Politica e magistratura, uno scontro lungo 30 anni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 luglio 2023 Dal salva-ladri alle toghe rosse. Quegli intrecci e conflitti (sempre uguali a sé stessi). Ha detto di recente il ministro Carlo Nordio che il conflitto tra politica e giustizia fu avviato dalla Procura di Milano con l’invito a presentarsi nelle vesti di indagato recapitato “a mezzo stampa” all’allora premier Silvio Berlusconi, nel novembre 1994. In realtà, quello stesso anno, proprio il governo Berlusconi aveva già provato - in piena estate - a depotenziare le indagini e il potere dei magistrati con il decreto ribattezzato “salva-ladri”, ritirato a seguito delle dimissioni in diretta tv dei pubblici ministeri di Mani Pulite. E l’anno precedente un altro governo, guidato da Giuliano Amato, fu stoppato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro nel tentativo di depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti, dopo le proteste del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il pool - Quell’esecutivo era stato decimato dalle dimissioni a catena dei ministri colpiti dagli avvisi di garanzia e quello successivo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nacque azzoppato dopo che le Camere avevano respinto a scrutinio segreto le richieste di autorizzazione a procedere contro il segretario del Psi Bettino Craxi. Seguirono proteste di popolo, a cui la gioventù missina in cui già militava Giorgia Meloni diede il suo contributo stringendo in simbolico assedio il palazzo di Montecitorio sotto lo slogan “Arrendetevi, siete circondati”, e la successiva abolizione dell’autorizzazione a procedere. Poi nel ‘94, al momento di formare il suo primo governo composto anche da eredi del Movimento sociale italiano, Berlusconi tentò di arruolare come ministri due pm simbolo di quella stagione giudiziaria, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, con la mediazione di Cesare Previti e Ignazio La Russa. I due declinarono l’invito, ma successivamente Di Pietro fu arruolato come ministro da Romano Prodi, entrò in Parlamento e fondò addirittura un suo partito. Gli anni Novanta - Sono alcune scene tratte dall’ultimo decennio del secolo scorso per documentare come lo scontro - ma anche l’incontro - tra politica e giustizia si ripete ciclicamente da più di trent’anni, in forme spesso simili e in alcuni casi con gli stessi attori. Con età, responsabilità e posizioni diverse, ma identici nomi e cognomi. Del resto, se c’è uno che ha beneficiato della rivoluzione giudiziaria del 1992-93 per poi venirne inghiottito, è proprio Berlusconi. A dimostrazione che l’intreccio tra destini politici e azioni (o reazioni) della magistratura può avere esiti altalenanti e imprevedibili. Per chiunque. La bicamerale - Quando a palazzo Chigi salì Massimo D’Alema, la commissione bicamerale per le riforme istituzionali stava marciando diritta verso la separazione delle carriere tra pm e giudici, stoppata dall’opposizione dell’Associazione magistrati (sotto la protezione istituzionale del presidente Scalfaro) prima ancora che dalla decisione del leader di Forza Italia di tirarsene fuori. Poi quando Berlusconi tornò al potere si aprì la stagione delle leggi ad personam per indirizzare i processi a favore del premier-imputato, con il conseguente compattamento delle toghe, di tutte le correnti e di tutti i colori, a difesa dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione, messa sotto attacco da governo e Parlamento. Un po’ quello che è successo (in piccolo) ad aprile, quando il ministro Nordio ha avviato l’azione disciplinare contro tre giudici di Milano “colpevoli” di aver messo agli arresti domiciliari il russo ricercato dagli Usa in attesa di estradizione e fuggito per tornare in patria; un’iniziativa politica per addossare al potere giudiziario la responsabilità di una crisi diplomatica. Il conflitto continuo - Ma pure nell’ultimo decennio, con il fondatore di Forza Italia non più al centro della scena (anche per via della decadenza da senatore seguita alla condanna definitiva del 2013), il conflitto tra potere esecutivo e legislativo da un lato e giudiziario dall’altro, s’è riproposto a fasi alterne. Un po’ per l’uso strumentale delle vicende giudiziarie o para-giudiziarie da parte della politica, e un po’ per i ricorrenti tentativi di condizionare indagini e processi attraverso riforme che dovevano porre rimedio a iniziative della magistratura ritenute condizionanti della politica e del funzionamento della democrazia. Perché l’uso e l’abuso politico e mediatico di certe inchieste e sentenze (indagini all’apparenza infondate o stravaganti, condanne destinate a ribaltarsi in assoluzioni e viceversa) non ha portato al più mite consiglio di evitare strumentalizzazioni e conclusioni affrettate (come le richieste di dimissioni per un avviso di garanzia o un verdetto non definitivo), bensì al ricorrente tentativo di imbrigliare la magistratura e i suoi rappresentanti. Basti pensare a Matteo Renzi, che prima di diventare “garantista” e autodefinirsi vittima designata delle “toghe rosse” invocava defenestrazioni di questo o quel ministro proprio a partire dalle loro disavventure para-giudiziarie; e s’è ritrovato un paio di suoi deputati di fiducia nei conciliaboli paralleli e clandestini per decidere le nomine al di fuori del Consiglio superiore della magistratura. Oggi il governo Meloni, con due magistrati seduti in altrettanti posti-chiave (oltre al ministro Nordio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, virtuoso esempio di “porte girevoli” tra potere politico e giudiziario, se quella pratica non fosse additata come perniciosa), si sente accerchiato dalle toghe sospettate di fare opposizione politica, anziché amministrare giustizia. Immaginando chissà quali complotti e strategie comuni tra Procure e tribunali diversi. In questo clima sono state proposte riforme che, se pure avessero un fondamento, nascono inevitabilmente sotto la cattiva stella della vendetta o del “fallo di reazione”. Provocando ancora una volta le proteste della magistratura, alle quali la politica reagisce con il consueto richiamo alla separazione dei poteri (che nessuno mette in dubbio, ma non importa). Forse confidando che tra le toghe qualcuno cominci a stancarsi e cedere, dopo trent’anni e più di conflitti sempre uguali a se stessi. O quasi. L’eterno ritorno dello scontro tra politica e giustizia di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 9 luglio 2023 La coincidenza temporale tra gli sviluppi processuali di fatti che investono la compagine governativa ha immancabilmente riacceso la miccia dello scontro tra poteri, in particolare tra governo e magistratura. Dopo Daniela Santanché, Andrea Delmastro. La prima ministro del Turismo, il secondo sottosegretario alla Giustizia, entrambi finiti nell’occhio del ciclone giudiziario. La vicenda che coinvolge Delmastro, in realtà, non è nuova (nel febbraio scorso viene ipotizzata la rivelazione del segreto d’ufficio, per aver reso noto al suo collega di partito Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir, il contenuto di una relazione del Dap sulle conversazioni avvenute in carcere fra Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi), ma è tornata prepotentemente alla ribalta con la richiesta di imputazione coatta formulata dal Gip di Roma. La Santanché, da far suo, sembra aver appreso dalla stampa di essere sottoposta ad indagini (dallo scorso novembre) subito dopo aver riferito sul caso in Parlamento. La coincidenza temporale tra gli sviluppi processuali di fatti che investono la compagine governativa ha immancabilmente riacceso la miccia dello scontro tra poteri, in particolare tra governo e magistratura, ha risvegliato quel conflitto latente che con alterne vicende caratterizza ormai da oltre tre decadi la scena pubblica italiana. Anche se alcune avvisaglie si sono palesate a metà giugno quando il guardasigilli Carlo Nordio ha presentato il ddl di riforma della giustizia che investe - tra l’altro - l’abuso d’ufficio (abrogandolo) e la disciplina delle intercettazioni, che ha suscitato il consueto scambio di frecciate tra ANM (con aspre critiche arrivate ancor prima che il testo della riforma in fieri fosse reto noto) e il ministro (che ha accusato il “sindacato” dei magistrati di indebite interferenze). Alcuni, anzi, hanno ipotizzato un collegamento tra i passi effettuati dal governo in materia di giustizia - peraltro largamente annunciati nel programma elettorale del centrodestra - e l’evoluzione delle anzidette iniziative giudiziarie. Sta di fatto che il terreno istituzionale è tornato, per l’ennesima volta, a farsi franoso. Fu l’arresto di Mario Chiesa, esponente socialista milanese colto con le mani nella confettura tangentizia il 17 febbraio 1992, ad avviare la stagione di Mani Pulite - espressione quest’ultima ispirata al film Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi - che incrinò irreversibilmente il sistema politico italiano post-bellico portando alla dissoluzione partiti come la Democrazia Cristiana e il PSI. Sulle sue ceneri nacque la seconda Repubblica, che non è mai riuscita però ad emanciparsi da quella situazione di conflittualità permanente tra politica e magistratura che ne ha condizionato - e continua a condizionarne - l’esistenza. Se nella prima Repubblica infatti la democrazia era “bloccata”, risultando impossibile l’alternanza tra maggioranza e opposizione a causa del “fattore K” (vale a dire, nella definizione data da Alberto Ronchey, della presenza nel nostro Paese di un Partito Comunista molto forte e strettamente legato all’Unione Sovietica), oggi la democrazia è incompiuta - o comunque imperfetta - per una persistente dialettica tutt’altro che corretta tra potere esecutivo e potere giudiziario. Nell’ultimo trentennio, dapprima per una sorta di funzione di supplenza rispetto ad una classe politica dapprima frantumatasi e poi rimpiazzata da un “nuovo corso” contraddistinto da profili di indubbia inadeguatezza, la magistratura, in particolare quella requirente, ha assunto più o meno consapevolmente un ruolo attivo nella vita politica italiana. A livello nazionale come a livello locale. Lo scontro tra poteri ha così alimentato un populismo, che è diventato populismo giudiziario fino agli eccessi di quel “magistrato- tribuno” che - sono parole di Giovanni Fiandaca - “oltre a pretendere di entrare in rapporto con i cittadini o con alcuni gruppi sociali particolari” inevitabilmente finisce per far derivare “dallo stesso consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato”. Sono tante le vicende in cui esercizio della funzione giudiziaria e giustizia mediatica si sono mescolate pericolosamente. Sull’altro piatto della bilancia, naturalmente, c’è l’approccio certo non pacificante di chi afferma che è lecito chiedersi “se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione”, inaugurando “anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee” o sottolinea che “non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione” e il gip imponga di avviare il processo”, lasciando così intendere che si tratta di una forzatura (e non già di una possibilità prevista dal codice di rito sancendo il primato del giudice sulle determinazioni dell’accusa in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale), proveniente da non meglio precisate fonti di Palazzo Chigi. Non è certo questa la via per superare - e possibilmente mettere in archivio - l’eterno ritorno dello scontro tra poteri, trasformatosi sembra in destino ineluttabile. L’Anm piccona il ddl Nordio: dall’abuso d’ufficio agli interrogatori, il documento che smonta la riforma di Francesco Grignetti La Stampa, 9 luglio 2023 Come picconare un ministro della Giustizia in cinque mosse. L’associazione nazionale magistrati, che certo non si sta tirando indietro dallo scontro, e risponde per le rime ad accuse e insinuazioni, ha voluto dedicare qualche attenzione anche al ddl Nordio che è stato appena licenziato dal consiglio dei ministri. Quel ddl che abroga il reato di abuso di ufficio, riscrive il reato di traffico di influenze, costringe i magistrati a interrogare un indagato prima di arrestarlo, impone che le misure cautelari siano prese da un collegio di tre giudici, e così via. Ebbene, nulla si salva all’esame attento di chi esercita la giustizia tutti i giorni nei tribunali italiani. E conclude con un ironico appello affinché le “preannunciate modifiche siano oggetto di rimeditazione alla luce delle criticità”. Prima picconata, l’abolizione del reato di abuso di ufficio è sostanzialmente “in contrasto con l’indirizzo politico perseguito a livello internazionale”, che invece procede in senso opposto, aumenta e irrigidisce tutti i reati che intaccano il buon andamento della pubblica amministrazione e in conclusione, secondo i togati, espone l’Italia “al rischio di procedure d’infrazione”. Secondo colpo, la riformulazione del delitto di traffico di influenze. “Finirebbe - scrivono - con il rendere leciti comportamenti pericolosi per la formazione delle decisioni della pubblica amministrazione”. Il nuovo reato non li convince perché resterebbero fuori dal radar penali quei comportamenti di pubblici ufficiali “suscettibili di inquinare il processo decisionale e la comparazione degli interessi attinti dall’esercizio del potere pubblico”. Ma quel che pare loro più grave sono le innovazioni procedurali. L’interrogatorio preventivo? “Rischia di determinare evidenti difficoltà di attuazione del controllo del giudice sull’iniziativa cautelare del requirente, specie nei procedimenti cumulativi”. Ravvedono cioè una curiosa sovrapposizione tra interrogatorio di garanzia da parte del pubblico ministero prima di richiedere un arresto e l’altro interrogatorio di garanzia che spetta invece al giudice in seguito a un arresto. La dottrina lo definisce un momento fondamentale del procedimento cautelare, in quanto rappresenta il primo contatto che la persona sottoposta a misura cautelare ha con il giudice a garanzia del più ampio diritto di difesa dell’indagato. Come convivranno i due interrogatori di garanzia? I magistrati vedono solo un gran pasticcio. E soprattutto che avrà “un effetto devastante sugli uffici”. C’è poi la prospettiva di passare dal gip monocratico a un collegio di 3 magistrati per decidere ogni misura cautelare. “Appare di difficile attuazione già nei grandi tribunali e sarà pressoché impossibile da gestire negli uffici medio-piccoli, al netto dell’aumento esponenziale delle ipotesi di incompatibilità che, inevitabilmente, ne conseguiranno”. L’effetto paradossale sarà l’ingorgo di procedimenti e un allungamento dei tempi del processo. “In chiara violazione degli obiettivi del PNRR”. Anche l’escamotage di distribuire il lavoro tra giudici secondo le tabelle infra-distrettuali “non tiene conto di difficoltà operative fin troppo evidenti non solo quanto alla gestione di ogni fase relativa alla misura cautelare ma anche, se non soprattutto, alla funzionalità dei singoli uffici dei magistrati applicati al collegio, chiamati a spostarsi da una sede all’altra, trascurando le urgenze del proprio ufficio”. In ultimo, la limitazione del potere di appello del pubblico ministero. “Anche alla luce dell’ampliamento delle ipotesi di giudizio a citazione diretta previsto dalla riforma Cartabia, data l’ampiezza del divieto di impugnazione rischia di entrare in frizione con i principi scolpiti nella sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che già si pronunciò sulla precedente legge cd. Pecorella, sostanzialmente nel medesimo senso”. E insomma si prefigura una incostituzionalità che finirà quanto prima davanti alla Corte costituzionale. I magistrati contro il governo dopo l’intervento di Palazzo Chigi: “Subiamo