“Tutte le pene devono tendere al reinserimento. Lo dice la Costituzione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 maggio 2023 Santi Consolo è da pochi giorni il nuovo Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia. Una personalità dall’alto profilo e dalla lunga esperienza. Consolo è stato Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia e ha svolto le funzioni di procuratore generale presso la Corte d'Appello a Caltanissetta e a Catanzaro. Ha, inoltre, fatto parte del Csm come componente togato. Dottor Consolo, quali sono le problematiche che si appresta ad affrontare nel suo nuovo ruolo in Sicilia? Io ho un ricordo di come erano gli istituti penitenziari fino al 2018. Gli aggiornamenti li apprendo soprattutto dalla stampa. Il mio nuovo ruolo mi porta a guardare le problematiche da una prospettiva diversa anche se la materia è la stessa di quando ero a capo del Dap. Il mio atteggiamento sarà di maggiore dialogo e disponibilità, innanzitutto con gli appartenenti alla amministrazione penitenziaria, con gli agenti di polizia penitenziaria, con i direttori, con gli educatori e con quanti, anche nel volontariato, lavorano presso gli istituti. Gradirei che ci fosse un dialogo collaborativo. Forte della mia esperienza, vorrei essere propositivo nella speranza che talune prospettazioni, ove condivise, vengano accettate. Spero, inoltre, che vengano apportati quei correttivi tali da migliorare le condizioni di tutti. Punti cardine della questione carceraria sono la rieducazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società. Questo vale anche per i condannati per i reati più gravi. È una cosa fattibile? Si è dimostrato che è anche fattibile. Il peggior nemico è l’indifferenza. Molte persone, nella migliore delle ipotesi, su queste problematiche sono indifferenti. Ma, molte altre sono anche intolleranti e spesso intervengono senza alcuna esperienza e comprensione di drammi e travagli di sofferenze umane gravissime. Non mi riferisco a coloro che lavorano nelle strutture penitenziarie; a questi mi rivolgo fiducioso per l’attuazione delle competenze del Garante regionale, che deve relazionarsi con le istituzioni che hanno a cuore il miglioramento sociale della nostra collettività e promuovere reinserimenti lavorativi sia dipendenti che autonomi, il recupero culturale e sociale e la formazione attraverso dei corsi. La formazione si dovrà proiettare in maniera corposa in tutti gli istituti penitenziari. Deve essere però una formazione effettiva e seria. Una formazione in cui si porta la persona ad apprendere e ad acquisire una abilità lavorativa, attraverso corsi che comportino la frequenza, attestati finali e certificazione spendibile a fini occupazionale. Dunque, il lavoro è una componente fondamentale per il recupero? La dignità della persona si attua attraverso questo percorso. Il ritorno all’ambiente libero consentirà di fare scelte appropriate e utili anche per la collettività. Inoltre, quando si parla di benessere dei detenuti, bisogna pensare al benessere di quanti sono a stretto contatto con loro, che ogni giorno avvertono un disagio per la condizione di sofferenza e di intolleranza che può manifestare la persona detenuta che spesso versa in grave stato di disagio psichico. In tutto questo contesto sarà utile relazionarsi con la Cassa delle ammende, che, purtroppo, non è più nella disponibilità diretta del Capo del Dipartimento. Rieducazione e percorso di recupero con esperienze lavorative abbassano la percentuale di recidiva. Sono due elementi che si muovono insieme? Certo. Si è parlato sempre di una sorta di contrapposizione, quasi di antagonismo, tra libertà e sicurezza sociale. Le due cose non sono in antitesi. Il problema è trovare un equilibrio di fondo tra questi due valori. Se accentuiamo la paura, che aumenta laddove ci sono maggiori libertà e maggiori capacità di autodeterminazione, non facciamo un buon servizio. La libertà si deve accompagnare anche alla responsabilizzazione del soggetto. La persona deve maturare comprendendo che laddove sbaglia, ne avrà un danno. Mentre ove si manifesta collaborativa e crea un clima di fiducia, tutto diverrà più facile. Il problema è trattare questi elementi con intelligenza e con un senso di equilibrio che portano lontano da contrapposizioni tanto provocatorie quanto sterili. L’aggressività, anche nel confrontarsi, non è mai utile. Purtroppo, molti confidano nella forza. Ritengono che sia vincente. È bene che si corregga un certo modo di vedere le cose. Alcune trasmissioni tv tentano di far passare un teorema: la rieducazione e il reinserimento sociale valgono solo per alcune categorie di detenuti. Per altre è impossibile, essendoci una sorta di marchio di infamia, legato all’appartenenza in passato ad una determinata parte politica. Un pregiudizio che distoglie dal vero obiettivo, vale a dire l’autentico recupero di chi ha commesso reati anche gravi? Io prescindo da vicende e valutazioni che non conosco nello specifico. Sulle questioni generali posso però rispondere secondo quelli che sono i principi della nostra Costituzione, di rispetto del vivere civile. La Costituzione ci dice che tutte le pene, nessuna esclusa, devono tendere al reinserimento sociale, devono avere una funzione di emenda. Questo vale per tutti. Quando ero a capo del Dap, per l’esecuzione delle misure di sicurezza nei confronti di soggetti sottoposti al 41- bis abbiamo avuto grossi problemi per applicare la legge. Alcune modifiche e alcuni correttivi sono necessari. Non possiamo scandalizzarci per questo. Laddove i rischi sono maggiori ci devono essere dei controlli precisi ed incisivi. Elidere del tutto la speranza per un cambiamento e per una rieducazione a me pare un fuor d’opera. Io ho visto a tratti una trasmissione alla quale anche lei ha fatto cenno. Ci si sorprendeva del fatto che alcune persone fossero ammesse alla semi-libertà presso ambienti di lavoro i cui datori, forse, non avevano quelle qualità per garantire la rieducazione e il reinserimento. Di questo credo che se ne debbano fare carico tutti. Per prima la magistratura di sorveglianza, quando valuta l’ammissione a una misura alternativa. Nella mia esperienza di magistrato di sorveglianza la prima verifica riguardava le qualità del datore di lavoro e l’affidabilità dell’ambiente in cui la persona andava a lavorare. Se noi facciamo una prospettazione unilaterale e un po’ scandalistica, è evidente che veicoliamo un messaggio negativo. Gli errori nessuno li nega e ci possono essere nella misura in cui il tutto passa attraverso un credito di fiducia. Molti magistrati di sorveglianza, dando dei permessi premio, non hanno visto ripagata la fiducia concessa. Non per questo si annulla uno strumento che facilita il reinserimento sociale della persona. Tutto va fatto con la doverosa prudenza. La forza mediatica rappresentativa per immagini non sempre è nel giusto. Verità e giustizia, come insegna Karl Popper, si ricercano attraversano attraverso tormenti di dubbi e confronti. Report e lo sconosciuto mondo dell’esecuzione penale: ecco come ti costruisco un teorema di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2023 Il programma di Rai3 ha messo su un vero e proprio frullatore, che crea una narrazione “suggestiva”, ma costellata da omissioni e improbabili fili logici. Insinuazioni, sospetti, l’idea di fondo che esista un sistema con a capo gli ex neofascisti, alcuni ex detenuti terroristi neri, che attraverso le loro cooperative condizionano le scelte della magistratura di sorveglianza per la concessione o meno delle misure alternative alla detenzione. E associazioni lontane anni luce dal neofascismo come “Nessuno Tocchi Caino” o i membri storici dell’associazione “Antigone” come il garante regionale Stefano Anastasìa, usate come strumento per favorire questo sistema. È l’ennesimo teorema di Report, la trasmissione di Rai3 in prima serata. Lo fa insinuando sospetti a persone integerrime, che credono nel loro lavoro per far rispettare i diritti durante l’esecuzione penale e che si sono battute contro le torture che avvengono nella Patrie Galere. Persone con un curriculum di tutto rispetto come l’avvocata Simona Filippi, “rea” di aver difeso l’ex senatore Marcello Dell’Utri per chiedere una misura alternativa per gravi motivi di salute. Non fu poi scarcerato per istanza dell’avvocata, ma per autonoma iniziativa della stessa magistratura di sorveglianza visto che, di fatto, l’ex senatore si è dovuto operare non a uno, ma a ben tre tumori. E pensare che la stessa Filippi, per conto di “Antigone”, difende soprattutto gli extracomunitari, i senza fissa dimora, tossicodipendenti. Gli ultimi di questa terra. Ma bisogna costruire il teorema, basato ovviamente sul nulla e soprattutto ben sapendo che la stragrande maggioranza dei telespettatori è a digiuno del tema della detenzione, del lavoro fondamentale del terzo settore come appunto le cooperative che fanno lavorare i detenuti, il discorso della figura del garante e della magistratura di sorveglianza. E allora c’è gioco facile per creare un filo apparentemente logico. Ad esempio Report ripesca una dichiarazione del garante regionale del Lazio Stefano Anastasìa a favore della misura alternativa per Dell’Utri (evitando di dire che all’epoca c’era un dibattito pubblico sull’argomento e quindi, forse addirittura da Il Dubbio stesso o Radio Radicale, è stato intervistato per un parere) e poi lo collegano al fatto che “stranamente” in quello stesso periodo il suo ufficio ha assunto l’avvocata Filippi come consulente. Avvocata che difendeva all’epoca Dell’Utri per la questione detentiva. Basterebbe leggere il suo curriculum pubblico, e si scoprirebbe che forse è una delle rare persone che hanno una sterminata competenza per quanto riguarda l’esecuzione penale. E un giornalismo serio, avrebbe dovuto rendere noto il lavoro svolto durante la sua consulenza. Ad esempio grazie alle visite effettuate al carcere di Viterbo si è potuto scoprire l’orrore che accadeva dietro quelle mura. Ma di tutto questo, nel servizio di Report non vi è traccia. Ma per unire puntini inesistenti, rende noto che esistono cooperative che fanno lavorare i detenuti gestiti da ex terroristi neri. Per esempio, Report cita l’ex Nar, Luigi Ciavardini e la moglie, Germana De Angelis, che è presidente del “Gruppo Idee Aps”. Che cos’è? Una cooperativa che ha per finalità sociali la reintegrazione nella società delle persone detenute. E qui l’affare si fa grosso. Hanno svelato corruzione, sfruttamento della manodopera, gestione sospetta, tangenti? No, lo scandalo è che ci sono persone, provenienti dalla terribile lotta armata degli anni 70 e 80, le quali - finito di pagare per i propri errori - hanno deciso di guadagnare i soldi onestamente con il recupero dei detenuti. Uno scandalo vedere persone che, in gioventù, militavano nell’estrema destra e hanno commesso reati legati al fanatismo ideologico (così come, d’altronde, persone della lotta armata dell’estrema sinistra e alcuni di loro hanno creato cooperative simili), stanno mettendo in pratica l’articolo 27 della Costituzione nata dall’antifascismo. E addirittura è scandaloso che usufruiscano della cosiddetta legge Smuraglia, che prende il nome dell’ex partigiano recentemente morto. Dovrebbe essere un esempio virtuoso, e invece Report lancia il sospetto. Forse sarebbe stato meglio che si fossero dati alla delinquenza? Ma le “ombre nere” e quelle “mafiose”, seguendo la narrazione distorta di Report, trovano il loro anello di congiunzione nell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”. Lo