In cella fino all’ultimo giorno: questa è la sconfitta dello Stato di Angela Stella L’Unità, 8 luglio 2023 Il garante regionale dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia: “Il 29% dei condannati in via definitiva nelle carceri ha un residuo pena inferiore a due anni: se funzionasse la progressione trattamentale voluta dalla Costituzione non avremmo neppure il sovraffollamento”. Presentata ieri dal Garante Stefano Anastasia la relazione annuale sulla privazione della libertà del Lazio. Il Lazio è la quarta Regione italiana per numero di detenuti (preceduta da Lombardia Campania e Sicilia). A fine 2022 le persone detenute negli istituti penitenziari per adulti del Lazio erano 5.933. La capienza regolamentare complessiva dei quattordici istituti penitenziari della regione riconosciuta dall’Amministrazione penitenziaria era di 5.217 posti, con un tasso di affollamento conseguente pari al 114%, leggermente superiore alla media nazionale del 109%. La situazione diventa più critica se si considera il numero di posti effettivamente disponibili sulla base di quanto rilevabile dalle schede di trasparenza sui singoli Istituti del Ministero della Giustizia. che - a fine 2022 - erano 4.745. Il tasso di affollamento così calcolato raggiunge il 125%, con punte che superano il 150%. Anastasia ha sottolineato come “addirittura il 29% dei condannati in via definitiva nelle carceri del Lazio ha un residuo pena inferiore a due anni: se funzionasse la progressione trattamentale voluta dalla Costituzione e dalle leggi, se riconoscessimo che ogni pena che si conclude in carcere - con il sacco dell’immondizia condominiale che i detenuti si portano dietro uscendo dal carcere a fine pena - è una sconfitta dello Stato, di tutti noi, che non siamo stati capaci di costruire efficaci percorsi di reinserimento sociale, non avremmo neanche il sovraffollamento che tanto ci affligge”. Nella maggior parte degli istituti penitenziari regionali non sono presenti le docce nelle stanze detentive; inoltre, può accadere che l’acqua spesso non sia sufficientemente calda, o non per tutto il tempo necessario a dare la possibilità a tutti di usufruirne. La presenza negli istituti penitenziari del Lazio di detenuti in carico al Servizio per le dipendenze (SerD) è in linea con il dato nazionale e si attesta al 25-29%, anche se alcune stime non ufficiali ipotizzano una presenza intorno al 40%, per effetto della mancata o negata dichiarazione da parte del detenuto al momento dell’ingresso e della plausibile presenza di persone che si considerano consumatori (non) abituali. Si tratta di “una presenza conseguente all’ispirazione proibizionista della legislazione sulle droghe, alla gravità delle pene in essa previste e alla mancata differenziazione già in fase processuale dei fatti di detenzione e spaccio di lievi entità di sostanze stupefacenti”. Nel 2022 nelle carceri laziali, su un totale nazionale di 84 persone, si sono suicidati 7 detenuti: i sei suicidi nelle carceri maschili sono stati tutti di cittadini extracomunitari (bengalese, marocchino, della Nuova Guinea) e tutti relativamente giovani, fra i 30 e i 40 anni. Italiana, invece, ma coetanea degli altri, la donna suicidatasi nel mese di luglio a Rebibbia femminile. Per quanto concerne le Rems al 31 dicembre 2022, erano in lista d’attesa 29 persone (24 uomini e 5 donne). Un mondo a parte, anche se ormai sempre più popolato di ex-detenuti, è il Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria. “Come dicono i trattenuti - ha ricordato il Garante - il CPR è peggio di un carcere. In modo particolare le persone trattenute lamentano la difficoltà di comunicare con l’esterno (ingiustificata per il loro status di semplici irregolari, non di autori di reato in esecuzione penale) e l’assoluta inattività delle giornate, movimentate solo dall’arrivo dei pasti e dalla coda per la somministrazione delle terapie”. Il dramma delle articolazioni psichiatriche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 luglio 2023 Isolamento prolungato nelle cosiddette celle lisce, episodi ingestibili da parte degli agenti penitenziari, gravi gesti autolesionistici e non di rado suicidi. Il tema della salute mentale in carcere rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere, per la necessità da una parte di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi. Come abbiamo visto anche con la lettera - pubblicata su Il Dubbio di ieri - di Irene Testa, la garante della regione Sardegna, il problema è tuttora irrisolto a causa dell’inefficienza e degrado delle sezioni speciali apposite. Bisogna partire da una premessa. Le persone con patologia psichiatrica autori di reato si divide in due gruppi, i “folli- rei” e i “rei- folli”. Per “folli- rei” si intendono le persone giudicate incapaci di intendere e volere, ma socialmente pericolose e dunque il gruppo di persone per cui all’epoca venivano rinchiusi negli allora ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e oggi presso le Residenze per le Misure di sicurezza (Rems). Per “rei-folli” si intende invece quella categoria onnicomprensiva di persone giudicate capaci di intendere di volere, riconosciute colpevoli di un reato e per questo condannate a pena detentiva. Ed è per quest’ultimi che il vigente ordinamento penitenziario prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. In tali reparti si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Nascono così. Dall’inizio degli anni Duemila, a partire dalla casa circondariale di Torino, si è iniziato a sperimentare la nascita di “repartini” o comunque sezioni speciali dell’istituto penitenziario che avessero lo specifico compito di occuparsi della salute mentale. La loro creazione ed effettiva gestione non è mai stata normata in maniera univoca e coerente sul territorio nazionale, ma affidata a fonti secondarie, ad atti interni all’amministrazione penitenziaria o ad accordi territoriali tra l’amministrazione penitenziaria e sanitaria. Tali articolazioni, però, si trovano solo in poche decine di carceri, con il risultato del mancato rispetto della territorialità della pena e soprattutto con la troppa concentrazione di detenuti psichiatrici in pochi reparti. In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria. Alcune di queste articolazioni sono inserite all’interno di reparti sanitari, mentre altre occupano spazi specifici. Tuttavia, come segnalato più volte anche dal Garante nazionale, il rispetto dei diritti delle persone detenute è spesso violato. Sono stati riportati casi di contenzione. In particolare come è accaduto nel passato al carcere di Torino, emerge l’esistenza di ‘ celle lisce’: quelle spoglie e prive di suppellettili. La permanenza prolungata in queste condizioni, oltre il tempo necessario per calmare l’individuo e oltre il termine della cosiddetta ‘ acuzia’ (fase iniziale dell’arresto in cui l’individuo può essere particolarmente agitato), può costituire un trattamento inumano e degradante. Basti pensare al recente caso segnalato da Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, quello riguardante un ragazzo algerino di 19 anni tenuto in isolamento ogni tre giorni al carcere sardo di Uta. Senza ovviamente dimenticare ciò che ha riportato la garante regionale Irene Testa sul disagio non solo al carcere di Uta, ma anche al penitenziario di massima sicurezza di Bancali. In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria e l’applicazione delle norme carcerarie come in ogni altro settore. Alcune di queste articolazioni sono inserite all’interno di reparti sanitari, come nel caso di Cagliari, mentre altre occupano spazi specifici. All’interno di queste articolazioni si trovano persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie delle carceri. La maggior parte di loro si trova in ‘ osservazione psichiatrica’ secondo il quadro giuridico, che prevede un periodo iniziale di 30 giorni prorogabili, durante il quale viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico con la detenzione. L’ingresso e l’uscita da queste articolazioni avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale (che invece avviene nel caso di ricovero in una struttura esterna al carcere). Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. “Un detenuto ha solo 4 telefonate da 10 minuti al mese, in carcere solo parole interrotte e sofferenza” a cura di Rossella Grasso L’Unità, 8 luglio 2023 Cosa riuscireste a dire in dieci minuti al telefono a qualcuno a cui volete bene e che vi manca? Basterebbero dieci minuti a settimana per dire tutto quello che avete dentro alla persona con cui desiderate essere fisicamente ma non potete? E quanto una telefonata più lunga o la possibilità di farla più spesso vi potrebbe cambiare la vita? Lo sa bene G.M. che in una lettera a Sbarre di Zucchero racconta cosa vuol dire avere il diritto di parlare al telefono per quaranta minuti al mese, non un istante di più. Eppure avere più tempo potrebbe fare davvero la differenza. Soprattutto alla luce dell’elevato numero di suicidi che continuano a susseguirsi nelle carceri italiane. G.M. nella sua lettera sottopone anche un’altra questione che riguarda il reinserimento dopo il carcere e gli affetti: “Mai come adesso si riflette sull’importanza ai fini di un reinserimento sociale di un ristretto, della rete sociale e famigliare. Come possiamo parlare e riflettere su questo tema e allo stesso tempo discutere ancora sul numero delle telefonate? L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario lacunoso. L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario antiquato. L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario che non crede nel reinserimento”. Eppure tutto questo potrebbe cambiare, se ne sta discutendo tanto proprio in quest’ultimo periodo. Perché una telefonata in più a un detenuto che vive quotidianamente l’orrore e la solitudine, può davvero cambiare la vita. Riportiamo di seguito le parole di G.M. nella lettera a Sbarre di Zucchero. Sicuramente qualcuno di voi sa benissimo come funziona. Io vi racconto la mia esperienza. Le telefonate in carcere sono 4 al mese, da dieci minuti contati di orologio. Per la precisione sono cronometrando 9 minuti e 40 secondi. Gli ultimi 10 secondi una voce esterna e o registrata si inserisce nella comunicazione e dice: la telefonata sta per terminare. E non fa in tempo a scandire l’ultima sillaba che la telefonata si interrompe con il classico: tu-tu-tu. Ogni ristretto gestisce la telefonata in base alla funzione che può e o deve avere quella comunicazione, può essere di sola comunicazione. A quel punto hai un biglietto con i tre punti da dire, o le tre cose da chiedere che ti mancano, o le cose che vorresti che sappiano, o ancora peggio le tre cose che tu vorresti sapere. Dall’altra parte, le famiglie, imparano per ovvie ragioni ad avere il dono della sintesi. Veloci, sbrigativi, una carrellata di saluti d’obbligo per tutti, poi spazio a chi chiama. Vista così sembra quasi facile. Se tutto fosse lineare e se non ci fossero sentimenti. Ma niente è lineare in carcere, e i sentimenti e le emozioni hanno sempre il sopravvento. I saluti sono accompagnati dalla ripetuta domanda ‘come stai?’. Solo per quella domanda reciproca non basterebbe un mese di telefonata. E poi ci sono le incomprensioni, le probabilità, i dubbi e le incertezze. La telefonata spesso si chiude in un modo che non vorresti, con un discorso a metà, con la rabbia di entrambi gli interlocutori di non essere compresi, con la paura di una cosa che non volevi dire ma che viene compresa e o letta tra le righe. Immaginate la comunicazione di un lutto al telefono. La comunicazione di una malattia. Come possono essere utili, funzionali e o sufficienti dieci minuti quando nella vita di tutti i giorni non ti bastano mesi. Immaginate il turbinio di emozioni del ristretto o ristretta che rientra in cella, e o del famigliare che resta con il telefono in mano. Si piange quando cade la linea spesso. Si tira un sospiro di sollievo perché se lo hai sentito, è lì e più o meno sta bene, ti preoccupi se percepisci un tono di voce diverso. Reciprocamente. Personalmente aspettavo con ansia il momento della telefonata. Ma allo stesso tempo mi ha sempre lasciato un grande amaro in bocca, un senso di profonda lontananza e solitudine. Mai come adesso si riflette sull’importanza ai fini di un reinserimento sociale di un ristretto, della rete sociale e famigliare. Come possiamo parlare e riflettere su questo tema e allo stesso tempo discutere ancora sul numero delle telefonate? L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario lacunoso. L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario antiquato. L’ennesima contraddizione di un sistema penitenziario che non crede nel reinserimento. Tra Nordio e le toghe è già guerra fredda: “Presto altre riforme” di Simona Musco Il Dubbio, 8 luglio 2023 Il ministero annuncia nuove strette: nel mirino, le fughe di notizie sugli avvisi di garanzia e l’imputazione coatta. “Possiamo permettercelo”, diceva ieri al Dubbio il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Un invito ai suoi compagni di maggioranza, forse, ad evitare scivoloni. Ma le voci - mai smentite - fatte trapelare giovedì pomeriggio in maniera scientifica da Palazzo Chigi dopo la notizia dell’imputazione coatta disposta dal gip di Roma per il sottosegretario Andrea Delmastro, indagato per rivelazione di segreto in merito al caso Donzelli, sembrano raccontare tutta un’altra storia. Anche perché l’attacco ad un istituto previsto dal codice di procedura penale da oltre trent’anni, giusto o sbagliato che sia, e definito “non consueto”, appare tecnicamente scorretto. La scelta, dunque, è stata squisitamente politica e ha consentito al governo di accusare le toghe di voler fare campagna elettorale, favorito dalla coincidenza temporale di indagini che riguardano in senso stretto o lato tre esponenti di spicco del partito della premier: Daniela Santanché, Andrea Delmastro e Ignazio La Russa, che ieri ha letto sui giornali dell’inchiesta a carico del figlio per violenza sessuale. Il presunto “complotto” arriva in un momento già delicato del rapporto tra le due parti: dopo le polemiche per l’abolizione dell’abuso d’ufficio e lo stato d’agitazione delle toghe per l’azione del governo in tema di giustizia, all’orizzonte già si vedono nuovi provvedimenti invisi alla magistratura. E si tratta di temi non di poco conto: una stretta alle intercettazioni - partendo dalla già annunciata limitazione del