accuse pesantissime” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 9 luglio 2023 L’Anm: “Nessuna interferenza. Abbiamo il dovere di intervenire per tutelare indipendenza e autonomia”. Conte: “Da Meloni gravissimo attacco ai giudici”. Gasparri: “La magistratura sta attentando alla Costituzione”. Pd: “La premier usi prudenza”. Dopo due giorni ad alta tensione per le accuse di “interferenza” mosse da Palazzo Chigi alle toghe, ieri è arrivata la risposta dura dell’Associazione Nazionale magistrati. Il presidente Giuseppe Santalucia ha denunciato: “È stata colpita al cuore la magistratura”. E un documento, votato all’unanimità da tutto il sindacato dei giudici, ha ricordato al governo che “l’Anm ha il dovere di intervenire” perché tra i suoi “alti compiti” c’è la tutela “dei valori di autonomia e indipendenza”. Una reazione che moltiplica le polemiche tra governo e opposizione. Con il leader M5S Giuseppe Conte che sfida Giorgia Meloni: “Mi preoccupa un Presidente del Consiglio che, nascondendosi dietro lo schermo delle “fonti Chigi”, conduce un gravissimo attacco ai magistrati che svolgono il proprio dovere, accusandoli di avere addirittura aperto la campagna elettorale per le elezioni europee”. Che con il vicepresidente del Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che raggiunge l’acme dello scontro dicendo: “La magistratura sta attentando alla Costituzione. E questo non può essere ignorato da chi ha la massima responsabilità di presiedere questa super casta che si ritiene sovrana ed intoccabile”. Più che scintille schizzi di fuoco quelli piovuti ieri sulla giustizia. Tanto da spingere i capigruppo del Pd, Francesco Boccia e Chiara Braga, a chiedere alla premier Giorgia Meloni “maggior prudenza e a non incendiare il clima politico”. Perché, dicono, “questo ennesimo scontro con la Magistratura indebolisce la nostra Repubblica”. La tensione è cominciata a salire sabato in mattinata, quando in apertura del comitato direttivo centrale dell’Anm, Santalucia ha respinto le accuse del governo per le critiche espresse dall’Anm sulla riforma Nordio, ma soprattutto per gli sviluppi dei procedimenti sulla ministra Daniela Santanché: “È fuori legge che si apprenda dai giornali di essere indagati, curiosamente quando si è chiamati a riferire in Parlamento”, avevano stigmatizzato da Palazzo Chigi. E sull’imputazione coatta del sottosegretario Andrea Delmastro. Il pm ne aveva chiesto il proscioglimento dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio relativa alle relazioni della penitenziaria, riferite al collega Giovanni Donzelli, sui colloqui in carcere contro il 41 bis condotti da Alfredo Cospito con i vicini mafiosi (“non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice per le indagini preliminari imponga che si avvii il giudizio” aggiungevano dal governo). Il presidente Anm Santalucia ha protestato: “Schierarsi in maniera faziosa nello scontro politico in vista delle elezioni europee” è un’accusa “gravissima”, perché “se un magistrato è fazioso, o politicamente schierato, semplicemente non è un magistrato”. E aggiunto: “Mi sarei atteso, una indagine immediata per disperdere ogni sospetto malizioso, e se era avvenuto qualcosa procedere nei confronti del singolo”. E ancora: “Siamo intervenuti portando nel dibattito pubblico critiche argomentate al disegno di legge. Non apparteniamo a nessun partito e interveniamo esercitando un diritto di associazione”. Infine il “sospetto che si voglia usare la separazione delle carriere e le altre riforme della giustizia come “punizione nei confronti della magistratura”. Quindi l’accusa al sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano, “stimatissimo ex collega, che parla di interferenze del giudiziario nella politica”. Se il riferimento è ad un’indagine nei confronti di un ministro e ad un ordine di formulazione dell’imputazione, non rinvengo traccia di razionalità istituzionale”, chiosa. Dal Pd, Debora Serracchiani accusa: “Meloni come Berlusconi. Il suo garantismo e solo per sodali di partito”. Mentre Enrico Costa (Azione) evidenzia: “È la sagra delle invasioni di campo”. L’Associazione Nazionale Magistrati: “Intervenire sulle riforme è dovere non interferenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 luglio 2023 Nel corso del Consiglio direttivo svoltosi a Roma, sono stati approvati due documenti dal Cdc, il primo dei quali su proposta di Magistratura democratica. I tempi sono cambiati ha detto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Ci siamo trovati in un mese a difendere l’operato di due giudici e non quello delle cosiddette toghe rosse delle Procure. Questo è un segno di crescente preoccupazione”. Una valutazione non da poco quella del vertice del sindacato delle toghe che fa emergere il cambio di passo della polemica. I giudici non solo ultimamente si trovano a dover essere aggrediti verbalmente quando assolvono, derubricano o comminano pene meno severe delle aspettative pubbliche ma ora si trovano a dover essere messi sotto accusa nell’esercizio della loro legittima funzione dalla politica di centro-destra. Per adesso da Via Arenula non arriva alcuna replica alla ferma relazione di Santalucia in apertura del Cdc di questa mattina, anche perché il Ministro è in volo di ritorno da Tokyo. Intanto sono stati approvati due documenti dal Cdc, il primo dei quali su proposta di Magistratura democratica: “Le prese di posizione, che si susseguono in questi giorni censurando i provvedimenti di un giudice, sono incomprensibili, specie laddove provengano da chi propone, nello stesso tempo, di affidare a tre giudici invece che a uno la valutazione delle richieste di misure cautelari. Quando invece la richiesta del pubblico ministero va nella direzione auspicata, allora il giudice non serve più. Prima si auspica la separazione delle carriere perché i giudici sarebbero subalterni ai pubblici ministeri, poi si insorge quando un giudice si discosta dalle loro richieste. E se queste posizioni provengono dal Ministero della Giustizia l’incomprensibilità lascia posto allo smarrimento”. Pertanto “L’ANM ribadisce con convinzione che l’architettura costituzionale che disegna la separazione dei poteri dello Stato è garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e della tutela dei diritti fondamentali di fronte a ogni potere. Si tratta dei fondamenti dello stato di diritto e della democrazia costituzionale al cui presidio sono poste anche la magistratura e l’esercizio della giurisdizione”. Nel secondo documento invece si ribadisce che “intervenire nel dibattito che, fisiologicamente, precede e accompagna ogni proposta di riforma legislativa capace di incidere proprio sui diritti e sulle libertà sia propriamente un dovere dell’Associazione Nazionale Magistrati: è un dovere perché il nostro intento è solo quello di far conoscere all’opinione pubblica, ed alle istituzioni cui poi spetta il compito delle decisioni e delle scelte, ogni aspetto, ogni profilo, ogni implicazione sottesi alle annunciate riforme. Lungi dall’essere un’interferenza, è la pretesa di essere ascoltati perché portatori di conoscenze ed esperienze proprie del nostro ruolo; e perché tra i compiti - altissimi - della nostra Associazione vi è quello, irrinunciabile, di presidiare i valori essenziali dell’indipendenza e dell’autonomia, e di tutti quelli che vi sono indefettibilmente collegati. Ecco perché non rinunceremo mai a far sentire la nostra voce; ed ascoltarla, da parte di chi ha poi la responsabilità di compiere le scelte come espressione della sovranità popolare, è, per noi, indice, e dimostrazione, della qualità della democrazia”. L’Anm risponde al fuoco: “Vogliono colpire i magistrati” di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 luglio 2023 Scontro governo-magistratura. Il presidente Santalucia: dal governo “un attacco pesantissimo e insidioso perché lasciato a fonti anonime di palazzo Chigi”. Per i magistrati le ultime prese di posizione sono “incomprensili”. Ribadite le critiche al ddl Nordio. Lo scontro è servito. Gli attacchi arrivati dalle “fonti di palazzo Chigi”, dalle veline del ministero della Giustizia e dalle dichiarazioni di svariati esponenti della maggioranza di governo hanno portato l’Anm a rispondere con parole piuttosto dure, segnando così il primo vero e proprio spartiacque di un conflitto sin qui latente e che, con ogni probabilità, Giorgia Meloni avrebbe volentieri evitato se nell’ultima settimana i casi Santanchè, Delmastro e La Russa non le fossero praticamente esplosi tra le mani. Così, all’accusa di “fare opposizione” e di voler “sabotare la riforma della giustizia” per primo ha risposto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia nella sua relazione davanti al comitato direttivo centrale cominciato ieri a Roma. “Un attacco pesantissimo - ha detto Santalucia - e ancora più insidioso perché lasciato a fonti anonime di Palazzo Chigi. Avremmo gradito una smentita e invece ieri (venerdì, ndr) abbiamo letto due note di fonti ministeriali che intervengono sugli stessi fatti”. Il riferimento è agli spifferi che parlano di revisioni in vista per la pubblicazione di avvisi di garanzia sui giornali e dell’imputazione coatta dei giudici contro il parere dei pm, ovvero le questioni su cui sono inciampati prima Santanchè e poi Delmastro. “Il sospetto - ha proseguito il presidente dell’Anm - è che queste proposte vengano sbandierate non perché si crede che servano a migliorare l’attuale sistema ma come misura di punizione nei confronti della magistratura”. Da qui, “con umiltà”, la richiesta di Santalucia al governo di “cambiare passo” perché “non si può andare a una riforma costituzionale con questo passo, come risposta reattiva a un provvedimento fisiologico di un giudice che non piace perché colpisce qualcuno che è al governo”. L’Anm, in seguito, ha sottoscritto l’intervento del suo presidente con un documento che ha ribadito ancora una volta la linea, soprattutto per quel che riguarda il caso Delmastro e la sua imputazione coatta decisa dalla gip di Roma: “Le prese di posizione, che si susseguono in questi giorni censurando i provvedimenti di un giudice, sono incomprensibili, specie laddove provengano da chi propone, nello stesso tempo, di affidare a tre giudici invece che a uno la valutazione delle richieste di misure cautelari. Quando invece la richiesta del pubblico ministero va nella direzione auspicata, allora il giudice non serve più. Prima si auspica la separazione delle carriere perché i giudici sarebbero subalterni ai pubblici ministeri, poi si insorge quando un giudice si discosta dalle loro richieste”. In un secondo documento, sempre approvato dal comitato direttivo centrale dell’Anm, si difende il diritto dei magistrati a entrare nel dibattito sulla riforma della giustizia. “Intervenire nel dibattito che, fisiologicamente, precede e accompagna ogni proposta di riforma legislativa capace di incidere proprio sui diritti e sulle libertà è un dovere dell’Associazione Nazionale Magistrati - si legge -. Lungi dall’essere un’interferenza, è la pretesa di essere ascoltati perché portatori di conoscenze ed esperienze proprie del nostro ruolo”. Non si può andare a una riforma costituzionale come risposta reattiva a un provvedimento di un giudice che non piace perché colpisce qualcuno che è al governo Le critiche nello specifico riguardano l’abolizione del reato di abuso d’ufficio (“In contrasto con l’indirizzo politico perseguito a livello internazionale, consistente nel potenziamento degli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione ed espongono l’Italia al rischio di procedure d’infrazione”), l’abolizione del reato di traffico di influenze illecite (“Finirebbe con il rendere leciti comportamenti pericolosi per la formazione delle decisioni della pubblica amministrazione, suscettibili di inquinare il processo decisionale e la comparazione degli interessi attinti dall’esercizio del potere pubblico”) e la limitazione del potere d’appello dei pm: “Anche alla luce dell’ampliamento delle ipotesi di giudizio a citazione diretta previsto dalla riforma Cartabia, data l’ampiezza del divieto di impugnazione rischia di entrare in frizione con i principi scolpiti nella sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che già si pronunciò sulla precedente legge Pecorella, sostanzialmente nel medesimo senso”. Tajani: “Ora carriere separate. I magistrati devono applicare le leggi” di Francesco Bechis Il Messaggero, 9 luglio 2023 Il vicepremier: “Avanti con la riforma”. Il governo Meloni non andrà alla guerra con la magistratura, spiega al Messaggero Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri di Forza Italia. Trova però “singolari” alcune vicende giudiziarie che hanno colpito l’esecutivo, a partire dall’imputazione coatta del sottosegretario Andrea Delmastro. E promette ora di accelerare sulla riforma della giustizia e la separazione delle carriere tra giudici e pm, “era un sogno di Berlusconi”. Ministro, l’Associazione nazionale magistrati accusa il governo di attaccare l’autonomia delle toghe... “Non vedo alcun attacco contro i magistrati. Andremo avanti con la riforma della Giustizia che è un preciso impegno preso di fronte agli elettori”. Il governo non cerca vendette contro i giudici? “Il ministro Nordio è un magistrato, è evidente che nessuno cerca vendette contro i magistrati. Le riforme possono piacere o meno, per noi è importante distinguere i ruoli costituzionali. Il Parlamento fa le leggi, i magistrati le applicano”. Dall’inchiesta su Santanchè all’imputazione coatta di Delmastro, Palazzo Chigi accusa i magistrati di fare politica. È d’accordo? “Mi limito a dire che trovo singolare l’imputazione coatta di Delmastro. Il Gup non può diventare un nuovo Pm. Anche per questo come Forza Italia e come governo andremo avanti sulla riforma della separazione delle carriere che è uno dei pilastri storici del nostro programma fin dal 1994 ed era un sogno irrealizzato di Berlusconi”. Lo scontro rischia di accendersi... “Non vedo il motivo, è assurdo pensare a una riforma contro i magistrati. Semplicemente bisogna ristabilire un principio costituzionale: deve essere un giudice terzo a decidere se sei innocente o colpevole. È impensabile che due magistrati che magari sono stati pm assieme si facciano carico dell’accusa e del giudizio”. Sull’inchiesta che riguarda il ministro Santanchè sono emersi nuovi dettagli. Chiederete le dimissioni? “No, fanno fede le parole del ministro e per noi il caso è chiuso. È una questione di principio: siamo garantisti, non si è colpevoli fino al terzo grado di giudizio”. Quindi un passo indietro è escluso? “Come giustificare un passo indietro se viene in seguito dimostrata l’innocenza? La storia di Berlusconi e la conclusione del processo Ruby-Ter dovrebbero aver insegnato qualcosa. Io sono sempre stato garantista con tutti, destra e sinistra non fa eccezione”. Insomma, nessuno scontro tra magistrati e governo? “Da parte nostra non c’è scontro. A qualcuno, come ha reso noto l’Anm, non piace la nostra riforma della giustizia: legittimo. È invece inaccettabile che la notizia di un avviso di garanzia sia data a un giornale prima che alla persona interessata. È un atto a tutela della persona, non una condanna”. Volete rendere segreto l’avviso di garanzia? “Deve essere reso noto prima alla persona che lo riceve, non può finire sui giornali. Così come fa bene Nordio a mettere un limite alla pubblicazione delle intercettazioni per evitare che le conversazioni di terzi siano pubblicate”. Crede che Meloni possa finire nel mirino dei magistrati come Berlusconi? “Mi auguro di no. Certo le vicende giudiziarie di questi giorni, l’imputazione coatta di Delmastro, mi lasciano perplesso. Ripeto, noi non cerchiamo lo scontro con i magistrati, continuiamo invece a