scandalo è che Rita Bernardini ha visitato le carceri assieme a dei membri di Casapound. Così “indicibile”, tanto da renderlo noto come di consueto. Basterebbe seguire Radio Radicale. Ma si insinua il sospetto. Come diavolo si può concepire una associazione che mette in pratica, da tempo immemore, il pensiero radicale che consiste nell’accogliere chiunque voglia lottare per i diritti umani e per la difesa dello Stato di Diritto? Lo “scandalo” radicale è proprio questo. E forse, in nome della difesa dei sacri principi della costituzione, dovremmo esserne grati. Se persone di estrema destra vengono coinvolti per la difesa dei diritti dei detenuti, è tutto di guadagnato. Pensiamo a Sergio D’Elia, uno dei fondatori di “Nessuno Tocchi Caino”. Un uomo che è l’esempio vivente di come si possa passare dalla violenza (nel suo caso ideologica) alla non violenza, attraverso lo strumento del Diritto. D’altronde la stessa associazione è un macro laboratorio dove persone che hanno avuto trascorsi diversi, anche ideologicamente contrapposti, convivono e lottano per i principi umanitari. C’è, come detto, D’Elia, il quale ha un passato di sinistra extraparlamentare, ma anche Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, provenienti dall’organizzazione dell’estrema destra Nar. E l’altro scandalo che Report ha scoperto solo ora? Nel direttivo di qualche anno fa ci sono stati ben sette ergastolani ostativi, i protagonisti del docufilm “Spes contra spem” di Ambrogio Crespi. Un film che era stato presentato al Festival del Cinema di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma, alla presenza dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. In quel film sono loro, i carcerati, i “senza speranza” a raccontarsi. Report poi narra la stranezza che solo negli ultimi anni, l’associazione radicale, si sarebbe occupata dell’ergastolo ostativo e 41 bis. E ciò dimostra una ignoranza abissale. Le prime battaglie contro il carcere speciale la fecero proprio loro. Basti pensare al primo libro bianco contro il 41 bis a firma dello stesso D’Elia e Maurizio Turco, l’attuale presidente del Partito Radicale. Così come, non è una novità che nel partito si iscrivano anche detenuti mafiosi. Marco Pannella fece già “scandalo” quando si recò al carcere di Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il “papa della mafia”. Parliamo di 40 anni fa. Oppure, e siamo al 1987, lo “scandalo” di Giuseppe Piromalli. Parliamo dello spietato boss della ‘ndrangheta che da ergastolano si tesserò, ed era il periodo della campagna per il tesseramento finalizzato alla salvezza del Partito Radicale. Ecco cosa disse Marco Pannella in quella occasione: “Penso piuttosto che proprio Piromalli, non quello “trionfante” libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere “anche” radicale, “anche” nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale. Sta di fatto che egli ha voluto concorrere a “salvare” il Partito Radicale. Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare “potere”, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi”. E cosa fa Report? Non trovando nessun caso di cronaca, pesca l’unico evento avvenuto nell'arco di oltre mezzo secolo di battaglie nonviolente radicali. Il caso di Antonello Nicosia, arrestato con l’accusa di associazione mafiosa, che si iscrisse ai radicali italiani e approfittò delle visite in carcere per millantare credibilità di fronte a detenuti dentro per mafia. La stessa Rita Bernardini, vedendo come si comportava in maniera non professionale, aveva interrotto i rapporti. D’altronde anche il giudice che ha convalidato l’arresto, ha ben distinto la sua posizione da quella dei radicali che si battono legittimamente per la tutela dei dritti umani. Ma tutto questo Report (forse) non lo sa. Responsabilizzare i pm sulle “fughe di notizie”: la giusta risposta di Nordio di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 10 maggio 2023 Tutelare davvero il segreto d’indagine: il ministro ha inserito l’obiettivo tra le priorità del proprio disegno riformatore. Ed è opportuno che punti a chiarire i ruoli, piuttosto che prolungare (a danno della difesa) i termini di inaccessibilità degli atti. Uno degli interventi di riforma prefigurati recentemente dal ministro Nordio, che compongono un complessivo disegno di revisione di tutti quei meccanismi processuali nei quali quotidianamente si calpestano il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza, concerne la proposta di estendere quanto più possibile il momento temporale di vigenza del segreto di indagine, ovvero di inasprire le sanzioni del divieto di pubblicazione degli atti (coperti o non più da segreto di indagine). Tutto ciò a seguito della presa d’atto di come la fase più delicata dell’intero procedimento penale, quella delle indagini, sia ormai alla mercé di tutti, contribuendo tale anticipazione delle risultanze investigative a minare alla radice i diritti e le garanzie difensive della persona sottoposta a indagini. Problema ulteriormente e drammaticamente acuito dall’ormai inarrestabile fenomeno della massmediatizzazione della giustizia penale, che ha trasformato la (legittima) domanda di informazione sulla giustizia da parte dell’opinione pubblica (pur sempre amministrata in nome del popolo) in un bisogno ossessivo e compulsivo di celebrare il processo penale nei salotti televisivi, con l’ausilio di esperti ed elementi di prova che in quei salotti non dovrebbero in alcun modo circolare (stralci di intercettazioni, copie di richieste di misure cautelari e ordinanze applicative, decreti di perquisizione, verbali di “sit” o di interrogatori etc...). Attualmente, infatti, il Codice di rito, unitamente alla disciplina sostanziale, prevedono, il segreto e il contestuale divieto di pubblicazione degli atti di indagine compiuti dagli inquirenti (pm o ufficiali di polizia giudiziaria) fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (obbligo di segreto e divieto di pubblicazione sono eventualmente prorogabili dal pubblico ministero in caso di necessità). Ugualmente e in via più generale - anche caduto il segreto di indagine sui singoli atti - si pone comunque il divieto di pubblicazione degli atti, eccetto alcuni, finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare, così come è sempre vietata la pubblicazione degli stralci e dei contenuti delle intercettazioni. L’apparato sanzionatorio di tale complessa disciplina si divide a seconda che sia violato il (solo) divieto di pubblicazione ovvero (anche) quest’ultimo unitamente alla diffusione di notizie inerenti atti coperti da segreto di indagine. Nel primo caso, infatti, l’ordinamento sanziona a mero titolo contravvenzionale (con una minaccia di pena del tutto irrisoria) la diffusione di atti o documenti di un procedimento penale dei quali sia vietata la pubblicazione, oltre alla possibilità di commettere un illecito disciplinare (che andrebbe perseguito dall’organo titolare del relativo potere disciplinare). Nel secondo caso, si prevede la punibilità per il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio per i pubblici ufficiali che rivelino notizie dell’ufficio che debbano rimanere segrete. Una disciplina - nel complesso - apparentemente esaustiva ma che, tuttavia, ha da sempre mostrato (soprattutto sul fronte della pubblicazione degli atti coperti da segreto di indagine) tutte le sue criticità e lacune in materia di efficacia preventiva, prima, e sanzionatoria, poi, delle condotte vietate. Da qui si inserisce l’idea del ministro Nordio - al di là di alcune proposte, apprezzabili nel loro intento ma foriere di riserve (come quella che vorrebbe estendere anche oltre la fase delle indagini l’obbligo di segretezza fino al dibattimento, potenzialmente controproducente per le stesse difese e parti private, ovvero quella che vorrebbe dare nuova linfa al divieto di pubblicazione degli atti, potenzialmente pregiudicando il diritto di cronaca) - di introdurre, sulla falsariga dei procedimenti amministrativi, un “responsabile del segreto” per ciascuno dei segmenti di sviluppo delle attività investigative e di indagine. Una proposta - come la maggior parte di quelle sino ad ora avanzate dal guardasigilli - che, prima ancora dei fini meccanismi di diritto sottesi, richiama una riflessione sulle derive che la giustizia penale ha assunto in Italia. La ratio, infatti, non può che trovare piena condivisione da parte di chi - come chi scrive - avvocato penalista, si trova quotidianamente a dover raccontare ai propri assistiti che la legge, di per sé sola, non può tutto quando chi quella legge deve applicare si dimostra accondiscendente ad altri valori o principi ritenuti maggiormente meritevoli di tutela. L’intento della proposta del ministro Nordio - al netto delle riflessioni “operative” che necessariamente si imporranno, per capire le modalità del controllo da parte di questo responsabile del segreto (per evitare che lo stesso possa essere sanzionato a mero titolo di responsabilità di posizione), i suoi poteri e i suoi doveri - si inserisce, dunque, nella univoca e quanto mai necessaria prospettiva di riequilibrare il sistema di valori che, per Costituzione, deve governare il processo penale: primo e solenne tra tutti, la presunzione di non colpevolezza, che dev’essere garantita - a maggior ragione - sin dalle primissime battute di inizio di un’indagine penale, con una decisa selezione di quanto può o non può essere divulgato o pubblicato. “Un Gip collegiale? Utile, ma irrealizzabile: le toghe scarseggiano” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 maggio 2023 Intervista a Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica e sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria. Cosa ne pensa di sostituire il gip con un organo collegiale per le ordinanze custodiali? Se più persone possono valutare una richiesta cautelare l’esito non potrà che essere migliore, ma è una proposta irrealizzabile ad organici immutati. In che senso? Non ci sono magistrati a sufficienza per gestire in forma collegiale le misure cautelari pendenti. Non credo che più di tre o quattro tribunali metropolitani abbiano risorse per gestire una riforma siffatta, ma ben presto andrebbero in crisi anche quelli. Abbiamo raccolto testimonianze di avvocati ma anche di ex magistrati secondo le quali l’informativa di polizia giudiziaria si ritrova poi attraverso un copia e incolla nelle ordinanze di custodia cautelare. Per alcuni ciò deriva dal fatto che i gip hanno troppo lavoro, per altri c’è una sorta di sudditanza nei confronti dei pm. Lei riscontra questo fenomeno? E se sì, quali sarebbero le cause? Non è patologico riportare nell’ordinanza cautelare una fonte di prova, attraverso il cosiddetto copia- incolla della informativa a ciò dedicata, piuttosto l’onere del pubblico ministero e del gip dopo è verificare la capacità di resistenza logica e giuridica di quella dimostrazione a spiegazioni alternative plausibili, oltre che verificare la sussistenza nel fatto, così accertato, di tutti gli elementi costitutivi del reato per cui si procede. Le faccio un esempio. Prego... Non è affatto patologico che un gip in un’ordinanza cautelare riporti pedissequamente una parte dell’informativa della polizia giudiziaria per venti pagine, se poi nell’unica pagina successiva è capace di illustrare perché quei risultati probatori sono logicamente solidi e sono indicativi della integrazione della fattispecie di reato contestata. Anzi, a mio giudizio, quel gip avrebbe svolto bene il suo lavoro! Il ministero della Giustizia sta pensando