budget a disposizione delle procure - il sorteggio per i componenti togati del Csm, che farebbe perdere terreno alle correnti, e la separazione delle carriere, che depotenzierebbe i pm. Una riforma, quest’ultima, per ora solo annunciata ma che si farà, come promesso proprio da Delmastro solo pochi giorni fa alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia. Nordio, che finora voci provenienti da ambienti di maggioranza davano per “frenato” dalla presidente Giorgia Meloni, decisa a non inasprire i toni con la magistratura come avveniva ai tempi di Silvio Berlusconi, ieri ha sciolto le briglie, facendo partire da via Arenula tre diverse note che chiariscono ulteriormente l’intenzione di non lasciar correre. Il primo punto riguarda l’avviso di garanzia, prendendo spunto dal caso Santanché e da quella che secondo Palazzo Chigi è stata una fuga di notizie pilotata. “Fonti ministeriali manifestano, ancora una volta, lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato - si legge in una nota impersonale. La riforma proposta mira ad eliminare questa anomalia tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva”. Il secondo riguarda, invece, i timori manifestati dal Commissario alla Giustizia Ue, Didier Reynders, che in un’intervista a Repubblica si era detto “preoccupato” per l’abolizione dell’abuso d’ufficio in tema di lotta alla corruzione. “Il ministro Nordio - che in questo caso si palesa - ha ribadito al Commissario che il codice penale italiano prevede un intero titolo dedicato ai delitti contro la pubblica amministrazione e che in tale contesto l’abuso di ufficio rappresenta una fattispecie residuale, con funzione di chiusura del sistema, applicabile soltanto ove non possa configurarsi un diverso e più grave reato”, si legge nella nota. Sono 18 le fattispecie, che garantiscono “un sistema in grado di colpire efficacemente ogni condotta aggressiva del bene tutelato”. Dunque le condotte rientranti nell’alveo dell’attuale abuso d’ufficio, dopo la sua abolizione, non rimarranno prive di intervento, ma “saranno più correttamente inquadrate nel contesto del sindacato giurisdizionale sull’azione amministrativa da parte del giudice amministrativo”, ha sottolineato, snocciolando dati e statistiche e garantendo un alleggerimento del lavoro degli uffici gradita all’Ue in ottica di attuazione del Pnrr. Terzo dato, quello più spinoso (ancora una volta affrontato impersonalmente), l’attacco all’imputazione coatta, strumento che, si legge in una nota, “dimostra l’irrazionalità del nostro sistema”. Il pm, infatti, nel processo insisterà sul proscioglimento - salvo rinnegare se stesso. E qui arriva il capovolgimento di fronte rispetto alla narrazione finora proposta: una difesa del pm, che “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”. Una frase scivolosa, dal momento che contempla un’adesione totale del giudice alla tesi del pm, finora ritenuta deleteria. Ma dal momento che la maggior parte delle imputazioni coatte “si conclude con assoluzioni dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili”, continua il ministero, “è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”. A via Arenula, intanto, l’aria è tesa e la preoccupazione è palpabile. Un clima di scontro non favorisce le riforme, afferma una fonte interna, secondo cui “alzare il livello delle polemiche serve solo a rallentare o impedire” che le stesse vadano in porto. Non è interesse di chi vuole farle, dunque, alzare i toni. Ma Palazzo Chigi prima e il ministero poi, con le rispettive note stampa, sembrano andare in un’altra direzione. Una reazione al rombo dei motori della magistratura, forse, per dimostrare che la politica non ha paura. Ma intanto “il pericolo di creare contrapposizioni che poi rischiano di essere produttivamente sterili c’è - conclude la fonte -. Forse c’è chi vuole lavorare per impedire le cose”. A dare manforte al ministro ci pensa l’Unione delle Camere penali: “Sono lieto che ci si renda conto delle problematiche della giustizia penale anche se sarebbe meglio che questo accadesse non solo quando queste problematiche colpiscono la politica”, ha commentato a La Presse il presidente Giandomenico Caiazza. Che concorda con il ministero per quanto riguarda le considerazioni sull’imputazione coatta, “ma è una norma che esiste dalla fine degli anni ottanta. Ce ne accorgiamo solo ora? Meglio tardi che mai. Speriamo se ne traggano le conseguenze”. Quel colpo all’abuso d’ufficio ha segnato la fine della “pace” con la magistratura di Paolo Delgado Il Dubbio, 8 luglio 2023 La premier non riteneva di aver sfidato il potere togato e, a torto o a ragione, ha vissuto le vicende Santanchè e Delmastro come un attacco diretto a Palazzo Chigi. Sbaglierebbe chi pensasse che una battagliera Giorgia Meloni si augurava di ritrovarsi in guerra aperta con la magistratura. La realtà è opposta. Se c’è una cosa che la premier non gradisce sono i panni di Silvio Berlusconi: proprio quelli che nel giro di due giorni si è ritrovata cuciti addosso. Del caso Santanchè è inutile parlare: tra bugie, ostentazioni oltre i confini della volgarità, pasticci amministrativi il caso sembra una puntata della saga berlusconiana trasmessa per errore in una serie di tutt’altro stile. Nel braccio di ferro con la magistratura le cose stanno anche peggio. Alleata con Fi (e con la Lega), dopo oltre un decennio passato a spalleggiare il Cavaliere nel braccio di ferro con le toghe, la leader di FdI è costretta in una posizione scomoda: per indole e convinzioni politiche almirantiane lei si troverebbe a più in veste giustizialista che non in quella garantista. Nei primi mesi di governo, di conseguenza, è andata giù molto più leggera di quanto le promesse elettorali e la scelta di nominare Nordio guardasigilli inducevano a prevedere. Non è un caso che la stessa opposizione ha sinora sempre commentato le modifiche introdotte dal ministro della Giustizia, pur criticandole nel merito, con la classica espressione: “La montagna ha partorito il topolino”. Di certo implicitamente, probabilmente anche con qualche contatto magari indiretto, forse con la triangolazione del Colle o tramite ambasciatori vari, la presidente ha cercato un tacito accordo con il potere togato ed era convinta di averlo trovato. Da una parte il rallentamento sino alla paralisi delle riforme più invise alla magistratura, prima fra tutte la separazione delle carriere, dall’altro una sorta di “non belligeranza”. In ogni caso, con o senza conciliaboli anche a distanza o espliciti scambi di segnali, la premier non riteneva di aver sfidato il potere togato e, a torto o a ragione, ha vissuto la vicenda Santanchè come un attacco diretto, confermato poi dalla imputazione coatta di Dalmastro. Da questo punto di vista che l’offensiva contro il governo e il partito della premier o che si tratti solo di fantasie venate di paranoia è secondario. Quel che conta è che come un attacco le due vicende sono state interpretate, che a palazzo Chigi sono tornate in auge espressioni come “giustizia a orologeria”, che i giornali vicini alla destra hanno rispolverato il più classico tra i classici berlusconiani: il dito puntato contro le “toghe rosse”. La spiegazione che a Chigi si danno dell’offensiva, vera o presunta, è semplice: una parte della magistratura ritiene che l’eliminazione del reato di abuso d’ufficio sia già troppo e che sia quindi necessaria una reazione dura. Non è un caso che in tutte le dichiarazioni delle ultime 48 ore si alluda a “una parte della magistratura”. Ai tempi di Berlusconi la divisione tra una magistratura buona e una parte invece politicizzata e ostile alla destra era puro artificio retorico. In questo caso ha un senso più concreto, l’allusione è a quella “parte della magistratura” che non è disposta ad accettare nessuna riforma, neppure se contenuta e non deflagrante. L’uscita durissima di palazzo Chigi giovedì sera e poi quella del ministero della Giustizia di ieri hanno già bruciato molti ponti alle spalle del governo. È probabile che nei prossimi giorni una quantità di figure istituzionali e non cerchi con la dovuta discrezione di riaprire canali di dialogo per impedire che si torni alla situazione dell’epoca berlusconiana, a un fronteggiamento da guerra totale tra poteri dello Stato. Ma le probabilità di riuscita sono esigue. In questi due giorni ad attizzare il fuoco non sono stati parlamentari in libertà o sottosegretari bellicosi. Sono stati palazzo Chigi e via Arenula, la presidenza del consiglio e il ministero della Giustizia, quest’ultimo, ieri, con parole pesantissime: “L’imputazione coatta di Delmastro dimostra l’irrazionalità del sistema. È necessaria una riforma radicale”. E sul caso Santanchè: “Soncerto e disagio per l’ennesima comunicazione a mezza stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato. La riforma proposta mira a eliminare questa anomalia”. Significa che una nuova tornata di provvedimenti è dietro l’angolo, spinta ulteriormente, inevitabilmente, anche dal caso La Russa. È presumibile che la magistratura, o “una parte” della stessa, reagirà malissimo al nuovo colpo e l’eventualità che si inneschi una spirale inarrestabile c’è davvero tutta. Avviso di garanzia e imputazione coatta, riforme come vendette di Mario Di Vito Il Manifesto, 8 luglio 2023 Il ministro affida a fonti anonime di via Arenula l’annuncio di novità interessate. Anm in trincea, oggi il comitato direttivo: minano a demolire la fiducia dei cittadini. Un salto indietro nel tempo. Lo scontro frontale tra la destra e la magistratura non si è esaurito con la scomparsa di Silvio Berlusconi. Infatti è tornato di gran moda questa settimana, e i toni sono quelli di sempre: altissimi, sguaiati. Così come sono quelle di sempre le argomentazioni: è tutto un grande complotto contro il governo. E così, dopo l’autodifesa di Daniela Santanchè in senato e dopo l’imputazione coatta del sottosegretario alla giustizia Delmastro, ieri è arrivato anche il caso La Russa: figlio indagato per violenza sessuale e padre che commenta con parole a dir poco allucinanti. Non basta: le “fonti di palazzo Chigi” che accusano “parte della magistratura di voler fare opposizione” e di voler sabotare la riforma della giustizia si sono trasformate in post sui social e dichiarazioni di deputati e senatori di Fdi a ripetere il refrain per imprimerlo bene nella memoria dell’opinione pubblica. E ancora, ecco da via Arenula l’annuncio nuova stretta sulla pubblicazione non solo delle intercettazioni ma anche degli avvisi di garanzia, da tenere segretissimi fino alla fine delle indagini. Tutto qui? Macché, ciliegina sulla torta è l’idea di intervenire sull’imputazione coatta, definita senza mezzi termini “irrazionale”. Non sfugge che queste ultime due uscite siano arrivate in straordinaria coincidenza con le lamentele di Santanchè per la notizia pubblicata da Domani sulla sua iscrizione nel registro degli indagati per l’affaire Visibilia e con la decisione del gip di Roma Emanuela Attura di mandare a processo Delmastro nonostante la richiesta di archiviazione della procura. Per l’uscita (assolutamente pilotata) di questi spifferi, l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte ha chiamato in causa Nordio in persona. “Quello che è irrazionale è il modo in cui al ministero della giustizia si affrontano questi temi - dice - pretendendo di cambiare tutte le norme la cui applicazione possa loro sembrare occasionalmente sgradita. Non è il modo più adatto per chi riveste responsabilità così delicate come quelle del ministro della giustizia, ovvero assecondare gli umori più bassi e turbolenti della classe politica di cui pure ha deciso di far parte”. Per gli avvocati, il presidente dell’Unione camere penali Giandomenico Caiazza sottoscrive la necessità di rivedere la questione dell’imputazione coatta ma, segnala, “è una norma che esiste dalla fine degli Anni 80. Ce ne accorgiamo solo ora?”. Sullo sfondo resta il sogno della destra di rivedere globalmente la giustizia penale, soprattutto per quello che riguarda la separazione delle carriere di giudici e pm. Vorrebbe dire mettere mano alla Costituzione, dunque non se ne parlerà seriamente a breve, ma non c’è dubbio che il bersaglio grosso sia quello. Non è del tutto un caso, in questo senso, che da ieri sui social i gruppi e le pagine, per così dire, “di base” della destra continuino a rilanciare un video in cui la giudice Attura si dice “spaventata” dalla separazione delle carriere: la prova provata del complotto giudiziario ai danni del governo. Fa niente che, dando torto alla procura, la gip abbia dimostrato che può esserci indipendenza di giudizio anche a carriere unite. Ieri pomeriggio, a Roma, si è intanto riunita la giunta dell’Anm, mentre oggi e domani tocca al comitato direttivo centrale. Si tratta di appuntamenti programmati, ma il tema del governo che va all’attacco della magistratura si è imposto come centrale. In un’intervista rilasciata ad Affari Italiani, la vicepresidente dell’Anm Alessandra Maddalena ha definito “pericolosissimo” il tentativo di palazzo Chigi di politicizzare la magistratura accusandola di fare opposizione al governo. “Si fa passare l’idea che una parte della magistratura utilizzi il proprio legittimo potere per colpire una parte politica - attacca Maddalena -. È una campagna pericolosa in uno stato di diritto: se i cittadini si convincono che la magistratura si piega a questi scopi, come potranno avere fiducia nella giustizia? Specie se a dirlo è la stessa presidente del Consiglio”. Note anonime e silenzi. Il ministero della Giustizia fuori controllo di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 luglio 2023 Dopo la nota di Palazzo Chigi, in cui si accusava una parte della magistratura di “svolgere un ruolo attivo di opposizione”, anche il ministero della Giustizia - retto da Carlo Nordio - ieri mattina è intervenuto per criticare le ultime iniziative giudiziarie delle toghe, diffondendo due note riferibili a “fonti di Via Arenula”. Nella prima si afferma che il caso che ha coinvolto il sottosegretario Delmastro impone una riforma dell’istituto dell’imputazione coatta; la seconda nota prende invece spunto dal caso Santanchè per sostenere l’urgenza di una riforma dell’iscrizione del registro degli indagati e dell’informazione di garanzia. Un intervento senza precedenti per il ministro della Giustizia, l’intellettuale prestato alla politica, abituato a esporsi in prima persona, a esprimersi mettendoci la faccia. “Le affermazioni contenute nelle