lavorare per una riforma per i cittadini, che garantisca il rispetto dei rispettivi ruoli costituzionali”. L’inchiesta sul figlio di Ignazio La Russa agita la politica per le parole usate dal presidente del Senato. Ha superato il confine? “Non ho elementi per commentare questa inchiesta”. Le vicende giudiziarie agitano il governo alla vigilia di un grande appuntamento internazionale. Cosa si aspetta l’Italia dal summit della Nato a Vilnius? “Il rafforzamento dell’Alleanza a 360 gradi, l’avvio di un percorso di avvicinamento dell’Ucraina e l’istituzione del Consiglio Nato-Ucraina. Vogliamo poi accendere i riflettori sul fronte Sud”. Ovvero? “Dai mercenari russi Wagner ai terroristi di Daesh fino al traffico di esseri umani, armi e stupefacenti e la pirateria. Ci sono minacce provenienti dal Mediterraneo e dall’Africa che mettono in pericolo la sicurezza europea e la Nato non può ignorare”. Da dove si parte? “C’è un altro tema da affrontare. Le spese per la Difesa. Dobbiamo considerare all’interno del vincolo del 2 per cento del Pil nella Difesa gli sforzi dell’Italia nelle missioni estere in questo quadrante così come nei Balcani. Penso alla missione in Niger contro i terroristi ma anche ai controlli della Guardia di Finanza a Valona in Albania: sono spese di cui si deve tenere conto”. Il governo si è espresso contro l’invio di bombe a grappolo in Ucraina deciso dagli Stati Uniti. È una linea rossa? “È una decisione degli Stati Uniti, noi non abbiamo questi armamenti e abbiamo firmato convenzioni che li vietano. La nostra linea è chiara: non siamo in guerra con la Russia, inviamo all’Ucraina sistemi difensivi contro un’aggressione illegale”. Al vertice di Dubrovnik in Croazia ha difeso l’integrazione dei Balcani occidentali in Ue. È fattibile? “Certo, come l’Ucraina anche i Balcani occidentali sono Europa e hanno diritto a far parte dell’Ue. L’Italia è in prima linea per aiutarli a completare l’iter di adesione - domani avremo un vertice con Croazia e Slovenia - è un nostro interesse strategico”. Perché? “Perché possono essere nostri alleati per dare stabilità alla regione, frenare i flussi di immigrazione clandestina sulla rotta balcanica”. Prima bisogna spegnere le tensioni alle stelle tra Serbia e Kosovo... “Siamo mobilitati per questo, ho sentito ieri Vucic e sono in contatto con Borrell per favorire un accordo e spianare la strada per ripetere le elezioni nel nord del Kosovo. La Serbia resta un partner chiave anche per placare la situazione in Bosnia-Erzegovina”. Torniamo a Roma. Forza Italia l’ha scelta come candidato leader per il Consiglio nazionale. Che fase si apre? “Ripartiamo nel segno di Berlusconi, che rimane il nostro leader insostituibile: le sue idee, come la riforma della giustizia, devono camminare con le nostre gambe. A settembre avremo il summit dei giovani di FI. L’anno prossimo ci sarà il Congresso, mi auguro prima delle europee”. Si augura che qualcuno dei figli di Berlusconi scena in campo, magari Marina o Pier Silvio? “Spetta a loro decidere con quale forma essere presenti. Ci hanno garantito la loro vicinanza e sono convinti che il partito sia una delle più grandi realizzazioni del padre”. Sulle europee siete stati netti: niente accordi con Marine Le Pen. La Lega non l’ha presa bene. “Non è un nostro veto. Chi conosce l’Europa sa che nessuna forza politica farà mai accordi con Le Pen o i tedeschi di Afd, forze antieuropee. Come si fa un accordo di governo con chi vuole distruggere le istituzioni Ue?”. Caso chiuso, quindi... “Parlare di un accordo con Le Pen è fantapolitica. La Lega invece è un caso diverso: saremmo felici se volesse costruire una maggioranza alternativa”. Con chi? “Popolari, conservatori e liberali. La stessa coalizione che mi ha eletto presidente dell’Europarlamento battendo un socialista”. E se il Ppe cambia idea e si allea con i socialisti, vi adeguate? “Ricordo che Ursula von der Leyen è stata eletta presidente della Commissione frenando la corsa di Timmermans, un socialista: Salvini lo sa bene. Stiamo costruendo un cantiere: lavori in corso”. Spataro: “Se c’è una guerra sulla giustizia è dichiarata da una parte sola. Giudici baluardo della Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 9 luglio 2023 L’ex procuratore: “Mantovano parla di interferenze del potere giudiziario? Sembra che abbia fatto il magistrato altrove, non in Italia”. Armando Spataro lo vede? È di nuovo scontro sulla giustizia. “Non farò la fine di Berlusconi”, dice Meloni. Una paura fondata? “Siamo alla solita rappresentazione strumentale di una guerra mirata e politicamente motivata delle procure, e ora anche dei giudici, contro il ceto politico. Ormai è questo lo spot da trasmettere all’opinione pubblica: ripeterlo all’infinito, ossessivamente, serve a rappresentare la magistratura come un’istituzione orientata non da obblighi costituzionali ma, appunto, da finalità politiche”. Il sottosegretario Mantovano vede le interferenze del potere giudiziario. E sul tavolo ci sono i casi Santanché e Delmastro... “Sembra che abbia fatto il magistrato altrove, non in Italia, ove indagare anche su politici in presenza di una seria notizia di reato è obbligatorio e non significa affatto interferire con le competenze di altri poteri. Altro è auspicare che lo si faccia con attenzione e professionalità. Sempre per tutti i reati a chiunque attribuibili”. Da due giorni, fonti anonime da palazzo Chigi e via Arenula accusano le toghe di assumere un ruolo politico... “Non conosco il ‘signor Fonti’ che bazzica tra Chigi e le sedi ministeriali. E pare che lo faccia da molto tempo e nessuno ancora lo sbatte fuori, perché tanto sarà a breve abolito l’abuso d’ufficio. Mi sono convinto però che non ha grande conoscenza dei principi su cui si fonda ogni democrazia, a partire dall’inutilizzabilità degli anonimi anche in politica”. Meloni come Berlusconi vuole le mani libere? “Da tempo c’è chi parla di una ‘guerra civile in corso’, ma se così fosse sarebbe una guerra dichiarata da una parte sola. Voglio citare qui le parole pronunciate nel 2006 dal defunto Lord Bingham of Cornhill KG, grande giurista inglese: ‘Parlare di guerra aperta tra governo e potere giudiziario non è un’analisi precisa. Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere’”. Forse i meloniani vorrebbero vivere in questi Paesi... “Le tensioni tra politica e magistratura sono comprensibili ed accettabili, ma la storia degli ultimi vent’anni in Italia ci consegna l’immagine del potere giudiziario che, pur pubblicamente vilipeso e indebolito, non senza errori e responsabilità, riesce ad adempiere i doveri che gli sono assegnati dalla Costituzione, di cui anzi diventa baluardo. Non è un caso che il sistema italiano sia invidiato ovunque”. Via Arenula e Delmastro. Con la fonte anonima il Guardasigilli contesta che una gip abbia chiesto, contro il parere della procura, l’imputazione coatta... “Con ciò che dice il ‘signor Fonti’ siamo al comico. Simili ed altre forme di controllo del giudice sul pm e sulle sue conclusioni sono non solo fisiologiche, ma sono spesso attuate, come è capitato anche a me, e dimostrano quale sia il senso della necessaria unica cultura giurisdizionale che deve ispirare l’azione dei magistrati: la ricerca della verità”. Nordio era certo che le carte del Dap non fossero segrete, ora si autodifende? “So che erano segrete per quel che conosco del diritto e perché lo hanno detto sia il giudice che i pm romani. Se poi Nordio volesse difendere se stesso o altri lo chieda a lui o al ‘signor Fonti’”. Il Guardasigilli vuole tre giudici contro il pm e non il solo gip, ma poi attacca proprio la gip di Roma che su Delmastro ha contestato la procura. Si contraddice? “Qui mi sembra che si rischi di confondere la necessità di curare efficacemente l’organizzazione della giustizia - e non va in questa direzione triplicare il numero dei giudici competenti sulle misure cautelari chieste dal pm - che è compito costituzionale del ministro, col merito delle decisioni giudiziarie su cui, salvo casi di gravi violazioni di legge, lui non ha alcuna competenza disciplinare”. Da una parte la clava sulle toghe, dall’altra il bavaglio alla stampa, con l’annuncio di un processo che sarà tutto segreto dall’avviso di garanzia alle intercettazioni. Riforme da stato autoritario? “È una vecchia querelle politica e per smentirla basta leggere l’attuale e rigorosa disciplina sulle intercettazioni specie dopo le modifiche del ministro Orlando nel 2017, il cui effetto positivo è stato apprezzato a gennaio in Senato dal Garante della privacy. La Cedu ha riconosciuto ai giornalisti la libertà, o meglio il dovere, d’informare su tutto ciò che ha rilievo per il dibattito pubblico, anche al di là dei limiti dei segreti”. Gli irresponsabili e la separazione dei poteri di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 9 luglio 2023 I nostri governanti sono soliti vantarsi della loro abitudine a “metterci la faccia”. Ma ora, data la loro gravità, ci tocca commentare ciò che “note informali”, “fonti di Palazzo Chigi” e “fonti di via Arenula” hanno lanciato tra le urgenti notizie di agenzia e i titoli di ogni genere di media. Si tratta di opinioni gravi e irresponsabili, sia perché appunto non responsabili in quanto anonime, sia perché, non essendo formalmente smentite, si deve credere (si fa credere) che provengano dal governo. Ed è stupefacente che in un sistema di stato di diritto e di separazione dei poteri, il governo in tal modo attacchi l’esercizio della funzione giudiziaria. Di questo infatti si tratta, anche se si vorrebbe far credere che siano pensieri vaganti nei corridoi di due palazzi, dietro i cui nomi sta però la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero della Giustizia. Da una nota informale del primo emerge un attacco alla magistratura per la indagine sulla sottosegretaria Santachè che riprende stile e contenuti dello scontro abitualmente alimentato dal mondo berlusconiano: mondo cui inaspettatamente viene ad iscriversi ora il partito della presidente del Consiglio, che già aveva manifestato insofferenza per l’attività di organi di garanzia e legalità come la Corte dei conti e l’Autorità anticorruzione. Dai corridoi del ministero della Giustizia e solo ora da un comunicato stampa, invece, si pretenderebbe che sia inammissibile ciò che il codice di procedura penale prevede; che cioè il giudice dell’indagine preliminare possa decidere diversamente da quanto chiede il pubblico ministero e, invece di archiviare una notizia di reato, disponga che si proceda con la formulazione del capo di imputazione e il seguito della normale procedura. Una simile evenienza si è verificata ora nel caso riguardante le notizie su atti interni del ministero che sono state passate dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro al collega di partito Donzelli e da questi fatte oggetto di un suo intervento in Parlamento. La decisione del giudice, difforme dalla richiesta del pubblico ministero, sarebbe incompatibile con un processo di parti e inammissibile rispetto al monopolio della azione penale che spetterebbe al pubblico ministero. Nonostante che queste ultime tesi siano da alcuni organi di stampa fatte risalire a dichiarazioni del ministro Nordio rese in Giappone, c’è da sperare che così non sia: meglio che vengano da fonti anonime del ministero, tanto sono prive di fondamento. Il pubblico ministero, all’esito dell’indagine preliminare, può ritenere che la notizia di reato sia infondata o comunque non vi sia una ragionevole previsione di condanna (in tal senso il codice recentemente riformato). Ma non può direttamente cestinare la notizia di reato. Una tale possibilità è praticata in altri ordinamenti, che prevedono la discrezionalità più o meno libera del pubblico ministero. Ma persino nel sistema britannico, cui il ministro ama richiamarsi facendone un modello, vi sono esempi di judicial review sul modo in cui l’organo di accusa decide di non procedere. L’esigenza di controllo da parte di un giudice in ordine alle decisioni del pubblico ministero è generalmente presente nei sistemi europei, soprattutto sollecitata dalla necessaria tutela delle vittime dei reati. In Italia, comunque, il ministro della Giustizia e i suoi uffici devono ricordare che la sottoposizione di ogni determinazione del pubblico ministero al controllo del giudice -per accettarla, modificarla o respingerla- è un principio essenziale della procedura penale, qualunque sia lo status del pubblico ministero (magistrato indipendente o, come avviene altrove, variamente dipendente dal governo). Nel testo originario del codice di procedura penale del 1930, che porta il nome del ministro Alfredo Rocco, il pubblico ministero decideva autonomamente di archiviare le notizie di reato oppure di procedere portando l’imputato a giudizio. Subito dopo la fine del ventennio fascista e prima ancora della approvazione della Costituzione repubblicana un provvedimento urgente del governo (decreto legislativo n. 288 del 1944) dispose la modifica dell’art. 74 del codice, nel senso che il pubblico ministero dovesse richiedere la archiviazione della notizia di reato al giudice istruttore, il quale poteva invece disporre che si procedesse alla istruzione. Gli abusi e le persecuzioni discriminatorie, che la norma originaria aveva permesso, discendevano anche e appunto dalla pretesa del monopolio della azione penale in capo al pubblico ministero. Dal 1944 in poi anche con i cambi che la procedura penale ha subito, è il giudice che archivia o non archivia le notizie di reato, decidendo sulle richieste del pubblico ministero a seconda che le ritenga fondate, oppure infondate e quindi da approfondire nel corso ordinario del procedimento. C’è poi da aggiungere che lo stupore ministeriale per l’autonomo esercizio della giurisdizione da parte del giudice contrasta con la frequente accusa di “appiattimento” dei giudici sulle richieste del pubblico ministero. Un appiattimento che sarebbe dovuto al fatto che l’uno e l’altro sono colleghi: da separare dunque per assicurare al giudice la dovuta indipendenza e mettere il pubblico ministero al suo posto! Intercettazioni con i trojan, poche e indirizzate contro le mafie di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2023 Per la prima volta il Governo fornisce i dati sugli ascolti con virus informatico (solo il 3% del totale). Dal Senato il confronto con gli altri Paesi attesta la centralità dello strumento investigativo. Un numero irrisorio e comunque indirizzate in larga parte contro la criminalità organizzata. Le intercettazioni attraverso i trojan, uno dei punti più indiziati di drastico cambiamento nella prospettiva della riforma più volte annunciata per l’autunno dal ministero della Giustizia Carlo Nordio, rappresentano una quota assolutamente residuale nel complesso delle operazioni di ascolto. A renderlo evidente è lo stesso ministero che, per la prima volta, con dati del 2021, corrobora con i numeri un punto tra i più controversi. E così, se il totale delle intercettazioni del 2021 totalizza 94.886 “bersagli” (il che non equivale ad altrettanti indagati, visto il più che probabile possesso di più di un’utenza da parte della medesima persona) quelle effettuate con l’ormai proverbiale virus informatico sono 2.896. Di più lo spaccato del ministero distingue anche sulla base dell’autorità inquirente, permettendo così di verificare che più della metà delle operazioni attraverso trojan (1.515) sono disposte dalle Direzioni distrettuali antimafia nel contesto di attività d’indagine contro la criminalità organizzata. Le altre 1.319 (le 2 che mancano al conto sono ascritte alla Procura dei minori e alla Procura generale) sono in quota Procura “ordinaria”. Dove, se lo stesso Nordio ha più volte sostenuto di non volere incrinare la