di sostituire il gip con Tribunale del Riesame per poi prevedere il ricorso in Corte di Appello. Fattibile? È una ipotesi non percorribile. Con le risorse attuali i Tribunali del Riesame non riuscirebbero a gestire - in forma collegiale - il carico di lavoro oggi smaltito dai gip, in forma monocratica. Ma soprattutto sarebbe impossibile per le Corti di Appello reggere l’impatto del nuovo carico di lavoro. Chi fa queste proposte non sa che già oggi molte Corti di Appello non sono in grado di gestire gli stringenti termini dell’improcedibilità, imposti dalla riforma Cartabia (una sorta di amnistia generale, imputata alla magistratura, perché il Parlamento non se ne vuole assumere la responsabilità)? Non sa che molte Corti di Appello gestiscono a fatica i soli processi con detenuti? Come si immagina di scaricare ulteriore attività su Uffici che sono già al limite o sotto il limite della capacità di gestione degli affari correnti? Senza trascurare il problema dell’incompatibilità... Questa amplificherebbe i problemi che ho sopra segnalato, creando ulteriori ostacoli alla gestione delle poche risorse disponibili, sino a generare un irrisolvibile corto- circuito organizzativo. Insomma, un gran pasticcio! Posto che comunque lei è d’accordo sul principio della collegialità, in sintesi ritiene che sia infattibile a cause delle risorse che mancano? Sì, c’è un problema reale di risorse umane: senza un aumento significativo degli organici nessuna riforma che impone una maggiore partecipazione dei giudici alle decisioni può trovare sfogo. Oltre a ciò si dovrebbe rivedere anche la struttura del processo. Che intende? Immagino una riforma che possa coinvolgere l’intera struttura portante del processo, creando delle sezioni pre-dibattimentali che sostituiscano il gip con competenze nuove ed autonome, agendo in composizione monocratica o collegiale a seconda della rilevanza del bene giuridico coinvolto. Ad esempio una misura cautelare reale o non coercitiva potrà essere definita da un solo magistrato, mentre quelle personali coercitive potrebbero essere decise da un collegio. Ma anche in questo caso, nessuna riforma può essere immaginata senza un ponderale aumento degli organici. Cosa pensa di un super interrogatorio prima dell’arresto? Tutte le forme di anticipazione del contraddittorio, rispetto all’emissione della misura cautelare, sono efficaci. Una delle differenze tra quando il gip emette la misura e il momento in cui la stessa misura viene esaminata dal Tribunale del Riesame è proprio questa: che quando si arriva al Riesame il quadro probatorio è cambiato, perché l’intervento dell’indagato con il suo interrogatorio e del suo avvocato con le produzioni e gli argomenti difensivi consentono al giudice di avere una visione più ampia e consapevole del tema di prova. Il punto è capire se e quanto questa previsione è compatibile con il pericolo di fuga e, soprattutto, con la gestione di misure cautelari che coinvolgono molte persone. Ogni volta che il numero dei soggetti coinvolti si amplia, la gestione di questa fase preliminare diventa complessa. Divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare: come bilanciare i diritti in gioco? Credo che si tratti di un difficile equilibrio. L’informazione sull’applicazione di misure cautelari è funzionale alla trasparenza ed alla conoscibilità dell’attività giurisdizionale, che sono requisiti connaturati ed essenziali al suo esercizio. Il diritto dell’indagato a non essere pregiudicato da questa informazione può essere garantito molto più dalla cultura, dalla deontologia e dalla professionalità dei giornalisti, piuttosto che da improbabili divieti. Purtroppo la bulimia del circuito mediatico ha bisogno sempre di nuove e sensazionali notizie e questo deteriora la qualità dell’informazione a discapito dei diritti di immagine di chi ne diventa oggetto. È una decadenza culturale dalla quale non credo se ne esca, imponendo divieti. Violenza sulle donne, i braccialetti anti stalking sono una soluzione ma i giudici la ignorano di Rita Rapisardi L'Espresso, 10 maggio 2023 Per anni sono stati pochi quelli in dotazione, oggi il problema sembra risolto. Ma manca la cultura dell’utilizzo: una misura efficace che non viene usata. Eppure si potrebbero salvare tante vite. “Lavoreremo per garantire la certezza della pena, per potenziare le misure di protezione delle vittime e rafforzare il ricorso allo strumento dei braccialetti elettronici, che spesso non vengono applicati perché semplicemente non ce ne sono”, così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo discorso per la Giornata internazionale della violenza sulle donne, il novembre scorso. Nel grande piano del governo che coinvolgerà tre dicasteri, Giustizia, Interno e Pari Opportunità, con obiettivi “prevenzione, protezione e certezza della pena”, i braccialetti elettronici sono una priorità assoluta. Ma la loro storia di mancata applicazione, per penuria prima e poca richiesta da parte delle autorità competenti dopo, potrebbero rendere il tutto difficoltoso. Introdotti con un decreto legge nel 2000, come svuota carceri e favorire i domiciliari, di braccialetti nel primo decennio se ne contano poche decine, attivati a fronte di milioni di euro di spesa per lo Stato. Le cose iniziano a cambiare nel 2013 con la sottoscrizione della Convenzione di Istanbul e con l’introduzione del Codice Rosso nel 2019 e l’apertura del braccialetto ai casi di violenza domestica e stalking. Una misura cautelare da valutare in seguito a una denuncia e un’indagine in corso e richiesto dal giudice come misura di protezione della vittima. In questi casi i dispositivi sono due: il braccialetto e un dispositivo in possesso da parte della vittima che l’avverte qualora l’aggressore si avvicini troppo; contemporaneamente un segnale allerta le forze dell’ordine che mandano una pattuglia a controllo. Le problematiche di approvvigionamento continuano almeno fino all’anno scorso: nel 2017 il ministero dell’Interno stipula una gara per la fornitura, vinta poi da Fastweb. La società dal 2018 avrebbe dovuto fornire 1000-1200 braccialetti al mese per tre anni (quelli anti stalking sono una piccola parte), per un totale di 43.200 dispositivi e un costo complessivo di 23 milioni di euro. A ciò si aggiunge uno stanziamento al ministero degli Interni per la messa in pratica dei dispositivi elettronici di undici milioni euro per il 2020, ventuno per il 2021 e ventuno per il 2022. Va sottolineato che i braccialetti elettronici sono strumenti costosi, ognuno costerebbe circa 86.500 euro, in base ad una valutazione dell'Organismo Unitario della Avvocatura. Nel 2021 in seguito a un’interrogazione parlamentare di Roberto Giacchetti fatta l’anno precedente al sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, si apprende che in dotazione ce ne sono solo 2600, quando sarebbero dovuti essere 24mila. Problema vivo anche durante il periodo Covid dove si cerca di alleggerire le carceri per chi ha una detenzione da scontare inferiore ai sei mesi: motivo per cui, nonostante il contratto con Fastweb, il commissario straordinario Arcuri ne richiede sempre all’azienda ulteriori 1600. Nel 2021 il ministero fa sapere che quelli attivi sono 4.595, 850 quelli che consentono di proteggere le vittime di violenza. “La colpa non è di Fastweb, in realtà, il quantitativo dipende da quanto richiesto di volta in volta da Ministero dell’interno. In sostanza il numero di braccialetti in uso dipende non da una carenza di dispositivi, ma esclusivamente dalle attivazioni e disattivazioni disposte dalle Autorità competenti”, denuncia la polizia penitenziaria. “Il problema di approvvigionamento è superato, i braccialetti ci sono, disponibili in tutta Italia, ma ne vengono utilizzati solo tra i tremila e i quattromila l’anno”, spiega il procuratore di Tivoli Francesco Menditto, che ha messo in piedi il cosiddetto “modello Tivoli” noto a livello internazionale, basato proprio sull’uso dei braccialetti. “Quando arrivai a Tivoli ‘si diceva’ che non c’erano, accertai che non era vero; li chiediamo e i giudici li applicano, è più una mancata attenzione all’utilizzo dello strumento”. Una “pigrizia”, aggiunge il procuratore, che si potrebbe risolvere inserendo l’obbligatorietà del braccialetto elettronico, salvo motivazioni specifiche, per questo tipo di reati. Quindi per il procuratore i braccialetti ci sono, ma sono poche le richieste. Un altro aspetto per cui “la legge è fatta male”, continua Menditto, è il necessario consenso da parte dell’aggressore all’utilizzo: “Bisognerebbe fare come per gli arresti domiciliari, in caso di rifiuto si valuta il carcere. Ne ho sentite di scuse per non usare il braccialetto: “soffro di allergie”, “ho il pacemaker”, “rischio la vita”. Noi consideriamo il rifiuto un indice di pericolosità, quindi chiediamo una misura più grave”. A questo si aggiunge la valutazione della distanza: “La legge dovrebbe imporre una distanza minima, da 500 a 1000 metri. Ho seguito casi per cui il giudice dava 100 metri, senza così dare tempo alla pattuglia di intervenire”. Un disegno di legge presentato nella passata legislatura da quattro ministre (Bonetti, Cartabia, Gelmini e Lamorgese) ora fermo in Parlamento, prevede alcune migliorie: non solo la cancellazione del consenso da parte dell’aggressore, ma anche la possibilità di procedere d’ufficio (e non dopo denuncia) e l’arresto in caso di violazione del divieto di avvicinamento (non più quindi in flagranza di reato). “Il braccialetto elettronico non solo è utile, lo definirei indispensabile per proteggere di più e meglio le donne in casi di violenza”, commenta la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidi nella scorsa legislatura, “A questo scopo bisogna soprattutto lavorare sulle misure cautelari che sono la precondizione per l’applicazione del braccialetto. Il tema centrale è che il pm deve riconoscere, da subito, la violenza, comprendendo e valutando il rischio per la donna e dunque la pericolosità sociale dell’uomo che agisce la violenza. Per questo è fondamentale la formazione e la specializzazione dei pm”. Spesso la violenza non è infatti tempestivamente riconosciuta o come, si legge nelle archiviazioni delle denunce di violenza, è declassata a conflitto tra partner. L’utilizzo però dice che se si applicano i braccialetti, le violazioni sono irrisorie, tradotto, possono voler dire vite salvate. Il primo trimestre del 2023 conta oltre trenta vittime, in aumento rispetto l’anno precedente, e la maggior parte di queste donne aveva denunciato il proprio aggressore. Ma le denunce spesso non bastano, anzi, diventano ulteriore motivo di escalation e persecuzione per le donne. Le recidive, secondo la Commissione Femminicidi, anche dopo il carcere, sono altissime, circa l’85% dei casi; motivo per cui la procura di Tivoli utilizza il braccialetto anche dopo la fine della detenzione. Il dispositivo funziona da deterrente, è applicato per tutto il tempo del procedimento giudiziario e, solo a discrezione del giudice, dopo una valutazione di buona condotta, dopo sei mesi o un anno se ne valuta la sospensione. La loro efficacia è dimostrata anche se si guarda fuori dall’Italia. In Spagna nel 2019 i socialisti hanno attuato una grande riforma sul contrasto alla violenza sulle donne che ha spinto sull’utilizzo dei braccialetti, definiti una misura contro “il terrorismo machista”: in nessun caso si sono verificate ulteriori violenze. Ma i numeri anche in questi casi sono limitati: circa 3mila l’anno in Spagna, 4mila in Uk, 2500 in Australia. “Purtroppo il numero di