40 euro l’ora, mentre i medici a gettone ricevono, sempre dallo stato, dai 110 ai 150 euro l’ora, diventa chiaro che qualche problema c’è”. La cosa curiosa, insomma, “è che lo stato oggi ha un tetto per il personale medico che non supera i 40 euro l’ora, ma in beni e servizi può spendere fino a 150 euro l’ora, pagando magari lo stesso professionista che si è dimesso e si è messo a lavorare come gettonista”. In tutto ciò non bisogna poi dimenticare il capitolo della cosiddetta “medicina difensiva”, quella che spinge il medico a scegliere la via più prudente (ma anche più dispendiosa per le casse pubbliche), cioè a prescrivere in modo eccessivo esami o prestazioni sanitarie proprio per il timore di incorrere in contenziosi legali. “La commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari nel 2013 aveva calcolato che la spesa pubblica dovuta alla medicina difensiva ammontava a dieci miliardi di euro l’anno. Inutile dire che da allora la somma è fortemente aumentata”, afferma Magi: “E’ chiaro - aggiunge - che se questa spesa non ci fosse avremmo la possibilità economica di usare oltre dieci miliardi in più per retribuire meglio i medici e per curare meglio i pazienti, e non per difenderci da possibili iniziative giudiziarie”. Lo scorso 15 aprile il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha istituito una commissione ministeriale per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica, presieduta dal magistrato Adelchi d’Ippolito e composta da giuristi e specialisti in ambito medico. In quell’occasione, Nordio aveva sottolineato la difficoltà, se non l’impossibilità, di depenalizzare il reato di colpa medica. Una presa di posizione condivisa da D’Ippolito. Resta però il fatto, come ricorda Antonio Magi, che “l’Italia è l’unico paese europeo, insieme alla Polonia, a prevedere sanzioni penali per gli errori medici”. Per l’Italia è forse giunto il momento di adattarsi al modello europeo. E Scalfaro disse: “Dietro la morte di Moro ci sono menti raffinatissime” di Francesco Damato Il Dubbio, 11 maggio 2023 Con quella gigantografia di Aldo Moro che lo sovrastava mentre parlava ai familiari delle vittime del terrorismo, peraltro reduce dall’omaggio in via Caetani alla sua memoria nel 45esimo anniversario della morte e del ritrovamento del suo cadavere a metà strada fra le sedi nazionali della sua Dc e del Pci ch’egli aveva portato due mesi prima nella maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”; con quella gigantografia alle spalle, dicevo, era naturale pensare che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si riferisse anche o particolarmente alla tragica vicenda dello statista democristiano parlando dei “complici” impuniti del terrorismo. Che tanto sangue riuscì a versare negli anni di piombo fra stragi, agguati personali e feroci esecuzioni. Tale fu quella appunto di Moro, ucciso 55 giorni dopo il sequestro, e lo sterminio della scorta, con raffiche attorno al cuore studiate, come ha potuto accertare l’ultima commissione parlamentare d’indagine presieduta da Giuseppe Fioroni, perché l’agonia fosse la più lunga e dolorosa possibile. “Frase choc a 45 anni dalla morte- Mattarella su Moro: “Complici nello Stato”, ha titolato Libero in prima pagina su un articolo in cui Filippo Facci, con l’aria di risparmiare al presidente della Repubblica l’invito a riferire in Parlamento su ciò che sa e non ha voluto o potuto riferire dettagliatamente, ha scritto che ora si potrà affermare che gli uomini dello Stato hanno ammazzato i cittadini dello Stato perché “lo sanno tutti e l’ha detto pure Mattarella”. Si tratta naturalmente di un paradosso, come capita spesso a Facci di scriverne e dirne facendo storcere il naso anche al direttore di turno, che però glielo concede sapendo che il lettore può gradire. Eppure sotto sotto, lasciatomelo dire senza volere togliere nulla a nessuna di tutte le altre vittime del terrorismo e dei suoi complici occulti che Mattarella ha diligentemente citato nel suo intervento al Quirinale, anch’io ho avuto la sensazione che egli avesse pensato in particolare a Moro. Cui - è bene ricordare anche questo sul piano umano- la sua famiglia era particolarmente legata. Il padre, Bernardo, ne era stato un ministro molto apprezzato e devoto, a tal punto da accettare senza fiatare il sacrificio chiestogli di rinunciare alla conferma, fra un governo e l’altro dei suoi, quando per ragioni interne di partito Moro dovette accontentare gli appetiti correntizi aumentati, quasi per compensazione, con la crescita politica della sua leadership. Anche il fratello di Sergio Mattarella, Piersanti, fatto uccidere dalla mafia nel 1980 alla guida della regione siciliana, era stato convinto e apprezzato moroteo. Già un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, parlò una volta del tragico sequestro di Moro e del suo altrettanto tragico epilogo come di una vicenda tessuta da raffinatissime menti: espressone, questa, adoperata anche da Giovani Falcone nel 1989 commentando l’attentato sventato contro di lui, e i colleghi e ospiti svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, nella residenza estiva affittata all’Addatura. Come si fa, Dio mio, a dubitare ancora, e tanto meno a lamentare la genericità dei richiami di Mattarella ai complici, che i terroristi avessero potuto disporre di aiuti esterni alla loro organizzazione sanguinaria - e che aiuti- nella preparazione del sequestro Moro e nella sua lunga gestione, protrattasi per quasi due mesi in una città come Roma? Una città grande di certo, ma non abbastanza, diciamo la verità, per spiegare la mancata scoperta del covo in cui era stato rinchiuso l’ex presidente del Consiglio, o della sua scoperta - peggio ancora- ma della mancata decisione di assaltarla, anche a costo della morte dell’ostaggio temuta umanamente dalla famiglia. Che aveva preteso dal primo momento una liberazione sicura e negoziata, rompendo praticamente col partito e col governo, al cui ministro dell’Interno Francesco Cossiga, salito a quel posto proprio per Moro, venne la ciclotimia per i sospetti, le accuse e quant’altro di non avere fatto abbastanza sia per prevenire il sequestro con una più accurata protezione sia poi per salvare la vita all’ostaggio. Conosco e appezzo da tempo il magistrato Guido Salvini, espertissimo di terrorismo e consulente, non a caso, dell’ultima commissione parlamentare d’indagine già citata. Non più tardi dell’altro ieri, intervistato dal Quotidiano Nazionale che raggruppa Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, egli ha così concluso le sue riflessioni sul sequestro Moro e sul suo epilogo. “Molto probabilmente le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, dopo che le brigate rosse annunciarono la piena collaborazione di Moro al suo interrogatorio potevano temere che avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Moro era politicamente morto. Più ancora che morto, era divenuto ingombrante. Poteva essere lasciato morire”. Calabria. Sanità nelle carceri, Muglia: “Gravi criticità, in molti casi detenuti restano privi di cure” reggiotoday.it, 11 maggio 2023 Il Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale Luca Muglia, nelle scorse ore, ha incontrato il dirigente generale del dipartimento di Tutela della salute della regione Iole Fantozzi ed il dirigente di settore del dipartimento nonché responsabile del Tavolo sulla sanità penitenziaria Maria Pompea Bernardi. Nel corso dell’incontro, tenutosi alla Cittadella regionale, il garante ha espresso le sue preoccupazioni circa le condizioni sanitarie dei detenuti ristretti nelle carceri calabresi, sia sotto il profilo delle carenze di personale medico e specialistico riguardanti gli istituti, che in relazione all’operatività dei reparti psichiatrici presenti nelle Case circondariali di Catanzaro e Reggio Calabria. “Pur apprezzando indubbi miglioramenti riscontrati negli ultimi mesi e la volontà del dipartimento regionale di tutela della salute di mettere mano al sistema della sanità penitenziaria - sottolinea il garante - occorre prendere atto, tuttavia, che persistono gravi criticità che si riflettono pesantemente sulle condizioni dei detenuti i quali, in molti casi, restano del tutto privi di cure”. Per il garante Muglia: “Quanto alle patologie psichiatriche, in assenza di medici specialisti si ricorre spesso all’isolamento prolungato dei detenuti e, in alcuni casi, al trattamento sanitario obbligatorio. Prassi e fenomeni inquietanti ed inaccettabili. Si aggiungano le difficoltà di gestione e sicurezza che incontra la polizia penitenziaria a causa delle emergenze ormai quotidiane determinate da tali problematiche”. “Ho l’impressione - conclude il garante - che a proposito delle questioni sollevate siano ancora pochi i commissari straordinari delle Asp territorialmente competenti ad aver compreso appieno la gravità della situazione e la portata della crisi sanitaria che affligge le carceri calabresi”. All’esito dell’incontro, è scritto in una nota, “le dirigenti regionali Fantozzi e Bernardi hanno rassicurato il garante circa le azioni future, preannunciando l’attivazione a breve di un piano di intervento e di un progetto specifico, già preordinato, riguardante la sanità penitenziaria, oltre che una più incisiva ed efficace sensibilizzazione dei commissari straordinari”. In questi giorni, prosegue la nota, l’attenzione del garante regionale