capacità di risposta dello Stato rispetto ai più gravi fenomeni criminali, allora i dati sembrerebbero consigliare la massima prudenza rispetto a un intervento indirizzato, come sostenuto da esponenti della maggioranza, ad “asciugare” le tipologie di reati per i quali il captatore informatico è autorizzato. Pensare, per esempio, a un intervento che stralciasse la categoria dei reati contro la pubblica amministrazione, rischierebbe, in maniera pressoché certa, di rendere incandescente il confronto con la Commissione europea che, solo pochi giorni fa, ha espresso preoccupazioni per la cancellazione dell’abuso d’ufficio. E la commissione Giustizia del Senato, presieduta da Giulia Bongiorno, presso la quale inizierà a breve l’esame del disegno di legge con le prime misure sulle intercettazioni, indirizzate a limitarne la possibilità di divulgazione, sta stendendo la relazione dopo un ampio giro di audizioni che ha investito non solo magistrati e avvocati, ma anche tecnici addetti alle operazioni. E dai pubblici ministeri è emersa con evidenza la necessità che il Governo pensi semmai a strumenti in grado di confrontarsi con quelli più sofisticati già ampiamente utilizzati dalle organizzazioni criminali. Esemplare in questo senso la vicenda dei criptofonini sui quali la Germania si sta già attrezzando. E proprio in chiave comparatistica da una significativa ricerca dell’Ufficio studi del Senato di pochi mesi fa (31 i Paesi le cui legislazioni sono state esaminate), destinata a costituire un punto di riferimento nella materia, risalta, in generale, come le intercettazioni, ovunque, sono considerate e disciplinate come strumento indispensabile dell’attività investigativa. Negli Stati unite, per esempio, nel lungo elenco di reati in relazione ai quali si possono disporre intercettazioni sono compresi, fra gli altri, l’omicidio, la rapina, l’estorsione, il traffico di stupefacenti, la sottrazione di persona, le molestie ai minori, la cospirazione contro la sicurezza nazionale e, in generale, i reati punibili con la pena capitale o con pene detentive superiori ad un anno (U.S. Code, Titolo 18, sezione 2516). Di più. Le situazioni di emergenza in cui si possono effettuare intercettazioni giudiziarie senza attendere formale autorizzazione sono: pericoli immediati di morte o di lesioni gravi per una o più persone, attività cospiratorie che minaccino la sicurezza nazionale e attività cospiratorie tipiche della criminalità organizzata (U.S. Code, Titolo 18, sezione 2518, paragrafo 7). In queste ipotesi emergenziali la polizia può intercettare di sua iniziativa, ma deve nel frattempo preparare una richiesta di autorizzazione da sottoporre al giudice competente entro quarantotto ore dall’inizio delle intercettazioni. In Francia il potere di ordinare le intercettazioni è attribuito esclusivamente al giudice istruttore sotto la sua autorità e controllo, solo in materia di delitti per i quali sia prevista una pena detentiva non inferiore a tre anni e quando sono ritenute necessarie allo svolgimento delle indagini. La decisione, che deve essere espressa per iscritto, non ha natura giurisdizionale, di conseguenza non deve essere motivata e non è suscettibile di ricorso. Piemonte. Visite alle carceri di Asti e Alessandria, Scalfarotto: “Strutture e personale carenti” rainews.it, 9 luglio 2023 Il senatore, membro della Commissione Giustizia, ha visitato a sorpresa i due penitenziari: “Necessario investire risorse”. Una visita a sorpresa per valutare il reale stato di salute di alcuni penitenziari piemontesi. Con esito non positivo: “Il drammatico stato di sovraffollamento delle carceri italiane e il personale penitenziario sottodimensionato sono dati che non risparmiano le carceri piemontesi”, dice il senatore di Italia Viva e membro della Commissione Giustizia Ivan Scalfarotto. “Dopo il Lorusso e Cutugno di Torino, ho visitato le Case di reclusione di Asti e di Alessandria. Ad Asti, il carcere di Quarto rientra tra quelli ad alta sicurezza: ospita detenuti appartenenti a organizzazioni di stampo mafioso condannati a pesanti pene detentive. Anche al San Michele di Alessandria si tratta di condannati a pene definitive, ma l’alta sicurezza riguarda solo un piccolo gruppo di condannati per reati di terrorismo internazionale o per fini politici. In compenso, ad Alessandria, in una struttura a parte, che costituisce un vero e proprio carcere nel carcere, sono ospitati alcune decine di collaboratori di giustizia”. “Si tratta di due carceri fotocopia, realizzati sulla base di identici progetti all’epoca delle cosiddette ‘carceri d’oro’ - prosegue Sclafarotto - Strutture che hanno urgente bisogno di investimenti, sovraffollate, con celle che ospitano due persone quando sono state evidentemente progettate per essere singole, senza acqua calda nelle celle e con le docce in comune. Non migliore la situazione della polizia penitenziaria alla quale è richiesto uno sforzo che va al di là di ogni ragionevolezza, sottodimensionato com’è e costretto a turni massacranti”. L’appello al termine della giornata in Piemonte: “Occorre investire risorse e non perdere di vista il mondo delle carceri in modo tale da renderle più dignitose, efficienti, e capaci, attraverso il reinserimento lavorativo e le attività trattamentali, di adempiere a quella funzione rieducativa che non è solo un obbligo costituzionale, ma una specifica esigenza della società”. Venezia. Suicida in carcere dopo l’arresto. “La moglie avvertì delle sue intenzioni” di Beatrice Branca Corriere del Veneto, 9 luglio 2023 La moglie Sandra aveva avvisato che Alexandre aveva problemi psichici e manifestato intenzioni suicide. “Adesso la famiglia è intenzionata ad andare fino in fondo”, annuncia l’avvocato Francesco Schioppa che assiste vedova e figlia di Alexandre Santos De Freitas, il 45enne brasiliano residente a Montebelluna morto in carcere a Santa Maria Maggiore cinque giorni dopo il suo arresto. Suicidio, ha stabilito l’autopsia alla presenza del consulente tecnico nominato dalla famiglia. Aveva ingerito il tappo di una bottiglia e una pallina da biliardino che ne hanno causato la morte per soffocamento. Le avrebbe ingoiate mentre si trovava nella sala ricreativa, non visto nonostante la presenza di numerose persone tra detenuti e addetti; le telecamere pare abbiano invece ripreso la scena. De Freitas era stato arrestato il 28 giugno in pieno delirio psicotico, mentre all’aeroporto lanciava petardi rinforzati con chiodi e viti contro i carabinieri. Era convinto di essere perseguitato e cercava di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Che l’uomo fosse pericoloso non ci piove. Che fosse fragile lo prova il suicidio avvenuto il 3 luglio. “La famiglia andrà fino in fondo per capire se le informazioni sono state trasmesse e se la struttura ha agito in modo opportuno”, annuncia l’avvocato Schioppa. Palermo. Al carcere Pagliarelli il diritto di difesa non è di casa di Vito Cimiotta* L’Unità, 9 luglio 2023 Quelle rare volte in cui viene consentito il colloquio telefonico con i propri difensori, il detenuto è obbligato a indicare per iscritto e con precisione le motivazioni. Da qualche settimana ormai, i detenuti del Carcere Pagliarelli di Palermo devono fare i conti con una ulteriore e recentissima violazione di un principio costituzionalmente garantito: il diritto di difesa. Quelle rare volte in cui viene consentito il colloquio telefonico con i propri difensori, spesso dopo due o tre richieste, il detenuto è obbligato a indicare per iscritto e con dovizia di particolari la motivazione e la necessità della telefonata all’avvocato. Non bastano nemmeno più i “motivi di giustizia” o altre simili locuzioni. No! La motivazione deve essere specifica, deve essere convincente e solo così si potrà evitare che l’assistente di turno, che peraltro rimane sempre presente, ti vieti di telefonare. Si instaura così una sorta di filtro di ammissibilità all’esercizio di un supremo diritto costituzionale che degrada a concessione discrezionale di un organo amministrativo inferiore. Immaginate solo per un attimo il senso di frustrazione che può provare il detenuto, il quale dovrà trovare anche, al momento del colloquio telefonico, la lucidità per indicare in maniera precisa, i motivi giuridici per i quali vuole colloquiare con il proprio legale. Molti rinunciano, altri ci provano, ad altri ancora viene revocato il beneficio (che poi è un diritto sacrosanto). Ed anche questa volta, anche per questa ennesima violazione, dopo la progressiva diminuzione della possibilità di chiamare telefonicamente i propri familiari, sono gli stessi detenuti a tentare di far sentire la propria voce fuori dal carcere. Lo ha fatto Ludovico Collo, che ancora una volta porta fuori dal carcere le istanze di tanti detenuti come lui, attraverso un comunicato indirizzato al Presidente della Repubblica, al Garante per i detenuti della Regione Sicilia e al Tribunale di Sorveglianza di Palermo. Perché un detenuto dovrebbe indicare specificatamente i motivi del proprio colloquio con il difensore? Perché anche questo diritto merita di essere calpestato? Già lo stesso Ludovico Collo qualche mese addietro aveva interpellato tramite il sottoscritto, l’allora Garante per i detenuti Siciliani, Prof. Fiandaca di altra questione relativa ai colloqui telefonici. Finito il periodo emergenziale Covid, la direzione del Carcere Pagliarelli aveva riportato tutto alla “normalità”, consentendo una telefonata a settimana ai detenuti, quando invece nel periodo così detto d’emergenza, i detenuti avevano la possibilità di telefonare quotidianamente a familiari e difensori. Con una petizione, Ludovico Collo è riuscito a raccogliere ben 793 firme dei detenuti del Carcere Pagliarelli, inviando il documento scritto di pugno e firmato sia al Dap che al Prof. Fiandaca, il quale si era in un primo momento interessato. Oggi, questa nuova grave violazione si è abbattuta sui detenuti del Pagliarelli, i quali manifestano sentimenti di frustrazione e delusione, oltre che essere pronti a farsi sentire fuori dal carcere attraverso le proprie manifestazioni. Non è più il caso di minimizzare il problema delle telefonate in carcere, perché per chi sta rinchiuso lì dentro, una semplice telefonata potrebbe essere speranza, potrebbe essere consolazione, potrebbe essere vita. Non sono rari i casi di detenuti, spesso stranieri, che non fanno colloqui né in presenza né telefonici coi propri famigliari, perché semplicemente non li hanno o perché sono stati abbandonati da tutti. Allora, l’avvocato può essere oltre che arma di legittima difesa tecnica, anche l’unico significativo contatto umano che li farebbe uscire dall’isolamento carcerario. Restringere in tale maniera la possibilità di confronto con i propri difensori appare veramente aberrante ed appare ultroneo rappresentare per iscritto i motivi della conversazione o della telefonata. Il detenuto con il proprio difensore non può parlare d’altro se non dei propri problemi giudiziari, delle udienze che si sono avvicendate, della propria posizione giuridica. Oggi al carcere Pagliarelli la difesa viene violata, la privacy anche, e se è avvenuto a Palermo, con ogni probabilità questo avverrà anche in altre carceri italiane. Il perché di tutto questo non se lo spiegano i detenuti ma non ce lo spieghiamo nemmeno noi avvocati che però conosciamo perfettamente la triste e disumana condizione in cui ogni giorno vivono i nostri assistiti. *Direttivo Camera Penale di Marsala Sulmona (Aq). Esami di stato in carcere: quattordici gli studenti di Giada Salvati abruzzolive.it, 9 luglio 2023 L’istruzione è riconosciuta come elemento essenziale del trattamento penitenziario e costituisce una necessità finalizzata alla rieducazione ed al reinserimento nella società della persona ristretta, alla fine della pena. La scuola nel contesto carcerario è fondamentale ed ha un notevole valore, in quanto offre ai detenuti una possibilità di riscatto, permettendo loro di completare gli studi interrotti e di conseguire un diploma di maturità. Studiare in carcere rappresenta un percorso di formazione che molti detenuti scelgono, frequentando le attività didattiche per cinque anni, alla fine dei quali devono affrontare l’esame di stato. Questo è quanto hanno vissuto i quattordici studenti-ristretti dell’Istituto agrario “Arrigo Serpieri” - sede Casa di reclusione di Sulmona, che hanno dimostrato grande impegno e capacità. “L’esperienza in qualità di presidente agli esami di stato, presso la sede Casa di reclusione di Sulmona, è stata una tra quelle che, nei miei quarant’anni di scuola, considero tra le più significative che abbia mai fatto sul piano umano e professionale”, racconta la presidente della commissione Agata Nonnati, evidenziando l’emozione ed il grande desiderio dei detenuti di dimostrare il meglio di sé, con l’aiuto di quei docenti che ogni giorno scelgono di fare scuola in un luogo dove la loro straordinaria presenza dimostra come quelle ore di lezione possano rappresentare una speranza che illumina le giornate, grazie al rapporto umano che accende motivazione e desiderio di apprendere. “Un ringraziamento alla commissione e, in particolare, ai commissari interni e alla professoressa Daniela Verzino, referente della sede carceraria, che hanno dimostrato come la scuola possa cambiare destini che sembrano già segnati”, aggiunge la Presidente Nonnati. I docenti Maria Clara Patierno e Antonietta Ferrucci, Commissari esterni, sottolineano quanto sia stato emozionante “vedere uomini adulti agitati come ragazzini”, riconoscendo loro il merito di essersi impegnati al massimo, mossi da un forte desiderio di rivalsa e di affermazione di una personale scelta consapevole, e descrivendo l’esperienza di partecipare come membri esterni all’esame di stato in una Casa di reclusione come profondamente formativa, nella convinzione del valore salvifico della cultura. “Professore, voi siete una finestra sul mondo”: è la frase che, in tanti anni di insegnamento nella sede carceraria di Sulmona, ha sempre colpito ed emozionato il professore Paolo Di Persio, docente di scienze agrarie e commissario interno agli esami di maturità, che mette in rilievo come possa dare una particolare soddisfazione fare lezione a persone adulte, che in precedenza non hanno avuto né la possibilità né le condizioni per studiare, a causa dei loro trascorsi travagliati. Daniela Verzino, docente di italiano e storia, commissario interno e responsabile della sede Ipaa, insegna in carcere da otto anni e racconta il senso di umanità trasmesso dagli studenti-ristretti, il loro rispetto e l’educazione nei confronti degli insegnanti, il desiderio di apprendere, nonostante non siano dei ragazzi in età scolare, sottolineando come ogni anno, agli esami di stato, si rinnovino le emozioni per i docenti, ma soprattutto per i candidati, nell’affrontare un momento della propria esistenza che ciascuno ricorderà per sempre: la scuola rappresenta una notevole opportunità per trasmettere agli studenti un senso di rinascita, e l’approfondimento di aspetti culturali specifici contribuisce ad arricchire ed a formare la loro personalità, favorendo una crescita interiore che migliora la qualità della loro vita. “Ringrazio tutti i componenti della commissione, ed in particolare la presidente Agata Nonnati, che hanno dimostrato grande professionalità, ma anche sensibilità nei confronti dei nostri studenti - conclude la professoressa Verzino - ed un ringraziamento sentito va al dirigente scolastico dell’Istituto agrario “Arrigo Serpieri” Francesco Di Girolamo, a tutti i docenti, al direttore della Casa di reclusione Stefano Liberatore, alla dottoressa Ranalli, capo Area trattamentale, alle educatrici ed a tutti gli operatori penitenziari e scolastici, che lavorano quotidianamente in