braccialetti elettronici è ad oggi sempre molto esiguo rispetto alle effettive esigenze, legate sia alla necessità di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, sia all'alto numero annuale di denunce per maltrattamenti domestici e stalking”, spiega Michela Nacca, avvocata e presidente di Maison Antigone, che aggiunge: “Rimane il problema del fattore umano: ossia la sottovalutazione del pericolo corso dalla vittima, che può indurre il gip a ritenere non necessaria la richiesta di adozione del braccialetto elettronico, oltre il provvedimento di non avvicinamento per l'imputato. Per tale motivo le richieste in tal senso sarebbero ancora rare”. I dati però sono chiari: circa il 60-80% dei casi le denunce per maltrattamenti e stalking finiscono archiviate, e le vittime continuano a rimanere esposte al rischio di rivittimizzazione. “Contro questo fenomeno distorsivo purtroppo non esistono braccialetti salvavita che possano proteggere le donne”, conclude Nacca. Milano. “Minori in carcere, metà sono stranieri e soli. Non lasciamoli in cella” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 10 maggio 2023 Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni: disagio e droga, urgenti centri specializzati. Aumentano di giorno in giorno, sempre di più. Sono i minorenni stranieri “non accompagnati”, ragazzi che arrivano soli in Italia seguendo le rotte dell’immigrazione, traumatizzati dalle violenze subite e finiscono nelle maglie della giustizia perché commettono reati, anche gravi. E quando entrano nel carcere minorile sono protagonisti di incidenti spesso spinti dalle patologie psicologiche e dall’astinenza dalla droga. “La situazione è grave. Il problema è che il sistema non è in grado di accoglierli”, dice Maria Carla Gatto, la presidente del Tribunale per i minorenni che dal prossimo luglio dovrà affrontare anche questo fenomeno su mezza Lombardia con solo 13 magistrati su 17 in organico. Nel primo quadrimestre di quest’anno nel carcere per minorenni Beccaria di Milano su un totale di 87 minorenni entrati, ben 40 sono non avevano nessuno in Italia, quasi tre volte il numero dei reclusi nello stesso periodo dell’anno scorso quando furono 14 su 59. Nonostante il numero complessivo di questo tipo di ragazzi nel distretto del Tribunale di Milano, che comprende otto province, si sia ridotto nello stesso periodo da 482 a 237. Ne arrivano di meno, ma commettono più reati. “Questi giovani costituiscono un fenomeno al quale non si riesce a dare risposte adeguata”, aggiunge Gatto. Perché? Il problema dipende dalla mancanza di posti nelle comunità educative e trattamentali. A Milano, dove il Comune ne assiste 1.218 (senza contare i ragazzi arrivati dall’Ucraina in fuga dalla guerra), non sarà più possibile trovare posto. “È necessario - spiega Maria Carla Gatto - che le istituzioni intervengano prima che si arrivi all’ingresso in carcere, potenziando i presidi territoriali specialistici in modo che l’intercettazione del disagio di questi ragazzi e la valutazione dei percorsi terapeutici avvenga agli esordi delle problematiche, soprattutto per quanto riguarda l’uso di sostanze che creano dipendenza e che, sappiamo, possono avere gravi conseguenze sullo sviluppo e sul funzionamento psichico, quando l’età in cui si comincia a farne uso è molto giovane”. Sono 91 le misure cautelari emesse dal primo gennaio al 30 aprile scorso dai gip del Tribunale milanese. I ragazzi arrestati che non trovano posto al Beccaria vengono collocati in istituti di altre regioni. “La misura carceraria non sempre è la risposta più adeguata alle difficoltà dei ragazzi e al loro recupero. La detenzione, che spesso costituisce misura di aggravamento al collocamento in comunità, il più delle volte scatena comportamenti di una violenza inaudita contro gli altri ragazzi, contro gli agenti, che addirittura finiscono in pronto soccorso. Questo clima destabilizza tutti gli altri ospiti, vanificando gli interventi trattamentali che vengono avviati”, aggiunge la Presidente del Tribunale per i minorenni che non nasconde il timore che possano verificarsi episodi anche più gravi. “Le comunità sul nostro territorio mancano, molte anzi hanno sospeso la loro attività per carenza di educatori, e quando hanno un posto libero rifiutano di accogliere i minori stranieri non accompagnati che sono i più problematici”. La carenza di posti ha anche un risvolto paradossale perché, in attesa di trovare una comunità, i ragazzi italiani che commettono maltrattamenti in famiglia restano in casa. Il Tribunale, sottodimensionato nell’organico, “è in grande affanno per assicurare risposte tempestive alle richieste di intervento che riguardano un’infanzia e un’adolescenza sempre più fragile e in crescente difficoltà, amplificata - conclude Gatto - dall’isolamento e dall’incertezza sul proprio futuro”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Avvocati in visita al carcere: “Condizioni lesive della dignità” di Anna Grippo casertanews.it, 10 maggio 2023 L'ispezione alla Casa circondariale “Francesco Uccella” delle Camere penali: carenze organiche e mancato rispetto delle esigenze sanitarie nel mirino. Carenza di organico, assenza di figure sociali, infrastrutture indecorose ed irrispettose della dignità umana. Sono state queste le doglianze più comuni raccolte nella seconda tappa presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere grazie all'iniziativa “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati” promossa dall'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali Italiani, dall'associazione “Nessuno Tocchi Caino”, dal “Movimento Forense Dipartimento Carceri”, dal Garante dei Detenuti della Regione Campania supportata dalle Camere Penali di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord, Nola e Napoli. Si tratta di un 'tour' che ha preso il via l'8 maggio per terminare il 13 maggio negli istituti penitenziari della Campania in special modo quelli di Arienzo, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Sant'Angelo dei Lombardi di Avellino, Salerno. Tale 'viaggio della speranza' all'interno degli istituti di pena campani ha lo scopo di fotografarne lo stato di salute, in particolar modo grazie al confronto con i detenuti. “Esigenze sanitarie non soddisfatte” - “Da penalista la visita in un carcere è sempre emozionante - ha ammesso Francesco Saverio Petrillo presidente della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere - ed il confronto con la direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere ci ha dato tante speranze anche alla luce delle immagini terrificanti verificatesi proprio in quell'istituto nell'aprile 2020. La visita nei reparti, in particolare del settore Tevere, è stata agghiacciante. Il dato principale che è emerso è sicuramente l'assoluta insufficienza dell'organico della polizia penitenziaria rispetto al numero di detenuti (850 associati nella struttura sammaritana nda) oltre alla questione sanitaria. Le esigenze sanitarie dei detenuti sono soddisfatte con estrema lentezza. La visita all'articolazione della salute mentale ha fatto emergere un dato singolare. Alla luce dell'emergenza suicidi la psicologa ci ha spiegato che tra i detenuti vengono individuati dei piantoni che segnalano soggetti più deboli tra i loro compagni di cella e li assistono e li controllano”. Il nodo dei detenuti psichiatrici - Una carenza di figure sociali evidenziata dal Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello che ha fatto appello alle istituzioni competenti perché si bandiscano concorsi: “non è possibile che per 1506 detenuti necessitanti assistenza psichiatrica ci siano solo 4 posti all'interno della struttura di igiene mentale dell'ospedale di Sessa Aurunca”. Il viaggio della speranza nel reparto Tevere dell'istituto penitenziario sammaritano ha fatto emergere come la carenza di infrastrutture leda la dignità umana e non lasci spiragli di rieducazione per il recluso. Muffa, melma e topi: “Viaggio all'inferno” - Evidenze sottolineate dal responsabile dell'Osservatorio Carceri dell'Unione Camere Penali Italiane Riccardo Polidoro, che con il responsabile regionale Fabio Della Corte ha fatto visita al penitenziario. “La visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere è la tipica visita nell'inferno carceri - spiega Polidoro - Il Reparto Tevere in parte in ristrutturazione è vergognoso. Ci sono camerate enormi con 5 persone, le docce non sono in stanza ma poste in fondo al reparto, c'è muffa dappertutto, melma e topi”. A rafforzare tale situazione di degrado la responsabile dell'associazione Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini: “i bagni sono delle microcamere senza areazione né finestre con la melma a terra tanto che i detenuti (molti) fanno la doccia con i calzini ed nel bidet c'è solo acqua fredda. La muffa è ovunque, muschio a fare d'arredo che ti fa venire una malattia al solo contatto. Con situazioni del genere di degrado dove sta la rieducazione del detenuto?”. Una condizione di mancato rispetto e decoro della dignità umana raccolta dal presidente della Camera Penale di Napoli Nord Antonio Barbato. “È stata toccante la testimonianza di un detenuto che ci ha raccontato che in una simile condizione la cosa che gli pesava di più non era la privazione della libertà ma la privazione della dignità umana. Ecco da avvocati calati nella realtà che i nostri assistiti vivono quotidianamente non possiamo non farci portavoce di situazioni dove i fini costituzionali non sono rispettati”. “Serve intervento magistratura di sorveglianza” - Se da un lato è indispensabile raccogliere le testimonianze dei reclusi dall'altro è auspicabile un discorso diretto con la magistratura a parere del presidente della Camera Penale di Nola Antonio Manzi: “senza che la magistratura di sorveglianza intervenga il discorso è sempre limitato. Occorrono risposte dirette anche per le stesse istanze dei detenuti che o non vengono accolte o sono tardive e ciò ha un risvolto da non tralasciare sulla psicologia di un recluso. Si sentirà sempre come un reietto della società”. Un fine rieducativo della pena assente o carente è stato evidenziato anche dal responsabile dell'associazione Nessuno Tocchi Caino Sergio D'Elia dove ciò che loro svolgono ed “il senso del viaggio della speranza è quello di esercitare una missione costituzionalmente orientata”. Il sindaco: “Presto il canile nel carcere” - Spiragli positivi sono stati proposti dal primo cittadino di Santa Maria Capua Vetere Antonio Mirra che ha portato avanti una vera e propria battaglia per la realizzazione della condotta idrica presso l'istituto penitenziario sammaritano ed i nuovi propositi saranno quelli di “realizzare un canile comunale all'interno del carcere 'impiegando' i detenuti, la realizzazione di una struttura veterinaria accanto al carcere nonché l'implementazione delle biblioteche comunali anche nell'istituto penitenziario”. Brescia. Carceri, Nordio interviene sull'ampliamento di Verziano giornaledibrescia.it, 10 maggio 2023 Non ci sono ancora notizie certe né sulla questione del personale né sulla possibilità di trasferire i detenuti nel nuovo carcere di Verziano. È quello che emerge dalla risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio rispetto al carcere di Canton Mombello all’interrogazione presentata dal parlamentare bresciano del Pd Gian Antonio Girelli per avere riscontri in merito alla carenza di personale e al progetto, datato oramai 2018, per l'ampliamento dell'altro carcere, quello di Verziano. Scrive Nordio che “è in essere il progetto di realizzazione