è stata richiamata, altresì, da una segnalazione urgente proveniente dal direttore della Casa circondariale di Vibo Valentia Angela Marcello, e dalla petizione di un gruppo di detenuti in ordine al concreto rischio di contrazione dell’offerta didattica, a danno di coloro i quali frequentano la sezione carceraria dell’Ite Galilei di Vibo Valentia, consistente nella perdita di due classi scolastiche. In una nota indirizzata all’Ufficio scolastico provinciale e regionale, alle autorità istituzionali e giudiziarie, il garante, è scritto nel comunicato, “ha evidenziato come per i detenuti che ne hanno fatto richiesta le due classi rappresentino una irrinunciabile occasione di formazione ed istruzione, evidenziando che in ragione della distinzione tra i reparti dell’istituto (alta sicurezza, media sicurezza, sex offender) il taglio delle classi si tradurrebbe nella privazione totale dell’offerta scolastica per alcune tipologie di detenuti, nella specie quelli del circuito media sicurezza”. Augusta (Sr). Sciopero della fame: due detenuti morti nell’ultimo mese di Gianni Catania siracusaoggi.it, 11 maggio 2023 Due detenuti nel carcere di Augusta son morti, a distanza di un mese uno dall’altro, in seguito alla scelta di operare lo sciopero da fame. Il primo era di origini siciliane ed era stato ricoverato d’urgenza in ospedale. Nei giorni scorsi, stessa sorte è toccata ad un detenuto russo che avrebbe voluto essere estradato nel suo Paese, secondo alcune fonti, e per questo avrebbe dato vita alla forma di protesta personale che li avrebbe indebolito sino al decesso. Sulle due vicende sono in corso indagini, anche sulle condizioni cliniche dei due. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Spariti i referti dei detenuti picchiati nel giorno della “mattanza” di Raffaele Sardo La Repubblica, 11 maggio 2023 Parla un teste dei carabinieri: in infermeria solo i documenti medici degli agenti, non dei reclusi. La rivelazione arriva proprio durante le battute finali dell’udienza. I referti dei detenuti picchiati sono spariti. I carabinieri non li hanno trovati. Ed è un giallo, l’ennesimo, in una vicenda terribile e non ancora del tutto chiarita: il pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ieri in udienza i primi video di quella che è stata definita una vera e propria “mattanza”. Scene rabbrividenti. Ma è soltanto quando il magistrato che rappresenta la pubblica accusa pone una domanda specifica che viene fuori il nuovo caso. A un certo punto dalle immagini si vede un recluso che viene portato a braccio da due compagni, probabilmente verso l’infermeria. Chiaramente vittima di un pestaggio. “Avete sequestrato i referti medici per i detenuti feriti e portato in infermeria?”, chiede il pubblico ministero Pannone al brigadiere del carabiniere Medici. “Non li abbiamo trovati”, è la risposta che gela l’aula, del sottufficiale dell’Arma. Il presidente del collegio della Corte di assise, Roberto Donatiello, interviene, vuole approfondire, sembra sorpreso. “Mi faccia capire - dice il presidente del collegio di Corte d’Assise Roberto Donatiello - non c’erano i referti medici dei detenuti assistiti il 6 aprile?”. È il giorno della “mattanza”. Come è possibile che quelle carte non ci siano più? “Abbiamo trovato quelli degli agenti, non quelli dei detenuti” ripete il brigadiere dei carabinieri Medici, che dopo i fatti del 6 aprile 2020 - interrogò i detenuti e si occupò del riconoscimento degli agenti intervenuti. Un altro buco nero nella ricostruzione di quelle ore drammatiche. Vedremo se nel corso del processo verrà chiarito. Ieri, dunque, sono stati visionati i filmati della perquisizione straordinaria e dei pestaggi dei detenuti nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Sotto processo, va ricordato, ci sono 105 tra agenti penitenziari, funzionari del Dap e medici dell’Asl. Sono documenti fondamentali per l’accusa, la prova delle violenze di cui rimasero vittime oltre 200 detenuti del reparto “Nilo”. Sinora è stata mostrata solo la prima parte di una clip di tre ore e mezza (il resto sarà fatto vedere nell’udienza del 17 maggio), mentre tutto il girato nel giorno 6 aprile 2020 dalle telecamere presenti ai tre piani dei Nilo - al quarto gli occhi elettronici non funzionavano - ammonta a 70 ore totali. A descrivere le scene il brigadiere dei carabinieri Medici. “La perquisizione parte nelle sezioni tre e cinque del reparto, ed inizialmente - spiega il sottufficiale - partecipano solo agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, quasi tutti con mascherina ma senza casco, quindi facilmente riconoscibili dai detenuti”. Poco dopo arrivano anche i poliziotti penitenziari del Nucleo Pronto Intervento provenienti dalle carceri di Secondigliano e Avellino, considerati dagli inquirenti i più violenti durante la perquisizione come emerso da indagini e video, in quanto muniti di caschi e mascherine, tanto che in molti non sono stati ancora identificati. A comandare il Nucleo era Pasquale Colucci, che nelle immagini viene ripreso mentre è al centro del corridoio della quinta sezione e controlla le operazioni. “In totale per ogni sezione c’erano una cinquantina di agenti”. La perquisizione straordinaria parte alle 16.06 del 6 aprile quando i poliziotti entrano alla quinta sezione ed iniziano a prelevare i reclusi dalle celle. Già ai primi detenuti - si vede dalle immagini - vengono dati gli schiaffi. Alcuni vengono portati verso la zona passeggio, altri verso l’area socialità; si tratta di quasi 250 metri di distanza dalle celle, duranti i quali, per la procura di Santa Maria Capua Vetere (Alessandro Milita, Daniela Pannone e Alessandra Pinto), i detenuti sarebbero stati picchiati quasi ininterrottamente; qualcuno sarebbe stato addirittura picchiato per quasi 500 metri, cioè anche sulla via del ritorno verso le celle. Torino. I nuovi pusher sono bimbi, arruolati dalle reti di spacciatori di Irene Famà La Stampa, 11 maggio 2023 Il più piccolo fermato ha solo 11 anni: sognano scarpe griffate e cellulari. Un educatore: non sono imputabili e restano liberi, difficile il recupero. I nuovi corrieri della droga sono bambini, qualcuno ha compiuto da poco undici anni. Semplici da arruolare, con promesse di un guadagno facile, vestiti firmati, scarpe da ginnastica appena arrivate sul mercato, smartphone di ultima generazione. Facili da manipolare, da comandare, da istruire. E perfetti per sfuggire alle maglie della giustizia: sotto i quattordici anni, infatti, non sono imputabili. Ovvero, non possono essere considerati responsabili di nulla. Chi li coordina lo sa bene, le truppe da strada le sceglie con cura. E le schiera nelle zone di spaccio di Torino: a Mirafiori sud, periferia popolare, operaia e nelle periferie melting pot come Aurora e a Barriera di Milano, nelle aree della movida e nelle stazioni. Il mercato della droga è in continuo movimento: lotta per i territori, invasione di spazi. E l’altra notte, proprio a Mirafiori, nei giardinetti all’angolo tra via Duino e corso Caio Plinio è scoppiata una violenta rissa. Una cinquantina di persone si sono affrontate in strada con spranghe e bottiglie: spacciatori da un lato, frequentatori del parco dall’altro. Che quei baby pusher li vogliono cacciare dalla zona. Giovanissimi fattorini dello stupefacente si ritrovano lì, sulle gradinate che sovrastano la ferrovia. Nascondono dosi di hashish e cocaina, le più richieste, sotto gli alberi e negli anfratti del parco. Trascorrono le giornate come qualsiasi altro coetaneo, ad ascoltare musica, giocare a calcio e postare foto sui social. Bambini e adolescenti. Quando arriva la chiamata per la consegna, salgono a bordo dei monopattini a noleggio. Poi tornano, in attesa di un altro ordine. Gli agenti del commissariato Mirafiori quell’area la controllano spesso e qualche giorno fa è scattata una vera e propria retata: una quindicina le persone fermate, dodici erano minori non accompagnati. Uno aveva appena undici anni, ma il piglio del leader. È stato accolto da una comunità, pare sia fuggito pochi giorni dopo. Gli altri sono stati identificati e rilasciati subito dopo: troppo piccoli per essere perseguiti dalla legge. La giustizia non li condanna, è vero. Ma non è in grado di fornire nemmeno uno strumento per toglierli dalla strada. Ed ecco il cortocircuito: “Si alimenta il senso di impunità, si abdica ad ogni possibilità di recuperarli”, spiega un educatore. Assoldati dai signori della droga proprio per la giovane età, vengono intercettati dalla polizia e poi tornano su quelle gradinate. Ormai gli agenti li conoscono per nome e loro hanno imparato a memoria le targhe delle auto delle forze dell’ordine. Quando la sentinella lancia “l’allarme sbirri”, si sparpagliano. Velocissimi. I più intraprendenti saltano il muro per proseguire la fuga a lato dei binari. E nelle scorse notti, durante un controllo delle volanti della questura, per evitare tragedie, il traffico ferroviario è stato bloccato per diversi minuti. I baby pusher si spostano da una periferia all’altra. Lo spiegano gli inquirenti, che ne tracciano l’identikit: minori non accompagnati o immigrati di seconda generazione. Con alle spalle famiglie numerose e genitori che lavorano da mattina a sera. Ma no, quel giaccone all’ultima moda, quel cellulare da migliaia di euro, non possono acquistarlo. Ed è su quell’egoismo da adolescenti, che chi gestisce il mercato