sinergia per la realizzazione di un percorso formativo, che si rivela importantissimo in tale contesto, merito del lavoro di equipe che pone al centro dell’attenzione gli studenti-ristretti, ai quali è garantito il diritto all’istruzione ed è consentito di fare tesoro della cultura, in previsione di un futuro migliore”. Anna Negri: “La mia infanzia presa in ostaggio dal terrorismo” di Antonio Gnoli La Repubblica, 9 luglio 2023 Regista e sceneggiatrice, ha scritto un libro “liberatorio” sul rapporto con il padre Toni Negri, leader di Autonomia operaia, raccontandone anche l’arresto e i processi per atti sovversivi: “Non era un mostro ma ha messo l’ideologia davanti alla vita”. Come un lungo diario che si snoda nel tempo così prende vita il confronto tra una figlia e un padre. A tratti la densa e impietosa “confessione” sembra una lettera. E le lettere - la loro urgenza a volte differita - lasciano immaginare la disparità di vedute, gli equivoci, le frasi non dette, l’amore non dichiarato, la rabbia contenuta fino poi a esplodere, la confessione ilare e drammatica. Anna Negri è una donna compiuta e realizzata, grazie al suo impegno nel cinema, una professione che le piace. Anna è madre di un figlio e figlia di Toni Negri. Un padre così non si dimentica, non si rimuove. Tutto lo sforzo nel corso del libro (“Con un piede impigliato nella Storia”, ed. Derive e Approdi) servirà per delinearne i contorni, afferrarne i dettagli, provare a chiarire che rapporto è stato. Felice o infelice, appagante o misero, bello o brutto. O, come accade in quasi tutte le vicende umane, ricco di sfumature, di cieli tristi e di inferni tiepidi. Provo un certo stupore nel constatare che la linea delle persone somiglia, molto più di quanto si creda, alle linee della mano. Non per qualche malintesa chiromanzia che ne azzardi il futuro, quanto per l’ironica disposizione a leggervi il passato. Ma noi che cosa vogliamo veramente dal passato? Che ci offra su un piatto d’argento quello che ci fa comodo o quello che davvero è servito per farci crescere? Le mani di Anna Negri risaltano nel rosso cremisi delle unghie; ha lo sguardo duro e malinconico di una strada polverosa. Ed è come se nel momento in cui le è stata data la vita, quella vita progressivamente le sia stata sottratta. Come se alla fine le fosse mancata quella normalità di sentimenti e di storie che una ragazza sa fin dal principio di ricevere come diritto naturale. Ci sentiamo al telefono per un appuntamento. Lei è a Venezia per finire di montare un film. Mi chiede se il libro, il suo libro, mi parla. Penso che l’espressione sia strana. Non mi chiede se sia lei che mi sta parlando, ma se lo ha fatto il libro. E allora immagino quell’oggetto separato dall’autrice. Distante. Non estraneo, ma un po’ come è appunto Anna che conversa e ricorda sul confine incerto tra ideologia e vita. Hai provato a rifarti un’esistenza? “Sono stata per 15 lunghi anni fuori dall’Italia, prima in Olanda e poi in Inghilterra. Per cercare una calma che non avevo, una serenità che non conoscevo. Non volevo più essere riconosciuta come la figlia di Toni Negri. Sono andata via e poi sono tornata. I problemi restano, le ferite non si rimarginano. Ma non voglio darti l’impressione patetica della figlia sofferente e piena di risentimento. Ho amato i miei genitori. Non ho capito fino in fondo le loro scelte, ma non mi sono mai vergognata di loro”. Perché avresti dovuto? “Perché hanno dipinto mio padre come un mostro. E ovviamente non lo era. Non eravamo una famiglia normale, certo. Ma una famiglia non la scegli”. Quando hai avuto la sensazione di questa diversità? “Avevo 12 anni, da Padova c’eravamo trasferiti a Milano. Una mattina la polizia irruppe in casa. Cercavano documenti, agende, prove che compromettessero mio padre. Suonarono alla porta, mezzo addormentata andai ad aprire. Erano armati. Mi misi davanti a loro e uno mi spostò spingendomi con la canna della mitraglietta sulla pancia. Arrivarono i miei. Frastornati. Ero spaventata. Poi con mio fratello Checco cominciammo a ridere. Una ridarella nervosa. Credo che in passato ci fossero state altre perquisizioni. Ma quella fu la prima che ricordo”. Cosa ricordi di altro? “Una delle mattine successive a scuola un ragazzo della classe accanto chiese quale fosse il mio banco. Lo trovai coperto di sputi”. Che cosa sapevi di tuo padre? “Tutto quello che faceva mi era noto. La casa era spesso piena di amici e compagni che discutevano. Certe sere le riunioni andavano avanti fino a tardi, dalla camera da letto con mio fratello sentivamo a volte urlare”. Che cosa pensavi? “Ho sempre pensato che i miei volessero fare la rivoluzione convinti che avrebbe messo fine alle ingiustizie sociali”. Come ti vivevi? “Di fatto ero coinvolta. Credo non immaginassero che io e mio fratello avessimo bisogno anche di un’attenzione diversa”. Intendi dire come gli altri e le altre della tua età? “Vivevo dentro il loro mondo più che nel mio”. In quel mondo, mi pare di capire, ci stavi con un certo disagio... “Mi incuriosiva e mi spaventava. Amavo i miei, ammiravo mio padre, al tempo stesso provavo un senso di fatica e di smarrimento”. Racconti di aver cominciato ad avere problemi con il cibo... “Ero alle medie quando ho cominciato a ingozzarmi, crescevo di peso a vista d’occhio”. Parlavi del disagio che provavi... “Non credo che c’entrassero le scelte politiche dei miei. La verità è che a 11 anni avevo subito un abuso da parte di una persona che i miei conoscevano”. Intendi violenza fisica? “Non fino in fondo, diciamo una pesante molestia”. I tuoi come hanno reagito? “Non dissi nulla. Ma quell’evento così traumatico ha un po’ cambiato la mia vita. Però, ti prego, non ho voglia di parlarne ancora”. Con un piede impigliato nella Storia è un “memoir” crudo e sofferente. Perché hai sentito il bisogno di scriverlo? “Intanto risale a diversi anni fa e scriverlo è stato in qualche modo terapeutico. È come se avessi preso la distanza da tutto quello che mi era accaduto e potessi finalmente parlarne”. Un atto liberatorio? “Non c’è dubbio, ma più mi immergevo in quel fiume di ricordi e più sentivo che stavo dando voce a qualcosa di collettivo, alla generazione venuta dopo quella degli anni Settanta che aveva sperato, lottato, sbagliato, su cui inesorabilmente era sceso il sipario”. Che eredità hanno lasciato quegli anni? “Sono stati definiti anni di “piombo” e penso che in parte fu così. Ma non furono solo questo”. Che cosa aggiungeresti? “Penso ai diritti civili: divorzio e aborto oggi rimesso in discussione, alla chiusura dei manicomi, al femminismo con la rivendicazione che il privato fosse anche politico, penso alla cultura gioiosa che circolava allora. I giovani che leggevano, che viaggiavano. Purtroppo il terrorismo ha preso le nostre vite in ostaggio. E ha innescato quella repressione che ha fatto di ogni erba un fascio. Ma non si può cancellare la vitalità di quegli anni”. Anni schizofrenici verrebbe da commentare... “È chiaro che tutte quelle sollecitazioni alla fine non avrebbero tenuto. Ricordo che chiesero a Nanni Balestrini cosa pensasse del movimento degli anni Settanta. Rispose che dentro vi scorgeva il vecchio comunismo e le nuove istanze nate nei campus di Berkeley. Era eccitante vederle convivere, ma alla fine si è dimostrato impossibile”. Quel movimento al quale alludi fu un esercizio velleitario della politica del “vogliamo tutto” come proprio Balestrini riassunse in uno slogan... “Se penso al non vogliamo più niente che oggi circola tra i giovani perché ritengono di avere tutto grazie ai social, beh non saprei chi sia più velleitario. O chi abbia meno prospettive”. Hai detto che il terrorismo prese in ostaggio le vostre vite. Cosa intendevi? “Ha condizionato tutto il resto. Non ha permesso di vedere e giudicare altro che quella violenza estrema, terribile, ingiusta”. I tuoi come lo vissero? “A casa non si parlava d’altro e vedevo i miei persi, smarriti, impotenti”. Tuo padre fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta denominata “sette aprile”. Da quel momento cambia la tua vita e quella della famiglia. Qual è il ricordo più acuto che hai conservato? “Fammi dire che quell’inchiesta si basava su di un teorema che si è dimostrato infondato e cioè che il movimento dell’autonomia e le Brigate Rosse fossero le due facce della stessa medaglia. Fu il giudice Calogero a costruire l’impianto di accusa. Molti furono gli arresti. Mio padre subì la stessa sorte. Fu messo in isolamento e l’accusa nei suoi riguardi passò da “banda armata” a “insurrezione armata contro lo Stato”. Era nato il mostro da gettare in pasto all’opinione pubblica”. In che senso? “Così veniva dipinto dai giornali e non solo di destra. Accusato di 18 omicidi, accusato del rapimento di Aldo Moro. Non c’era misfatto politico che non fosse ricondotto a lui. Quasi tutte le accuse nel tempo furono smontate. Il pentito Patrizio Peci scagionò mio padre dal rapimento di Moro”. Ma come reagì a quel rapimento? “Con sconcerto, dicendo che erano dei pazzi, e anche con dolore”. Dolore? “Sì, gli era grato per l’aiuto che Moro disinteressatamente gli diede per fargli ottenere una cattedra universitaria. Però chiedevi del ricordo più acuto. Sono due, curiosamente opposti”. Quali? “Da un lato l’angoscia, la depressione, la stanchezza per tutto quello che mi stava accadendo. Dall’altro, i treni, la quantità di treni che prendevamo per andare a trovare mio padre nelle varie carceri dove veniva trasferito. Quei treni sono diventati, stranamente, dei luoghi magici. Come se lì, in quel viaggiare notturno, io abbia potuto decantare tutto il dolore e la miseria che mi avevano avvinghiato. E ritrovare me stessa”. Un ruolo importante della storia riveste tua madre... “È morta nove anni fa. Ho avuto paura di diventare fragile e debole come lei. Dai suoi diari dell’adolescenza veniva fuori una ragazza sofferente e impacciata. Completamente diversa dalla donna combattiva e ironica che conoscevo”. Com’era il rapporto tra lei e tuo padre? “Profondo ma anche pieno di contrasti. Di litigi, duranti i quali si trasformava in una furia, capace di rompere ogni cosa fosse a portata di mano. Aveva rinunciato al comfort borghese. Quando la vicenda dell’arresto si scaricò su di noi, fu lei a prendersi sulle spalle tutto il peso, mobilitando avvocati e amici, per tirarlo fuori di galera. Ho amato molto mia madre, donna bellissima che ha provato a farci vivere quegli eventi come fossero un romanzo di avventure. Qualcosa di favoloso e irripetibile”. Un romanzo forse troppo forte per essere interpretato da una bambina... “La vita è quello che ci è consentito vivere. A me è capitata quella che in parte ti ho raccontato. Sono stati anni bui, ma anche intensi e a conti fatti non li ho mai voluti rimuovere”. Hai scritto che le colpe dei padri ricadono sui figli. Cosa rimproveri a tuo padre? “Non ho risentimenti e alla fine ho cercato di prendermi cura di me. Anche amandolo. Oggi sto preparando un documentario su mio padre”. C’è una domanda in particolare che gli vorresti fare? “Forse gli chiederei di spiegarmi perché nel conflitto tra la vita e l’ideologia, abbia scelto soprattutto quest’ultima. Ricordavi il tema della colpa”. Vuoi dire qualcosa... “Ci sono ferite che non si rimarginano perché è morta tanta gente in quegli anni. Le vittime del terrorismo, i poliziotti, gli operai sul lavoro, i giovani alle manifestazioni. E ognuno di loro a casa aveva figli, mogli, padri e madri che li hanno pianti. E allora si capisce il senso di ingiustizia che pervade quelle morti, perché ogni morto è importante da qualunque parte provenga. E ho scoperto la cosa crudele che i figli portano su di sé le colpe dei genitori. E con esse devono confrontarsi. Non puoi sfuggire. Non puoi far finta di niente”. Corpi Civili di Pace, boom di domande Ma cosa sono? di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 9 luglio 2023 Rappresentano un progetto interno al programma del Servizio Civile Universale istituito nel 2013. Le domande arrivate sono 875 per 153 posti. La Cnesc (Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile) chiede che si attivi al più presto la seconda annualità dei progetti. Una pioggia di domande, sei volte più numerose dei posti disponibili, presentate dai giovani che vogliono fare il servizio civile impegnandosi in progetti il cui obiettivo è cercare soluzioni alternative all’uso della forza militare per la risoluzione dei conflitti. La disponibilità dei giovani alla partecipazione a questo importante istituto soprattutto in tempi di escalation di violenza e guerra a livello locale e globale è “un segnale forte che non può restare inascoltato”. A sottolinearlo è lai cui enti hanno svolto un ruolo attivo nel conseguimento di questo risultato avendo messo a bando 108 posti (sulle 153 posizioni complessive) che hanno raccolto complessivamente 602 candidature su 875 candidature. I dati sono stati resi noti dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale nei giorni scorsi. Per questo la Cnesc si fa parte attiva presso tutte le sedi istituzionali affinché venga fin da subito prospettata la possibilità di attivazione della seconda annualità dei progetti che si avvieranno entro il 31 ottobre, così da presentare agli operatori dei Corpi civili di Pace e agli enti di accoglienza una prospettiva di intervento pluriennale, come già previsto dalla sperimentazione stessa. I Corpi Civili di Pace (CCP) sono stati istituiti a seguito di un triennio sperimentale, dal 2014 al 2016 e rappresentano un progetto interno al programma del Servizio Civile Universale (SCU). È iniziata la fase operativa della sperimentazione di un contingente di Corpi Civili di Pace, prevista dall’articolo 1, comma 253, della legge 27 dicembre 2013, n.147, da impegnare in azioni di pace non governative in aree a rischio di conflitto o in caso di emergenze ambientali. Questa iniziativa di volontariato ha l’obiettivo di ricercare soluzioni alternative all’uso della forza militare e di promuovere la solidarietà e la cooperazione a livello nazionale ed internazionale, con particolare attenzione alla tutela dei diritti umani e sociali, alla parità di genere, ai servizi alla persona e all’educazione alla pace fra popoli. I CCP agiscono in qualità di difensori dei diritti umani e operano per prevenire l’aggravarsi della situazione e per trasformare il conflitto attraverso attività di mediazione, dialogo, riconciliazione, informazione, promozione dei principi democratici, entrando direttamente nelle comunità che hanno bisogno di sostegno. “È un bel segnale che arriva dai giovani - dichiara Laura Milani Presidente Cnesc - un riconoscimento dell’interesse nei confronti di questo Istituto sperimentale di costruzione di una pace positiva e di diffusione della cultura della nonviolenza e della solidarietà. La guerra in Ucraina e i tanti conflitti nel mondo ci spingono a investire maggiormente nella trasformazione nonviolenta dei conflitti e in forme di prevenzione che permettano di intervenire prima che si accendano focolai di guerra”. “Auspichiamo - conclude Milani - che il Ministro Abodi si faccia portavoce presso il Governo e i Ministeri competenti di questa disponibilità dei giovani a mettersi a servizio del Paese, e che il Governo e il Parlamento vogliano, nella prossima programmazione finanziaria, prevedere le risorse necessarie per investire nella costruzione della pace attraverso i Corpi Civili di Pace”. Gli Interventi Civili di Pace si configurano come azione civile, non armata e nonviolenta di operatori professionali e volontari che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione e trasformazione dei conflitti. L’obiettivo degli interventi è la promozione di una pace positiva, intesa come cessazione della violenza ma anche come affermazione