per le nuove strutture in ampliamento alla Casa di reclusione di Brescia “Verziano”, anche al fine di sostenere e superare le criticità conseguenti alla condizione strutturale e di sovraffollamento della Casa circondariale di Brescia “Canton Mombello”. Nella risposta il ministro della Giustizia conferma che la proposta è stata accolta da provveditorato interregionale OO.PP., che a sua volta ha “dato mandato alla società di ingegneria incaricata della progettazione di elaborare concepts e soluzioni progettuali rispondenti alle richieste dell'amministrazione penitenziaria e attualmente in fase di ultimazione”. Tuttavia non ci sono ancora tempi netti. E la replica di Girelli arriva su questo: “Ringraziando il Ministro Nordio per la risposta articolata, non possiamo non nutrire serie preoccupazioni per una ulteriore dilazione della risoluzione dei problemi che attanagliano il carcere cittadino. Sia sul versante del personale, dove vengono ammesse la mancanza di personale (previste da pianta organica 227, presenti 181) sia sul versante dell'ampliamento di Verziano (tempi incerti e nebulosi), non ritroviamo nella risposta alla mia interrogazione nessuna notizia rassicurante che possa perlomeno mettere un freno all'emergenza del sovraffollamento nel carcere di Canton Mombello. E appaiono non sufficienti le promesse di nuove assunzioni, per 14 unità, entro la fine dell'anno - spiega Girelli -. Chiediamo un'azione più celere da parte del Ministero di Grazia e Giustizia per mettere la situazione bresciana in cima alla lista delle priorità, e non come sembra dalla risposta alla interrogazione, tra le tante da risolvere”. Trento. Il sottosegretario Ostellari: “Impiegheremo i detenuti nei lavori di pubblica utilità secolo-trentino.com, 10 maggio 2023 “Ho partecipato personalmente ai primi due incontri già intercorsi nelle scorse settimane, a Trento e a Roma, cui ne sono seguiti altri. Il dialogo fra le parti per raggiungere rapidamente una soluzione è in corso. La voce dei trentini e del personale della Casa circondariale sarà ascoltata e le risposte arriveranno. Posso già annunciare che, in poche settimane, potremo già mettere a disposizione della Comunità trentina un’aliquota di detenuti da impegnare in lavori di pubblica utilità”. È quanto ha dichiarato il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari durante l’incontro istituzionale al dicastero voluto dalle parlamentari della Lega Vanessa Cattoi ed Elena Testor. “Siamo molto soddisfatte delle parole del sottosegretario - hanno dichiarato alla fine dell’incontro Cattoi e Testor - quelle di oggi sono la migliore risposta alle critiche che piovono da diverse parti sull’operato del governo nei confronti del nostro territorio. Dal tono del colloquio con Ostellari siamo convinte che in tempi brevi si troverà una soluzione anche per quanto riguarda le dotazioni organiche del personale di Polizia penitenziaria.” I detenuti che svolgono lavori di pubblica utilità sono una parte importante del sistema di giustizia penale. Questi detenuti svolgono attività di lavoro che vanno dal taglio dell’erba nei parchi pubblici alla pulizia delle strade, passando per la riparazione di infrastrutture stradali e la manutenzione di edifici pubblici. Ci sono molti vantaggi nel far svolgere a questi detenuti attività di pubblica utilità. In primo luogo, la comunità riceve servizi a basso costo e le città e gli stati risparmiano sui costi del lavoro. In secondo luogo, questi lavori danno ai detenuti un senso di utilità e di appartenenza alla comunità a cui appartengono, e allo stesso tempo permettono loro di acquisire abilità utili per la loro reintegrazione nella società. Nonostante i benefici, alcuni critici sostengono che far svolgere lavori di pubblica utilità ai detenuti possa essere visto come una sorta di sfruttamento del lavoro a basso costo. Inoltre, alcuni sostengono che i detenuti dovrebbero svolgere attività professionali al fine di acquisire competenze utili per la loro futura carriera. Ad ogni modo, lavorare come detenuti di pubblica utilità è una forma di servizio alla comunità e si tratta di un passo importante per la loro riabilitazione. Offrire questa opportunità ai detenuti vuol dire dare loro una seconda possibilità e far sì che possano dimostrare di essere un contributo positivo alla società. Reggio Emilia. Sommossa in carcere durante la pandemia: venti detenuti rinviati a giudizio di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 10 maggio 2023 Venti uomini, allora detenuti nel carcere di Reggio, figurano come imputati per i disordini avvenuti l’8 e il 9 marzo 2020 dentro la struttura penitenziaria. Quella data è rimasta scolpita nella memoria collettiva: si sprofondò nell’emergenza Covid con il lockdown. In diversi penitenziari vi furono sommosse: i reclusi non accettavano la sospensione delle visite dei familiari. Mantenere le distanze poteva sembrare arduo. In qualche caso vi furono conseguenze tragiche, come i nove morti nel carcere di Modena. A Reggio furono necessari rinforzi in aggiunta agli agenti penitenziari. Alla fine vi fu una scia di danni, e non solo: alcuni poliziotti riportarono ferite. Davanti al giudice Dario De Luca, in udienza preliminare, ieri sono sfilate le posizioni di detenuti di variegate provenienze: due italiani, un moldavo, sei albanesi, sei tunisini, un uruguaiano, due nigeriani, un gambiano e un georgiano. I reati contestati sono di resistenza a pubblico ufficiale, aggravata perché commessa durante una protesta in luogo aperto al pubblico: tale viene considerato il carcere. Poi danneggiamento e lesioni come conseguenza di altro reato. A carico di molti risulta la recidiva reiterata e durante l’esecuzione della pena. Tra i feriti risultano quattro agenti degli istituti penali e tre della polizia di Stato: figura pure l’allora vicequestore aggiunto Domenico De Iesu, con cinque giorni di prognosi. Ieri uno solo ha scelto un rito alternativo. Il pm Giacomo Forte ha chiesto il rinvio a giudizio per tutti. Alcuni devono rispondere di aver posizionato le brande di ferro a mo’ di barricata. Altri di aver dato fuoco alle lenzuola e a stracci poi lanciati dalla finestra. Alcuni di aver sradicato termosifoni e plafoniere, di aver distrutto finestre e incendiato tavoli di plastica. Tre hanno abbattuto un muro della saletta comune usando un termo. Uno minacciò: “Voglio andare giù con gli altri detenuti. Se non mi fai passare ti faccio rivoltare la sezione di nuovo”. Aosta. Il lavoro come leva di riscatto: evento sulla realtà carceraria aostaoggi.it, 10 maggio 2023 Il 17 maggio nuovo evento della rassegna #VDAlora con le storie di ex detenuti raccontate da Paola Corti e le esperienze della casa circondariale valdostana. Continua la rassegna #VDAlavora, per portare al centro del dibattito regionale il tema del lavoro nelle sue diverse sfaccettature. Il primo appuntamento del 2023 è intitolato “Per un lavoro fuori. Il lavoro in carcere e fuori dal carcere: una leva di riscatto” e si terrà mercoledì 17 maggio alle ore 17.30 presso l'auditorium del Conservatoire de la Vallée d'Aoste, nella Torre dei Balivi di Aosta. L'evento è realizzato in collaborazione con la Casa circondariale di Brissogne e alcuni rappresentanti del Terzo Settore e vuole accendere i riflettori sulla realtà carceraria. “Per l'opinione pubblica - si legge nella presentazione - spesso la finalità rieducativa della pena passa sottotraccia e il carcere rappresenta una realtà da tenere a distanza e di cui avere timore”. Paola Corti, programmista RAI e conduttrice radiofonica, racconterà storie di ex detenuti che ora sono parte attiva e produttiva della nostra società e di imprenditori valdostani che sono andati oltre i pregiudizi e gli stereotipi trovando collaboratori fidati. Inoltre non mancherà la testimonianza di chi, attraverso la riabilitazione lavorativa, ha dimostrato come il binomio lavoro e carcere è realizzabile in modo efficace e produttivo. Saranno raccontate le esperienze imprenditoriali interne alla Casa circondariale di Brissogne: il Panificio “Brutti e Buoni” gestito dalla Cooperativa sociale En.A.I.P. Vallée d’Aoste e la Lavanderia gestita dalla Cooperativa sociale Mont-Fallère. A completare il quadro, anche testimonianze da altre regioni. Per partecipare è richiesta l'iscrizione. Aosta. Dall’orto coltivato dai detenuti verdure per la mensa Caritas di Giorgia Gambino aostasera.it, 10 maggio 2023 Prosegue all'interno del carcere anche la coltivazione dello zafferano e il laboratorio di apicoltura. In arrivo un progetto di sostegno psicologico pensato dall’Associazione valdostana volontariato carcerario e dai servizi psicologici dell’Azienda Usl. I prodotti dell’orto gestito l’anno scorso dai detenuti del carcere di Brissogne, affiancati da polizia penitenziaria e volontari dell’Associazione valdostana volontariato carcerario onlus, sono stati interamente donati alla mensa della Caritas, Tavola amica. Il corso di orticoltura, condotto da un tecnico della cooperativa Mont-Fallère e finanziato dalla fondazione Compagnia di San Paolo, ha coinvolto dall’inizio della stagione primaverile quattro detenuti, felici di rendersi utili per una buona causa. Ma l’orto non è l’unica attività di restituzione alla comunità dentro le mura del carcere di Brissogne. Sempre dall’anno scorso i detenuti sono stati coinvolti in un progetto di coltivazione primaverile e raccolta autunnale dello zafferano. “Speriamo quest’anno, anche sulla base della disponibilità della polizia penitenziaria, di trovare tempo a sufficienza e di riuscire a organizzarci per un ulteriore lavoro nei campi, ovverosia espiantare, diradare e ripiantare i bulbi per una durata stimata di una ventina di giorni - anticipa il presidente dell’Avvc, Maurizio Bergamini -. Dalla cinquantina di grammi di zafferano ottenuti l’anno passato sono stati ricavati circa 100 vasetti andati rapidamente esauriti”. Il lavoro all’interno del carcere - I detenuti che nel corso dell’anno passato hanno svolto impegni retribuiti all’interno della casa circondariale di Brissogne sono complessivamente 35, tra i quali 6 impegnati in cucina, 6 nell’assistenza agli inabili, 4 nella vendita di generi alimentari e di conforto facenti capo al cosiddetto sopravvitto, 4 nella piccola manutenzione, 2 in attività di scrittura, 2 in attività di barbiere, 1 nella distribuzione delle bombolette di gas per la cucina e 1 in piccoli ma urgenti interventi nei giorni festivi; altri 15 posti, tra cui 9 per addetti alle pulizie e 6 per la distribuzione dei pasti, vengono assegnati a rotazione con turnazioni variabili. In aggiunta, 4 utenti dipendenti della cooperativa sociale Mont-Fallère risultano attivi nella sezione della lavanderia interna e altri 3 utenti assunti con contratto part-time dalla cooperativa Enaip si occupano del confezionamento dei prodotti di panetteria industriale nell’ambito del progetto “Brutti e buoni”. L’Avvc - All’interno del plesso opera anche l’Avvc, nata il 5 ottobre del 1983, a poco meno di un anno dall’entrata in funzione del carcere di Brissogne nel 1984. L’anno passato essa conta 32 volontari regolarmente iscritti, di cui 18 volontari operativi all’interno della struttura carceraria. Essa si occupa anzitutto di soddisfare bisogni primari dei carcerati quali per esempio la fornitura di indumenti e prodotti per l’igiene oppure il supporto nell’acquisto di presidi medici o nell’assistenza sanitaria e dentistica, alcuni dei quali finanziati da Fondazione Crt. Al fianco del più basilare sostegno economico nel comperare medicinali, le cui spese sono anticipate