note non sono assolutamente attribuibili al ministro”, dicono al Foglio i vertici della comunicazione di Via Arenula. Una conferma che però, piuttosto che chiarire la vicenda, non fa altro che renderla più oscura. Il Guardasigilli si trova a Tokyo per rappresentare l’Italia al G7 dei ministri della Giustizia. Con lui ci sono il capo di gabinetto, Alberto Rizzo, e anche la vicecapo, Giusi Bartolozzi, abituata a prendere in mano le situazioni più delicate. Gli staff dei sottosegretari Ostellari e Delmastro escludono il loro intervento. “Il tempo delle guerre con la magistratura è finito, e i guerrafondai vanno isolati”, dice al Foglio il viceministro Francesco Paolo Sisto, tirandosi fuori dalla polemica. E dunque la domanda resta: chi è intervenuto in nome del ministero ma alle spalle del ministro? Il pensiero (maligno) va proprio a Bartolozzi, la cosiddetta “zarina di Via Arenula”, la persona che - come abbiamo raccontato su questo giornale - negli ultimi mesi ha accentrato nelle proprie mani tutte le decisioni più importanti che competono al ministero. “Al ministero non si prendono più decisioni in maniera collegiale, tutto è accentrato nelle sue mani, è lei che comanda”, ci avevano riferito più voci da Via Arenula. E anche stavolta in parecchi da quelle parti si dicono convinti che a vergare le due note sia stata proprio lei, Bartolozzi, direttamente da Tokyo, alle ore 16 locali (9 italiane). Nella prima nota diffusa dal ministero della Giustizia si afferma che l’imputazione coatta disposta dal gip del tribunale di Roma nei confronti di Andrea Delmastro Delle Vedove per il caso Cospito “dimostra, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, l’irrazionalità del nostro sistema”. “Nel processo che ne segue - si spiega “da Via Arenula” - l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire se stesso”. “Nel processo accusatorio - prosegue ancora la nota - il pubblico ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede. La grandissima parte delle imputazioni coatte si conclude, infatti, con assoluzioni dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili, con grande spreco di risorse umane ed economiche anche per le necessarie attività difensive. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”. La seconda nota prende invece spunto dal caso Santanchè: “È urgente la riforma dell’iscrizione del registro degli indagati e dell’informazione di garanzia”, si afferma. Le stesse fonti del ministero “manifestano, ancora una volta, lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato. La riforma proposta mira a eliminare questa anomalia tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva”. In assenza di riscontri sull’identità delle “fonti”, il mistero rimane, offuscando tuttavia l’immagine del ministro Nordio, che appare non in grado di garantire l’unità della struttura ministeriale. Le critiche mosse dal ministero della Giustizia alle toghe non fanno che accentuare lo stato di tensione vissuto sul piano dei rapporti fra politica e magistratura. Proprio questo fine settimana è prevista una riunione del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, che potrebbe decidere di replicare alle critiche giunte dal governo. L’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, ha già tracciato la linea che il sindacato delle toghe potrebbe percorrere: “Non è il modo più adatto per chi riveste responsabilità così delicate come quelle del ministro della Giustizia, ovvero assecondare gli umori più bassi e turbolenti della classe politica di cui pure ha deciso di far parte”, ha dichiarato Albamonte, prima di centrare stavolta uno dei veri nodi dell’intera vicenda: “Quello che è irrazionale è il modo in cui al ministero della Giustizia si affrontano questi temi, pretendendo di cambiare tutte le norme la cui applicazione possa loro sembrare occasionalmente sgradita”. Complotto? No, autocomplotto. Sulla giustizia inizia la stagione degli alibi di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 luglio 2023 Le esondazioni delle Procure sono una cosa seria. Vera. Evocarle quando non esistono è segno di debolezza. Perché il vittimismo del governo, sulla giustizia, è un preoccupante manifesto politico: inizia la stagione degli alibi. Giorgia Meloni evoca il complotto. Non lo dice direttamente, è ovvio, lo fa dire alle fonti di Palazzo Chigi, lo fa dire ai parlamentari a lei più vicini, lo fa dire agli esponenti del governo più in sintonia con la sua agenda politica. Ma il dato è questo ed è evidente. La presidente del Consiglio, come avete visto, crede che un pezzo importante della magistratura del nostro paese stia facendo campagna elettorale contro il governo, per indebolirlo in vista delle europee. E a conferma di questa tesi indica alcune pistole fumanti. A: l’inchiesta contro Daniela Santanchè, della cui formale esistenza gli organi di stampa sono venuti a conoscenza prima che la diretta interessata ne venisse ritualmente informata attraverso un avviso di garanzia. B: l’inchiesta sul sottosegretario Andrea Delmastro, contro il quale vi sarebbe un accanimento da parte della magistratura per via di una richiesta di archiviazione della procura non confermata dal gip. C: l’inchiesta contro uno dei figli di Ignazio La Russa, indagato per violenza sessuale. Nella storia recente del nostro paese, come Giorgia Meloni dovrebbe sapere, gli assedi giudiziari hanno pesantemente condizionato la traiettoria della vita politica (chiedere per credere cosa hanno passato in questi anni la famiglia Craxi, la famiglia Berlusconi e la famiglia Renzi). E proprio per questo, le storie di cui parliamo oggi - il cui lato giudiziario è forse quello meno interessante - appaiono essere il segno della presenza più di un conclamato autocomplotto del centrodestra che di un clamoroso complotto della magistratura. Un autocomplotto che segnala la tendenza innata da parte di Giorgia Meloni a scaricare su alcuni famigerati agenti esterni quelli che sono invece problemi dovuti a fattori squisitamente interni. La premier forse non se ne è accorta ma il problema del caso Santanchè non è legato alla presenza o meno di un’indagine contro la ministra. E’ legato a qualcosa di più: al fatto che Santanchè non ha ancora dato risposte soddisfacenti sul mancato pagamento della liquidazione ad alcuni dipendenti, sulla circostanza che una dipendente sarebbe stata messa in cassa integrazione a zero ore a sua insaputa e sulla presenza di alcuni passaggi societari della sua Visibilia poco trasparenti ben documentati non da un’inchiesta giudiziaria ma da un’inchiesta giornalistica. E allo stesso modo la premier forse non se ne è accorta ma il problema del caso Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, non è legato alla presenza di un gip che sostiene l’opposto di quanto chiesto da un procuratore, e che ha chiesto l’imputazione coatta dello stesso Delmastro in riferimento a un’indagine per rivelazione di segreto d’ufficio legata al caso Cospito. Il problema, piuttosto, è legato a qualcosa di più significativo: al fatto oggettivo che un esponente importante del suo governo ha scelto di rivelare a un parlamentare amico, e suo coinquilino, Giovanni Donzelli, segreti amministrativi conclamati solo al fine di poter utilizzare quelle notizie segrete per colpire in Parlamento esponenti dell’opposizione. L’idea che la giustizia torni a essere terreno di scontro politico per questioni che con la giustizia c’entrano poco o nulla è un clamoroso insulto rivolto a tutti coloro che negli ultimi anni hanno tentato di ingaggiare battaglie vere contro le esondazioni del potere giudiziario. E il tentativo di alzare, sul nulla, l’asticella della polemica con la magistratura, senza ragionare sul fatto che gli imbarazzi presenti all’interno della maggioranza, per Giorgia Meloni, dipendono non tanto da un complotto della magistratura quanto da un autocomplotto della politica che ha scelto di premiare in posizioni apicali figure fragili, improponibili, non all’altezza, inconciliabili con il tentativo di Meloni di far crescere una nuova classe dirigente, evidenzia alcuni problemi ulteriori, che permettono di illuminare un altro guaio della stagione meloniana. Di solito, quando si evoca un complotto, sulla base del nulla, lo si fa perché si cerca di costruire un alibi, utile a costruire una narrazione vittimista. Non siamo noi che abbiamo scelto politici incapaci di governare, ma è la magistratura che non ci vuole far governare. Non siamo noi che non vogliamo fare una sana riforma della giustizia, ma è la magistratura che ci sta mettendo il bastone tra le ruote. La ricerca degli alibi e l’evocazione dei complotti - il figlio di Ignazio La Russa, contro cui le accuse appaiono molto fragili, non è l’unico figlio di un importante uomo della politica a essere indagato per violenza sessuale e i complotti o si evocano sempre o si evita di evocarli solo quando gli affari in ballo riguardano i propri amici - sarebbero giustificate in presenza di un percorso riformatore solido, chiaro, forte, ben avviato, ben costruito. Ma anche qui l’impressione che si ricava osservando con attenzione la traiettoria della maggioranza sul fronte della giustizia è che in otto mesi di governo la politica delle chiacchiere, e del vittimismo, ha preso il sopravvento sulla politica dei fatti (vale anche per il ministro della Giustizia Carlo Nordio, purtroppo, il cui governo finora ha portato a casa molti aumenti delle pene senza portare però a casa una sola riforma improntata sulla difesa delle garanzie: è questo che dovrebbe fare un garantista, no?). E per questa ragione scommettere sugli alibi è una garanzia perfetta per ritrovarsi con un cuscino morbido su cui far atterrare le proprie promesse fallite. Una strategia scellerata, a tratti ridicola, resa però realizzabile grazie alla presenza di un’opposizione che grottescamente, come detto, ha scelto ancora una volta di trasformare la questione giudiziaria nel termometro perfetto per misurare il grado di presentabilità di un avversario politico. Giorgia Meloni, dal canto suo, avrebbe potuto cavarsela, per difendere i propri politici, dicendo che ogni cittadino ha il dovere di essere considerato innocente fino a prova contraria, costruendo attorno al caso Meloni e Delmastro una battaglia garantista. Meloni invece non lo ha fatto. E la ragione per cui ha puntato su una strada alternativa è probabilmente legata al fatto che anche per la presidente del Consiglio essere indagati fa la differenza, tra l’essere presentabili o no. Meglio il vittimismo che il garantismo. Più che un complotto, cara Meloni, questo assomiglia molto a un autocomplotto. L’assedio giudiziario è una cosa seria. Non trasformiamolo in una barzelletta. Grazie. Le paranoie di Meloni sui magistrati mettono in subbuglio la maggioranza di Valerio Valentini Il Foglio, 8 luglio 2023 L’intemerata contro le toghe studiata a Palazzo Chigi. Doveva ricompattare il governo, invece lo ha mandato in tilt. Salvini fa lo gnorri. Forza Italia in rivolta: “Pensiamo piuttosto alle cose da fare, non ai diversivi”, dice Cattaneo. E La Russa innesca un rodeo dentro FdI, tra rinfacci e rivendicazioni: “Se smette di straparlare, per noi è una Liberazione”. La coincidenza apparentemente nefasta, lui la vede invece provvidenziale. “La mia imputazione coatta proprio a ridosso del caso Santanchè, dimostra che un teorema esiste. Accusano me di aver rivelato un segreto, quando qui l’unico segreto violato è quello dell’indagine a carico di Daniela spifferato ai giornali”. Insomma Andrea Delmastro non ha dubbi: l’accerchiamento esiste. La tesi dell’assedio delle procure del resto non nasce a caso. Anche perché a Palazzo Chigi, cioè nel luogo dove la teoria del complotto ha preso sostanza, durante una riunione del sancta sanctorum patriottico convocata da Giorgia Meloni giovedì pomeriggio, a suggerire l’apertura delle ostilità contro i pm non c’erano solo i due fattacci noti, quello della ministra del Turismo e del sottosegretario alla Giustizia. Era già arrivata la notizia che a breve sarebbe deflagrato il terzo caso, forse il più fangoso, e cioè quello del figlio di Ignazio La Russa, e dunque non era male trovare un diversivo, la fumisteria: insomma provare a disinnescare preventivamente il clamore inevitabile che la denuncia verso Leonardo Apache avrebbe provocato. Non tanto, dunque, un cedimento dei nervi alla tensione di giornata. Semmai la voglia di disvelare una trama che s’intravede - che si è convinti di intravedere - per detonarla prima che esploda. “Se credono di replicare con me quel che hanno già fatto con altri, si sbagliano di grosso”, s’è sfogata la premier. Ce l’aveva con non meglio precisati registi di manovre politico-giudiziarie. Il timore delle toghe, dunque, come estrema forma del cospirazionismo vittimistico tipico della destra sovranista? I giudici, oggi, dopo che ieri erano “i boiardi del deep state” da falciare col machete, e ieri l’altro “i burocrati di Bruxelles”? Chiara Gribaudo ne è convinta: “Il vagheggiare complotti da parte dei magistrati, oltre che irrispettoso è anche patetico: è l’estremo rifugio di chi è in affanno sull’agenda di governo e cerca alibi”. E certo nelle parole della vicepresidente del Pd ci sarà la malizia di chi piccona dall’opposizione, ma qualche verità quella malizia deve coglierla, se riflette i dubbi anche degli alleati della stessa Meloni. Matteo Salvini, alle prese anche ieri con gli strascichi del processo Open Arms a Palermo, si guarda bene dal commentare, figurarsi dall’esprimere solidarietà. Pensa all’adunata di Pontida, convocata per il 17 settembre, e alla festa leghista di Cervia, a fine luglio. “Piuttosto: davvero conviene pestare la coda al cane che dorme?”, sbuffano nel Carroccio, temendo che l’apertura unilaterale delle ostilità verso le toghe sia foriera di eventuali ritorsioni. Figurarsi allora qual è il clima in Forza Italia, dove ancora se li ricordano gli sfoghi con cui il Cav., nei giorni della formazione del governo, raccontava del trattamento ricevuto da Meloni, quel suo impuntarsi, in romanesco verace, sul fatto che l’assegnare Via Arenula a un esponente azzurro avrebbe riaperto la stagione dei dissidi coi pm: “Ah Sirvio, se ‘o metti te er ministro daa Giustizia nun la famo più ‘sta riforma. Te dicono che te voi fa’ i fatti tua”. Ci ridono ancora, ma è un riso amaro, i deputati forzisti, alla buvette di Montecitorio. “La verità è che le riforme non si fanno sulla spinta di accidenti di cronaca, ma perché le abbiamo promesse