di diritti umani e benessere sociale. I rischi di esplosioni sociali anche in Italia di Enzo Risso Il Domani, 9 luglio 2023 Per una parte del paese l’Italia avrebbe bisogno di proteste dure come quelle francesi. Il 48 per cento degli italiani (con una punta del 17 per cento altamente convinta) ritiene che per cambiare le cose nel nostro paese sia necessario ricorrere a forme di protesta dure seguendo l’esempio francese. Ad alimentare la proliferazione della rabbia sociale e della volontà di protesta sono diversi fattori: al primo posto troviamo il tema dell’aumento dei prezzi (53 per cento). Al secondo posto troviamo la perdita di potere di acquisto degli stipendi (32 per cento). Il terzo elemento che foraggia i processi di rancore e rabbia è quello indotto dalla precarizzazione del lavoro (29 per cento). La tensione sotto la cenere. Giovani, periferie, studenti, autonomi, ceti popolari sono i segmenti in cui la crisi morde il freno e le pulsioni ribelliste si stanno alimentando. Fare come in Francia è uno slogan che scorre silenzioso tra le persone e negli anfratti della nostra società. Il 48 per cento degli italiani (con una punta del 17 per cento altamente convinta e determinata) ritiene che per cambiare le cose nel nostro paese sia necessario ricorrere a forme di protesta dure seguendo l’esempio dei cugini d’Oltralpe. Ardore ribelle - A essere particolarmente attratti dall’idea di ribellarsi sono, innanzitutto, i giovani della generazione Z (60 per cento) e i millennial (59 per cento), nonché i lavoratori autonomi (60 per cento). Il cuore pulsante dell’ardore protestatario lo ritroviamo, in primo luogo, nelle periferie urbane (58 per cento) e nelle grandi città (56 per cento). I processi di radicalizzazione che albergano nell’animo depresso e colpito dalla crisi in atto partono dai ceti popolari (50 per cento), per estendersi agli studenti (58 per cento), ai piccoli imprenditori artigiani e commercianti (60 per cento), agli operai e ai lavoratori dipendenti (53 per cento). Le spinte ribelliste, l’ardere di una tensione che nel nostro paese non è ancora esplosa in modo manifesto ma di cui si avvertono le braci, è un tratto non secondario nella percezione della situazione sociale. Il 61 per cento dell’opinione pubblica ritiene, infatti, che nel proprio territorio sia in crescita la tensione sociale. Ne avvertono maggiormente il sentore i millennial (71 per cento), i residenti a nord est (68), chi vive nelle grandi città (68), le persone che risiedono nelle periferie urbane (65) e nelle zone semi-centrali delle aree urbane (66), nonché gli appartenenti ai ceti popolari (68), i lavoratori autonomi (74), gli studenti (69). A alimentare la proliferazione della rabbia sociale e della volontà di protesta sono diversi fattori, che fungono da detonatori nelle diverse categorie sociali. Al primo posto troviamo il tema dell’aumento dei prezzi (53 per cento). Un tema che colpisce e alza la pressione protestataria, soprattutto, nelle periferie urbane (64 per cento) e tra i ceti popolari (58 per cento). Al secondo posto (e come diretta conseguenza del primo fattore scatenante) troviamo la perdita di potere di acquisto degli stipendi (32 per cento). Un elemento che sobilla gli animi dei residenti del nord est (46 per cento), di quanti abitano nelle aree urbane semi periferiche (37 per cento) e nelle periferie (35 per cento), degli operai (41 per cento) e delle casalinghe (40 per cento). Il terzo elemento che foraggia i processi di rancore e rabbia è quello indotto dalla precarizzazione del lavoro (29 per cento). Un fattore avvertito prioritariamente dai giovani della generazione Z (34 per cento), dai genitori (38 per cento), dai residenti a centro nord (35 per cento) e dagli studenti (41 per cento). Mancanza di prospettive - La presenza di troppi immigrati è un argomento che crea nervosismo nel 26 per cento degli italiani. L’inquietudine coglie la generazione X (32 per cento), i residenti a nord ovest e nord est (31 per cento), i residenti delle città medie (31), quelli delle periferie urbane (36) e il ceto medio (30). A generare animosità, infine, è la mancanza di prospettive per i giovani (25 per cento). Aspetto che coinvolge, in primis, i ragazzi e le ragazze della generazione Z (34 per cento) e i loro genitori (35 per cento), quanti vivono nelle grandi città (31 per cento), gli studenti (44 per cento) e il ceto medio (33 per cento). A preoccupare l’opinione pubblica, in questa fase, non sono tanto gli scioperi (36 per cento), quanto il rischio di disordini sociali. Una prospettiva che genera apprensione nel 53 per cento degli italiani, specie al centro sud (55 per cento), nelle isole (61 per cento), tra i residenti nelle zone centrali delle città (64 per cento) e nel ceto popolare (65 per cento). Le dinamiche in atto e le pulsioni sotterranee che si possono osservare, evidenziano che la polifonia delle crisi in cui siamo avvolti non genera per ora processi aggregativi o vasti movimenti di protesta e riforma, ma rischia di decomporre ulteriormente gli attori sociali e, al contempo, di far degradare le tensioni in rabbia fine a se stessa. Il rischio che si paventa è quello di deflagrazioni improvvise e virulente, con lo scatenarsi delle pulsioni protestarie sui simboli del potere e della ricchezza. Scoppi che non originano processi propositivi, costruttivi e riformatori, ma rischiano di rimanere atti meramente distruttivi, espressione della frustrazione, del senso di furore impotente di alcuni segmenti sociali di fronte ai mutamenti dell’epoca. Gli insegnanti che fanno la differenza di Eraldo Affinati La Stampa, 9 luglio 2023 Quello che accade in aula possiede effetti indelebili: è la potenza dell’insegnamento. L’ho sempre pensato e scritto: dopo aver visto l’applauso degli studenti del “Massimo D’Azeglio” nei confronti di Enzo Novara, il loro professore di filosofia in procinto di andare in pensione, lo riconfermo. La giusta e meritata soddisfazione del docente, ben superiore alla retribuzione economica ricevuta in tanti anni di servizio fedele e appassionato a una causa tutt’altro che persa, non deve tuttavia farci dimenticare, né tantomeno nascondere, ciò che l’entusiasmo irrefrenabile delle decine di ragazzi assiepati ai lati del lungo corridoio del liceo torinese suggerisce a tutti noi. Le agenzie educative sono in crisi, ma chi ha detto che a scuola non si possa fare ancora la differenza? Quando il bambino di Barbiana si lamentava con sua madre perché don Milani era stato troppo severo, lei rispondeva a muso duro: se il priore ti ha punito con un nocchino, io te ne darò due! Rafforzava cioè l’azione di quello strano prete. Oggi, come sappiamo, non sempre ma purtroppo assai spesso, le famiglie tendono a ostacolare il lavoro pedagogico. Lo stesso professor Novara, sollecitato da Mario Calabresi in un bel podcast, lo ammette: troppe volte i genitori vogliono diventare i sindacalisti dei loro figli. E così gli insegnanti sono più soli di quanto non fossero negli anni Sessanta del secolo scorso, essendo rimasti gli unici a dover richiamare gli adolescenti, sedotti dai miti del successo, della ricchezza e della bellezza, ai valori dell’applicazione costante, del rigore conoscitivo e della concentrazione quotidiana. Il rispetto dell’angolo etico, indispensabile per favorire la crescita dell’individuo, viene tralasciato con sorprendente leggerezza anche per effetto della rivoluzione digitale che rischia di confondere informazione e conoscenza. Mentre invece tutti noi dovremmo aver chiaro che, se non compi una vera esperienza della realtà, cioè se non ti bruci le dita quando sbagli, non puoi arrivare a capire granché. Ecco perché gli applausi che quegli scolari hanno rivolto al loro mister Chips (è sempre bello rileggere l’omonimo romanzo di James Hilton) sembrano prefigurare un altro mondo rispetto al nostro. È come se la deflagrazione del desiderio nella quale vivono i giovani di adesso, con l’illusione di poter causare un danno senza dover pagare il prezzo del risarcimento, senza mai essere costretti a imboccare la strada maestra, condannati al consenso immediato e maggioritario, avesse subito un arresto. Rendendo omaggio al professore che li ha saputi meglio interpretare, quei ragazzi dimostrano di avere apprezzato innanzitutto la scelta da lui compiuta nella sua vita, magari rinunciando a qualcosa che avrebbe potuto diventare in nome di qualcos’altro in cui credeva di più. Trascorrere quarant’anni in cattedra, allo stesso modo del granchio sullo scoglio, resistendo alle inevitabili tempeste, significa aver dedicato l’esistenza al passaggio di testimone da una generazione all’altra, asciugando le lacrime e incarnando il limite dei precetti che chiediamo di osservare. Di questo avremmo bisogno, pareva filtrare dalle urla festose degli studenti torinesi: adulti credibili, capaci di stare accanto a noi come amici in grado di condividere i nostri sconforti quando siamo in crisi e di fronte a noi come maestri nel momento in cui dovremmo ricostruire la dimensione dialettica fondamentale per raggiungere la maggiore età, spirituale prima ancora che anagrafica. Migranti. La “dimensione esterna”: Meloni riferisca sui lager in Tunisia di Marco Grimaldi* L’Unità, 9 luglio 2023 La premier spieghi al Parlamento se i campi di concentramento sono la “dimensione esterna” di cui parlano lei e Piantedosi. Altro che “piano Mattei”, diamo il controllo delle frontiere in appalto a dittatori e trafficanti. A partire dal 2 luglio, le autorità tunisine hanno espulso fra i 500 e i 700 migranti provenienti dall’Africa centrale e occidentale richiedenti asilo, fra cui bambini, neonati e donne incinte. Li hanno condotti nei pressi di una zona militarizzata ai confini con la Libia (vicino a Ben Guerdane) il cui accesso è interdetto a giornalisti, agenzie Onu e società civile. Minacce, pestaggi e violenze, naturalmente mancanza di assistenza medica e ostetrica, sequestro di cellulari e distruzione di passaporti da parte delle forze di sicurezza tunisine. Tutto è cominciato da Sfax, città teatro di numerosi e violenti scontri tra popolazioni locali e migranti subsahariani insediati nella città. Con questo pretesto, le autorità tunisine hanno effettuato nei giorni scorsi un’ondata di arresti seguiti da deportazioni forzate e illegali, con l’obiettivo di epurare la città da ogni persona di origine sub-sahariana. I video che circolano sui social mostrano una moltitudine di autobus in arrivo da Sfax e diretti verso il confine tunisino-libico con a bordo migranti. Queste persone vengono abbandonate in luoghi deserti, con temperature che si avvicinano ai 50 gradi, senza assistenza e senza risorse. Diverse fonti attendibili parlano di un gruppo di 28 persone che risulta scomparso, mentre un altro gruppo di 20 persone è stato deportato nella zona di frontiera di Ras Jedir. I testimoni riferiscono che le autorità, inclusi agenti di polizia, membri della Guardia Nazionale e ufficiali militari, hanno fatto irruzione nella casa in cui si trovavano, per poi arrestarli e deportarli. Finora nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata dalle autorità, che hanno agito basandosi sulla presunzione che i cittadini stranieri siano passati dalla Libia o dall’Algeria prima di entrare in Tunisia. Siamo ovviamente di fronte a una palese violazione delle disposizioni della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, ratificata dalla stessa Tunisia nel 1957. La Libia, priva di una legislazione sul diritto d’asilo, non può in alcun modo essere considerata un Paese sicuro: violenze, tortura e schiavitù ai danni dei migranti sono state più volte documentate. E la Tunisia? Da mesi assistiamo al progressivo deterioramento dei diritti umani e della situazione politica, economica e sociale del Paese. Lo scorso anno il Presidente della Repubblica Saied ha sciolto il Parlamento e assunto i pieni poteri, invocando un “pericolo imminente per il Paese”. Da allora ha fatto approvare una nuova Costituzione e un nuovo controverso sistema elettorale: alle elezioni dello scorso dicembre ha votato solo l’8,8 per cento degli aventi diritto. Da mesi scarseggiano da mesi beni di prima necessita? come il petrolio, lo zucchero, il latte e il burro. A seguito delle grandi manifestazioni per chiedere le dimissioni di Saied, le autorità hanno attuato misure gravemente repressive e arrestato attivisti politici, membri del Parlamento tunisino, magistrati, sindacalisti e molte altre persone. A febbraio, il Presidente ha parlato di “un piano criminale per cambiare la composizione demografica del paese” e di “individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani”. Oggi, le notizie sulle deportazioni dei migranti annunciano un vero e proprio disastro umanitario. Per queste molteplici ragioni, a tutti gli effetti, la Tunisia non è un Paese sicuro per il rimpatrio dei migranti. Eppure, il 19 gennaio i ministri Tajani e Piantedosi sono stati in visita a Tunisi per discutere “il rafforzamento della cooperazione bilaterale sui temi della sicurezza, dello sviluppo e delle politiche migratorie”. Italia e Tunisia hanno firmato diversi accordi per la gestione congiunta della migrazione, il controllo delle frontiere e l’espulsione dei cittadini irregolari e l’accordo di rimpatrio tra Italia e Tunisia e? sistematicamente attuato al punto che i rimpatri forzati in Tunisia rappresentano il 73,5 per cento del totale dei rimpatri effettuati dall’Italia. L’Unione europea sta negoziando con la Tunisia un “partenariato rafforzato”, accompagnato da promesse di aiuti finanziari in cambio di una maggiore cooperazione in materia di migrazione, ossia un’intensificazione della riammissione dei migranti in situazione irregolare e un consolidamento del ruolo della guardia costiera tunisina nelle intercettazioni in mare. Già a fine febbraio abbiamo depositato un’interrogazione parlamentare per chiedere non solo di fare pressione, insieme ai partner europei e internazionali, sul Presidente Saied affinche? cessi immediatamente la repressione e rilasci tutti i prigionieri politici, ma di chiarire se davvero il governo crede che vi siano le condizioni di rispetto dei diritti umani tali da considerare la Tunisia un paese sicuro per il rimpatrio dei migranti. Nel frattempo, si conferma la decisione della Corte europea di denunciare l’Italia per le espulsioni di tunisini verso la Tunisia. La decisione risale al 30 marzo ma dal 30 giugno è definitiva, perché l’Italia non ha presentato ricorso. Nonostante ciò, oggi, in un contesto estremamente peggiorato, l’Italia pensa di poter espellere anche i subshariani in questo Paese. Si continua a stringere accordi, fare affari o addirittura sovvenzionare (come nel caso di Erdogan) regimi che sottraggano alla nostra vista e al nostro mare chi scappa da guerre, fame, carestie, emergenza climatica. Blindare le frontiere, aumentare i rimpatri e siglare accordi con i Paesi di origine dei migranti per impedire le partenze. Questa è l’idea dei sovranisti. Uno degli effetti collaterali delle politiche di chiusura consiste in un aiuto alle organizzazioni criminali che sfruttano i migranti, proprio quelle che il governo dichiara di voler perseguire lungo tutto l’orbe terracqueo. Imad Trabelsi, ministro dell’Interno libico, è stato accolto a Palazzo Chigi insieme a una delegazione del governo di unità nazionale. Sul piatto accordi energetici e un’intensificazione degli sforzi per contrastare il traffico di migranti. Trabelsi è stato individuato da Amnesty e Onu come uno dei principali capi del traffico di esseri umani in Libia e destinatario di fondi ottenuti illegalmente con il traffico di petrolio. Costui non è stato certo arrestato in base al decreto Cutro, i suoi beni non sono stati confiscati, è stato invece ricevuto con un picchetto