della droga fa leva: soldi facili. E veloci. Loro si sentono adulti, parte di un gruppo. “Veri duri”, come postano su Instagram e su Tik Tok. E i corrieri più grandi? Quelli oltre i quattordici anni? Chi li coordina, ha uno stratagemma anche per loro. La regola è mai farsi trovare con ingenti quantitativi di droga addosso, in tasca o nei pantaloni. La questione è giuridica. L’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti non consente la custodia cautelare in carcere. Ma gli arresti domiciliari, l’obbligo di firma o il divieto di dimora. Misure cautelari che, in questi casi specifici, non hanno effetto di deterrenza. E così tornano su quei gradoni a sud della città e nelle strade del quartiere San Salvario e di Santa Giulia, luoghi simbolo della movida dei giovanissimi. Adolescenze a confronto. Benevento. Visite nelle carceri, “ci occupiamo di sfigati nel disinteresse della politica” di Enzo Spiezia ottopagine.it, 11 maggio 2023 L’iniziativa della Camera penale e di alcune associazioni. Per chi non l’aveva mai fatta, come il presidente dell’Ordine degli avvocati, Stefania Pavone, è stata “una esperienza importante, un viaggio nei percorsi individuali, fatti di dolore e solitudine, dei detenuti: un mondo sommerso, conosciuto da pochi”. Non è stata invece una novità per Simona Barbone, al vertice della Camera penale di Benevento, visitare le carceri: “Momenti che toccano la nostra sensibilità di giuristi e persone”. Sono state loro ed il presidente della Camera penale di Nola, Vincenzo Laudanno, che ha ricordato come il “tema delle condizioni delle carceri sia molto caro” agli organismi che rappresentano i penalisti, ad aprire l’appuntamento di questo pomeriggio al Museo del Sannio. Tappa sannita, con le visite a Benevento ed Airola, di una iniziativa, “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”, che fino al 13 maggio riguarderà le strutture campane. Un incontro che ha fatto registrare pochissime presenze tra gli avvocati, al quale hanno partecipato Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione Camere penali, Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, Gianfranco Marcello, direttore della casa circondariale di Benevento, Rita Bernardini e Sergio D’Elia, presidente e segretario dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’, Giovanna Perna, responsabile per la Campania dell’Osservatorio carcere Ucpi, Alessandro Gargiulo, presidente del Movimento forense Napoli e coordinatore nazionale del Movimento. In tutti la consapevolezza di essere “un’estrema minoranza del nostro Paese che vuole occuparsi di un argomento, l’esecuzione penale, che la politica allontana costantemente, con il rischio di essere additati, se ci si occupa di condannati per mafia, come loro amici, anche se parliamo di un diritto, quello alla speranza, sancito dalla Corte europea per i diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale”. L’attenzione è per “gli sfigati nati nelle zone più povere economicamente e culturalmente, per chi ha problemi di tossicodipendenza e di salute mentale. Reclusi in un carcere che è visto come una discarica sociale”. Una realtà restituita dai numeri: “Ad Airola ci sono 24 giovani: 7 da 14 a 17 anni, 11 da 18 a 20 anni, 6 da 21 a 25 anni. Dodici sono iscritti alla V elementare, 8 alla scuola media, ma frequentano solo in 4”. Il nervo scoperto sono le “criticità nell’assistenza sanitaria, mancano medici e psichiatri, l’Asl ha assicurato un concorso per 2 dottori ad Airola e 8 a Benevento”. Un carcere, quello di contrada Capodimonte, che è “al di sopra della media grazie alla disponibilità della dirigenza, degli educatori e della polizia penitenziaria”. Tremende le cifre riportate sul costo di “una telefonata nel carcere di Airola (“Pagano 3 euro e 20 centesimi per 20 minuti”), “di biscotti, acqua e shampoo, con prezzi superiori a quelli esterni”. Dati ai quali fa da contraltare la “risposta incoraggiante del territorio, che ha accolto otto giovani che ogni giorno vanno a lavorare”. Sullo sfondo “il disinteresse dei governi che si sono succeduti dal 2018 e anche dell’attuale rispetto all’attuazione delle indicazioni che nel 2013 erano contenute nella condanna inflitta all’Italia per il trattamento dei detenuti”. La conclusione: “Il male più grande è il sovraffollamento, poi il mancato rispetto dei principi costituzionali e la totale assenza di visita delle carceri da parte della magistratura di sorveglianza”. Quella competente anche sugli “sfigati”. Massa Marittima. I detenuti del carcere cureranno il giardino del Falusi, firmato l’accordo ilgiunco.net, 11 maggio 2023 Siglato il Protocollo d’Intesa promosso da Rotary Club di Massa Marittima che coinvolge la Casa circondariale, Rsa Falusi e il Comune di Massa Marittima. “Mi riscatto per Massa Marittima” è il titolo di un bel progetto promosso da Rotary Club di Massa Marittima che prevede il coinvolgimento dei detenuti della Casa circondariale massetana nella cura del verde e più in generale degli spazi esterni della residenza per anziani, Rsa Falusi. È stato firmato nei giorni scorsi il protocollo d’intesa tra Comune, Rotary Club, Falusi e Casa Circondariale di Massa Marittima che formalizza l’inizio delle attività. Il protocollo stabilisce che alcuni detenuti, selezionati dalla Direzione della Casa Circondariale, potranno essere impegnati nel ripristino e nelle manutenzioni delle aree verdi del Falusi con le relative staccionate e pavimentazioni, collaboreranno alle opere di giardinaggio e alla coltivazione dell’orto, per abbellire e mantenere sempre in ordine tutta la parte esterna della rsa. “Ringraziamo Rotary Club che è sempre attento a contribuire con iniziative concrete al benessere della comunità massetana. - sottolinea Grazia Gucci, assessore comunale al Sociale - Questo progetto trova l’appoggio pieno del Comune per la sintonia di intenti. È una iniziativa lodevole in quanto offre un percorso utile al reinserimento sociale dei detenuti, che possono trovare nella partecipazione alla vita della comunità, all’esterno del carcere, uno stimolo importantissimo per tornare a condurre un’esistenza onesta, prestando servizio per la collettività”. “Sono estremamente soddisfatta di questo progetto, - aggiunge la dottoressa Maria Cristina Morrone, direttrice della Casa Circondariale di Massa Marittima - frutto della collaborazione tra Rotary, Falusi, Comune e Casa Circondariale, perché ci consente di perseguire uno degli obiettivi fondamentali che ci siamo dati che è quello di garantire al detenuto la possibilità di riscattarsi dal disvalore sociale, svolgendo a titolo gratuito lavori di pubblica utilità. Una bella iniziativa a livello umano per il reinserimento: chi ha sbagliato offre ciò che sa fare alla collettività, riscoprendo il piacere di sentirsi utile per qualcuno, confrontandosi con una delle dimensioni della riparazione del danno. Ringrazio tutti i soggetti che a vario titolo hanno collaborato e collaboreranno per la riuscita del progetto”. La direzione della Casa circondariale avrà il compito di selezionare attraverso il gruppo di osservazione e trattamento, i detenuti che sono i possibili beneficiari e per i quali proporrà l’ammissione al lavoro all’esterno ex art. 21 c. 4 ter L. 354/75 redigendo specifico programma da inviare al Magistrato di Sorveglianza di Siena. Tra le varie spese sostenute dal Rotary Club ci sarà anche la formazione professionale di ogni detenuto inserito nell’attività lavorativa ai fini del D Lgs 81/2008. “Siamo felici di essere riusciti a realizzare un progetto così importante - commenta Carlo Vivarelli, presidente del Rotary Club- in questo modo, come Rotary Club, perseguiamo diverse finalità coerenti con la nostra missione, ovvero manutenere l’area verde affinché possa essere fruita dagli ospiti della Rsa Falusi e dare il via ad un percorso di reinserimento sociale di alcuni detenuti, attraverso la formazione professionale e la realizzazione vera e propria del lavoro. Il nostro auspicio è che questo sia l’inizio di un progetto di portata più ampia”. “L’istituto Falusi è un ente a servizio del territorio - sottolinea la presidente del Falusi Francesca Mucci - peraltro, in linea con il proprio statuto, è particolarmente attento alle situazioni di fragilità, alle persone più deboli e in difficoltà. È quindi una occasione di servizio, di conoscenza e di crescita reciproca. Una condivisione importante con le altre realtà che operano sul territorio”. “Nel periodo post Covid - aggiunge Renato Vanni, direttore del Falusi- abbiamo contattato le associazioni, gli enti, i volontari, per ricreare ogni tipo di collaborazione finalizzata a migliorare e completare il nostro servizio a favore degli ospiti. Abbiamo trovato tanta disponibilità, idee e progetti che costituiscono percorsi di valorizzazione e di socialità. Con questa particolare collaborazione interveniamo sulle piccole manutenzioni, abbellimenti ed altre opere di giardinaggio, che creeranno un percorso esterno gradevole per i nostri ospiti e per i loro familiari. Ci piace guardare lontano …e dal porticato del Falusi si vede il mare”. Roma. Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, la cultura contro lo stigma di Ilaria Dioguardi retisolidali.it, 11 maggio 2023 “Le Donne del Muro Alto”, progetto teatrale a cura dell’associazione Per Ananke con lo scopo di portare il teatro nelle carceri, compie dieci anni. In occasione di quest’importante ricorrenza, giovedì 4 maggio la compagnia teatrale ha interpretato per la prima volta, alla Camera dei Deputati presso Palazzo San Macuto (Sala Refettorio), lo spettacolo Medea in sartoria, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. La compagnia è composta da attrici ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. Prima dello spettacolo, si è svolto il convegno Detenzione Femminile e Stigma: la cultura come strumento di emancipazione. “Mi hanno detto che per la prima volta viene ospitato uno spettacolo teatrale nella Sala del Refettorio della Camera dei Deputati, ne siamo felici: il Parlamento è lo spazio di tutti, quindi anche nostro. Qui più che altrove è importante ricordare che il carcere è parte della società”, ha detto Francesca Tricarico, ideatrice del progetto e regista. Nel 2023 le Donne del Muro Alto è stato realizzato con il sostegno delle officine di teatro sociale della regione Lazio e Lush Italia, in collaborazione con l’università Roma Tre Dipartimento di Scienze delle Formazione e Fondazione Cinema per Roma. Tanti gli eventi in programma per festeggiare il decennale del progetto che racconta, attraverso il lavoro svolto con le donne in carcere, con le donne ammesse alle misure alternative alla detenzione e con ex detenute, un mondo che - ancora oggi - resta quasi del tutto sconosciuto. “Le Donne del Muro Alto nasce nel 2013 all’interno della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, quando esistevano solo progetti nelle case circondariali maschili. Mi dissero “lascia stare, le donne sono terribili”. È vero: sono nervose ed arrabbiate, non è facile lavorarci. La legge è uguale per tutti ma non tutti sono uguali per la legge. Sono più complesse le donne in carcere, ma perché è più complessa la vita che vivono. Siamo riuscite a fare il nostro primo spettacolo nella sezione Alta sicurezza, abbiamo iniziato da poco il progetto anche nella sezione transgender di Rebibbia: non so perché non sia accaduto prima, ma stiamo rompendo un altro muro”, ha continuato Tricarico. “In dieci anni siamo riuscite a fare tanto. Bisogna preparare le persone al “dopo”. Mi ricordo Paloma, 21 anni, che un mese prima della scarcerazione piangeva perché in carcere poteva giocare a pallavolo, fare teatro, e fuori l’aspettava il nulla. Il carcere è un periodo in cui, se non si è preparati e non c’è un accompagnamento, il rischio di recidiva è altissimo. È difficile trovare ospitalità per le donne ex detenute, ora siamo ospiti dello Spin Time Labs per fare teatro. Se gli uomini portano lo stigma della detenzione, le donne portano un doppio stigma. Proprio per questo le donne del mio progetto hanno deciso di metterci la faccia: se non riusciamo noi a superare il muro del pregiudizio, come può riuscirci la società? L’anno scorso volevamo mollare, le difficoltà sono tante. La forza di continuare ce la danno le donne della compagnia”. Madrina della serata è stata Maria Grazia Cucinotta, da sempre sostenitrice delle iniziative dell’associazione. “Il primo spettacolo della compagnia, a cui ho assistito, è stato “Il postino”. L’emozione che ho avuto guardando la loro interpretazione non l’ho avuta in nessuna delle altre rivisitazioni. Lo scopo di questo progetto è dire alle donne: potete rinascere, tutti possiamo sbagliare, si deve ricominciare sempre”, ha detto l’attrice. “Le donne in carcere sono il 4-5% e hanno difficoltà aggiuntive. Il 40% delle persone detenute ha problemi di salute mentale. Le donne detenute spesso hanno subito violenze nella loro vita”, ha affermato Elena Zizioli, docente di Scienze della formazione all’Università Roma Tre coinvolta nel progetto. “Il teatro serve alle donne per far capire, in modo soft, che loro sono le artefici della loro voglia di farcela, che devono apportare un cambiamento e non essere vittime nella loro vita”, ha detto Nadia Fontana, direttrice della Casa Circondariale femminile di Rebibbia. “Abbiamo bisogno di risorse per investire in progetti come questo”. “Se il mio lavoro è fatto bene, le persone che vedo dentro, una volta uscite, non le rivedo più”, ha detto Alessia Giuliani, educatrice Casa Circondariale di Rebibbia. “Il verbo “educere” significa “tirare fuori”, un’educatrice penitenziaria deve più che mai tirare fuori le risorse da ogni persona. Non c’è persona al mondo che non abbia risorse sulle quali investire. Assistere ad uno spettacolo come “Medea in sartoria” non significa assistere solo ad uno spettacolo ma a dei pezzi di vita. Io so quanto sia lunga la semina”. “Medea in sartoria” è una rivisitazione in chiave moderna della tragedia di Euripide, tre donne apparentemente immobili alle loro macchine da cucire viaggiano tra Pasolini, Euripide e Christa Wolf alla ricerca di Medea e di sé, tra la voglia di denunciare e la paura di scegliere. Per Ananke nasce nel 2007, si occupa di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, nei centri per la salute mentale, nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle università. Dal 2013 l’attività teatrale all’interno degli istituti di pena è diventata quella principale con la nascita del progetto Le Donne del Muro Alto, prima nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, in seguito nella Casa Circondariale femminile di Latina e la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso e oggi anche all’esterno, con donne ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute. La realtà del progetto è cresciuta, diventando un vero e proprio percorso di accompagnamento al ritorno nella società civile. Oggi, per le donne coinvolte, rappresenta sempre più una concreta possibilità di formazione oltre che un’occasione lavorativa retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale. Le Donne del Muro Alto sta lavorando ad una nuova produzione, dal titolo Olympe de Gouges, che debutterà al Teatro India di Roma in novembre. Ferrara. “Vivicittà”, all’interno del carcere l’appuntamento con lo sport e l’integrazione ferraratoday.it, 11 maggio 2023 La pioggia battente di mercoledì non ha frenato l’appuntamento sportivo e d’integrazione targato Vivicittà. Un’iniziativa promossa da Uisp Ferrara e patrocinata da Comune e Regione, nell’ambito del progetto “Porte Aperte”. Presenti all’evento Maria Nicoletta Toscani, direttrice della casa circondariale di Ferrara, Cristina Coletti, assessora comunale alle Politiche sociali, Paolo Calvano, assessore regionale al Bilancio e fra i partecipanti alla corsa, Eleonora Banzi e Andrea De Vivo, presidente e vicepresidente di Uisp Ferrara. All’appuntamento hanno presenziato anche Ilias Aouani, detentore del record italiano su maratona, accompagnato dall’allenatore Massimo Magnani. Una corsa, dunque, tornata in carcere dopo l’edizione del 2019, e interrotta a causa della pausa imposta dal Covid. La manifestazione, nata nei primi anni Novanta e organizzata da Uisp Ferrara, è collegata a ‘Vivicittà - la corsa dei diritti’, che si è svolta il 2 aprile scorso nella città estense e in altre 35 città italiane, ed è entrata all’Arginone all’interno del progetto ‘Le Porte Aperte’, finanziato dal Comune. “L’Amministrazione - ha sottolineato l’assessora Cristina Coletti, che ha dato il via alla gara - si adopera da tempo con la struttura circondariale con progetti sociali e ludici, atti al percorso riabilitativo del detenuto. Un ringraziamento a Uisp e alla casa circondariale per l’iniziativa di Vivicittà, che ritorna dopo gli anni di stop per la pandemia”. I detenuti sono stati impegnati in una mattinata di attività sportiva. “L’obiettivo dichiarato - ha aggiunto l’assessore regionale Paolo Calvano - è utilizzare lo sport, grande strumento di integrazione sociale, come mezzo per abbassare le barriere tra il carcere e la città”. Alla giornata hanno partecipato, oltre ai detenuti, anche i tecnici educatori di Uisp Ferrara, alcuni tesserati del podismo ferrarese. La gara Vivicittà si è svolta all’interno del perimetro della casa circondariale, con tre giri per 2,4 chilometri complessivi, con la proclamazione del vincitore e del podio. Il vincitore di questa edizione è Bourzaik Ossama, al secondo posto si è classificato El Mouazzi Aderrahim, mentre sul terzo gradino del podio è salito Fahmane Mouhammed. L’intelligenza artificiale non ha fantasia di Concita De Gregorio La Stampa, 11 maggio 2023 La macchina non immagina, non sbaglia, non rischia, è come un frigo da cui prendere quel che si vuole. L’investimento da fare è nella conoscenza, perché gli uomini sappiano sempre di più e non di meno. È l’uso che ne fai. Del frigorifero, della radio, del social network, dell’intelligenza artificiale. La colpa o il merito del risultato non è mai del mezzo: è di chi lo usa. Non è demerito del frigo se la pietanza è marcita, è che ce l’hai lasciata troppo a lungo. Non dipende da Instagram se la gente si fotografa di tre quarti allo specchio mostrando il sedere. Quello, il veicolo, fa viaggiare quel che ci metti dentro. Ogni intelligenza artificiale può essere assai facilmente sabotata da una deficienza naturale. È per questo che seguo con una certa apprensione il dibattito sui “pericoli” della GPT, gli scioperi degli sceneggiatori americani, le profezie apocalittiche sulla fine del lavoro degli uomini sostituiti, come nei film di fantascienza, dalle macchine. Mi sembra che non mettano a fuoco il punto, che non è cosa può fare una macchina: è cosa