agli elettori e le dobbiamo al paese”, ragiona Pietro Pittalis, dando voce a un dubbio diffuso in verità anche dentro FdI: e cioè che il brandire l’ipotesi della separazione delle carriere come una ritorsione verso i magistrati non sia il miglior viatico per arrivare alla meta. E per questo Alessandro Cattaneo lancia un avvertimento: “Credo che l’agenda del governo sia molto densa: continuiamo a concentrarci sulle cose da fare. Riaprire anacronistiche guerre con la magistratura rischia di essere un diversivo poco utile”. Se insomma l’intemerata contro le toghe di Palazzo Chigi, oltre a riflettere una paranoia reale della premier, doveva essere una mossa per ricompattare una maggioranza un po’ sfibrata, l’effetto sortito sembra opposto. L’avventatezza meloniana ha semmai rivelato l’esistenza di una carie, di un tarlo che rode la destra dal suo interno. E così c’è chi, a Via della Scrofa, si chiede se la delega ai Servizi non fosse stata attribuita anche per questo, ad Alfredo Mantovano, per la sua profonda conoscenza delle dinamiche più perverse delle procure. E non basta. Perché il destino periclitante di Santanchè, che pure la capa di FdI considera intoccabile (“Non si cambia un ministro perché ce lo chiedono De Benedetti ed Elkann”, intignano i collaboratori di Donna Giorgia), alimenta comunque voci di rimpasto, e dunque quelle inevitabili convulsioni fatte dalle ambizioni di chi potrebbe sostituire la ministra del Turismo, e dalle paure di chi teme che potrebbe precipitare pure lui nella ridefinizione degli assetti di governo. La Russa, poi, è un caso a parte. Ma forse il più grave. E non solo per gli eventuali sviluppi dell’accusa di stupro mossa a suo figlio Lorenzo Apache da una ragazza di 22 anni, ma per la consueta incontinenza verbale con cui il presidente del Senato s’è affrettato a commentare la faccenda. “Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. (…) Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni”, ha scritto, tra l’altro, La Russa, in una nota diramata ieri. Guadagnandosi le accuse di Elly Schlein. E ci sta. Ma pure i mugugni di chi, in FdI, ricorda che fu proprio Meloni, due anni fa, ascoltando il vaniloquio di Beppe Grillo a difesa di suo figlio, coinvolto in un caso apparentemente analogo, a dirsi sorpresa: “Mi ha colpito il modo in cui Grillo ha minimizzato un tema pesante, come quello della presunta violenza sessuale”. E insomma è inevitabile che in queste ore le dichiarazioni imbarazzanti di La Russa vengano rimesse in fila dai suoi avversari interni (ministri compresi) che, non a caso, gli rinfacciano anche l’aver voluto a ogni costo promuovere Santanchè nell’esecutivo: e quindi l’incidente diplomatico con Sergio Mattarella durante il caso Ocean Viking, e quindi le raggelanti dissertazioni storiche su Via Rasella e quel che ne seguì. Qualcuno, in FdI, ricordando il 25 aprile, azzarda perfino una battuta: “Se Ignazio facesse il presidente del Senato come tutti prima di lui, se smettesse di dichiarare a ogni piè sospinto, per Giorgia sarebbe una Liberazione”. Stretta sulle intercettazioni, Forza Italia appoggia Nordio: “Troppi abusi” di Paolo Comi L’Unità, 8 luglio 2023 Secondo una relazione del Copasir nella scorsa legislatura ci sarebbero state circa 110 mila utenze sotto controllo. Zanettin: “Noi con il ministro”. “Se il governo ed il ministro della Giustizia Carlo Nordio hanno intenzione di imprimere una “stretta” alle intercettazioni telefoniche, noi siamo pronti”, afferma Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, commentando alcuni rumors secondo i quali la premier Giorgia Meloni, particolarmente irritata per la piega che stanno prendendo le varie vicende giudiziarie, caso Santanchè in primis, vorrebbe una riforma “incisiva” degli ascolti. Nordio, da parte sua, ha sempre sottolineato la necessita di “regolamentare” le intercettazioni al fine di impedirne gli eccessi, venendo accusato dalle opposizioni dall’Associazione nazionale magistrati di voler in questo modo “mettere in ginocchio” l’attività investigativa. L’Italia è attualmente uno dei Paesi dove si spende di più per le intercettazioni telefoniche. Mediamente 200 milioni di euro l’anno. Secondo quanto riportato in una relazione del Copasir nella scorsa legislatura, ci sarebbero state circa 110 mila utenze sotto controllo. La Procura che effettua più intercettazioni è Napoli (ieri la Commissione incarichi direttivi del Csm ha votato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nuovo capo della Procura partenopea, ndr) dove vengono ascoltati quasi 10mila telefoni ogni anno con un costo di oltre 12 milioni, il 60 percento del budget assegnato dal Ministero della giustizia. Sempre a Napoli c’è il boom dei trojan, i virus spia che trasformano il cellulare in un microfono sempre acceso, i cui costi sono proibitivi: 245 euro al giorno per un Iphone, 175 per un Android. “Vorrei che fosse chiaro che si tratta di accrescere insieme garanzie ed efficienza senza alcun arretramento sul versante delle intercettazioni. Personalmente non conosco intercettazioni inutili, perché sono disposte da un giudice con un provvedimento non privato procedendo per reati gravi”, aveva invece replicato a Nordio il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Un punto su cui Nordio ha intenzione di non mollare sono poi le intercettazioni dei colloqui fra gli avvocati ed i loro assistiti. Il colloquio tra difensore e assistito, come ricordato dal presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, è “inviolabile”, trattandosi di un principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui tale diritto rientra tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica”. Gli escamotage dei pm per utilizzare le intercettazioni (indirette) fra gli avvocati ed i loro assistiti sono molti. Le conversazione captate, ad esempio, devono ritenersi pienamente utilizzabili se, al momento del dialogo tra l’indagato e l’avvocato, quest’ultimo non ne era il difensore e lo sarebbe diventato di lì a poco. La giurisprudenza, in tal modo, ha evidenziato che non esiste una zona di immunità per la quale non è possibile ascoltare i colloqui dei difensori con soggetti privati, pur magari loro abituali clienti. Ed infine, il trojan, il virus informatico che trasforma il cellulare in una super microspia ed il cui uso è stato sdoganato nel 2019 da Alfonso Bonafede, ex ministro della giustizia nel governo Conte. “Non si può escludere che un domani un trojan possa anche alterare i contenuti” del cellulare in cui è inoculato, aveva dichiarato l’esperto di informatica forense, l’ingegnere Paolo Reale, specializzato proprio nei captatori informatici, ascoltato nelle scorse settimane della Commissione giustizia del Senato, dove sarà incardinata la prossima settimana la riforma Nordio. Reale aveva evidenziato anche problematiche tecniche da parte delle società, molte straniere, a cui si affidano le Procure, sottolineando “l’importanza di avere una certificazione, sul rispetto di requisiti base da parte di queste aziende”. “La guerra tra politica e toghe non serve a niente: da noi ok al ddl Nordio” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 8 luglio 2023 Il renziano Ettore Rosato offre una sponda al Guardasigilli: “Gli ultimi casi dimostrano che la giustizia va cambiata”. Vicepresidente Rosato, innanzitutto una precisazione: ha scritto un tweet in cui rifiuta il ruolo affidatole da Matteo Renzi nel “Comitato delle regole” per il nuovo Congresso, e ha detto che non vi siete capiti. Che è successo? Nulla, anche dalle nostre parti ogni tanto si discute, in amicizia. Avete discusso anche con Calenda, ad esempio sul caso Santanché il leader di Azione ha parlato di posizioni politiche diverse ma legittime. È d’accordo? Penso che ci siano delle sfumature di differenza che non tolgono al nostro gruppo di avere delle basi comuni molto solide. Mi auguro che nel momento in cui la mozione di sfiducia arriverà in Aula ci sia un voto compatto del terzo polo. I casi Santanché e Delmastro e la risposta del governo rischiano di far tornare il clima di guerra tra magistratura e politica? Speriamo di non tornarci, perché non sarebbe produttiva né per la politica né per la magistratura né per le riforme. Però certo comunicazioni che dovrebbero restare riservate che gli interessati continuano a leggere sui giornali prima di riceverle sono una realtà che dimostra che il problema esiste e bisogna smettere di parlare di riforme, ma farle. Sul caso Santanché non avete dimostrato collaborazione sulla mozione di sfiducia, come hanno fatto le altre opposizioni. Perché? Credo che garantismo e mozione di sfiducia siano due cose diverse. Il garantismo è un principio che vale per tutti, anche per i ministri. Per i quali poi, come per chiunque faccia politica, valgono delle accortezze in più. E su questo il governo e la ministra si devono assumere le loro responsabilità. Altro è la mozione di sfiducia, che mi sembra sia il modo migliore per compattare la maggioranza. In un caso come questo è un grande, straordinario favore che Cinque Stelle e Pd fanno al governo. Non crede che la compattezza di tutte le opposizioni metterebbe comunque pressione a Santanché, viste anche le riflessioni di Meloni in queste ore? Non so se Meloni stia facendo delle riflessioni, so solo che i presupposti per una mozione devono essere anche omogenei e le cose che abbiamo sentito in Aula dai Cinque Stelle e dal Pd sono poco omogenee alle nostre. Poi la memoria va anche a tutti i ministri che negli ultimi anni si sono dimessi per scandali e inchieste regolarmente archiviate in nulla di fatto. Cito per tutte la ministra Guidi, sulla quale il garantismo della destra non esisteva proprio. C’è poi il caos Delmastro, che ha provocato la dura reazione del governo. Che ne pensa? Devo dire che mi ha molto colpito questa formula dell’imputazione coatta. Per fare su un membro di governo un’imputazione coatta mi auguro che chi la fa abbia elementi nuovi e straordinariamente importanti altrimenti il primo a essere delegittimato è il collega che ha fatto la richiesta di archiviazione. Ma possiamo dire che dopo questa vicenda dobbiamo mettere mano al processo penale in maniera risoluta? Servono procedure più comprensibili, rapide, efficaci, con una semplicità di percorso che valga per la parte dell’accusa e per quella della difesa. Confermate la volontà di sostenere la riforma Nordio in Parlamento? Noi siamo pronti a votare a favore perché erano cose che stavano nel nostro programma elettorale. Se il governo assume un provvedimento coerente con quanto abbiamo scritto nel nostro programma elettorale possiamo solo che essere contenti e votarlo volentieri. Poi lavoreremo con gli emendamenti per affrontare le diverse questioni con spirito critico e di collaborazione. Sperando che venga colto. A proposito di emendamenti, li avete annunciati sulla proposta di legge sul salario minimo presentata dalle altre opposizioni: perché non vi siete uniti? La prendo da un’altra prospettiva. Il problema non è cosa decidono di fare le opposizioni, ma cosa decide di fare il governo. Che ci sia un tema gigantesco di salari bassi in generale e di salari da fame per un pezzo della popolazione italiana penso che sia incontestabile. Perfino alcuni appalti della pubblica amministrazione portano a retribuzioni scandalose. Ma prima di decidere cosa fa l’opposizione, io incalzo il governo nel capire quale sia l’alternativa al salario minimo, quali sono gli strumenti che mette nel piatto il governo per intervenire rapidamente. Senza fare magie, perché nessuno può pretenderlo, ma con un percorso che porti a un risultato. E quali sono le alternative? Siamo chiari, la decontribuzione da sola è utile ma non basta perché costa troppo allo stato. L’abbiamo visto con l’ultimo provvedimento, anche questo utile ma modestissimo in termini di risorse che arrivano nelle tasche dei lavoratori. Noi abbiamo proposto il tema del salario minimo ma ci va bene anche la contrattazione, ci va bene metterla assieme alla decontribuzione e ci va bene aggiungere la defiscalizzazione dei benefit, ma se su questo non c’è un tavolo di governo che assuma decisioni e le trasformi in regole rischiamo di fare solo un dibattito tra le opposizioni. Si sta discutendo anche della commissione covid, con l’abbraccio tra Conte e Speranza e Fdi che dice si occuperà anche degli “effetti avversi” dei vaccini. Commenti? La commissione nasce da una nostra richiesta. Ma è chiaro che il passaggio parlamentare l’ha trasformata notevolmente. Faremo di tutto perché al Senato si ritrovi un equilibrio: non si può pensare di escludere le Regioni da un’indagine seria e non possiamo pensare di sindacare dal punto di vista scientifico la decisione dell’Ema e degli altri organismi internazionali che hanno autorizzato i vaccini. Sarebbe ridicolo. Aggiungo che ho visto un filone di questioni che facevano le pulci ai provvedimenti sul green pass che servono solo a solleticare la pancia ai no vax. Eppure, sui punti di merito che abbiamo sempre messo al centro della proposta questa commissione avrebbe molto lavoro da fare. Veniamo alle questioni economiche, cioè il rinvio di quattro mesi della discussione sulla ratifica del Mes e il Pnrr, la cui terza rata tarda ad arrivare... Sul Mes c’è stato un passo falso del governo. Anche il Mef dice che ratificare quell’accordo conviene, speriamo che tra quattro mesi si ratifichi senza tante polemiche. Sul Pnrr c’è collaborazione piena, da sempre, da parte nostra e mi auguro di tutte le forze politiche. Lo dico anche al governo, che sa di aver trovato un ottimo lavoro lasciato dal governo Draghi. In vista delle Europee siete pronti a un’alleanza con Popolari e Conservatori? Penso che nella campagna elettorale delle Europee non ci siamo nemmeno ancora entrati. Se i liberali faranno un buon lavoro in Europa e in Italia potranno essere veramente competitivi così da scegliere di stare in un’alleanza in cui tutti gli antieuropeisti stiano fuori. Compresi i conservatori quindi, visto che tra le loro fila c’è Vox che di certo non è un partito europeista... Vox non è certamente un partito europeista. Ma attenzione a non semplificare la politica europea sulla base della politica italiana, che già di per sé è complicata. Le famiglie europee nascono a volte su basi solide e condivise, a volte semplicemente per trovare una casa, una che sia. Basta pensare ai Cinque Stelle, che hanno bussato a tutte le porte. Abuso d’ufficio, dalla paura della firma alla paura