dall’associazione e successivamente rimborsate dalla Regione, essa offre momenti di incontro e di confronto utili per sfogarsi e raccontare la propria storia oppure semplicemente per presentare altre richieste per il tramite dei volontari. Cultura e socialità - Altri aspetti di assistenza riguardano il versante più cultuale, come per esempio i 48 incontri, per un totale di 240 ore, svolti nel 2022 dal gruppo di lettura: accanto all’analisi dei testi e all’apprendimento linguistico, essi hanno permesso di favorire un clima di relazione agevolato peraltro dalla distribuzione durante l’anno di 336 tra quotidiani, riviste e giornali. Pochi sono stati i soggetti che hanno aderito ai progetti di riordino della biblioteca e di redazione dell’abituale inserto di 4 pagine pubblicato all’interno del “Corriere della Valle”, di recente tornato in edicola dopo un periodo di sospensione forzata. “Al fine di sensibilizzare la comunità civile sui valori della solidarietà e della giustizia, l’Avvc ha contribuito a diverse iniziative pubbliche utili a mantenere accesi i riflettori sulla realtà carceraria valdostana - prosegue il resoconto dell’attività associativa -. Tra di esse vi sono la partecipazione alla Fiera di Sant’Orso, alla Foire d’été e alla Fiera del miele di Châtillon con prodotti propri, la partecipazione alla giornata di raccolta del farmaco e alla proiezione del film “John Leguizamo live at Rikers” nell’ambito della rassegna Front doc”. Per concludere, l’anno passato il Csv ha selezionato il progetto “Nei suoi panni” ideato dall’Avvc, il quale ha previsto di organizzare una serie di laboratori di fumetto nonché una serie di incontri su tematiche quali musica rap, scrittura creativa orientata alla marginalità o a persone affette problemi psichiatrici, attività in collaborazione con scuole tra cui l’Istituto Innocenzo Manzetti di Aosta e un duplice convegno con il frate francescano nonché teologo e docente universitario Giuseppe Giunti; tutte le esperienze collezionate e maturate per tutta la durata dell’iniziativa sono riassunte nel volume suo omonimo pubblicato nella primavera del 2022. I collaboratori di giustizia - L’Avvc si occupa anche della promozione di attività artigianali, espressive e formative appositamente calibrate sulle esigenze della “Sezione speciale” della casa circondariale che ospita i collaboratori di giustizia. Oltre a vari laboratori, fra cui sartoria e scultura, sono previsti in collaborazione con una docente volontaria corsi di lingua italiana e cultura generale. Particolarmente apprezzato dai detenuti è anche il laboratorio di apicoltura, finanziato così come il laboratorio di orticoltura dalla fondazione Compagnia di San Paolo: reduce da una campagna 2022 che ha visto le api decimate dall’inverno nonché vittime di condizioni meteorologiche, il progetto potrà riprendere vigore durante l’anno corrente. “Dopo aver spostato gli insetti in una località più clemente dal punto di vista climatico, alla fine del mese di marzo siamo riusciti a riportarle in sede - annuncia Bergamini -. I ragazzi che partecipano sono gli stessi dell’anno passato quindi sanno bene come muoversi e che cosa fare, ma il loro assistente volontario vorrebbe insegnare loro qualche trucco in più come per esempio la moltiplicazione delle regine, sempre che il tempo a sua disposizione ora che è rimasto il solo gestore dell’attività sia sufficiente”. Il sostegno psicologico mirato - È ancora nella sua fase embrionale invece il nuovo progetto di sostegno psicologico mirato pensato dall’Avvc e dai servizi psicologici dell’Azienda Usl per i detenuti della casa circondariale di Brissogne. L’iniziativa prevederà la stretta collaborazione tra l’associazione, il Servizio per le dipendenze e i servizi sociali che operano all’interno della struttura nell’analisi delle caratteristiche e dei bisogni specifici del maggior numero possibile di occupanti. “Questo ci permetterà di studiare un intervento di sostegno più specifico, andando a verificare se i laboratori già esistenti siano sufficienti oppure andando per esempio a perfezionarli o ad aumentarli di numero - spiega Bergamini -. Sfrutteremo alcune risorse interne al nostro ente tra cui un medico psichiatra in pensione, una ragazza abilitata al recupero psichiatrico e una ex assistente sociale oltre che altri volontari per lavori meno tecnici”. Attualmente, gli incontri e i tavoli organizzati tra Avvc, Ausl e direzione carceraria dimostrano una positiva convergenza tra le parti che potrebbe veder concretizzarsi il progetto già entro la fine dell’anno. “In questi anni ci siamo resi conto che la popolazione carceraria di Brissogne è molto cambiata poiché, per via della mancanza di problematiche legate al sovraffollamento, alcuni utenti che soffrono di problemi psichiatrici o tossicodipendenza sono stati trasferiti da altre realtà italiane nelle quali essi sono stati vittime o protagonisti di episodi spiacevoli - constata ancora Bergamini. Resta il fatto che l’iniziativa sarebbe di gran lunga qualificante per la nostra associazione, che potrebbe fare un salto di qualità da una forma di supporto per così dire spicciola a una forma di supporto più tecnica e pedagogica”. I numeri del carcere di Brissogne - Composto da sei sezioni distribuite su due piani e ciascuna formata da 23 celle ciascuna, il carcere di Brissogne comprende nella propria struttura altre 3 ale tra cui quella destinata alla semi-libertà, quella destinata all’isolamento e quella destinata ai collaboratori di giustizia. Prettamente pensato per soggetti in attesa di giudizio o condanne definitive con pene e residui di pena inferiori ai 5 anni, esso registra un tasso di occupazione del 57%, nettamente inferiore alla media nazionale attestata al 109%. A fronte di una capienza regolamentare di 181 posti, la popolazione detenuta al 31 dicembre 2022 è di 102 uomini, di cui 58 stranieri (66%) e 44 italiani (34%), una ventina dei quali collaboratori. 49 utenti (58%) hanno meno di 40 anni di età e i restanti 53 (42%) oscillano tra i 40 e i 60 anni di età; larga parte di essi risulta peraltro celibe (32) oppure convivente o sposata (32), mentre soltanto una minima parte (6) è separata o divorziata. Milano. Brera in Opera diventa docufilm. Studenti e detenuti a confronto di Simona Ballatore Il Giorno, 10 maggio 2023 Ne “Il Teorema di Pitagora - Esercizi su carcere e cittadinanza” il progetto che ha già coinvolto 750 liceali. Insieme ai reclusi firmano anche una trilogia su errori, redenzione e perdono, tra poesie e arte. Storie di errori e violenza. Storie di redenzione e perdono. Studenti e detenuti si raccontano e guardano negli occhi al liceo artistico di Brera. Il progetto “Brera in Opera” è nato nel 2016: ogni anno coinvolge cinque classi, più di cento studenti, dai 15 ai 19 anni, insieme ai docenti e ai ragazzi dell’istituto Benini, che ha una sezione carceraria, all’istituto penitenziario di Opera e al Gruppo “Trasgressione.it”, con al timone lo psicologo Juri Angelo Aparo. Un progetto che si trasforma ora in un docufilm “Il Teorema di Pitagora - Esercizi su carcere e cittadinanza” e in tre libri, che verranno pubblicati entro la fine dell’anno. Il video è realizzato con immagini girate in gran parte dagli studenti e montate da Sheila Baldoni, ex alunna, con la supervisione dei prof Marco Capovilla e Giovanna Stanganello e il coordinamento del regista Sandro Baldoni. “Qui c’è chi si è sentito libero non quando era ’fuori’ e poteva fare tutto, ma quando ha trovato nel confronto con voi il senso della sua esistenza”: ha detto ai ragazzi il direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio, durante la presentazione. “Sia gli studenti che i detenuti hanno raccontato le loro esperienze, anche a livello grafico, hanno scritto brani e poesie - spiega la preside del liceo Brera, Emilia Ametrano -. Hanno raccolto le esperienze di chi, dopo un percorso psicoterapeutico, è riuscito a superare il lutto e il torto subìto. E di chi dopo trent’anni di carcere ha cambiato vita, sta creando una famiglia, ma non dimentica”. Il progetto di scambio non si è fermato neppure in epoca Covid. “È stato organizzato anche un Cineforum online - ricorda Ametrano - detenuti e studenti si connettevano e partecipavano a un momento di critica sui film”. Da Rocco e i suoi fratelli a Ladri di biciclette. Per gli studenti sono state ore preziose: “Hanno affrontato un percorso sulla banalità del male, sul dare sempre la colpa agli altri, sull’idea di farsi giustizia e sul bullismo - continua la preside -, hanno riflettuto sul salto di qualità dell’adolescente attraverso la consapevolezza delle proprie azioni e le assunzioni di responsabilità: è educazione alla cittadinanza”. Ieri l’aula era stracolma, non si vedeva un cellulare tra le mani. “Mi ha colpito il religioso silenzio”, confessa la preside, mentre Adriano, ex camorrista, racconta che è entrato in carcere a 25 anni, è uscito a 51, una manciata di giorni fa: “Ora sto costruendo una famiglia, sono un papà, non vedo l’ora di cambiare pannolini, di ricevere la carezza di mia mamma, anche a 50 anni. Non pensavo esistessero certe emozioni. Il carcere può cambiare anche se non dimentico di essere stato un assassino”. Un minore su sette in povertà: così il governo tradisce le famiglie di Chiara Saraceno La Stampa, 10 maggio 2023 Il piano era nato per migliorare le condizioni dei più piccoli, ma non è stato attuato. In Italia circa un minorenne su sette vive in povertà assoluta e per uno su 3 resta alto il rischio di povertà ed esclusione sociale. Il rischio è più alto per le bambine/i e adolescenti che appartengono a famiglie numerose o con un solo genitore presente. O con un background migratorio. Ciò li/le espone anche a situazioni di forte disagio abitativo (sovraffollamento) e a malattie tipiche, nei paesi sviluppati, della povertà, quali l’obesità. Questa, infatti, come documentano le ricerche dell’Istituto superiore della sanità, è fortemente correlata alle condizioni socio-economiche della famiglia e al, basso, livello di istruzione dei genitori, e, a livello geografico, la sua incidenza si sovrappone a quella della povertà. Per altro, anche i tassi di mortalità infantile sono fortemente dispendenti dalla condizione socio-economica della madre e dalla collocazione territoriale. Un bambino che nasce nel Mezzogiorno ha ancora oggi il 50% in più di morire nel primo anno di vita rispetto ad un bambino che nasce nel Centro-Nord. Il rischio è ancora più alto se i genitori sono stranieri. La povertà economica spesso si accompagna a difficoltà a sviluppare pienamente le proprie capacità, per mancanza di risorse, non solo monetarie, adeguate. Ne sono un indicatore i tassi di abbandono scolastico e le percentuali di coloro, che pur non abbandonando precocemente la scuola, non raggiungono comunque le competenze cognitive e relazionali proprie della loro età. Come è noto, i tassi di abbandono scolastico in Italia sono tra i più alti dell’UE, in particolare nelle regioni del Sud del paese dove il tasso di abbandono nel 2020 ha superato il 16,3%. È alto anche tra adolescenti Rom, Sinti e Camminanti, e tra studentesse e studenti con background migratorio. Tra coloro che completano la scuola secondaria, il mancato raggiungimento delle competenze attese è ben al di sopra della media UE, in particolare al livello secondario superiore: il 44% e il 51% di studentesse e studenti non sono in grado di completare esercizi base di italiano e matematica rispettivamente. Accanto e spesso insieme alla povertà, altre situazioni espongono al rischio di