puoi fare tu della macchina. Quindi tra l’intelligenza sintetica e l’ignoranza artigianale è quest’ultima, mi pare, la grande minaccia. La piaga, la nube nera all’orizzonte. Ma è del resto sempre stato così: è cosa ne fai, della scoperta di Fermi. Non è rompendo il termometro che elimini la febbre, non è smettendo di inventare e di immaginare il futuro che ti metti al riparo dal pericolo. È investendo sulla capacità degli uomini di gestire le nuove conoscenze: governarle, controllarle, usarle - mi vien da dire forse con ingenuità - a fin di bene. Il contrario dell’intelligenza non è difatti l’idiozia, è l’ignoranza. L’idiozia tecnica, quella per cui una carenza fisica o psichica ti impedisce di attivare i neuroni condannandoti a alla demenza, relativa o assoluta, riguarda una percentuale minima della popolazione. Esseri sfortunati e incolpevoli ai quali si deve ogni sostegno, cura e amorosa attenzione. È l’altra la sciagura. L’idiozia da incompetenza, da ignoranza, il non sapere nulla che ti convince di sapere tutto. Solo gli stolti pensano di non essere mai in errore. Difatti, comandano. Ho visto in rete una foto di Lady Diana elaborata dalla GPT, la chat dell’intelligenza artificiale, che la mostra come sarebbe oggi a 61 anni se non fosse morta nel ‘97. E se non le fosse successo niente nel frattempo, aggiungo: niente che potesse cambiarne la fisionomia, una cicatrice sul volto il segno di un intervento chirurgico al collo un’alopecia, una miopia grave che la costringesse a portare gli occhiali. La GPT si limita a elaborare i dati del passato e a proiettarli nel futuro secondo l’algoritmo dell’invecchiamento naturale: non prevede, non può prevedere gli inciampi e i guasti della vita. Quindi bella, interessante la foto. Ma inautentica, ingannevole. La vita scolpisce sui volti quel che nessuna profezia aritmetica può immaginare. Ho letto alcune traduzioni fatte dalla GPT: efficaci al 90 per cento, ma manca sempre qualcosa. Una sfumatura, una piega di senso, un’intenzione. Manca il pensiero. Serve qualcuno che la rilegga e la corregga, serve una persona che sovraintenda al lavoro della macchina. Il vero problema, mi pare, è che oggi a sovraintendere sono sempre più numerosi coloro che ne sanno meno della macchina. Ho visto gruppi di scrittura cinematografica al lavoro: erano composti da persone giovani e assertive, molto preparate su quel che “funziona” e quel che no. Ma alla proposta “potremmo immaginare un finale tipo Il laureato” (non una originalissima proposta, devo ammettere) i loro sguardi si sono fatti opachi. Non l’hanno visto, Il laureato. Ho ripensato a lungo a quando a Sergio Leone in America hanno spiegato che il suo film andava tagliato di un’ora, lo racconta magistralmente il documentario di Francesco Zippel. Ho immaginato a cosa sarebbe successo oggi. Non avrebbe potuto nemmeno iniziare a girarlo, quel capolavoro. Il tema è sempre lo stesso: inseguire i desideri o suscitarli. Replicare quel che la gente vuole o offrire qualcosa che ancora non sa di volere, perché non c’è. Il rischio. Rischiare in invenzione significa andare in terra incognita. Ma il rischio d’impresa prevede che ci sia una mente illuminata, visionaria: che ci sia chi immagina qualcosa che non è immagazzinata nei dati raccolti fin qui, qualcosa che ancora non esiste. Mi ha detto una meravigliosa cineasta, inventrice di mondi, Alice Rohrwacher: “L’intelligenza artificiale non sbaglia, e la bellezza invece è sempre nell’errore”. Mi ha detto Esmeralda Calabria, cucitrice di immagini, costruttrice di film: “Ho vinto un premio, da giovane, per un film di cui in post produzione dicevano: è fuori sincronia, è sbagliato”. Non esisterebbero Il padrino, Caligola di Camus, Il giovane Holden, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Non esisterebbero capolavori, perché se ci fosse la formula esatta per costruirne uno ne avremmo milioni, e per fortuna no. Ne capita uno ogni tanto, e hai voglia ad avere i soldi per far dipingere la Cappella Sistina se non hai Michelangelo. L’intelligenza artificiale è una immensa banca dati, enormemente più grande di quel che mente umana può contenere, ed è una previsione di continuità: replica quel che già esiste. Ma non immagina, non sbaglia, non rischia. È lì, a nostra disposizione, come un immenso frigorifero. Dipende da come lo usiamo. Dipende da cosa scegliamo di prendere o lasciare. Dipende da noi. L’investimento da fare è in conoscenza, educazione, istruzione, cultura. L’investimento è sugli uomini, che sappiano sempre di più - non di meno. È questa, l’ignoranza progressiva, la vera sconfitta. Vinceranno le macchine e ci distruggeranno, certo, sì: ma solo se non avremo la capacità di usarle. La conoscenza e la fantasia per dare loro la direzione che vogliamo. Solo se avremo rinunciato. Noi, e chi scegliamo che governi in nostro nome. Avvocati e scrittori, un destino comune: davvero un algoritmo li seppellirà? di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 11 maggio 2023 Hollywood in sciopero: gli sceneggiatori ora hanno paura dell’intelligenza artificiale. Gli sceneggiatori di Hollywood scioperano perché, a loro dire, sono sottopagati. Appartenendo alla categoria dei “beati loro” (guadagnano generalmente molto, fanno un lavoro creativo, vivono in un ambiente stimolante da tutti i punti di vista), la notizia potrebbe anche essere poco interessante. Ma la protesta ha un’altra motivazione ben più seria: hanno paura dell’intelligenza artificiale! Il sindacato degli sceneggiatori (Wga) teme la sostituzione (totale o parziale) del lavoro degli scrittori con quello effettuato da ChatGPT o da altri algoritmi specializzati di AI. La California è la frontiera mondiale dell’innovazione tecnologica. Era facilmente pronosticabile che la sirena d’allarme giungesse proprio da lì. Meno facile, invece, immaginare che i primi a protestare fossero gli scrittori i quali, almeno nell’immaginario comune, fanno il lavoro più creativo del mondo. Inventano storie e ce le raccontano, sviluppando, fin dai tempi più remoti, la prima forma di realtà virtuale generata dall’uomo: la narrativa. La verità è che siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione copernicana. Nel processo di machine learning, l’AI impara velocissimamente, riuscendo a riprodurre gli stili degli autori più famosi. Eccolo il pericolo. E non solo in termini di posti di lavoro quanto in termini di pensiero critico. Non si vogliono ipotizzare scenari da < CF512> Bmovie di fantascienza in cui le macchine sviluppano anche sentimenti e prendono il sopravvento sugli esseri umani. Qui è in gioco un aspetto esiziale per la nostra esistenza. Se persino un lavoro così creativo, come quello dello scrittore, potrà essere largamente sostituito dall’AI, rischiamo di appaltare la nostra intelligenza e la nostra immaginazione a sistemi artificiali. Intere categorie di professioni intellettuali potrebbero essere sostituite. Poco male, direbbe qualcuno: è la legge del mercato. Peccato, però, che non funziona così. O meglio, non ha mai funzionato così fino a oggi. Noi non siamo l’insieme deterministico delle nostre esperienze passate e delle conoscenze accumulate, ma il racconto che, quotidianamente, ci facciamo di noi, del nostro passato. Noi siamo la possibilità di cambiare quel racconto (nel limite del principio di realtà si intende) ogni volta che riusciamo a vedere il mondo con occhi diversi. Noi siamo i film venuti male, le sentenze sbagliate, le scelte stupide che non rifaremmo mai. Perché sono quelle che ci fanno progredire. Limitare l’evoluzione dialettica del pensiero all’applicazione di un algoritmo significa smettere di pensare (cioè di vivere compiutamente) ed è un’ipotesi di futuro che atterrisce. Recentemente Geoffrey Hinton, il massimo esperto mondiale dell’AI, si è licenziato da Google. Nella lettera di dimissioni ha messo in guardia dalla differenza tra l’intelligenza umana che è biologica, quindi unica, e quella artificiale che è basata su sistemi digitali replicabili all’infinito. Se affideremo all’AI una serie di attività intellettuali, rischieremo di delegare il racconto di noi stessi (personale e sociale) alle macchine. Smetteremo di essere capaci di sviluppare un pensiero complesso. Diventeremo “solo la copia di mille riassunti” per dirla con i versi di una vecchia canzone. Ovviamente il problema non riguarda solamente gli sceneggiatori hollywoodiani, ma milioni di persone al mondo. Già esistono sistemi di AI in grado di scrivere ricorsi e da anni si parla di decisione robotica perlomeno delle cause seriali. Senonché sarebbe giusto chiedersi cosa fanno i giudici e gli avvocati? In cosa consiste davvero il loro lavoro? Scelgono le parole. Ascoltano, anzi assorbono il problema di una persona e lo traducono in una risposta giuridica. Poi lo raccontano, sotto forma di atti giudiziari, ad un giudice e alle parti in causa, nonché a chiunque abbia interesse a quella domanda di giustizia. Forse è una visione alta, elitaria delle professioni forensi: la traduzione del mondo reale in un sistema di pensiero. Ha a che fare con la natura ontologica del linguaggio o, volendo, con la natura taumaturgica delle parole. Mettetela come vi pare, ma giudici e avvocati sono (molti di loro inconsapevolmente) dei narratori. Ecco cosa hanno in comune i giudici e gli avvocati italiani con gli sceneggiatori hollywoodiani: un pericolo condiviso