dell’abrogazione di Lorenzo Pellegrini* e Daniele Piva** Il Riformista, 8 luglio 2023 L’abolizione del reato potrebbe creare dei vuoti normativi e alcuni problemi con il diritto comunitario, oltre che suscitare nei cittadini un senso di impotenza nei confronti della Pubblica Amministrazione. A seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 15 giugno scorso del disegno di legge che mira ad eliminare il delitto di abuso d’ufficio si è passati dalla “paura della firma” alla “paura dell’abrogazione”, forse con toni eccessivamente allarmistici da parte di sostenitori e detrattori. Non c’è dubbio che mentre la travagliata storia della fattispecie, progressivamente delimitata a colpi di riforme (1997 e 2020), costituisce la prova di una continua ricerca di nuovi equilibri tra poteri dello Stato nell’ambito della quale, non è mai venuto meno il sindacato giudiziario sulla “deviazione di scopo” dell’attività amministrativa (tanto che si è efficacemente parlato di “vita, morte e miracoli” dell’abuso d’ufficio, mutuando dal titolo di uno scritto di Tullio Padovani), l’attuale proposta mira, almeno nell’intenzione del Governo, a trasformare il reato in autentico ricordo. Né, a dispetto di quanto paventato, sarebbe tecnicamente possibile, se non al costo di indebite analogie in malam partem, ricondurre i fatti ora rientranti nell’abuso d’ufficio in altri reati dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione rispetto ai quali l’art. 323 c.p. si pone espressamente come sussidiario: tutt’al contrario, si preannunciano possibili vuoti di tutela con riguardo, ad esempio, alle condotte di favoritismo in concorsi pubblici alle quali, non risultando applicabile la turbativa d’asta (art. 353 c.p.), allude una recente pronuncia di Cassazione (Sezione Sesta, depositata il 16 giugno 2023 n. 26225). D’altro canto, l’analisi statistico-criminologica condotta da Cecilia Pagella sulle pagine di Sistema Penale sulle sentenze massimate della Cassazione dal 1997 ad oggi dimostra che, tendenzialmente, l’accusa di abuso d’ufficio, per sopravvenuta prescrizione o meno, non arriva a condanna irrevocabile. L’alleggerimento, da questo punto di vista, riguarderebbe dunque la fase delle indagini preliminari o del processo più che quella coperta dal giudicato. Di qui si palesa l’innegabile abuso, questo sì, di uno strumento per sua natura controverso che però, già in sede di contestazione, determina gli effetti irreversibili connessi al coinvolgimento di un pubblico agente (principalmente il politico, ma anche i cosiddetti tecnici) in un procedimento penale di eco mediatico da cui deriva il rischio di una paralisi dell’azione amministrativa i cui costi, come assaporati nell’esperienza del covid-19 e ora all’orizzonte in vista dei prossimi impegni legati al PNRR, potrebbero rilevarsi fatali. Il punto è se la soluzione dell’abrogazione risulti sostenibile alla luce degli obblighi internazionali e dei vincoli comunitari (dalla Convenzione di Merida del 31 ottobre 2003 all’ultima direttiva contro la corruzione del giugno 2023) rispetto ai quali il Ministro della Giustizia ha tuttavia pubblicamente manifestato, ora come in futuro, possibilità di confronto, apponendo di fatto una riserva sulla riforma in atto. Ma soprattutto se, almeno per chi risulti ingiustamente e volontariamente danneggiato da condotte di semplice abuso, il vuoto di tutela penale sia destinato a compromettere in senso potenzialmente “autoritario” i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione (come afferma Massimo Donini, su l’Unità del 23 giugno 2023) o possa piuttosto ritenersi compensato da futuribili misure di rafforzamento della responsabilità amministrativa, contabile o disciplinare del pubblico funzionario, pur accompagnate da una effettiva opera di semplificazione e sburocratizzazione (da sempre annunciata ma mai veramente attuata). Parimenti, occorre riflettere se l’elevato tasso di archiviazione delle denunce per l’art. 323 c.p. possa supplirsi attraverso una puntuale applicazione delle nuove regole sulla iscrizione delle notizie del registro di reato (art. 335 c.p.p.) ovvero una revisione di quelle riguardanti la priorità nella relativa trattazione (art. 3-bis disp. att. c.p.p.) anziché con interventi di depenalizzazione in teoria sproporzionati: si tratta, in altri termini, di stabilire se il cattivo uso sin qui fatto dello strumento normativo, possa davvero giustificarne l’abrogazione tout court con possibile sovrapposizione del profilo sostanziale su quello squisitamente procedimentale o di progettualità organizzativa degli uffici giudiziari. Una cosa però è chiara: così com’è l’istituto “non tiene”. *Docente di diritto penale **Docente associato di diritto penale Le mani sulla giustizia: lo spettro di uno scenario polacco con l’innesto di quattro giudici costituzionali “patrioti” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 luglio 2023 La strategia è portare il caso Delmastro alla Consulta sollevando il conflitto di poteri. Come all’epoca dell’azione disciplinare dei giudici milanesi del caso Uss, le reazioni più imbarazzate all’escalation di Palazzo Chigi sono venute dai magistrati più conservatori. Le toghe della stessa corrente - Magistratura Indipendente - del sottosegretario Alfredo Mantovano. Del cui stile faticano a trovare traccia nella velina tonitruante uscita l’altra sera da Palazzo Chigi. “Meno proclami e più moderazione”, sibila il segretario della corrente, Angelo Piraino. Anche perché allo stesso gruppo appartengono i procuratori di Roma e Milano, Lo Voi e Viola. Il che dà la misura del clima che si è creato “berlusconizzando” il rapporto governo-magistratura. Attorno alla premier si è maturata la convinzione che ci sia “un’orchestra rossa” a suonare la grancassa giudiziaria. Che quanto accaduto sinora sia solo un’ouverture. Che prima o poi scatterà l’ora fatidica dell’uscita di imbarazzanti intercettazioni. E che insomma i mesi verso le elezioni europee non saranno una cavalcata trionfale, ma un accidentato percorso di cecchinaggio giudiziario. Rossi i pm milanesi, finiti sotto attacco della stampa di destra come ai bei tempi, benché uno di loro abbia recentemente archiviato un paio di querele contro gli stessi direttori di quei giornali. Rossa la gip romana che ha disposto l’imputazione coatta del sottosegretario Delmastro. Rossi i pm che tra Bologna e Firenze stanno tirando il filo nero che dagli Anni 70 si dispiega fino alle stragi mafiose del 1993. Meglio giocare d’anticipo, dunque. Mettendo sul tavolo la pistola carica di una “soluzione finale” che passa dal controllo di Corte Costituzionale, Csm e commissioni parlamentari di inchiesta, dotate di poteri analoghi a quelli giudiziari, da agitare alla bisogna contro oppositori politici e pm sgraditi (vedi caso David Rossi). L’escalation ha origini lontane. Giorgia Meloni, che i giornali li legge, sapeva dall’inizio di novembre che Daniela Santanchè era sotto indagine a Milano per i pasticci societari. E non aveva nascosto la sua irritazione alla ministra, per non esserne stata informata tempestivamente. Quanto al caso romano, più che di complotto si potrebbe parlare di autocomplotto. Il pasticcio è stato creato tutto e solo dal duo Delmastro-Donzelli. La Procura, riluttante, s’è mossa solo dopo gli esposti di Verdi e Pd. Né avrebbe potuto non farlo. L’indagine è stata tutt’altro che pirotecnica: iscrizione non immediata, accertamenti discreti, nessun atto investigativo invasivo. “Cinquanta e cinquanta”, rispondeva un paio di settimane fa un esponente governativo alla richiesta di un pronostico sull’esito. A dispetto della favorevole richiesta di archiviazione della Procura, lo stesso sottosegretario commentava circospetto: “Vediamo, vediamo”. Troppo sdrucciolevoli i parametri giuridici della vicenda: perimetro del segreto e consapevolezza di violarlo. La strategia difensiva di Delmastro era stata concordata con il sottosegretario Mantovano e supportata dall’avvocato penalista Giuseppe Valentino, a sua volta ex parlamentare e sottosegretario alla giustizia, presidente della fondazione Alleanza Nazionale e nei mesi scorsi candidato al Csm, prima di finire impallinato da fuoco amico per un’indagine di mafia. La strategia ricalcava la linea Maginot tracciata in Parlamento da Nordio: parafrasando Boskov, “segreto è quando ministro fischia”. La Procura di Roma l’ha incenerita: non è il ministro, ma la legge, a stabilire che cosa è segreto. E tuttavia aveva salvato Delmastro, perché “poteva non sapere” dell’esistenza del segreto. Una richiesta di archiviazione figlia della riforma Cartabia, che richiede standard probatori più alti per rinviare a giudizio. Ma la giudice ha argomentato diversamente: come si può sostenere, a meno di considerarlo inadeguato al ruolo, che un avvocato penalista, sottosegretario alla giustizia con deleghe delicate, parlamentare da sei anni, presidente della giunta per le autorizzazioni, responsabile giustizia del partito, non sia in grado di apprezzare la segretezza di un documento della polizia penitenziaria? Un gip che sconfessa un pm, esercitando un controllo terzo sul dominus dell’indagine, dovrebbe essere salutato come un magnifico spot liberale del codice Vassalli, cui Nordio non perde occasione di manifestare devozione. Invece ciò che il governo non sopporta è che la magistratura pretenda di stabilire i limiti di segretezza degli atti dello stesso governo. Tanto che qualificati esponenti di Fratelli d’Italia da principio hanno ipotizzato, anche in colloqui riservati e non del tutto amichevoli, di usare l’arma nucleare di un conflitto tra poteri davanti alla Corte Costituzionale. Una Corte che già ora manifesta una forte spaccatura. Tanto che da tre mesi ritarda la decisione su due conflitti tra poteri (Senato contro Procura di Firenze sul caso Renzi; Camera contro Csm su caso Ferri) destinati a ridefinire i confini tra magistratura e politica. Ma che presto cambierà colore. Nei prossimi 18 mesi scadono 6 giudici su 15. Quattro li eleggerà il Parlamento. Cioè la destra. Che, con il non disinteressato aiutino di Renzi, gode di autosufficienza (fino al quorum costituzionale dei tre quinti) e può imporre condizioni draconiane all’opposizione. Come accaduto al Csm. Dove ormai non si fanno prigionieri, come dimostra il colpo di maglio sulla Procura di Firenze. “S’è smarrito il senso istituzionale - confidava ai colleghi il procuratore reggente Luca Turco, dopo il voto irrituale e decisivo del vicepresidente Pinelli -. Il segnale non è solo per noi, ma per i magistrati più giovani. Chi indaga sui potenti paga un prezzo”. Ispezioni e azioni disciplinari ritorsive si sono già viste. Se, come anche Nordio auspica, il caso Delmastro arriverà alla Consulta, troverà ad attenderlo a braccia aperte una nuova Corte. Con massicci innesti di giudici “patrioti”. Uno scenario polacco - controllo governativo su Csm e Corte Costituzionale, clava disciplinare sui giudici non allineati - sanzionato dall’Ue come contrario allo stato di diritto e ancora l’altro giorno definito “preoccupante”. Nelle stesse ore, la premier Meloni a Varsavia si diceva “ammirata” dal collega Morawiecki. Riforma Cartabia, la Cassazione chiarisce le novità in materia di furto aggravato e di appello cautelare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2023 La destinazione a pubblico servizio lascia procedibile d’ufficio il reato. Le novità procedurali riguardano solo sentenze appellate. La Riforma Cartabia nelle sue prime applicazioni offre alla Corte di legittimità la possibilità di affermare principi atti a guidare il lavoro dei giudici di merito a fronte dell’intervenuta novella sia sul piano penale sostanziale che procedurale. Appello cautelare - Il primo caso risolto riguarda la previsione in caso di impugnazione dell’obbligo di presentare dichiarazione di elezione di domicilio oltre a dare al difensore mandato ad hoc per impugnare. Si tratta del comma 1 ter introdotto nel corpo dell’articolo 581 del Codice di procedura penale. Con la sentenza n. 29321/2023 la Corte di cassazione penale chiarisce in primis che la norma della riforma anche alla luce della lettura della legge delega parla di impugnazioni di “sentenze” e decide che l’adempimento introdotto riguarda solo quelle che siano state già pronunciate al momento dell’entrata in vigore della novella. Ma il nodo centrale della decisione di legittimità sta nell’aver escluso che la nuova regola si applichi anche all’appello cautelare con cui si impugna il provvedimento che applica le misure. Per cui la Cassazione bocciando il ragionamento del giudice di merito che aveva invece ricompreso l’impugnazione della misura cautelare nella novità della riforma ha annullato il rigetto dell’appello promosso dal ricorrente e rinviato a nuovo giudizio. Furto aggravato dalla destinazione del bene a pubblico servizio - L’altro caso riguarda la norma della Riforma Cartabia che ha previsto la procedibilità a querela di parte del furto anche nella forma aggravata dell’esposizione del bene alla pubblica fede affermando che tale regola non va estesa all’aggravante della destinazione del bene a pubblico servizio. Quindi il furto commesso in circostanze aggravanti quale la destinazione pubblica del bene lascia il reato perseguibile d’ufficio. L’interpretazione espressa con la sentenza n. 29329/2023 riguardava un furto di energia elettrica. E la Cassazione spiega che l’allaccio abusivo a un terminale posto in una proprietà privata non esclude in sé la destinazione a pubblico servizio del bene energia elettrica. Lazio. Carceri, la relazione annuale del Garante regionale Anastasìa consiglio.regione.lazio.it, 8 luglio 2023 Il Presidente del Consiglio regionale, Aurigemma: “Il tema che affrontiamo oggi riguarda la civiltà del nostro paese”. Un momento della presentazione della relazione annuale del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. Da sinistra: il Garante Anastasìa; il presidente del Consiglio regionale, Aurigemma; Daniela De Robert, membro del collegio che costituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; il segretario generale vicario del Consiglio regionale, Vincenzo Ialongo. “Il tema che affrontiamo oggi riguarda la civiltà del nostro paese, una civiltà che si basa anche sul modo in cui vengono trattate e assistite le persone che sono private della propria libertà personale”. Così il Presidente del Consiglio regionale del Lazio, Antonello Aurigemma, intervenuto stamane in sala Mechelli, per la presentazione della