d’onore. Mi piacerebbe sapere dalla Presidente Meloni se è questa la “dimensione esterna” di cui parla e su cui ci dovremmo concentrare. Altro che sviluppo e “piano Mattei”, qui siamo alla riproposizione sfacciata dell’esternalizzazione delle frontiere, data in appalto a dittatori e trafficanti fintamente ripuliti. Dietro tutto ciò, però, ci sono vite umane a cui riserviamo morte, violenza e torture. Di tutto questo è responsabile chi deciderà di continuare sulla strada degli accordi con la Tunisia. Per questo chiediamo alla Presidente Giorgia Meloni di venire in Aula urgentemente per informare. *Vicecapogruppo Alleanza Verdi Sinistra alla Camera Iran. Il boia dei mullah stringe il cappio e nasconde la mano di Elisabetta Zamparutti* L’Unità, 9 luglio 2023 Sono almeno 387 le esecuzioni compiute in Iran negli ultimi sei mesi. Ma il regime ne ha rese note solo 43. È notizia di questi giorni la pubblicazione del rapporto semestrale di Iran Human Rights sulle esecuzioni compiute in Iran. Ne hanno contate, dal 1° gennaio al 30 giugno, 354. Un aumento del 36% rispetto l’anno precedente. Sono state 206 le esecuzioni compiute per droga, il che segna un incremento del 126% rispetto al 2022. Il 20% (71) delle esecuzioni compiute in questa prima parte dell’anno riguarda, secondo IHR, appartenenti all’etnia baluci, tra le più coinvolte nelle manifestazioni esplose dopo la morte di Masha Amini. Cinque sono i partecipanti a manifestazioni giustiziati in questa prima parte del 2023. Anche Nessuno tocchi Caino fa il suo conteggio. Per noi i numeri sono più elevati: almeno 387 le esecuzioni compiute in questo primo semestre. Un numero che diviso per i giorni complessivi ci dice che la media persiana è di due impiccagioni al giorno. Ma c’è un altro dato che fa riflettere. L’esiguità del numero di esecuzioni fatte conoscere dal regime attraverso le sue fonti ufficiali: 43. Mi viene allora in mente la parola vergogna che in persiano si scrive e si dice “Bisharaf”. Perché l’omertà sul reale numero di esecuzioni esprime, secondo me, la vergogna che lo stesso regime prova rispetto a ciò che fa. Vergogna come senso di fallimento, di madornale e irrimediabile errore, di inadeguatezza rispetto alle sfide del nostro tempo. La vergogna è qualche cosa di profondo, oserei dire di identitario. Il regime si vergogna di ciò che fa, lo tiene nascosto, perché è vergognoso. Ma lo fa. Perseguita fasce socialmente deboli e reprime minoranze. Oltre ai baluci, quella araba, curda e azera. E poi, stato totalitario qual è, non sopporta il concetto di “doppia nazionalità”. Quest’anno ha giustiziato due uomini con doppia cittadinanza. Il primo, a gennaio: Alireza Akbari, inglese/iraniano, ex vice ministro alla Difesa, condannato a morte per essere stato ritenuto colpevole di “corruzione e di aver danneggiato la sicurezza interna ed esterna del Paese passando informazioni di intelligence”; il secondo in maggio, si chiamava Habib Chaab, era svedese/iraniano, accusato di “terrorismo” e “corruzione in terra”. Però riesce a usare il sequestro di ostaggi stranieri come merce di scambio. L’ultima volta è accaduto circa un mese fa quando l’Iran ha liberato l’operatore umanitario belga Olivier Vandecasteele, che era stato condannato per spionaggio in cambio, da parte del Belgio, della consegna di Assadollah Assadi, condannato per terrorismo. Assadi, diplomatico all’ambasciata iraniana in Austria, era stato arrestato nel 2018 in Belgio insieme ad altri due iraniani con l’accusa di aver organizzato un attentato terroristico durante un raduno a Parigi di un gruppo iraniano di opposizione in esilio, il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) che comprende i Mojaheddin del Popolo Iraniano. Nel 2021 Assadi era stato condannato a 20 anni di carcere. Su questo una riflessione si impone. Perché chi sia l’Iran lo sappiamo. Ne conosciamo la vergogna che ci viene raccontata dalle esecuzioni capitali che contiamo giorno dopo giorno, che ci racconta il rapporto semestrale di Iran Human Rights. Il problema è se sappiamo chi siamo o cosa vogliamo essere noi, Paesi cosiddetti democratici. Penso a quanto di recente accaduto in Francia dove, dopo una lunga conversazione telefonica tra Macron e Raisi, suo omologo iraniano, viene deciso che una manifestazione indetta a Parigi per il primo luglio dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, con migliaia di dissidenti provenienti da tutto il mondo, viene sospesa. La decisione è chiaramente politica. Il pretesto sono le ragioni di sicurezza. La realtà è che un Presidente fa all’altro un favore nel momento in cui gli chiede di non fornire armi e droni alla Russia. Il divieto a manifestare arriva in un momento in cui non erano ancora esplose in Francia le rivolte dopo la morte del diciasettenne. Sta di fatto che 24 ore prima si pronuncia un tribunale amministrativo e dà ragione agli oppositori iraniani al regime. Secondo il tribunale, il diritto a manifestare prevale sulle paventate ragioni di sicurezza che avevano indotto le forze dell’ordine a porre il divieto. La manifestazione si tiene senza alcun problema. Scoppia anche la rivolta a Parigi che quella sì ha posto dei problemi. Ed ecco che, domenica scorsa, di fronte ai disordini esplosi per le strade della Francia, l’Iran l’ha invitata a “porre fine al trattamento violento del suo popolo” e ha esortato i propri cittadini a evitare viaggi non essenziali in Francia. Mi viene da dire: che vergogna! *Nessuno tocchi Caino Israele. L’apartheid chiamato “democrazia” di Zvi Schuldiner Il Manifesto, 9 luglio 2023 Giusto manifestare contro la svolta autoritaria di Netanyahu. Ma milioni di esseri umani sono senza i più elementari diritti civili e politici. Il nodo resta la pace con i palestinesi. Un attacco palestinese a Tel Aviv poche ore dopo che le forze militari israeliane avevano lasciato il campo profughi di Jenin, e diverse azioni palestinesi nei territori palestinesi occupati hanno intaccato la convinzione circa il successo dell’operazione militare israeliana. Quest’ultimo capitolo si è aperto quando una cellula palestinese ha ucciso quattro coloni israeliani nelle vicinanze della colonia Eli, nei territori occupati. La parte più reattiva dei coloni ha allora scatenato una brutale repressione contro i palestinesi residenti nei villaggi vicini. Nei diffusi pogrom anti-palestinesi sono state incendiate case, derrate agricole, attrezzature, automobili. Diversi palestinesi sono stati aggrediti. Di fronte a questi atti, i soldati israeliani hanno manifestato una pericolosa neutralità - di pogrom si tratta e non può non tornare alla memoria quello che accadeva al popolo ebraico negli anni Trenta in Europa. Ma le voci contro i pogrom sono state numerose. Ha colpito una dichiarazione congiunta di condanna da parte del comandante dell’esercito, del capo della polizia e del capo dei servizi segreti. Prese di posizione che non hanno spiegato però perché le forze israeliane sono tipicamente apatiche quando si tratta di attacchi contro palestinesi. La ministra dell’ultradestra Orit Strook ha criticato duramente le dichiarazioni dei responsabili militari paragonandoli al gruppo russo Wagner, per poi fare dietrofront davanti alle critiche. Dopo gli attacchi palestinesi degli ultimi giorni, si sono fatte sentire nuovamente le voci dell’ultradestra, secondo la quale azioni come quelle a Jenin sono necessarie, anzi dovrebbero essere più decise. Il motivo che non viene esplicitato dai critici della destra è molto chiaro: le operazioni militari nel nord dei territori occupati sono l’inizio di un processo che dovrebbe portare a un allargamento degli insediamenti israeliani nei territori occupati e alla ricostituzione delle colonie sgomberate con la decisione del 2005. Questa volta l’estrema destra, cuore della coalizione che Benjamin Netanyahu cerca faticosamente di guidare, non esige una dichiarazione ufficiale di annessione-liberazione dei territori occupati. Siccome occupa diverse posizioni chiave, si permette di decidere la costruzione di oltre quattromila nuove unità abitative nei territori occupati e introduce nuovi presupposti illegali per la colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, mentre vengono destinati miliardi al consolidamento della colonizzazione israeliana e a favore di vari enti controllati da religiosi estremisti. Questo senza grandi reazioni in Israele - così come all’estero - mentre la cosiddetta “rivoluzione legale” rimane la questione principale nell’arena politica. Ma è opportuno analizzare come essa sia collegata con la questione della pace, dell’annessione e della guerra. In questi ultimi giorni, le nomine nella polizia hanno scatenato una nuova tempesta e si può prevedere che l’opposizione alla politica del governo proseguirà nei prossimi giorni. Quella del ministro della polizia è forse la più estrema fra le nomine fatte da Netanyahu per rassicurare la coalizione di destra. Ma è anche un segno chiaro e urgente dei sentimenti che dominano le giovani generazioni in questi giorni. Itamar Ben Gvir, avvocato di Hebron, nel 1995 da giovane manifestante mostrò in tv un oggetto estratto dall’automobile del premier Rabin dichiarando, poco prima che quest’ultimo fosse assassinato da un estremista di destra: “Siamo arrivati alla sua vettura, potremo arrivare a lui”. Ben Gvir era orgoglioso della grande foto di Baruch Goldstein - assassino di 29 palestinesi a Hebron; campeggiava nel suo salotto. L’ha rimossa negli ultimi anni per non pregiudicare la propria candidatura alla Knesset, ma continua a essere identificato con il gruppo di seguaci del rabbino Kahane. L’ideologia di base di Kahane presenta assonanze con le leggi varate dai nazisti in Germania negli anni Trenta. Ben Gvir si è sempre schierato con i gruppi più estremisti nei territori occupati e ha subito diversi processi. Ora cerca di “epurare” la polizia. Poiché l’attuale capo non è sempre stato docile e obbediente, il suo incarico non sarà prorogato fino alla fine dell’anno. Ma ha concordato di operare con il ministro sostituzioni di ufficiali non abbastanza obbedienti. Il più importante era l’ufficiale che comandava la zona centrale e che, quando è stato rimosso, giorni fa, ha dichiarato di essere stato cacciato per motivi politici sottolineando di essersi opposto alla violenza contro i manifestanti. Il suo sostituto saprà come reprimere meglio le persone che nelle ultime settimane hanno intensificato le proteste contro la svolta autoritaria di Netanyahu. Poche ore dopo la diffusione della dichiarazione di Ami Eshed, l’ufficiale rimosso, Tel Aviv ha visto migliaia di manifestanti bloccare il traffico per ore. Giovedì sera sono riprese le manifestazioni contro il progetto del governo, con una diminuzione della tensione interna rispetto a quella esplosa due settimane fa, quando i gruppi che manifestavano contro l’occupazione sono stati attaccati da alcuni “patrioti”, i quali temono che l’ampia opposizione al progetto del governo Netanyahu venga contaminata dalla “sinistra”. È ben chiaro che Israele dal 1967 non è una democrazia. Milioni di esseri umani mancano dei più elementari diritti civili e politici e vivono in un regime di apartheid. È giusto manifestare contro l’autoritarismo di Netanyahu, ma è necessario ricordare che il problema non è solo la “rivoluzione legale” del governo. Cosa sta succedendo in Palestina? Intervista alla Relatrice Speciale Onu Francesca Albanese di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 luglio 2023 “Non dimenticherò ma i bambini che mi chiedevano: “Perché viviamo così? Che cosa abbiamo fatto?” È gravissimo che la comunità internazionale tolleri un sistema così intriso di illegalità. Dopo giorni di distruzione e morte, le forze armate israeliane si sono ritirate da Jenin, Cisgiordania. Ma è solo una parentesi. Una tregua armata. L’Unità ne discute con chi la realtà palestinese conosce come pochi altri al mondo: Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi. Per il suo lavoro puntuale di documentazione e denuncia, la dottoressa Albanese è stata oggetto di attacchi da parte di organizzazioni legate alla destra israeliana e da esponenti della destra italiana come l’ex ambasciatore e oggi parlamentare di Fratelli d’Italia, Giulio Terzi di Sant’Agata, che ne ha chiesto la destituzione dall’incarico in una lettera pubblicata da La Repubblica. Richiesta che ha suscitato proteste e reazioni di sdegno in Italia e all’estero, a cominciare dal quella di Amnesty International: “È allarmante che le più alte cariche di politica estera dei nostri governi si facciano portavoce delle istanze anti-Onu di organizzazioni impegnate a proteggere violazioni pluridecennali del diritto internazionale. Questo atteggiamento denota oltretutto un certo analfabetismo istituzionale, visto che gli esperti e le esperte indipendenti Onu sono, per definizione, protetti da pressioni di qualsiasi governo, incluso ovviamente il governo del proprio stato”. “Non ci sono molte popolazioni al mondo così indifese come i palestinesi che vivono nel loro Paese. Nessuno protegge le loro vite e le loro proprietà, tanto meno la loro dignità, e nessuno intende farlo. Sono totalmente abbandonati al loro destino, così come le loro proprietà. Le loro case e le loro auto possono essere incendiate, i loro campi dati alle fiamme. È giusto sparare senza pietà, uccidendo vecchi e bambini, senza forze di difesa al loro fianco. Nessuna polizia, nessun militare: nessuno. Se viene organizzata una forza di difesa disperata, viene immediatamente criminalizzata da Israele. I suoi combattenti vengono etichettati come “terroristi”, le loro azioni come “attacchi terroristici” e i loro destini sono segnati, con la morte o la prigione come uniche opzioni. Chi fa resistenza va combattuto ed eliminato. Ogni palestinese sotto occupazione diventa una minaccia potenziale, da neutralizzare”. Così scrive Gideon Levy, firma storica di Haaretz, in un articolo rilanciato da l’Unità. Siamo a questo dottoressa Albanese? Come sa io mi occupo solo di una parte del territorio controllato da Israele, quello che è sotto occupazione dal 1967, cioè Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Nel mio ultimo rapporto, pubblicato ieri, concludo che durante 56 anni di occupazione militare che è servita ad acquisire illegalmente terre e risorse palestinesi, Israele ha progressivamente ridotto i Palestinesi ad una sorta di popolazione priva dello status di persone protette e dei diritti fondamentali dal diritto internazionale. Questo è inaccettabile. Trattare un intero gruppo (e popolo) come una minaccia collettiva e incarcerabile a priori, come Israele fa, erode la loro protezione come “civili” secondo il diritto internazionale, privandoli delle loro libertà fondamentali e dell’abilità di unirsi, autogovernarsi e svilupparsi come entità politica. Qualsiasi palestinese che si opponga a questo regime, dal manifestante pacifico all’agricoltore che si ostina a coltivare le sue terre, dall’avvocato che difende i diritti dei prigionieri ad un genitore che chiede il rilascio della salma del proprio figlio per darvi degna sepoltura, è considerato una minaccia e può essere detenuto. Ciò costringe i palestinesi in uno stato di vulnerabilità permanente. Questo non significa giustificare i palestinesi se e quando commettano dei crimini, ma semplicemente comprendere il contesto nel quale vivono, che non è diverso da una forma strutturata e multidimensionale di prigionia diffusa. Questa situazione rafforza lo squilibrio di potere tra i palestinesi e le istituzioni e gli insediamenti israeliani, facilitando l’espansione dei coloni. Confondendo la “sicurezza della potenza occupante” con la “sicurezza dell’occupazione stessa”, Israele utilizza la “sicurezza” come mezzo per assicurarsi il controllo permanente sul