che avvertono prima di altre categorie professionali. Il pericolo di far scrivere i nostri racconti, cioè la nostra storia a degli algoritmi. Il pericolo di perdere la facoltà di scelta delle nostre parole, per imperfette che siano. Nessuno vuole, né potrebbe, fermare il progresso tecnologico. Ma una pausa di riflessione deve imporsi. Recentemente il prof. Irti ha scritto che la ricerca dei punti di tangenza tra il diritto e la robotica suscita una sorta di “ansia filosofica”, quasi che la storia dell’uomo si trovasse a un nuovo inizio. Ne discendono due reazioni contrastanti: da un lato, quella di chi avverte il rischio di una “disumanizzazione” della decisione; dall’altro, quella di chi ne intravede i vantaggi connessi ad esempio alla deflazione del contenzioso giudiziario. Entrambe le posizioni esprimono istanze razionalmente fondate, che meritano di essere considerate all’interno di una riflessione che elevi il dubbio a metodo dell’indagine. Il dubbio, il nome di questo giornale. L’accoglienza dei migranti e l’insostituibile lavoro degli operatori sociali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2023 C’è una complessità relativa all’accoglienza dei migranti e sul ruolo degli operatori sociali in questa delicata sfida, e per dipanarla possono aiutare i risultati di una ricerca presentata di recente dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci) e dall’Università Roma Tre. L’indagine intitolata “Agire l’accoglienza” ha offerto un inedito identikit dell’operatore dell’accoglienza, figura sempre più centrale nella gestione dei flussi migratori forzati. I dati emersi dallo studio testimoniano che i lavoratori coinvolti nell’integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati all’interno del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) dei Comuni italiani sono principalmente donne (oltre il 70%), giovani (il 75% ha un’età compresa tra i 25 e i 44 anni) e laureati (nel 76% dei casi). L’indagine ha coinvolto circa 10.000 operatori sociali, per lo più italiani, impegnati in quasi 1000 progetti di accoglienza promossi da una rete di 1800 Comuni italiani. Questi operatori lavorano instancabilmente per garantire oltre 44.000 posti disponibili per l’accoglienza dei migranti sul territorio nazionale. La figura dell’operatore dell’accoglienza rappresenta una sfida professionale complessa nel mercato del lavoro italiano. La sua complessità deriva principalmente dall’approccio olistico richiesto dal Sistema di accoglienza e integrazione, che richiede una presa in carico personalizzata e multidisciplinare dei beneficiari accolti. L’obiettivo della ricerca è stato quello di comprendere come gli operatori effettuano la presa in carico dei beneficiari nei progetti di accoglienza, analizzando le strategie professionali e personali adottate e l’impianto organizzativo in cui operano. L’indagine mira a fornire una ‘ fotografia’ degli operatori dell’accoglienza e a comprendere il loro ruolo all’interno del sistema locale di welfare. L’indagine ha anche evidenziato che il Terzo settore, che rappresenta circa l’ 80% degli organismi con cui gli operatori sono in contatto, svolge un ruolo fondamentale nelle attività quotidiane degli operatori. Inoltre, più del 75% degli operatori ha una significativa esperienza di oltre 6 anni nel campo dell’accoglienza e delle migrazioni, dimostrando un impegno duraturo nel settore. La ricerca ha rivelato che il 76% degli operatori è laureato, e molti di loro possiedono abilitazioni professionali. La maggioranza è iscritta all’Albo degli assistenti sociali (44,1%) e degli psicologi (28,6%), ma sono presenti anche altre figure professionali come gli educatori, gli avvocati e i mediatori interculturali. Per quanto riguarda il rapporto contrattuale prevalente degli operatori, il 56% è impiegato a tempo indeterminato, il che rappresenta un importante elemento di stabilità lavorativa. Allo stesso tempo, il 27,6% degli operatori ha un contratto di lavoro a tempo determinato, mentre l’11,4% ha un contratto di collaborazione. Risulta evidente che la stragrande maggioranza degli operatori sociali ha una forte volontà di continuare a impegnarsi nel settore dell’accoglienza. Più dell’85% degli intervistati ha espresso la volontà di perseguire questa carriera anche in futuro. Tra questi, il 55,5% desidera rimanere nello stesso ambito e nello stesso ruolo, dimostrando un attaccamento significativo alle attività di accoglienza e integrazione. Nel contempo, il 29,7% degli operatori ha dichiarato di voler rimanere nell’ambito dell’accoglienza, ma con un ruolo diverso. Questa volontà di sviluppo e crescita professionale sottolinea l’impegno e l’entusiasmo degli operatori nel campo dell’accoglienza. La ricerca ‘Agire l’accoglienza’ rappresenta un importante passo avanti nel riconoscimento del lavoro degli operatori sociali nel settore dell’accoglienza dei migranti. La collaborazione tra l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), l’Università Roma Tre e il Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) dimostra un forte interesse e impegno nel migliorare l’intervento sociale rivolto ai protetti internazionali. Inoltre, l’Università Roma Tre ha svolto un ruolo significativo nell’approfondimento delle tematiche legate all’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati, attraverso la ricerca e l’offerta di programmi formativi specifici. La creazione di un Master in “Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati” testimonia l’impegno dell’ateneo nel preparare futuri professionisti capaci di affrontare le sfide complesse legate all’accoglienza e all’integrazione. La collaborazione tra il mondo dell’accoglienza e l’Università rappresenta un elemento cruciale per promuovere una convivenza basata sui principi di democrazia, pluralismo e giustizia sociale. È fondamentale che istituzioni, professionisti e comunità lavorino insieme per garantire interventi sociali di qualità e per favorire il percorso di crescita e riconoscimento della figura dell’operatore dell’accoglienza. In sostanza emerge che l’operatore dell’accoglienza svolge un ruolo chiave nella gestione dei flussi migratori e nell’integrazione dei migranti nel tessuto sociale italiano. La ricerca ‘Agire l’accoglienza’ ha gettato luce sulla complessità del lavoro svolto dagli operatori sociali e ha evidenziato la loro dedizione e competenza nel garantire un’accoglienza di qualità. È fondamentale sostenere e valorizzare il lavoro di questi professionisti che, attraverso il loro impegno quotidiano, contribuiscono all’integrazione e all’accoglienza dei migranti. Le competenze complesse e multidisciplinari degli operatori sociali sono cruciali per fornire un supporto adeguato ai beneficiari accolti nei progetti di accoglienza. Grazie alla loro formazione e esperienza, gli operatori dell’accoglienza sono in grado di offrire un’assistenza personalizzata e mirata alle esigenze individuali dei migranti. La presa in carico olistica degli operatori si basa sull’ascolto attivo, sull’empatia e sulla capacità di lavorare in collaborazione con altri professionisti e enti del Terzo settore. Il rapporto di fiducia che gli operatori dell’accoglienza riescono a instaurare con i migranti è di fondamentale importanza per favorire il processo di integrazione. Essi sono spesso la prima figura di riferimento per i migranti, offrendo sostegno emotivo, informazioni pratiche e orientamento nel contesto sociale, culturale e amministrativo del paese di accoglienza. Inoltre, la collaborazione tra il mondo dell’accoglienza e l’Università offre importanti opportunità di formazione e aggiornamento professionale per gli operatori. La creazione di programmi formativi come il Master in ‘Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati’ fornisce strumenti teorici e pratici per affrontare le sfide complesse dell’accoglienza e dell’integrazione. Ma nel contempo è necessario garantire un sostegno continuo agli operatori dell’accoglienza, sia a livello istituzionale che comunitario. Ciò implica la creazione di condizioni di lavoro adeguate, inclusa la stabilità contrattuale, la formazione continua e l’accesso a risorse e strumenti necessari per svolgere efficacemente il loro lavoro. Inoltre, da quello che emerge dalla ricerca, risulta sempre più importante promuovere una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione all’interno della società riguardo ai temi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Una maggiore comprensione e solidarietà possono contribuire a creare un ambiente favorevole all’integrazione e a combattere stereotipi e pregiudizi. Cosa si può trarre, in definitiva, da questa ricerca? Il lavoro degli operatori sociali nell’accoglienza e nell’integrazione dei migranti rappresenta un elemento fondamentale per costruire una società inclusiva e rispettosa dei diritti umani. È necessario riconoscere il valore del loro impegno e fornire loro il sostegno e le risorse necessarie per svolgere al meglio il loro ruolo. Solo attraverso una collaborazione attiva tra istituzioni, università, operatori sociali e comunità possiamo costruire una società più accogliente e solidale per tutti. Salgono i prezzi, aumentano le proteste: Amnesty chiede una protezione sociale universale di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2023 In un rapporto diffuso oggi, intitolato “Salgono i prezzi, aumentano