relazione annuale del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, sull’attività svolta negli anni 2021 e 2022. “Pensando anche agli eventi di una decina di giorni fa a Regina Coeli - ha proseguito Aurigemma - l’incontro di oggi diventa importante anche per affrontare il tema della carenza di personale della polizia penitenziaria e del servizio sanitario per le persone che sono private della libertà, in una regione con 14 istituti penitenziari, sei Rems, un istituto per i minori. Questi istituti devono cercare di dare un’altra possibilità. Purtroppo, spesso ciò non avviene. Noi vorremmo invertire questa rotta e cercare, insieme alle istituzioni che sono competenti in materia, nella formazione e nel lavoro, di dare le giuste risposte e individuare il percorso da intraprendere con i vari attori protagonisti”. La lezione del Covid-19 - Presente anche Daniela De Robert, membro del collegio che costituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il Garante Anastasìa ha iniziato la propria esposizione ricordando l’esperienza della pandemia in carcere che “ha interrotto prassi, collaborazioni e attività che è stato difficile riprendere e ha rallentato e affaticato tutti i servizi sanitari”, ma ha anche rotto il tabù del digitale, “consentendo le videochiamate in luogo dei colloqui in presenza, moltiplicando le telefonate oltre la posologia novecentesca dei dieci minuti a settimana, come se i detenuti (e solo i detenuti) dovessero ancora accantonare i gettoni per tutta la settimana da spendere nella telefonata ai familiari che quelli della mia generazione facevano il sabato da universitari fuorisede, nella licenza di leva o nella domenica libera dal lavoro”. A tale proposito, Anastasìa ha ricordato l’iniziativa legislativa nazionale del Consiglio regionale, portata alle Camere nella passata legislatura, per l’affettività dei detenuti, che comprendeva un numero minimo di tre telefonate a settimana per una durata fino a venti minuti ciascuna. Sovraffollamento e condanne per reati meno gravi - Dalla mole di dati contenuti nella relazione del Garante Anastasìa emerge che il Lazio è la quarta regione italiana per numero di detenuti (preceduta da Lombardia, Campania e Sicilia). A fine 2022 le persone detenute nei 14 istituti penitenziari per adulti della regione erano 5.933. La capienza regolamentare complessiva degli istituti penitenziari della regione era di 5.217 posti, con un tasso di affollamento conseguente pari al 114 per cento, leggermente superiore alla media nazionale del 109 per cento. Tuttavia, se si considera il numero di posti effettivamente disponibili sulla base di quanto rilevabile dalle schede di trasparenza sui singoli istituti del ministero della Giustizia, che - a fine 2022 - erano 4.745, il tasso di affollamento raggiunge il 125 per cento, con punte che superano il 150 per cento a Latina, Civitavecchia e Regina Coeli. Il 15 per cento delle persone detenute nel Lazio è in attesa di primo giudizio; un altro 15 per cento con una condanna non definitiva. Il restante 70 per cento ha una condanna definitiva. Sono dunque 4.149 le persone con pena definitiva, e a poco più della metà di loro (il 50,1 per cento) è stata comminata una condanna di durata inferiore ai cinque anni. Si tratta di una percentuale più alta rispetto a quanto si verifica nell’intera Italia (41,8 per cento). Insomma, nella popolazione carceraria del Lazio è più alta l’incidenza di persone condannate per reati meno gravi, rispetto a quanto avviene nel resto del Paese. “Rifiutare il sovraffollamento come condizione naturale dell’esecuzione della pena detentiva - ha dichiarato Anastasìa nel corso della sua esposizione - obbliga a scegliere tra il carcere della extrema ratio, conforme alla Costituzione e riservato agli autori di gravi reati, e l’ospizio dei poveri a cui le nostre carceri sono in gran parte costrette, resistendo alla tentazione del carcere per ogni cosa e scommettendo sulle sanzioni sostitutive e sulle misure di comunità per i reati minori”. Giustizia minorile e strutture fatiscenti - Anastasìa ha ricordato che il sistema della giustizia minorile ha sofferto in questi anni. “Non per una recrudescenza dei fenomeni criminali - ha detto il Garante -, di cui talvolta di parla, a seguito di pur gravissimi casi di cronaca, come l’omicidio della giovanissima Michelle Causo a opera di un suo coetaneo diciassettenne. No, il problema della giustizia penale minorile, visto dal punto di vista del Garante, è innanzitutto parte del problema della mancanza di risorse umane e finanziarie del sistema giustizia. Anche a Roma le strutture sono state fatiscenti al punto di dover chiudere a turno le sezioni detentive per consentirne la ristrutturazione e il rispetto dei più elementari standard di sicurezza, ma il problema più grave nel tempo è stata la mancanza di personale, tale per cui alcuni servizi non possono essere garantiti (per esempio i colloqui in area verde)”. Cpr peggio del carcere - Un mondo a parte, sempre più popolato di ex-detenuti, sono le condizioni del Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria che, ha riferito Anastasìa, “alle persone provenienti dalle carceri fatiscenti e sovraffollate unanimemente sembrano degradanti”. “Nonostante la ristrutturazione relativamente recente del reparto maschile - ha proseguito Anastasìa -, nonostante la sperimentazione di una integrazione tra assistenza sanitaria di base, offerta dall’ente gestore della struttura, e assistenza specialistica garantita dalla Asl Roma 3 e la pur minima apertura del Centro ad associazioni di volontariato, “è indubbio che in gran parte sia così, come dicono i trattenuti: il Cpr è peggio di un carcere. In modo particolare le persone trattenute lamentano la difficoltà di comunicare con l’esterno (ingiustificata per il loro status di semplici irregolari, non di autori di reato in esecuzione penale) e l’assoluta inattività delle giornate, movimentate solo dall’arrivo dei pasti e dalla coda per la somministrazione delle terapie”. Anastasìa ha concluso la sua esposizione con numerose raccomandazioni, rivolte alle amministrazioni a diverso titolo competenti nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, a partire da quella regionale, chiamata in causa per le misure necessarie in materia sanitaria, di politiche attive del lavoro e di programmazione dell’intervento sociale. Infine, il Garante ha presentato la “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari”, realizzata d’intesa con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise, che, ha detto Anastasìa, “speriamo già dalle prossime settimane possa essere negli istituti penitenziari di tutta la regione, a orientare chi si trovi per la prima volta a entrare in carcere”. A cura dell’Ufficio stampa del Garante delle persone detenute della Regione Lazio Venezia. Ingoia un tappo e una pallina del calcetto, brasiliano suicida in carcere di Raffaella Vittadello Il Gazzettino, 8 luglio 2023 L’autopsia conferma la tesi del suicidio. Alexandre Santos De Freitas, il 45enne brasiliano in carcere a Venezia per aver esploso dei mini ordigni in aeroporto, si sarebbe tolto la vita prima del processo per direttissima inghiottendo un tappo di bottiglia e una pallina di calcio balilla. La morte, come stabilito dal medico legale, è avvenuta per soffocamento. L’esame era stato disposto dalla pm Antonia Sartori, sotto la supervisione di un perito nominato dall’avvocato Francesco Schioppa. Non era chiaro, infatti, al momento del ritrovamento del corpo, la causa del decesso visto che non c’erano ferite o lesioni visibili sul corpo. In un primo momento si era pensato alla possibilità di un malore, come spiegato dallo stesso garante dei detenuti Marco Foffano. De Freitas era stato arrestato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Sabato 28 giugno, attorno alle 16.30, il quarantacinquenne brasiliano era arrivato nella zona delle soste brevi, parcheggiando la sua auto in mezzo alla corsia e bloccando gli altri automobilisti, per poi entrare nella zona arrivi dell’aerostazione, dalla quale era uscito qualche minuto più tardi. Nel vedere i carabinieri che lo aspettavano, l’uomo aveva estratto dalle tasche tre petardi, sui quali aveva legato chiodi e viti, e li aveva lanciati contro i militari, urlando: “Vi uccido, sono pericoloso, mi faccio esplodere”. Fortunatamente i petardi non erano andati a segno e il brasiliano era stato bloccato dai carabinieri che, all’interno dell’auto, con l’ausilio degli artificieri, avevano rinvenuto altri petardi con chiodi e viti, innestati per essere il più dannosi possibili. Alle forze dell’ordine aveva raccontato di essere residente da anni in Italia e di sentirsi perseguitato: per questo motivo aveva deciso di mettere in atto un gesto eclatante per attirare l’attenzione. Dopo l’arresto era in attesa di comparire di fronte alla giudice Claudia Ardita per l’udienza di convalida: con molte probabilità sarebbe poi stato rimesso in libertà in attesa del processo in quanto la pena prevista per i reati contestati non prevede normalmente la custodia in carcere. Ma è morto a Santa Maria Maggiore prima di arrivare in aula. Torino. Sporco, affollato e violento: “Al carcere serve l’amnistia” di Federico Gottardo torinocronaca.it, 8 luglio 2023 Situazione e numeri da paura dopo la visita di magistrati e avvocati alle Vallette. Magistrati e avvocati hanno visto con i loro occhi cosa c’è dentro il carcere di Torino: celle sporche, minuscole e sovraffollate, docce comuni gelate, muffe e infiltrazioni, topi e blatte. Un “trattamento disumano e degradante” che ha portato a 329 reclami di detenuti nel 2022, processi per tortura e alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come risolvere? Tre risposte: un’amnistia per il passato, il “numero chiuso” per il presente e depenalizzazioni per il futuro. Numeri da paura - L’esecutivo di Magistratura Democratica ha pubblicato oggi il report su quello che hanno visto durante la visita del 9 giugno, organizzata insieme all’associazione Antigone, alla Camera penale di Torino, al presidente di Giuristi Democratici e alla Garante del Comune di Torino, Monica Gallo. Perché “noi infliggiamo le pene ed è giusto che sappiamo le conseguenze delle nostre decisioni”, come spiega la giudice Giulia Locati. Che prosegue: “Abbiamo trovato una situazione inaccettabile, tragica, disastrosa: le condizioni dei detenuti sono disumane e fuorilegge”. A dirlo sono le continue segnalazioni di gesti autolesionisti, violenze e danneggiamenti all’interno del carcere. L’ultimo caso risale solo a qualche giorno fa, quando un detenuto ha appiccato un incendio. Risultato? Tre agenti intossicati e 80 detenuti evacuati. Ma lo confermano i numeri inseriti nel report di Magistratura democratica: i detenuti sono 1.351 a fronte di 990 posti, con tasso di sovraffollamento del 136% e punte del 191% in certe sezioni. Tantissimi fanno uso di psicofarmaci e poco meno della metà sono stranieri, con 40 nazionalità rappresentate: “Eppure ci sono solo 2 mediatori assunti”. Quasi metà di queste persone è ancora in attesa di giudizio (circa 540, il 40%). Invece sono solo 50 quelle che lavorano all’esterno mentre i lavori interni coinvolgono il 30% dei detenuti. Ancora meno, il 17%, segue corsi professionali. A fronte di questi numeri, gli agenti di polizia penitenziaria sono 723 a fronte di un organico previsto di 870, con un rapporto troppo basso di 1 ogni 46 detenuti. “Pene alternative” - Al di là dei numeri impressionanti, il carcere di Torino viene definito una “polveriera” da anni. Eppure sembra che non cambi mai nulla. La giudice Locati dà la sua soluzione: “Bisogna depenalizzare certi reati e cercare delle soluzioni affinché le pene vengano espiate fuori dal carcere, che deve restare l’ultima opzione. Per la maggior parte dei casi può essere sostituito: un anno di lavori di pubblica utilità servono più di due mesi in cella. Bisogna ripensare il sistema per svuotare le carceri”. Sembra un’ipotesi difficile da realizzare in tempi brevi: “Intanto serve un’amnistia” va dritto al punto l’avvocato Roberto Lamacchia, presidente di Giuristi democratici. E il suo collega Davide Mosso, responsabile Commissione carcere della Camera penale, aggiunge: “Puntiamo anche al numero chiuso: quando il carcere ha raggiunto la capienza, si entra solo quando si libera un posto”. Torino. Sopralluogo alle Vallette dei magistrati: “Il carcere non permette la rieducazione” torinoggi.it, 8 luglio 2023 Dopo Napoli e Firenze, Magistratura Democratica lo scorso 9 giugno ha fatto un sopralluogo al “Lorusso e Cutugno” ed il verdetto è netto: “il carcere di Torino non permette la rieducazione”. Una visita a cui hanno preso parte la Garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo, Antigone, rappresentanti della Camera Penale di Torino e il presidente di Giuristi Democratici. “Un’ottima iniziativa - ha commentato Roberto Lamacchia, presidente dell’associazione nazionale Giuristi democratici - a cui è necessario dare un seguito”. 1.351 detenuti, per una capienza di 990 posti - Oltre all’ispezione - che ha interessato alcune sezioni dei padiglioni A, B, C e F - il gruppo ha incontrato la nuova direttrice Elena Lombardi Vallauri, la comandante Sarah Brunetti, la polizia penitenziaria e gli educatori. Tante le criticità emerse, a partire dal sovraffollamento: a fronte di una capienza di 990 posti, il giorno della visita erano presenti 1351 detenuti. “I detenuti hanno violato la legge, ma in carcere ne sono violate altre” - “La civiltà di un paese - ha commentato Davide Mosso, responsabile Commissione carcere Camera Penale Torino - trova espressione nelle sue carceri: questo è verissimo in Italia. I detenuti hanno violato la legge dello stato, ma quando vanno in carcere ci sono delle norme che sono sistematicamente violate”. Frasi forti, sostenute da numeri: nel penitenziario delle Vallette a marzo 2023 erano state accolte oltre 400 domande, degli ultimi anni, di uomini e donne che lamentavano maltrattamenti. Solo nel 2022 ne sono state presentate 329. I suicidi - “Ben venga - ha aggiunto l’avvocato - che la magistratura veda. Io ho trovato inaccettabile che le parole più ricorrenti durante l’incontro con la polizia penitenziaria fossero: ‘Noi agiamo con umanità’. Prima ti mettono nelle condizioni di suicidarti, poi ti salvano”. L’ultimo atto estremo in ordine di tempo risale allo scorso 29 giugno, quando una donna si è tolta la vita costruendo un cappio artigianale con i propri indumenti. Celle non rispettano standard europei - “La direttrice - ha spiegato Giulia Locati, giudice del Tribunale di Torino - è consapevole delle difficoltà. La Polizia Penitenziaria è sotto organico: c’è un agente ogni 46 detenuti e fanno dei turni estenuanti”. “I carcerati - ha aggiunto - vivono in celle che non rispettano gli standard della Corte Europea: i bagni privati sono senza acqua calda, molte docce non funzionano ed in molti casi non c’è luce naturale che arriva”. 