esclusione. Oltre ai minorenni sinti e rom e a quelli con background migratorio, cui ho già accennato, vi sono i minorenni con una disabilità fisica o mentale per i quali la carenza di servizi dedicati economicamente accessibili può produrre fenomeni di esclusione e impedimento allo sviluppo delle capacità, oltre che di lesione alla dignità personale. Solo la metà circa delle persone minorenni che ne avrebbero necessità ha, ad esempio, accesso ai servizi di salute mentale (per problemi di depressione, disturbi alimentari, ansia). I minorenni con disabilità sperimentano spesso anche barriere di accesso ai servizi che, come la scuola, dovrebbero essere universali. Ad esempio, nonostante l’Italia sia stato uno dei primi Paesi ad aprire la scuola pubblica alla frequenza delle bambine/i adolescenti con qualche tipo di disabilità, l’accesso all’istruzione per studentesse e studenti con disabilità fisica continua ad inferiore a quello dei loro coetanei a causa sia di barriere fisiche all’accesso, indisponibilità di accompagnamento per il trasporto e di sostegno durante la frequenza, sia della mancanza di adeguate infrastrutture fisiche e digitali che consentano un apprendimento e partecipazione efficaci. Quanto alle studentesse e studenti con disabilità e disturbi evolutivi specifici (tra cui i disturbi specifici di apprendimento, o DSA) l’accesso all’istruzione è inferiore a quello dei loro coetanei e a quanto sarebbe giusto e necessario a causa della mancanza di personale, non solo in termini numerici, ma con preparazione adeguata. Profilazione etnica, una questione democratica di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 10 maggio 2023 “Ti abbiamo fermato perché pensavamo che tu fossi come gli altri”. Gli altri sono gli spacciatori, neri, intorno alla Stazione di Ferrara. A pronunciare la frase è stato un poliziotto rivolgendosi ad un ragazzo fermato al ritorno dalla scuola serale. Perché attraversare una zona di spaccio, per una persona di colore, giustifica da parte della polizia una particolare attenzione. Si tratta di profilazione razziale, ovvero quella pratica che a partire da pregiudizi basati sull’appartenenza, etnica o religiosa, sottopone alcune persone a maggiori controlli. Se ne è parlato in una conferenza internazionale organizzata all’Università di Ferrara nell’ambito del Progetto Yaya, un progetto sulla profilazione etnica in Italia promosso dal Coordinamento per Yaya e da Occhio ai Media-Cittadini del Mondo di Ferrara, in collaborazione con l’Università Goldsmiths di Londra. Fra i partecipanti Account Hackney, un gruppo nato nel 2017 dopo l’uccisione da parte della polizia di un giovane inglese di colore nel quartiere londinese di Hackney. Il gruppo, guidato da giovani della zona, si è posto l’obiettivo di monitorare la ricaduta sproporzionata delle attività di stop and search sulla comunità nera. Nel quartiere per i giovani maschi neri la probabilità di essere fermati dalla polizia è 6 volte più alta rispetto ai loro coetanei bianchi, la probabilità che questo avvenga con l’uso della forza è 4 volte maggiore. Un razzismo istituzionalizzato nelle pratiche di controllo del territorio, che a cascata porta ad una maggiore criminalizzazione di particolari gruppi, e quindi ad una loro abnorme presenza in carcere. A questo si può rispondere solo con la ricerca e l’azione sociale, e con la consapevolezza dei singoli rispetto ai propri diritti e delle comunità su quello che succede nei propri quartieri. In Italia se ne è incidentalmente parlato l’anno scorso, quando oggetto di attenzione da parte delle forze dell’ordine furono il giocatore del Milan Tiémoué Bakayoko e Joseph Blair, ex cestista di Pesaro e di Milano e allenatore NBA. Nel nostro paese, a differenza di quelli anglosassoni, non esiste ricerca sull’influenza dell’appartenenza etnica rispetto alle pratiche di sicurezza pubblica, anche se le testimonianze pubblicate dal sito del progetto Yaya dimostrano come sia parte della vita nelle nostre città. In Italia, come del resto nella gran parte dei paesi democratici, la perquisizione senza autorizzazione del giudice è possibile solo in rari casi (sospetto di possesso di armi e di droghe in particolare). E qui il legame con la legislazione sulle droghe è decisivo, come rilevato anche dal report del gruppo di lavoro dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie (vedi questa rubrica del 22 dicembre 2021). Lo è perché il consumo di sostanze è diffusissimo nella popolazione (almeno un quarto ha usato droghe nella vita); lo è per l’impostazione criminogena della Jervolino-Vassalli: è sufficiente il possesso di droghe per determinare una qualche conseguenza, amministrativa o penale. Se aggiungiamo che la legge sull’immigrazione spinge alla marginalità e alla clandestinità, il combinato disposto fra profiling e leggi criminogene diventa letale. Non c’è bisogno di mandato per perquisire; è sufficiente la detenzione per rischiare patente e passaporto; una quantità un po’ superiore alla dose media e avere una pelle scura porta facilmente davanti ad un giudice; con l’inversione di fatto dell’onere della prova nel processo basta una difesa non attenta, qualche contante, un po’ di pellicola trasparente e una bilancia da cucina per essere condannati. Così ogni 10 processi per droghe ci sono 7 condannati, contro i 2 condannati ogni 10 per gli altri reati. I dati empirici ci dicono che la profilazione etnica è consuetudine anche italiana, è tempo di indagarla e contrastarla. Né emergenza né rimozione: una sfida comune sui migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 maggio 2023 Per governare il problema si dovrebbe collaborare tra schieramenti (e tra nazioni) sapendo che la salita è impervia e ciò che oggi aiuta una fazione domani la penalizzerà. Entro il 2050 avremo un miliardo di sfollati, ha calcolato Michel Agier, un antropologo francese che da trent’anni si dedica a studiare la globalizzazione, le frontiere, l’idea stessa di straniero. Ovviamente non verranno tutti in Europa: questa massa immensa di esseri umani si sposterà da una parte all’altra del mondo, non per turismo o lavoro ma per mera sopravvivenza. Per allora comunque, secondo il network One, l’Africa nostra dirimpettaia raggiungerà i due miliardi e mezzo di abitanti, metà dei quali avrà meno di venticinque anni: i ragazzi africani sopravanzeranno di dieci volte quelli europei, diventati merce rara. Le migrazioni sono antiche come l’uomo, certo. Il mito vuole Roma fondata dai discendenti di Enea, in fuga da Troia distrutta dagli achei: un profugo di guerra, come i siriani o gli eritrei che bussano a Lampedusa. Tuttavia, in questo nuovo millennio, segnato da globalizzazione e facilità di movimento combinate a conflitti sempre più feroci e cambiamenti climatici sempre più devastanti, è diventato strutturale il moto planetario verso un futuro migliore e verso territori caratterizzati da benessere e denatalità. Il propellente, inesauribile, è la speranza. La conseguenza, inevitabile, sarà l’osmosi, un grande rimescolamento di etnie e culture, religioni e tradizioni, da cui i nostri nipoti usciranno assai diversi da come siamo noi. È la semplice realtà. Immaginare che dietro tutto ciò ci sia un piano organizzato di sostituzione etnica è un po’ come pensare che lo sbarco sulla Luna sia una fiction o che il nonno di Bill Gates abbia diffuso l’epidemia spagnola e suo nipote lo abbia imitato con il Covid. Ma, fuor d’ironia, il passaggio sarà difficile: lo è già. Se non governato con saggezza, può diventare drammatico: molto più di adesso. Tenere presente il contesto è utile, tuttavia, a frapporre un filtro tra noi e la comunicazione politica in materia. Chiunque sostenga di avere in tasca la soluzione di un rompicapo così complesso ci sta mentendo. Purtroppo, le migrazioni sono da qualche decennio una potente droga elettorale. Come tutte le droghe ha contraccolpi micidiali, può causare cadute non meno veloci delle ascese. È la strada che pare avere imboccato Gerald Darmanin, il ministro degli Interni francese protagonista dell’ultimo incidente diplomatico con Roma, nella sua competizione a destra con Marine Le Pen. Puntando all’Eliseo nel 2027, il giovane pupillo di Nicholas Sarkozy sembra intenzionato a seguire le orme del suo mentore politico che nel 2005, quando occupava la poltrona più alta di Place Beauvau, si impose all’attenzione degli elettori dando del “racailles”, feccia, ai migranti violenti della banlieue di Argenteuil e promettendo di spazzarli via. I dolori delle banlieue sono ancora lì; la storia e le aule di giustizia hanno ridimensionato lui, alla fine. Sgomitare sugli ultimi arrivati paga, ma non garantisce una stabile fortuna politica. Salvini intercettò con scaltrezza la crisi delle periferie incrociata al boom migratorio della seconda metà degli anni Dieci. Ma, appena sono arrivate nuove urgenze, come Covid, guerra e inflazione, la narrazione securitaria non è più bastata e i consensi sono crollati. La premier Meloni lo ha capito in fretta e, pur non lasciando il tema tutto in mano all’alleato-rivale, ha abbandonato al volo l’inapplicabile “blocco navale”, trasformato nel “cosiddetto blocco navale” già nel programma elettorale e poi svanito al sole del buonsenso governativo. In generale le migrazioni provocano atteggiamenti politici abbastanza stereotipati e non solo in Italia. La destra ha una posizione che potremmo definire emergenziale, poco importa se un’emergenza che dura trent’anni non può definirsi tale: gli immigrati sono, in via principale, una minaccia da contenere, un fattore perturbante annidato nelle pieghe dei nostri ghetti metropolitani, nelle stazioni e nei giardini delle nostre periferie; sicché si tratta di assecondare, quando non di vellicare, le reazioni popolari alla presenza degli stranieri per trarre il consenso con cui contrastare i flussi. La sinistra ha un atteggiamento di stampo negazionista, poiché il contenimento delle migrazioni contrasta con lo spirito universalistico cui è improntata parte della sua cultura: muovendo dall’idea che il modello occidentale è marcio, gli immigrati ci salveranno regalandoci valori nuovi e purezza primigenia, dunque vanno accolti tutti senza se e senza ma; l’unico modo di affrontare i rilevanti problemi di coesistenza e di convivenza civile che essi ci portano fin sull’uscio di casa è fingere di non vederli, negare il problema alla radice. Non è un caso che la questione migratoria sparisca dall’agenda quando governa la sinistra e balzi ai primi posti quando è la destra a tenere la barra. Potrebbe poi esserci una posizione intermedia, pragmatica, in qualche modo incarnata in Europa dal caso-laboratorio di Bart Somers, il sindaco liberale di Mechelen, nelle Fiandre, che spesso ci capita di citare: combinando integrazione con fermezza, Somers, premiato nel 2017 quale “miglior sindaco del mondo” dal think thank londinese City Mayors Foundation, ha battuto l’estremismo populista, costruito fiducia sociale e accomunato migranti recenti e residenti di lunga data in una identità cittadina condivisa, governando decine di etnie e un quarto di cittadini islamici negli anni delle crescenti tensioni fondamentaliste in Belgio. Lo ha fatto senza specularci sopra e senza averne paura. Non è difficile capire che i migranti possono essere una grande opportunità, per Paesi che invecchiano e perdono forza lavoro; o un grande pericolo, se quei Paesi consentono loro di vagare a migliaia, senza identità né regole, tra un sottopassaggio e un centro d’accoglienza. Si dirà che le elezioni europee ormai prossime ne