territorio che occupa e cerca di annettere (particolarmente la Cisgiordania, come Gerusalemme est). Ciò ha radicato la segregazione, la sottomissione, la frammentazione e, in definitiva, la confisca delle terre palestinesi e lo spostamento forzato dei palestinesi. Questo sistema, concepito principalmente per garantire l’instaurazione e l’espansione delle colonie, soffoca la vita palestinese e mina l’esistenza collettiva dei palestinesi. Scrive ancora Gideon Levy, prima del bagno di sangue a Jenin: “Questa settimana, altri palestinesi saranno uccisi senza motivo e le loro proprietà saranno distrutte. I bambini bagneranno i loro letti, temendo qualsiasi fruscio nel cortile, sapendo che i loro genitori non possono fare nulla per proteggerli. Ancora una volta, i palestinesi saranno lasciati indifesi. L’invasore è legittimo e chi difende la sua vita e la sua proprietà è un terrorista. I criteri morali sono incomprensibili nella loro assurdità”... È gravissimo che la comunità internazionale tolleri un sistema così intriso di illegalità, che la parola apartheid a mala pena cattura, senza rendersi conto di come questa tolleranza eroda l’ordine internazionale basato sull’applicazione equa e non discriminatoria del diritto internazionale. In Ucraina l’Europa e l’Occidente si sono mobilitati in difesa dell’aggredito. In Palestina è il silenzio. Due pesi, due misure? La politica dei doppi standard che è inequivocabilmente applicata alla Palestina continua a rivelare una matrice discriminatoria nell’applicazione del diritto internazionale. Ad esempio: gli obblighi universali di vietare l’acquisizione di territorio con la forza, di non imporre regimi di dominio razziale e di rispettare il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo non possono essere trattati come voci di un menu à la carte. Se questi obblighi vengono applicati in modo arbitrario da coloro che detengono il potere, non si tratta più di diritti, ma di privilegi accordati o negati a loro discrezione. La trasformazione dei diritti umani in privilegio tradisce la loro essenza e scopo fondamentale. Per aver documentato i crimini commessi dai coloni nella Cisgiordania occupata Lei è stata accusata di essere “filo palestinese”. È così difficile fare il proprio lavoro in Terrasanta? Il mio impegno è quello di documentare e riportare oggettivamente i crimini commessi da chiunque, indipendentemente dalla loro affiliazione o provenienza. Il diritto internazionale non è favorevole a nessuna parte in particolare. Tuttavia, è evidente che Israele viola in modo significativo questo diritto, e ciò pone i palestinesi in una posizione di forza nel richiamo al rispetto delle norme internazionali. Allo stesso tempo, la delegittimazione dell’altro - come del mio mandato e della mia persona - è un modo per deviare l’attenzione e attaccare la credibilità di chi porta avanti un messaggio scomodo. Nella mia missione, faccio del mio meglio per svolgere il mio lavoro in modo imparziale e oggettivo, pur essendo consapevole delle sfide che si presentano in un contesto così complesso come la questione israelo-palestinese. Della sua esperienza sul campo, quali sono le immagini, gli eventi che più l’hanno colpita e che porterà con sé? La cosa che mi ha colpito di più, anche di me stessa, è il senso di profondo malessere che ho provato durante gli anni in cui ho vissuto a Gerusalemme, un’avversione fisica alla patente disuguaglianza che divide e domina parte dei suoi abitanti. In quegli anni, nelle scuole dell’UNRWA, ho avuto l’opportunità di incontrare bambini e bambine che porterò nel cuore. I loro occhi trasmettevano una profonda sete di conoscenza e speranza, mentre discutevamo dei diritti umani, della libertà e dell’uguaglianza e dei loro progetti, di diventare infermiere o dottore, ingegnere o artista. Ma poi, con un candore disarmante, mi chiedevano: “Perché noi viviamo così? Che cosa abbiamo fatto?”. Domande del genere squarciano il cuore, perché richiamano l’ingiustizia che tanti innocenti affrontano ogni giorno e i limiti ineluttabili della speranza. In una intervista a questo giornale l’Ambasciatrice di Palestina in Italia ha affermato che sarebbe un atto simbolico dall’alto valore politico se l’Italia riconoscesse unilateralmente lo Stato di Palestina... È davvero sorprendente che molti stati si impegnino nella retorica dei “due stati per due popoli” ma poi non riconoscano uno dei due. Personalmente, ritengo che in questo momento sia fondamentale richiedere il rispetto del diritto internazionale e l’applicazione della giustizia internazionale. Ciò dovrebbe iniziare con il ritiro delle forze di occupazione e la cessazione di ogni attività di colonizzazione del territorio occupato. È necessario affrontare queste questioni cruciali per creare le basi di una soluzione pacifica e duratura alla situazione israelo-palestinese. Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Italia potrebbe rappresentare un atto simbolico di grande valore politico, che invierebbe un segnale di sostegno e impegno per il raggiungimento di una pace giusta e duratura nella regione. Ma non deve sostituirsi all’impegno per il ritorno alla legalità. Egitto. Detenuti sempre più isolati, aumentano le difficoltà per segnalare gli abusi nelle carceri La Repubblica, 9 luglio 2023 Human Rights Watch fa luce sulle condizioni di detenzione dei prigionieri politici. L’Egitto ha iniziato a tenere sessioni di rinnovo della custodia cautelare per i detenuti da remoto, tramite videoconferenza. In questo modo i detenuti partecipano alle udienze dalle carceri sotto il diretto controllo della polizia. Questo tipo di comportamento aumenta ulteriormente l’isolamento anche dei prigionieri politici egiziani - denuncia Human Rights Watch - rendendo meno probabile che vengano alla luce gli abusi commessi nelle carceri. Le violazioni del giusto processo. La Suprema Procura per la Sicurezza dello Stato sta emulando il comportamento dei tribunali che dal 2022 hanno ampiamente condotto udienze per estendere la detenzione in videoconferenza, in molti casi evitando di portare i detenuti in tribunale. I pubblici ministeri in Egitto possono ordinare unilateralmente la custodia di persone sospettate di avere commesso un reato per 150 giorni prima che vi sia un effettivo controllo giudiziario. Human Rights Watch denuncia che questo sistema esaspera le pratiche abusive di custodia cautelare di lunga data e viola le regole del giusto processo. In base a questo sistema, i giudici spesso non concedono ai detenuti o agli avvocati il tempo sufficiente per parlare o per descrivere le condizioni carcerarie. Ed è, tra l’altro, meno probabile che i reclusi parlino liberamente degli abusi subiti in carcere in presenza di funzionari penitenziari che hanno, poi, il controllo sulla loro vita quotidiana. I prigionieri politici. L’Egitto detiene decine di migliaia di persone che sono state arrestate esclusivamente per discorsi o critiche pacifiche al governo o a causa di affiliazione politica. A molti vengono arbitrariamente negate le visite o la corrispondenza con la famiglia e persino con gli avvocati. Ora potrebbero rimanere rinchiusi fino a due anni, il periodo massimo di detenzione preventiva consentito dalla legge egiziana, con scarso o nessun accesso a un’adeguata assistenza legale e altrettanto scarsa possibilità di segnalare gli abusi della detenzione nel corso di un’udienza in tribunale. Il limite di due anni, tra l’altro, non è una forma di garanzia, poiché le autorità hanno spesso tenuto i detenuti oltre il tempo legale, utilizzando la custodia cautelare come una vera e propria forma di punizione contro i critici. L’isolamento. Le dichiarazioni dei detenuti ai pubblici ministeri e ai tribunali sono state una fonte insostituibile per documentare le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità egiziane nelle carceri. Eliminando ulteriormente la capacità dei detenuti di parlare, le autorità stanno cercando di reprimere tutte le rimanenti critiche agli abusi. È come se ai prigionieri venisse messa la museruola e buttata via la chiave della cella. Cecenia. Maxim Lapunov e l’inferno delle prigioni di Simone Alliva L’Espresso, 9 luglio 2023 “Torturato perché gay: le guardie mi hanno staccato la pelle”. Unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche. Il racconto di chi è sopravvissuto a quelli che l’Occidente ha definito “campi di concentramento per omosessuali”. Quattordici giorni di percosse. Colpito sui reni, alla testa, ai polpacci, con tubi di plastica e calci del fucile. “La pelle mi si è completamente staccata. A distanza di sei anni balbetto, ho attacchi di panico. È un male che ti entra dentro e non esce più”. Perdeva conoscenza, lo facevano riprendere e poi giù, ancora calci e pugni. Maxim Lapunov è qui per raccontarlo. Gli altri no. Dalle profondità delle prigioni cecene dove gli omosessuali vengono rinchiusi, torturati e poi ammazzati pochi riescono a fuggire, nessuno ci ha mai messo la faccia come Lapunov. Il caso internazionale è esploso nel 2017, dalle pagine del quotidiano dissidente russo Novaja Gazeta è rimbalzato in Occidente. I racconti dell’orrore hanno spinto la comunità internazionale a chiedere chiarimenti. Il Presidente della Cecenia, Igor Kadyrov che rappresenta il cosiddetto potere civile instillato da Vladimir Putin ha negato più volte. Non l’esistenza di quelli che l’Occidente ha definito “campi di concentramento per omosessuali”, ma l’esistenza degli omosessuali: “Qui in Cecenia non esistono”. Da Putin invece il silenzio. In questo fazzoletto grande come la Calabria da decenni si consuma ogni tipo di violazione dei diritti umani con il benestare del leader del Cremlino. La storia del rapimento di Maxim è insieme banale e straordinaria. È banale perché chiunque può sparire nella Cecenia di oggi. Ed è straordinaria perché la sua sopravvivenza ha portato alla luce l’orrore delle persecuzioni Lgbt in Cecenia. Un inferno di unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche “è una reazione a catena, lo scopo è farti fare nomi di altri omosessuali, cercano questo” spiega Maxim. Lo incontriamo in un hotel in centro a Milano, in occasione del Pride della città meneghina. Invitato da Cig Arcigay e All Out. È un ragazzone russo di origini serbe, ci racconta di Grozny, anticamente la più bella città del Caucaso del Nord. Oggi totalmente ricostruita dopo le due guerre sostenute da Putin come “operazione antiterrorismo”. “Sono andato a lavorare come animatore in Cecenia. Un ingaggio occasionale. Poi ho deciso di restare, aprire una start up. Organizzavo feste di tutti i tipi. Per bambini ma anche eventi per l’esercito. Avevo un sacco di clienti. Organizzavo feste e vendevo giocattoli e palloncini per strada”. Tutti conoscevano “Maxim dei palloncini”, una sorta di istituzione che ha affascinato la città nel giro di un anno. Quando parla di quei giorni, nei suoi occhi si accende una scintilla, le feste, l’amore della gente. È quando ricorda quel marzo 2017 che gli occhi si spengono: “Mi trovavo su Putin Avenue quel giorno” la strada più importante della capitale cecena, costellata di ritratti del presidente russo e del presidente ceceno, uno a fianco dell’altro. “Si sono avvicinati a me due uomini in abiti civili, pensavo fossero dei clienti, mi hanno detto di seguirli, avremmo parlato di affari. Appena mi sono avvicinato alla loro macchina sono sbucati altri due, mi hanno assalito. Ho iniziato a piangere, avevo paura. Urlavo. Le persone intorno si fermavano, mi avevano riconosciuto, chiedevano spiegazioni. Poi mi hanno spinto in macchina e sequestrato il cellulare. Cercavano chat, foto per dimostrare che ero gay. Dicevano che mi avrebbero ammazzato. Che ero lì per corrompere i ceceni. Devi rivelarci la tua rete di contatti, ripetevano. L’operazione si chiama “zaciska”, la “pulizia”, una pratica utilizzata in Russia e che si propone di eliminare tutto ciò che è diverso - e quindi sbagliato - dalla faccia della terra, a suon di spedizioni punitive, sequestri, metodi non convenzionali e non riconosciuti in paesi democratici. “Mi hanno messo una busta in testa, legata con dello scotch. Poco dopo mi sono ritrovato in questa caserma”. Un sotterraneo dove Maxim inizia il suo viaggio nell’inferno. “Per due settimane sono stato torturato ma anche costretto a lavare le altre celle con uno straccio e lì ho visto gli altri detenuti. La mia cella era minuscola, un loculo. Dormivo su pavimento sporco di sangue e defecavo dentro un cartone. Russo di origini serbe, ogni guardia mi detestava, faceva a gara per picchiarmi”. Gli occhi di Maxim registrano tutto: 50 persone detenute, portate nella sala torture e costrette a confessare il nome di altri omosessuali. “Il tempo non esisteva. Nella cella accanto alla mia c’erano due uomini, accusati di aver ucciso un agente. Sapevano che non sarebbe mai usciti vivi. Eppure, tra una tortura e l’altra mi hanno raccontato come sopravvivere a quei giorni. Leggere l’orario con il cambio guardie oppure mi indicavano le guardie meno violente a cui poter chiedere cose semplici: un sorso d’acqua, l’uso di un bagno che non fosse quella scatola di cartone. So che questi due ragazzi sono stati uccisi subito dopo il mio rilascio”. Ma non solo Maxim conosce nei giorni il sistema ceceno: “Le persone torturate venivano tenute dai sei agli otto giorni, dopo partivano le ricerche dei famigliari. Le forze cecene lo sanno chiedono il riscatto ma per le persone gay la situazione può solo peggiorare. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma classica, antica e brutale del delitto d’onore. Ai genitori la polizia cecena chiede di firmare un modulo: “Mio figlio /fratello (nome) ha lasciato la repubblica per lavorare a Mosca alla fine di febbraio. Reclami alla polizia cecena non ha”. Quando una persona gay viene catturata, viene torturata e minacciata fino a costringerla a collaborare con la polizia per organizzare finti incontri e adescare altre potenziali vittime. Rifiutare significa morire, o, nel migliore dei casi, ricevere l’ergastolo nelle prigioni russe. Questo a causa dei falsi reati che la polizia produce”. La sua sopravvivenza è il risultato di una serie di coincidenze: l’essere un cittadino russo, soprattutto accettato e amato dalla propria famiglia che ha fatto di tutto per rintracciarlo: “Prima di rilasciarmi mi hanno forzato a toccare e imbracciare delle armi. Adesso le mie impronte digitali sono lì. C’è un report che mi accusa di omicidio. Un falso reato costruito a hoc, così se provo a denunciare o a tornare in Cecenia rischio la morte. Mi hanno liberato dopo due settimane. Durante quelle notti ho promesso che avrei fatto una cosa se fossi sopravvissuto: avrei sposato il mio compagno. Lo faremo ad agosto”. Insieme a lui ci sono gli attivisti di Crisis Group “Nc Sos”, organizzazione che dal 2017 aiuta la comunità Lgbt del Caucaso del Nord (tra queste la Cecenia) inserita nel registro degli “agenti stranieri”, la lista di oppositori che Mosca ritiene ricevano sostegno dall’estero. “Non c’è un numero esatto di morti. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma antica e brutale del delitto d’onore. Facciamo di tutto per salvare queste persone ma il Paese è avvolto in un silenzio disumano. L’Europa non continui a scegliere l’indifferenza”. E anche Yuri Guiana, responsabile delle campagne di All Out: “Quello di Lapunov, non è l’unico caso che conosciamo. E non riguarda soltanto le persone Lgbt. Come dimostra il caso di Salman, eterosessuale arrestato perché sospettato di essere gay, le violazioni dei diritti umani delle persone lgbt+ in Cecenia continua e riguarda tutte e tutti. Per questo come All Out chiediamo a chi può di firmare la petizione per salvare Salman e non dimenticare quanto sta avvenendo ancora oggi in Ceceni”.