40 nazionalità diverse - Al Lorusso e Cutugno sono ospitate persone di 40 nazionalità diverse: il 40% della popolazione carceraria è straniera, una percentuale più alta della media italiana. “È anche complesso - ha proseguito Locati - mettere nella stessa cella persone di lingue diverse. Il carcere di Torino non permette la rieducazione. È un modo non decoroso di scontare la pena”. “La situazione critica del carcere Lorusso e Cotugno di Torino è nota da tempo e al centro di numerose iniziative parlamentari. Ora il sopralluogo nella struttura di una delegazione formata da esponenti di Magistratura Democratica, dalla garante comunale dei detenuti Gallo, da rappresentanti di Antigone, della Camera Penale di Torino e di Giuristi democratici ha messo in luce come le condizioni non siano compatibili con la funzione rieducativa. Continuiamo a chiedere da mesi in tutte le sedi cosa intenda fare il governo sulla situazione delle carceri italiane, di cui il Lorusso e Cotugno è un esempio e certamente non la struttura in condizioni peggiori. Perché aldilà dei proclami, finora il governo non ha prodotto assolutamente nulla”, commenta la vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando. Mantova. Garante comunale dei diritti dei detenuti: il 10 luglio via alle candidature Gazzetta di Mantova, 8 luglio 2023 L’obiettivo: migliorare le condizioni di vita e d’inserimento sociale delle persone private della libertà personale. È stato emesso l’avviso pubblico per presentare le candidature a “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale” del Comune di Mantova. Questa figura - istituita con apposito regolamento comunale, approvato dal consiglio comunale - opera per migliorare le condizioni di vita e d’inserimento sociale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, per assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali, per garantire il rispetto della dignità e di migliori condizioni di vita nonché per tutelare il diritto al lavoro, alla formazione e alla salute. “Il suo ruolo è inoltre volto a promuovere forme di sensibilizzazione sui temi dei diritti umani, dell’umanizzazione della pena e della giustizia riparativa - spiega una nota del Comune - nell’ottica di avvicinare la comunità locale alle strutture carcerarie e alle persone private della libertà personale”. Le candidature devono essere presentate a seguito di uno specifico avviso pubblicato per almeno trenta giorni all’albo pretorio dell’ente, nonché sul sito istituzionale del Comune. Il garante sarà nominato dal sindaco. I cittadini, in possesso dei requisiti, possono presentare le proprie candidature dal 10 luglio al 31 agosto inoltrando al settore servizi sociali, welfare e sport del Comune di Mantova la domanda, solo a mezzo Pec (all’indirizzo servizi.sociali@pec.comune.mantova.it). La domanda dovrà essere accompagnata da un dettagliato curriculum e dai documenti richiesti nell’avviso pubblico. Il garante resta in carica per il mandato amministrativo del sindaco che l’ha nominato. L’incarico è rinnovabile solo una volta. Per informazioni leggere l’avviso pubblico e gli allegati su www.comune.mantova.it. Cagliari. “Ero ricco, sono finito in carcere per l’eroina: il lavoro mi salverà” di Luigi Alfonso vita.it, 8 luglio 2023 Un ex imprenditore cagliaritano è caduto in disgrazia a causa della dipendenza dalla droga nella quale si era rifugiato dopo alcuni tristi accadimenti familiari. In carcere ha capito di aver toccato il fondo. Ora è disintossicato e, grazie a un progetto di inclusione, cerca il riscatto. Per se stesso e per la figlia da ritrovare “Avevo tutto: un’azienda leader nel settore della vetreria industriale, fondata con mio padre Vittorio; tanti soldi, che mi permettevano di acquistare vetture sportive molto costose. Vivevo nel lusso, insomma. Poi, tutto a un tratto, è cambiata la mia vita: è morto all’improvviso mio padre, due mesi dopo pure il mio fratello maggiore. Come se non bastasse, sono sorti problemi in famiglia. Ho trovato nell’eroina una via di fuga che mi ha fatto precipitare nel baratro. Inevitabilmente, ho commesso alcuni reati legati alla droga e sono stato arrestato e condannato a 4 anni e 8 mesi di reclusione”. Stefano Garau, 59enne di Cagliari, non ha alcun problema a raccontarsi. Ci mette la faccia, nella speranza di poter essere da monito per altre persone. Ora attende con trepidazione la certificazione dell’invalidità in base alla legge n. 68 del 1999. “Ho una leggera zoppìa dovuta a un’artrosi deformante a un piede, e poi problemi alla colonna vertebrale e un’insufficienza varicosa alle gambe. L’Inps mi ha riconosciuto il 47% d’invalidità, il minimo sufficiente per essere inserito nelle liste protette. Dalla visita cui sono stato sottoposto, passeranno al massimo 60 giorni, dunque confido di ricevere buone notizie entro la fine di luglio. Non sto nella pelle”. Il perché è presto detto. Una volta condotto nel carcere di Uta, a pochi chilometri dal capoluogo sardo, Garau ha deciso che era arrivato il momento di voltare pagina. Senza tentennamenti. “Ho ripreso la mia vita in mano”, spiega. “Dopo anni di girovagare per la comunità di recupero, sia in Sardegna che nella penisola, non avevo trovato il modo per tirarmi fuori dalla dipendenza. Ero davvero ridotto male, io stesso mi rendevo conto che ero diventato una brutta persona. Avevo perso non solo le cose materiali ma anche gli affetti: mia moglie, mia figlia, gli amici. In carcere mi sono guardato allo specchio e ho comunicato alla direzione che non intendevo proseguire con la terapia di disintossicazione: basta con le droghe ma anche con i farmaci e con tutto ciò che non è prodotto dal mio corpo. All’inizio non avevano compreso la mia decisione, sembrava che fosse soltanto un gesto di ribellione. Mi hanno pure richiamato più volte. Poi si sono arresi, forse perché hanno visto la mia determinazione. Da cinque anni sto bene, ho pure ripreso la mia forma: peso 105 chili, ero arrivato a soli 54 nel pieno della mia crisi: io, che sono alto un metro e 84, ero davvero irriconoscibile. Lo shock dell’ingresso in carcere, avvenuto per la prima volta a 54 anni, mi ha svegliato di colpo. Non avevo neppure i soldi per comprare le sigarette”. Il 30 settembre 2022 è stato scarcerato in anticipo, per buona condotta. Ma il vero colpo di fortuna è arrivato quando la cooperativa sociale Elan di Cagliari ha proposto un progetto nell’istituto minorile di Quartucciu e nella Casa circondariale di Uta, al quale ha partecipato anche Garau. L’iniziativa è denominata “Lav(or)ando”, un gioco di parole che mette in risalto il ruolo centrale che hanno giocato le lavanderie industriali all’interno delle due strutture. “Il progetto, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud, è stato avviato nella primavera del 2020 ed è nato per favorire il recupero sociale e dare un’occasione di riscatto a ventiquattro persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro inserimento nelle lavanderie di Uta e Quartucciu e, a seguire, in imprese del territorio disponibili ad accoglierli”, spiega Elenia Carrus, vicepresidente e responsabile dell’area inclusione della cooperativa sociale Elan. “Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare il tessuto imprenditoriale sul tema dell’inclusione socio-lavorativa delle persone detenute. Sinora hanno aderito sei imprese che approvano i princìpi dell’economia civile e si riconoscono nei valori espressi dalla Carta di Firenze dell’Economia civile: il Tecnocasic (una Spa a compartecipazione pubblica), la Fondazione Domus De Luna (che gestisce l’Oasi Wwf di Monte Arcosu), la Kimera cooperativa sociale e la Quattro Mori Srl del gruppo Conad: sono aziende ospitanti ma non hanno ancora formalizzato la loro adesione al marchio. Intanto lavoriamo in collaborazione con l’Aidda, l’Associazione di donne imprenditrici e dirigenti d’azienda”. Il marchio etico solidale “Lav(or)ando 100% inclusione sociale” è stato depositato presso il ministero delle Imprese e del made in Italy. Favorisce il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, punta a favorire il superamento dei processi di esclusione sociale dei detenuti e aumentare il livello di sicurezza sociale collettiva collegata al calo del tasso di criminalità e di recidiva. Tra gli obiettivi anche l’accrescimento della sensibilità verso il tema dell’inclusione della responsabilità sociale d’impresa e la riduzione della spesa pubblica e dei costi sociali ed economici di un detenuto. Stefano Garau aveva chiesto di poter lavorare durante la detenzione. L’anno scorso è stato inserito in un tirocinio al Tecnocasic di Macchiareddu, grazie al progetto Lav(or)ando e alla disponibilità dell’amministratore unico Sandro Anedda e il direttore delle risorse umane Antonio Pili. “Un tempo ero impresentabile, capisco perché mia figlia sia arrivata a levarmi il saluto. Ma spero che, con il tempo, riesca a perdonarmi e comprendere lo sforzo che sto facendo. Non perdo la fiducia. Oggi ha 28 anni, la maturità la aiuterà a valutare la situazione. Sono tornato quello di un tempo, la vera comunità è stato il carcere: mi ha dato la giusta consapevolezza di ciò che ero diventato. Ma la vera fortuna è stata la cooperativa Elan: i suoi operatori mi hanno preso per mano e indicato la strada. Senza di loro, non so francamente se sarei riuscito a risollevarmi”. Da settembre, e in attesa di poter essere assunto dal Tecnocasic, Garau è ospite di una residenza del sistema di accoglienza a bassa soglia, a Cagliari. Di lui ora si stanno occupando anche la Caritas e i servizi sociali del Comune. “Non ho un lavoro, al momento, dunque non ho i soldi nemmeno per invitare una pizza alla mia nuova compagna. Spero di poter ritrovare in pieno la mia dignità di uomo. Il Tecnocasic, dopo la Saras, in Sardegna è una delle aziende più importanti a livello industriale. Per me è un onore avere questa opportunità. Devo ringraziare il direttore generale, Stefania Lecca, perché è una manager competente ma anche una persona con una spiccata sensibilità”. È la stessa Lecca a spiegare i motivi di questa assunzione, Inps permettendo. “Ho cercato di improntare la mia azione attraverso un’empatia diffusa nei confronti di tutti i lavoratori del Tecnocasic, compreso Stefano. All’interno dell’azienda bisogna stare bene, dunque occorre creare una fiducia che poi ci portiamo anche a casa. In tutto questo vedo ricadute di comunità sociale, ecco perché curiamo il rapporto con il personale, compreso quello a tempo determinato. Come compartecipata pubblica possiamo selezionare il personale soltanto attraverso bandi pubblici oppure attingendo dalle liste della legge 68: nel caso di Garau, questa è l’unica opportunità di inserimento lavorativo. Siamo rimasti soddisfatti di ciò che ha fatto nei nove mesi di tirocinio da noi: uno da detenuto e otto da persona libera. È stato impiegato sia al centralino che all’accettazione, dunque nel front office del Tecnocasic. Si è rivelato un uomo educatissimo, cordiale, che sa esprimersi molto bene e mostra empatia. Una persona splendida. Siamo pronti ad aderire ad altri progetti di inserimento lavorativo, in modo che altre persone svantaggiate possano fare un percorso come questo”. “Che cosa mi resta di tutta questa esperienza? A parte la disperazione, che ogni tanto riaffiora, ho capito che non devo usare sostanze”, è la riflessione di Stefano Garau. “È la mia vita che dimostra che posso fare qualunque cosa, se non sono dipendente da quelle porcherie. Il mio carattere forte mi sta sorreggendo, ma non potrò mai dimenticare l’aiuto che Elan e la Caritas mi hanno dato in carcere. La responsabile del magazzino del carcere di Uta (Donatella Barella, zia del calciatore Nicolò Barella, ndr) per me è stata una seconda mamma. E l’operatore di Elan, Giacome Loche, un vero fratello. Smettere di drogarsi durante la detenzione è difficilissimo per tutti. Ho pensato a mio padre, di sicuro mi avrebbe rimproverato. Di certo, il sistema penitenziario italiano non aiuta a redimersi”. Milano. “La mia voce per chi vive un tempo sospeso” di Maria Laura Giovagnin Corriere della Sera, 8 luglio 2023 Abbiamo seguito il workshop che il mezzosoprano ha tenuto con i giovani dell’istituto Penale minorile di Milano, assieme alla Fondazione Francesca Rava. “La musica ha il potere di aprire i cuori e trasformare le persone” ci ha spiegato. “Casa nostra era sempre piena di musica - papà dirigeva il coro di una chiesa - e non avrei potuto immaginare una vita senza le note. La parola “vocazione” per noi - cattolici - era importante e ho sempre pensato che la mia fosse quella per l’insegnamento: il palcoscenico mi pareva troppo da egoista - e troppo divertente! (sorride) - per rappresentare la scelta giusta. All’università ero piena di dubbi e, a un certo punto, ho chiesto consiglio a mio padre. “C’è più di un modo per educare le persone” mi ha risposto: questa consapevolezza è stata la stella polare che mi ha guidato nella carriera”. Joyce Didonato ci spiega così perché oggi è qui, a Milano, in duplice veste: quella assai nota di mezzosoprano, protagonista del concerto-spettacolo Eden al Teatro alla Scala (con il ricavato devoluto alla Fondazione Francesca Rava-Nph Italia ETS), e quella di tutor in un workshop all’istituto Penale per i Minorenni Cesare Beccaria (vedi riquadro alla pagina seguente). Un’esperienza cui non è nuova, avendo già collaborato con Sing Sing, nello Stato di New York, e con il Chicago’s Illinois Youth Center. “La musica è un dialogo senza parole: ha il potere di aprire i cuori delle persone, di trasformarle, consentendo di esprimere quel che di sacro - benché a volte represso - c’è in loro” dice, mentre disbriga le formalità per l’accesso. “Ma la musica è un mezzo per arrivare a questi giovani e “accendere” la speranza, non un fine. Mica ci aspettiamo che diventino rapper famosi come Tedua! Ognuno deve scoprire il proprio talento. Noi lavoriamo sull’empowerment nel tempo sospeso che trascorrono qui, il che significa contribuire alla “ripartenza” con il desiderio di