le proteste: occorre una protezione sociale universale”, Amnesty International ha chiesto che la sicurezza sociale sia garantita a ogni persona nel mondo dato che una serie di crisi sta mettendo in luce le profonde inadeguatezze dei sistemi statali di sostegno e di protezione, costringendo milioni di persone a soffrire la fame o intrappolandole in un ciclo di povertà e privazione. L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto inoltre interventi in favore degli stati debitori e ha sollecitato gli stati ad adottare riforme in materia di tassazioni e a intervenire contro l’evasione fiscale, recuperando così fondi in favore della protezione sociale. “Una serie di crisi ha rivelato quanto molti stati non siano preparati a fornire aiuti essenziali alla loro popolazione. I dati sono scioccanti: oltre quattro miliardi di persone, circa il 55 per cento della popolazione, non ha accesso alle più elementari forme di protezione sociale, nonostante il diritto alla sicurezza sociale sia contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948” ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. Il rapporto di Amnesty International spiega come l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, il cambiamento climatico, gli effetti della pandemia da Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina, stiano producendo una catastrofica crisi umanitaria e determinando un aumento delle rivolte e delle proteste. Per queste ragioni, Amnesty International ha sollecitato gli stati a garantire che la copertura della sicurezza sociale - ad esempio, per invalidità, disabilità, cure mediche, pensioni per le persone anziane, sostegno all’infanzia, benefici alle famiglie e sostegno al reddito - sia disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il rapporto di Amnesty International mostra anche come la mancanza di sicurezza sociale in molti stati abbia esposto maggiormente alcuni gruppi a improvvisi shock economici, alle conseguenze dei conflitti, al cambiamento climatico o ad altri sconvolgimenti. Queste crisi producono fame diffusa, più alti livelli di disoccupazione e rabbia di fronte al peggioramento degli standard di vita e danno origine a molte protese che spesso vengono soppresse brutalmente. “La protezione sociale universale può far fronte alla violazione dei diritti economici e sociali che spesso sono all’origine di rivendicazioni e delle proteste. Invece di considerarle come un tentativo per reclamare diritti, le autorità spesso reagiscono alle proteste pacifiche con una forza eccessiva e non necessaria. Quello di protestare pacificamente è un diritto umano e per questo Amnesty International ha lanciato la campagna Proteggo la protesta”, ha commentato Callamard. Il rapporto di Amnesty International chiede ai creditori internazionali di aggiornare le scadenze o cancellare i debiti per consentire di finanziare meglio la protezione sociale. Segnala, inoltre, come garantire la protezione sociale negli stati a basso e medio-basso reddito costi circa 440,8 miliardi di dollari all’anno (stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro, Ilo), meno dei 500 miliardi di dollari che secondo la Rete per la giustizia fiscale vengono persi ogni anno dagli stati in favore dei paradisi fiscali. Amnesty International ha sollecitato gli stati ad agire insieme e a usare tutte le loro risorse, ad esempio riformando i sistemi di tassazione per fermare l’evasione fiscale e la conseguente perdita di ingenti somme, per contribuire ad assicurare la disponibilità di fondi per migliorare la protezione sociale. “Le persone sono state messe in ginocchio dalle crisi e quando si tratta di risolvere i problemi mondiali le soluzioni non sono quasi mai semplici. Sappiamo però cosa si deve fare: combattere seriamente l’evasione fiscale”, ha sottolineato Callamard. Per garantire il diritto alla sicurezza sociale, Amnesty International sostiene la proposta di istituire un Fondo globale per la protezione sociale, amministrato a livello internazionale, un’idea sulla quale si sono espressi favorevolmente il Relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, il segretario generale delle Nazioni Unite e l’Ilo. La creazione di un fondo del genere offrirebbe agli stati il sostegno tecnico e finanziario necessario per fornire protezione sociale e contribuirebbe a migliorare la risposta dei sistemi nazionali di protezione sociale di fronte alle crisi. Fame, povertà e proteste - La mancanza di un’adeguata sicurezza sociale può avere effetti catastrofici per un crescente numero di persone che non riesce a procurarsi il cibo. Secondo il Programma alimentare mondiale, 349 milioni di persone rischiano immediatamente la penuria di cibo e 828 milioni di persone ogni giorno vanno a dormire affamate. Inoltre, secondo il Rapporto 2022 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, la pandemia da Covid-19 ha azzerato quasi quattro anni di passi avanti nella riduzione della povertà e ha posto altri 93 milioni di persone in condizioni di povertà estrema, ossia con meno di 2,15 dollari a disposizione al giorno. La mancanza di misure efficaci per mitigare l’inflazione e la penuria di cibo hanno peggiorato gli standard di vita e questo ha contributo a scatenare proteste in tutto il mondo, come di recente è avvenuto in Iran, Sierra Leone e Sri Lanka. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di altri prodotti essenziali ha colpito maggiormente negli stati a basso reddito ma l’aumento del ricorso alle “banche del cibo” negli stati ricchi dimostra che la crisi alimentare e del costo della vita è assai diffusa. L’invasione russa dell’Ucraina, uno dei principali produttori di grano, ha avuto un effetto devastante alle forniture mondiali di cibo. L’indice dei prezzi dei beni alimentari dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) ha raggiunto il punto più alto dal 1990. Il cambiamento climatico e l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti hanno colpito a loro volta la produzione agricola. La siccità è la principale singola causa della riduzione dei raccolti. Sicurezza sociale, tasse e debito - Insieme a un crescente numero di esperti e di organizzazioni della società civile, Amnesty International sta chiedendo agli stati di arrivare progressivamente a una protezione sociale universale e a realizzare i benefici che porterà. “Proteggere le persone dalle perdite causate dagli shock, dai disastri o da periodi economici di crisi può trasformare sia le società che gli stati, riducendo conflitti e tensioni sociali e favorendo la ripresa. Significa che i bambini e le bambine possono continuare a frequentare le scuole, la sanità migliora, la povertà e la disparità di reddito si riducono e le società nel loro complesso traggono un beneficio dal punto di vista economico”, ha proseguito Callamard. “Non possiamo continuare a voltarci dall’altra parte mentre cresce la disuguaglianza e coloro che lottano contro le difficoltà sono lasciati soli a soffrire. L’evasione e l’elusione fiscale da parte di singole persone e imprese stanno privando gli stati, soprattutto quelli a basso reddito, delle risorse di cui hanno bisogno”, ha concluso Callamard. Gli alti livelli del debito e i costi per ripagarli fanno sì che spesso gli stati pesantemente indebitati non abbiano la possibilità finanziaria di realizzare le aspirazioni di sicurezza sociale. Secondo Oxfam, gli stati a basso reddito spendono quattro volte di più per ripagare il debito rispetto alla fornitura di servizi di sanità pubblica e dodici volte di più rispetto alla fornitura di protezione sociale. Il Rapporto annuale del Fondo monetario internazionale ha rilevato come circa il 60 per cento degli stati a basso reddito siano in sofferenza o ad alto rischio di sofferenza da debito e possano finire in default. La cancellazione o la rinegoziazione del debito renderebbero disponibili rilevanti fondi in molti stati da destinare alla protezione sociale. Medio Oriente. “Un’ impunità eccezionale, nessuna giustizia per Shireen” di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 maggio 2023 Intervista al fratello, Tony Abu Akleh: “Il clamore internazionale non ha impedito l’uccisione di tanti altri palestinesi. Nessuna indagine seria, vera, è stata aperta per tutte queste uccisioni”. Shireen Abu Akleh, palestinese di Gerusalemme con passaporto statunitense, era il volto e la voce di Al Jazeera nella Cisgiordania occupata. Instancabile, presente ovunque, aveva raccontato per oltre vent’anni, dalla seconda Intifada in poi, la vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione militare: chiusure di città e villaggi, posti di blocco, ostacoli economici, proteste, manifestazioni, incursioni militari israeliane e di tanti, troppi, morti e feriti. L’11 maggio 2022 era giunta a Jenin alle prime luci del giorno con i suoi colleghi per seguire un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi della città. Un’altra giornata di lavoro intenso ma non più di tante altre. Invece le immagini riprese con telefoni e telecamere la mostrano mentre, all’improvviso, crolla uccisa all’istante da un proiettile. Israele inizialmente ha negato ogni responsabilità puntando l’indice contro i combattenti palestinesi. Poi, sotto l’incalzare delle inchieste svolte da più parti, ha ammesso che lo sparo è con ogni probabilità partito da un suo soldato ma per errore. E ha chiuso