accentueranno l’uso strumentale, tra Stati e tra partiti: è più che probabile, il copione è già visto. Ma, per governarli, ci sarebbe una sola via: smettere di usarli come una clava contro l’avversario politico, sottrarli al binomio emergenza-rimozione, collaborare tra schieramenti (e tra nazioni) sapendo che la salita è impervia e ciò che oggi aiuta la mia fazione domani la penalizzerà. Un’idea naïf che, quando tutte le altre idee saranno fallite, potrebbe persino convincere qualcuno. Le risorse del Fondo di coesione sociale per l’acquisto di armi. Strasburgo vota a favore di Giuliano Santoro Il Manifesto, 10 maggio 2023 Maggioranza schiacciante al Parlamento Ue. Tra i contrari le sinistre del Gue, gli indipendenti Pd e il M5S. Il 31 maggio la sessione plenaria ha l'ultima parola. Mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, si presenta a Kiev per celebrare con il presidente Volodymyr Zelensky la Giornata dell’Europa, il parlamento Ue riunito a Strasburgo in sessione plenaria approvato a larghissima maggioranza la procedura d’urgenza avanzata dal gruppo dei Conservatori e quello dei Popolari sul sostegno militare all’Ucraina. Il testo, tra le altre cose, consente agli stati membri di impiegare le risorse del Fondo di coesione sociale e del Pnrr per sostenere l’industria militare. Hanno votato a favore anche i parlamentari europei del gruppo dei Socialisti e Democratici, cui aderiscono gli eletti del Pd. Gli unici a distinguersi, tra gli eletti nelle liste dem, sono stati l’indipendente Massimiliano Smeriglio, che ha espresso la propria contrarietà, e Pietro Bartolo, che non ha partecipato al voto. Contrari anche i parlamentari delle sinistre riuniti nel Gue e quelli del Movimento 5 Stelle, che ancora non fanno parte di nessun gruppo (sono in attesa che i Verdi europei vaglino la loro richiesta di adesione). Il voto di ieri riguardava la procedura: l’aula potrà esprimersi sul merito il prossimo mese. Ma il fatto che sia passata la questione d’urgenza esclude che l’atto verrà messo ai voti con emendamenti che non siano espressamente accolti dalla Commissione. Il che fa pensare che proprio la posizione della delegazione del Pd, che ieri ha votato a favore ma dicendosi contraria “all’utilizzo di qualunque fonte di finanziamento proveniente dalle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza e dei fondi di coesione, che rappresentano risorse essenziali per la ricostruzione post pandemica e per il raggiungimento degli obiettivi del bilancio dell’Unione e dei fondi strutturali” rischi di apparire poco più che simbolica: ci sarà poco spazio per queste eccezioni. “Ci opporremo alla richiesta di procedura accelerata per ridurre i tempi di approvazione del piano che prevede il dirottamento dei fondi dal sociale - annuncia l’eurodeputata M5S Sabrina Pignedoli - Tolgono trasparenza e legittimità democratica dal momento in cui eliminano ogni tipo di confronto sul provvedimento”. Il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo osserva che “l’articolo 41.2 del Trattato Ue vieta di usare fondi dal bilancio per spese derivanti da operazioni aventi implicazioni militari o di difesa”. Per Smeriglio, la sessione plenaria di ieri disegna il campo di battaglia dei prossimi mesi. “Questo voto certifica l’egemonia delle destre sul parlamento, purtroppo con il concorso della gran parte dei progressisti - sostiene - Tra un mese voteremo l’atto definitivo. La procedura d’ urgenza inaugurata per salvare vite durante il Covid è stata utilizzata per produzioni di morte. Bisogna avere chiaro che non è un atto facilmente emendabile, tutt’altro. E in queste condizioni stiamo per ratificare la possibilità di utilizzare i fondi di coesione il fondo sociale europeo e il Pnrr per produrre missili e munizioni. Altro che transizione ecologica e equità sociale”. Tutto ciò avrà effetti diretti sul quadro nazionale. “Quando Meloni cambierà a suo piacimento il Pnrr potrà dire che lo può fare grazie al voto del parlamento compresi quelli dei parlamentari del Pd. Ecco il punto doloroso di questa vicenda. Spero si possano cambiare diverse opinioni nel tempo che ci separa dal voto finale. Si danno soldi ai singoli stati per fare armi, altro che Europa dei popoli e agenda di pace”. Contro il cambiamento climatico anche lo strumento giuridico. Per fare presto di Marinella Correggia Il Manifesto, 10 maggio 2023 Nell’impegno per la sopravvivenza collettiva di persone, popoli, natura, viventi, quali sono gli strumenti più efficaci ma anche tempestivi a disposizione della società civile locale e planetaria? Qualche anno fa il libro collettivo Quelli delle cause vinte (Gaia edizioni), raccontando 80 storie di lotte ambientali riuscite, indicava una “cassetta degli attrezzi”. Fondamentale la continua sensibilizzazione della cittadinanza, affinché da un lato cambi stile di vita in senso eco-equo, e dall’altro diventi esigente nei confronti dei poteri e degli attori economici irresponsabili. Ma, a partire dalla spada di Damocle climatica, siamo di fronte un’assoluta urgenza. Fare presto. La rivoluzione delle coscienze e delle azioni ha tempi più lunghi. E poi le persone e le collettività vedono spesso i loro sforzi vanificati da chi comanda, le loro tasse usate male per finanziare “progetti che ledono il futuro di tutti, alla ricerca del puro profitto”, per usare le parole di Rachele, giovane torinese che partecipa alla prima azione legale climatica contro l’Eni avviata ieri da Greenpeace e Re:Common. Dunque, trovare talloni d’Achille nei potenti è necessario. Lo si fa con le proteste sui territori, davanti a problemi e progetti sbagliati - e se coinvolgere i grandi numeri dei residenti è difficile, la disobbedienza civile nonviolenta, purché ripetuta e tenace, è uno strumento fantasioso per minoranze attive. Importanti poi le inchieste mediatiche approfondite da usare come strumenti di pressione su politici e istituzioni. Utile espellere i grandi inquinatori dagli spazi pubblici, che essi usano per acquisire legittimazione (green washing). E utile naturalmente saper proporre progetti alternativi (della serie “si può fare”). Ma un’altra leva è lo strumento giuridico: cause civili intentate contro attori politici ed economici. Quella contro l’Eni chiede da un lato che siano accertati il danno e la violazione di diritti, dall’altro che sia imposta una revisione delle strategie industriali per rispettare l’Accordo di Parigi (2015) e ridurre l’enorme contributo al caos climatico - una branca della scienza climatica si occupa proprio di calcolare l’attribuzione delle responsabilità. Per dirla con Bertolt Brecht, “ci sarà pure un giudice a Berlino”. E anche altrove, a guardare alcuni buoni risultati in giro per il mondo nelle azioni di contenzioso climatico: oltre duemila, più che raddoppiate dal 2015; importante il risultato - anche se non definitivo - contro la Shell nei tribunali olandesi. E ricordiamo anche la campagna Giudizio universale intentata nel 2021 contro lo Stato italiano: per inazione climatica. Paola e Claudio Regeni: “Attoniti per le parole di Descalzi su Al Sisi, aspettiamo ancora la verità sul nostro Giulio” di Serena Riformato La Stampa, 10 maggio 2023 I genitori del ricercatore ucciso contro l’amministratore delegato di Eni per le lodi al Cairo sul gas. “Cosa significa che ci hanno aiutato? A cosa rinunciamo in cambio di questa amicizia con una dittatura?”. “Attoniti”. Paola e Claudio Regeni sono rimasti attoniti davanti alle parole dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi che venerdì, sul palco della convention di Forza Italia, si è speso in parole di gratitudine per il governo di Al Sisi: “L’Egitto ci ha aiutato rinunciando ai suoi carichi quest’estate per mandarli in Italia per riempire gli stoccaggi. Questi sono Paesi a cui se dai, ricevi”. Il Paese da cui l’Italia “riceve” non ha però mai fornito gli indirizzi dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso il ricercatore 28enne. La prossima udienza, il 31 maggio, dovrà ancora una volta affrontare l’impasse giuridica causata dall’irreperibilità degli imputati. Cosa avete pensato quando avete saputo del discorso dell’ad di Eni? “Le parole hanno sempre un peso e a volte sono soggette a più interpretazioni. Questa gratuita e ingiustificabile dichiarazione di Descalzi ci ha lasciati attoniti, la nostra “scorta mediatica” vale a dire i tanti cittadini che seguono con noi la dolorosa vicenda di Giulio, ci hanno subito trasmesso la notizia condividendo le nostre perplessità: perché Descalzi parla ora di una rinuncia da parte di Al Sisi (ma semmai avrebbe dovuto dire “del popolo egiziano”) dei suoi carichi di questa estate? E questo messaggio a chi è rivolto? Che cosa voleva dire effettivamente con “questi sono Paesi a cui se dai ricevi”? A quali Paesi si riferisce, alle dittature? E cosa dai e cosa ricevi? L’amministratore delegato di Eni certamente riceve e può esultare per la sua ininterrotta e inossidabile amicizia col dittatore Al Sisi. Ma cosa abbiamo ceduto, a cosa abbiamo rinunciato noi tutti in cambio di questa loro amicizia?”. Aggiungo la domanda della segretaria del Pd Elly Schlein: l’Italia ha “dato” l’impunità ai torturatori di Giulio Regeni in cambio del gas? “Abbiamo rinunciato alla giustizia (diritto inalienabile) in cambio di merci? E chi ci guadagna in uno scambio così svantaggioso?”. Il ministro degli Esteri Tajani e la premier Meloni hanno scelto di non testimoniare al processo. Che valore avrebbe avuto la loro partecipazione? “La presenza di Meloni e Tajani all’udienza del 3 aprile avrebbe dato al mondo intero un segnale della dignità che l’Italia può e dovrebbe avere rispetto alla violazione dei diritti umani e la conferma che lo Stato italiano si prende cura dei propri cittadini in tutte le situazioni anche all’estero e anche e soprattutto in ipotesi di tortura e omicidio. La loro testimonianza sarebbe stata, senza dubbio, un contributo nella ricerca di verità e nella battaglia di giustizia. Riteniamo che ogni cittadino abbia il diritto di conoscere le promesse di collaborazione espresse dal presidente Al Sisi. La loro assenza ha privato tutti noi di questi diritti”. Cosa avrebbe potuto fare e non ha fatto l’Italia in questi anni? “Tantissimo, ma ha preferito consentire una diluizione infinita dei tempi, forse, chissà con la speranza che noi desistessimo dalla nostra richiesta di verità e giustizia processuale. Notiamo come spesso le posture, le risposte diplomatiche e politiche sono state volutamente vaghe, non chiare, lasciando che l’Egitto le interpretasse a modo proprio e, soprattutto, che il “caso Regeni” potesse diventare uno scomodo ricordo del passato. Delegazioni, strette di mano, sorrisi, accordi di ogni genere, e tante, tante armi di ogni tipo. Però hanno fatto male i loro conti. Noi non desistiamo e il “popolo giallo”, che con noi pretende verità e giustizia, ogni giorno che passa diventa più numeroso e determinato”. Che cosa vi aspettate ora dal governo? “Noi, e con noi migliaia di cittadini, esigiamo che il governo crei con celerità le condizioni affinché si possa celebrare in Italia il processo contro i quattro imputati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio. Finora il governo ha voluto credere alle varie promesse del dittatore Al Sisi di “collaborazione e di rimozione di ostacoli”. A volte ci siamo chiesti se i veri ostacoli, per quel dare e ricevere a cui fa riferimento Descalzi, potremmo essere proprio noi con la nostra incessante richiesta e, a questo punto, pretesa, del diritto alla Verità e alla Giustizia per nostro figlio”.