l’indagine della procura militare senza prendere provvedimenti, incurante delle proteste internazionali e della famiglia Abu Akleh che sostiene la tesi di un colpo sparato intenzionalmente dai militari. A un anno di distanza abbiamo intervistato a Gerusalemme Tony Abu Akleh, fratello di Shireen. Cosa ricorda di quel giorno? Mi trovavo in Somalia per lavoro, sono un dipendente delle Nazioni unite. Mi sono svegliato presto quel giorno, era un mercoledì. Ho preparato il tè come ogni mattina quando, più o meno alle 6.30, mi è apparsa una notifica sullo schermo del cellulare. Poche parole: la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata ferita da colpi d’arma da fuoco a Jenin. Sono rimasto senza fiato per diversi secondi. Poi ho cominciato nervosamente a chiamare Shireen sul suo telefono. Squillava a vuoto. Allora ho accesso la tv sperando di trovare qualche notizia, niente. Ho telefonato a mia figlia Lina, anche lei non sapeva nulla. Ho creduto di impazzire, andavo avanti e indietro nella stanza. Poi, qualche minuto dopo le 7 in tv hanno dato la notizia su Al Jazeera: Shireen Abu Akleh è morta, uccisa da colpi sparati dagli israeliani. Devastato dal dolore ho raggiunto l’aeroporto per rientrare a casa con il primo volo. Quando sono arrivato c’erano tante persone. Parlavano dei funerali, delle cose da fare, ognuno dava un resoconto dell’accaduto. Io mi stringevo ai miei famigliari distrutti dal dolore. Il giorno dopo si sono svolti i funerali di Stato organizzati dal presidente dell’Anp Abu Mazen. Il venerdì abbiamo sepolto Shireen al termine di una giornata di tensione segnata anche dalle cariche della polizia (israeliana) al corteo funebre. Cose che non si possono dimenticare. Avete sempre chiesto giustizia per Shireen, incassando una delusione dopo l’altra... Quella che fa più male è vedere che l’omicidio di Shireen e il successivo clamore internazionale non hanno impedito l’uccisione, giorno dopo giorno, di tanti altri palestinesi. Israele gode di un’eccezionale impunità. Nessuna indagine seria è stata aperta per tutte queste uccisioni, non solo quella di Shireen. Come famiglia abbiamo fatto il possibile. Siamo palestinesi ma anche cittadini statunitensi e negli Usa abbiamo provato con tutte le forze di ottenere giustizia per mia sorella. Ci siamo rivolti a parlamentari, avvocati, personalità politiche e amici per spingere le autorità americane a indagare su quanto accaduto. Non è stato facile ma alla fine siamo riusciti a ottenere l’apertura di un fascicolo da parte dell’Fbi. Vogliamo credere che quell’indagine andrà avanti e non si concluderà come le altre, a dir poco deludenti svolte dal coordinatore Usa per la sicurezza (in Israele) e dal Dipartimento di Stato. L’11 maggio di un anno fa è stato commesso un grave omicidio, un crimine che va indagato come ogni altro crimine senza fare sconti a nessuno. Ci sono state inchieste di più parti, inclusi importanti mezzi d’informazione, come Cnn e Al Jazeera. Tutte attribuiscono ai militari israeliani la responsabilità degli spari che hanno ucciso Shireen. Israele sostiene la tesi dell’errore. Voi insistete sull’intenzionalità... Proprio l’atteggiamento avuto da Israele, la sua volontà di non collaborare, ci dicono che la strada è quella. Speravamo che l’indagine del Dipartimento di Stato potesse fare piena luce. Gli Usa hanno anche ricevuto dall’Anp il proiettile che ha ucciso Shireen. Abbiamo appreso che gli esperti americani non l’hanno esaminato ma si sono affidati, per motivi ignoti, alla scientifica della polizia canadese. Un quadro caotico che alla fine ha prodotto l’adesione del Dipartimento di Stato alla versione israeliana dell’uccisione non intenzionale. Ne avete parlato con il segretario di Stato Blinken? Certo, gli abbiamo espresso tutti i nostri dubbi. Si è limitato ad assicurarci che avrebbe cercato di trovare risposte ai nostri interrogativi. Ma non abbiamo più avuto notizie. Le autorità israeliane vi hanno cercato? Mai. Anzi, solo una volta, il 12 maggio (dello scorso anno) per chiederci informazioni sui funerali di Shireen a Gerusalemme. Poi più nulla. Un anno di dolore, cosa vi ha aiutato in questi mesi? La solidarietà e la vicinanza di tutti i palestinesi. La stima e la riconoscenza che tutti hanno avuto per Shireen e il suo lavoro. Ci ha ripagato delle delusioni subite e portato sollievo dopo una perdita immensa. Turchia, ai confini del disastro di Giorgio Brizio La Stampa, 11 maggio 2023 Da Gaziantep alla frontiera con la Siria è una distesa di macerie e campi profughi. Ankara è lontana, l’aiuto arriva dalle ong. Una crisi su altre crisi. Una guerra che va avanti da 12 anni, una siccità figlia della crisi climatica, un grande esodo, un’emergenza abitativa, una pandemia, un’epidemia di colera. Ci voleva un terremoto per completare l’apocalisse. Siamo nell’estremo sud della Turchia, al confine con la Siria. Kilis si trova a cinquanta chilometri da Gaziantep, sessanta da Aleppo - entrambe hanno quasi due milioni di abitanti e sono state violentemente scosse dal sisma. Questa cittadina è da sempre un posto di frontiera, ma negli ultimi anni ha visto crescere in maniera esponenziale la sua popolazione al punto che le persone arrivate dalla Siria hanno superato i cittadini turchi. Molte famiglie vivono in garage, sottoscala, negozi sfitti e scantinati spesso senza luce né riscaldamento - in questo periodo dell’anno non è un gran problema, ma gli inverni qui sono estremamente rigidi: il giorno del terremoto, come se non fosse abbastanza, molte regioni della Turchia sono state investite da una bufera di neve che ha reso più difficili i soccorsi. In questo contesto di precarietà, per provare a offrire un aiuto concreto sei anni fa è nato “Smiling Family Kilis”, un progetto di una piccola onlus italiana, Una Mano Per Un Sorriso - for Children, che opera qui e in Kenya e si occupa di diritti per l’infanzia. A seconda delle necessità e dei fondi disponibili, questo programma prevede la distribuzione di medicine, voucher alimentari, pannolini, coperte e soprattutto una presenza costante sul territorio che si incarna nella figura di Majad, referente locale dell’associazione. Dalla sua finestra di casa, si vede la montagna dietro cui si trova Afrin, che a lungo ha fatto parte dell’esperienza del confederalismo democratico del Rojava e che dal 2018 è di fatto controllata dalla Turchia e da Tahrir al-Sham, costola di Al-Qaida. Se si sposta un po’lo sguardo, è facile distinguere in lontananza le tende di Bab al-Salam, un campo profughi che raccoglie decine di migliaia di persone e dove, fin quando è stato possibile, Una Mano Per Un Sorriso ha gestito una clinica pediatrica. I siriani rappresentano il gruppo di rifugiati più numeroso al mondo e la maggioranza di coloro che hanno lasciato la propria casa è rimasto in patria. Come nel caso di altri conflitti o catastrofi climatiche, nella speranza di poter tornare il prima possibile, le persone sfollate non superano confini e se lo fanno solitamente ne oltrepassano uno: Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq sono in cima alla lista dei Paesi che ospitano più rifugiati. La Germania è l’unica nazione europea tra le prime dieci, l’Italia è molto più indietro ma non meno coinvolta: era partita dalla Turchia l’imbarcazione che non è stata soccorsa in tempo e che si è rovesciata di fronte alla spiaggia di Cutro. Dallo scoppio della guerra, si stima che 6, 5 milioni di siriani abbiano lasciato il loro Paese. Questo esodo è stato in parte arginato dal muro di sicurezza inaugurato nel 2018 che si estende per 764 chilometri e che isola ancor di più la Turchia dal resto della comunità internazionale. L’embargo ha fatto sì che gli aiuti siano arrivati tardi e contingentati: quasi tutti, quei pochi a cui è stato concesso, sono passati dal varco di Öncüpinar, a due passi da Kilis, e da quello di Cilvegözü, che collega Iskenderun a Idlib, dove i testimoni hanno raccontato di aver visto negli anni attacchi di missili e droni, ma di non aver mai vissuto un terrore come quello portato tre mesi fa dal terremoto di magnitudo 7,8. Ad Afrin, dove si sono registrate decine di scosse, l’accesso della sanità continua a essere complesso, anche a causa degli attacchi jihadisti e della più recente operazione militare del governo turco “Spada ad Artiglio”, lanciata con la scusa dell’attentato a Istanbul a novembre, che ha danneggiato ospedali, cliniche, altre infrastrutture. Più che del terremoto, Kilis è divenuta epicentro di una nuova ondata migratoria: i danni non sono stati ingenti, ma le persone continuano ad avere paura. È uno dei motivi per cui Zeynab, Hanan e Arwa, tre ragazze sostenute dai progetti di Una Mano Per Un Sorriso, vorrebbero andarsene. Radwan, invece, vorrebbe diventare un medico e tornare in Siria per aiutare il suo Paese. Il 14enne Kays dice che prima del terremoto non era affatto interessato a studiare, ma che dopo di esso ha realizzato che può fare di più. Domenica c’è stata una nuova scossa di magnitudo 5: un’ora e mezzo di paralisi, poi la vita è ricominciata. Rahime con la sua famiglia ha percorso 1400 km per raggiungere l’Europa ed è riuscita ad entrare in Grecia guadando il fiume Nehri: è stata picchiata, derubata, e illegalmente riportata in Turchia. Nonostante le avversità di ogni sorta, queste famiglie non perdono la speranza e la loro accoglienza scalda il cuore più del çay, il tè.