essere cittadini attivi, responsabili della loro vita, non vittime passive” precisa Mariavittoria Rava, fondatrice e presidente della Fondazione Francesca Rava. Passati i controlli di sicurezza, la prima meta di Didonato è il giardino per un gesto che non è puramente simbolico: il dono di un acero e di semi di arbusti da fiore. L’altro settore in cui il mezzosoprano cerca - unendo arte & attivismo - di fare la differenza, è infatti la difesa dell’ambiente: “La natura, esattamente come la musica, ci mostra la strada. Una strada contraddistinta da armonia ed equilibrio”. Cinque giovani, in rappresentanza dei 40 detenuti, la attendono per la piccola cerimonia “Ragazzi, questa è una star pazzesca!” la presenta Delfina Boni, project manager del progetto “Palla al Centro”. “Però non come Beyoncé, eh: canto le opere” si affretta a puntualizzare Joyce. “Non piacciono a tutti, ma a me parecchio... Sembra che trattino di amore e passione, in realtà nascondono temi ancora più profondi: sono un grido per l’umanità”. E conclude con un augurio: “Spero che non vediate crescere queste piante”. Se vi vengono in mente le immagini di Mare fuori, la serie cult sull’i.p.m. di Nisida, rischiate di andare fuori strada, e non soltanto perché il Beccaria è interamente maschile: “Qui c’è più tristezza - e più noia - che nella fiction” conferma un’operatrice. Sguardo basso & autostima - Secondo atto: trasferimento nella coloratissima palestra, ristrutturata - come il giardino - per iniziativa della Fondazione Rava. Lì sono già in attesa alcuni musicisti dell’orchestra il Pomo d’oro e Mike Roberts, il docente della mitica Guildhall School of Music and Drama di Londra che ha tenuto laboratori preparatori nei giorni precedenti. I ragazzi si presentano uno a uno, con una stretta di mano o con il “pugno contro pugno”. “Difficilmente guardano negli occhi: tengono lo sguardo basso di chi non ha mai avuto qualcuno che credesse in lui e, di conseguenza, non crede in se stesso. Si stupiscono addirittura del fatto che ricordiamo i loro nomi!” ci fa notare Mariavittoria. “Il 90 per cento è detenuto per reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine: nella nostra Italia, nella nostra Lombardia c’è anche la povertà vera, quella per cui non mangi. Non hanno avuto le stesse opportunità dei nostri figli. L’incoraggiamento è fondamentale per ricostruire l’autostima e le competenze tecniche, apprese nei vari corsi, sono essenziali per porre le basi dell’avvenire”. Il magnetismo di Händel - Didonato ora chiede il silenzio assoluto, ma non sarebbe stato necessario: appena intona l’aria di Händel Ombra mai fu, improvvisamente ognuno si immobilizza, magnetizzato. Poi però tocca a loro diventare protagonisti, e non è facile prendere coraggio dopo aver sentito una voce così straordinaria. Il primo si alza solo dopo i ripetuti incoraggiamenti dei compagni, sia quelli verbali sia il “tun tun” sulle scatole di cartone su cui sono seduti, concepite per essere usate come strumenti a percussione. “Rappa” su un suo testo, che è una sintesi autobiografica: racconta di un padre morto quando era piccolo, di un crimine commesso per leggerezza da un bambino che non si rendeva conto e invoca il perdono della madre... Joyce lo ascolta commossa. “Ora però canta tu, la tua voce ci mette la pace dentro” la invita un giovane, e non poteva esserci migliore conferma delle teorie sul valore terapeutico della musica. “Non c’è bisogno di avere un background culturale: le lacrime sgorgano e noi non sappiamo perché. Le vibrazioni vanno diritte al cuore, non all’ego” osserva Didonato. (Come tiene a bada il suo, di Ego, ce lo spiegherà dopo, ridendo: “Gli dico: Shut Up! Basta. Ricordati la missione, ricordati che sei in servizio!”). Il workshop continua in un’alternanza di vocalizzi, esercizi, in un ping pong continuo fra classica e Freestyle. Fuori programma, Didonato propone un’improvvisazione sulla celeberrima Over the Rainbow, lanciata da Judy Garland in Il mago di Oz. “Somewhere, /over the Rainbow...”. Joyce invita uno dopo l’altro a intonare il ritornello, ma un ragazzone dall’aria spavalda non se la sente: prima che sia il suo turno, si alza e se ne va. Poi però dal corridoio si sente il suo canto a squarciagola: “Somewhere, /over the rainbow...”. Malgrado l’apparenza, non è rimasto insensibile al potere delle note. Anzi. “Bravò!” esclama Joyce. Uno spazio di libertà - “Cosa l’ha colpita di più oggi?”, le chiediamo alla fine. “La capacità della musica di offrire loro uno spazio in cui sentirsi al sicuro e in cui potersi esprimere, soprattutto quando il volume si alza e copre quelle parole che sono timorosi di pronunciare. Garantisce una sorta di libertà che al momento non hanno. È stato profondamente toccante - e molto potente - sentire uno chiedere scusa alla mamma: ci vuole coraggio, ci vuole forza per chiedere scusa! Cantare è una medicina, la più efficace e senza effetti collaterali. Metti un bambino in un coro e non devi dargli il Ritalin (il farmaco usato per il trattamento del disturbo da deficit di attenzione e l’iperattività, ndr)!”. Didonato ci racconta di un detenuto di Sing Sing che non aveva mai ascoltato un’opera in vita sua e adesso un’opera l’ha scritta, ed è stata già rappresentata alla Carnegie Hall. “Spero che qualcosa cambi anche per i giovani del Beccaria grazie alle varie attività. Non abbiamo sicurezze su come andrà a finire, ma sappiamo di sicuro come andrà a finire se non daremo loro queste possibilità”. Non è un paese per giovani e donne, anche l’Istat lo certifica di Riccardo Chiari Il Manifesto, 8 luglio 2023 Il rapporto annuale dell’Istituto nazionale di statistica. Molte più ombre che luci. Il presidente Francesco Maria Chelli: “Molte disuguaglianze a livello economico, sociale e territoriale si sono purtroppo consolidate o si sono aggravate, e nuove forme di povertà possono emergere” Ascensore sociale in rottura prolungata, record di Neet. “Molte disuguaglianze a livello economico, sociale e territoriale si sono purtroppo consolidate o si sono aggravate, e nuove forme di povertà possono emergere”. Presentando a Montecitorio il “Rapporto Annuale 2023. La situazione del Paese”, il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli tratteggia una realtà che solo con molto ottimismo può essere definita migliore dell’anno precedente, quando peraltro l’Istituto di statistica aveva messo nero su bianco i guasti legati alla precarietà di massa, all’insicurezza sociale e contrattuale, e alle disparità crescenti dei redditi, colpiti in aggiunta dai primi segnali di quella che sarebbe diventata una inflazione galoppante. L’Istat rileva che, appena uscita dalla pandemia, la società italiana nel corso del 2022 si è trovata di fronte a nuovi problemi. “Il forte rincaro dei prezzi dell’energia e delle materie prime, accentuato dal conflitto in Ucraina, ha condizionato l’evoluzione dell’economia, con rilevanti aumenti dei costi di produzione per le imprese e dei prezzi al consumo per le famiglie. Nonostante l’attenuarsi della fase più critica, l’andamento dell’inflazione condizionerà l’evoluzione dei consumi e dei salari reali nel prossimo futuro”. Anche senza utilizzare il termine extraprofitti, l’istituto registra che sul fronte energetico l’Italia è stata uno dei paesi più colpiti dagli aumenti dei prezzi. In particolare dell’elettricità “domestica”, con un +72,4% in due anni, record nell’Ue. “L’impatto - puntualizza l’Istat - è stato relativamente più pesante per le famiglie con più bassi livelli di spesa”. Così nel 2022 il 17,6% delle famiglie a rischio povertà non ha riscaldato adeguatamente casa, e il 10,1% ha ritardato il pagamento delle bollette. Se anche i dati del Pil (+3,7% nel 2022 e +0,6% nel primo trimestre di quest’anno), portano l’Istat a prevedere un +1,2% per quest’anno e +1,1% per il prossimo, si accentuano le disparità che penalizzano soprattutto i giovani e le donne che non vengono messi/e in condizioni di lavorare. E se pure aumentano gli occupati (tasso al 61%), con più tempi indeterminati e autonomi e meno tempi determinati - lo scorso anno in cifra record di quasi 3,2 milioni - la crescita è stata trainata dai lavoratori più anziani. “Tra il 2004 e il 2022 in Italia il tasso di occupazione tra i 15 e i 34 anni si è ridotto di 8,6 punti (al 43,7%). Per i 50-64enni, invece, il tasso di occupazione è aumentato di 19,2 punti (al 61,5%)”. Effetto diretto di una pensione sempre più lontana nel tempo. Un altro dato assai preoccupante è quello legato alla rottura, prolungata, dell’ascensore sociale. Chi nasce povero resta povero, visto che quasi un terzo degli adulti tra i 25 e i 49 anni a rischio povertà proviene da famiglie che erano in condizioni critiche. Inoltre quasi un giovane su due (47,7% dei 10 milioni e 273mila 18-34enni) mostra almeno un segnale di deprivazione in uno dei “domini” chiave del benessere: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio. Mentre più di 1,6 milioni (pari al 15,5% dei 18-34enni) sono multi-deprivati. La fascia di età più vulnerabile, va da sé, è quella dei 25-34enni, che hanno davanti passaggi impegnativi - specialmente in Italia - come l’ingresso nel mondo del lavoro, l’uscita dalla famiglia, l’inizio di una vita autonoma, la scelta di dar vita a una famiglia e di diventare genitori. Anche se tutto filasse per il verso giusto, non saranno comunque rose e fiori: in Italia la retribuzione media annua lorda per dipendente è di quasi 27 mila euro, inferiore del 12% a quella media Ue. E tra il 2013 e il 2022 la crescita totale delle retribuzioni lorde annue per dipendente è stata del 12%, la metà della media europea. Una stagnazione dei salari reali che affligge il paese da decenni, Così l’Italia invecchia e le nascite calano ancora dell’1,1%, con la popolazione che conta 58,8 milioni di residenti di cui l’8,6% stranieri. Ultimo dato fortemente negativo è quello dei “Neet”, 1,7 milioni di giovani, record europeo. Nel dettaglio un giovane su cinque tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non è inserito in percorsi di formazione, le ragazze più dei ragazzi. La fascia di età più interessata è quella tra i 25 e i 29 anni, i residenti nel Mezzogiorno sono il 27,9% e gli stranieri il 28,8%. Migranti. La Cassazione spacchetta il maxi-processo alle Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 luglio 2023 Smentita la tesi dei pm di Trapani. “Ci sono episodi da valutare singolarmente, ma non c’è il raccordo tra le Ong per realizzare attività illecite che aveva immaginato la procura”, dice l’avvocata Francesca Cancellaro. La Corte suprema di Cassazione prima sezione penale ha stabilito ieri che il maxi processo alle Ong che si stava svolgendo a Trapani, ancora in sede di udienza preliminare, deve essere diviso tra più tribunali. La sede processuale, come del resto prevede la Costituzione con il principio del giudice naturale, andrà stabilita in base al luogo di svolgimento dei fatti. O meglio: in questo caso in base a dove sono avvenuti gli sbarchi al termine dei soccorsi incriminati. “Dobbiamo aspettare le motivazioni della Cassazione ma sembrerebbe che il teorema secondo cui a monte c’era un accordo tra tutte le Ong, quindi l’assunto per cui è stato creato questo maxi processo, si sia sgretolato. Ci sono episodi da valutare singolarmente, ma non quella rete immaginata dai pm su un modus operandi comune e un raccordo tra le diverse organizzazioni allo scopo di realizzare attività illecite”, commenta l’avvocata Francesco Cancellaro, che difende l’equipaggio della nave Iuventa (sequestrata nell’agosto 2017 nell’ambito di questa indagine). La vicenda penale riguarda tre Ong: Iuventa, Msf e Save The Children. La prima resta a giudizio a Trapani. La seconda a Trapani e Palermo. La terza a Trapani, Castrovillari, Ragusa e Vibo Valentia. Nessuno degli indagati, comunque, dovrà difendersi in diverse sedi. Nel caso di coinvolgimento in più di un episodio sarà processato dove si è verificato il primo sbarco. Dei procedimenti contro le Ong che salvano vite nel Mediterraneo centrale questo è il più importante. Perché ha a che fare con tre soggetti e diversi episodi relativi al biennio 2016-2017. Perché è stato utilizzato dalle destre e dai detrattori del soccorso civile in mare per alimentare la mai dimostrata teoria dei contatti tra trafficanti e organizzazioni umanitarie. Perché è l’unico, insieme a quello che riguarda Mediterranea per un evento del 2019, che potrebbe determinare un rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tutti gli altri sono stati archiviati prima. Questa evoluzione segna un punto a favore delle difese. I filoni trasferiti presso altri tribunali dovranno ricominciare da zero. Sebbene gli indagati non potranno contare sulla prescrizione del reato principale. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato, infatti, prevede pene fino a 20 anni e dunque i tempi per l’estinzione del reato sono estremamente lunghi. Ammesso ci sia un rinvio a giudizio, cadranno invece le accuse di contorno. Come il falso ideologico. Non si prescrivono gli illeciti amministrativi contestati agli enti coinvolti. Con lo spacchettamento la vicenda rischia di perdere l’importanza mediatica che ha avuto finora. La prossima udienza si svolgerà a Trapani venerdì prossimo, il 14 luglio. Il giudice per le indagini preliminari (Gip) del tribunale siciliano comunicherà alle parti come intende procedere. Il conflitto che fa rimpiangere l’equilibrio della Guerra Fredda di Domenico Quirico La Stampa, 8 luglio 2023 L’invasione di Putin ha provocato una geografia internazionale informe, un caos globale dove la forza è l’unico criterio nel rapporto tra le nazioni. Lo so: è un azzardo. Ma sono tentato di fronte ai rischi inesplorati della guerra mondiale in atto, ai quotidiani subbugli e spargimenti di sangue, dal redigere nientemeno che un paradossale elogio della Guerra Fredda. Come aspirazione a un equilibrio nelle relazioni tra i Grandi, a un ritorno a quella che fu, seppure precaria e gonfia di cupezze e loschi compromessi, una condizione di tregua durata quasi mezzo secolo. Il Male minore. Insomma lo strano lievito della Guerra Fredda era portatore anche dei summit periodici, dei travagliosi e produttivi appuntamenti a Helsinki, Vienna e Ginevra, del virtuoso cammino del reciproco disarmo. E l’Onu serviva ancora a qualcosa, almeno come immobiliare sede del discutere. E ora, nel terzo e sgangherato Millennio? Sono diventate cerimonie impossibili, sostituite da forsennate, reciproche adunate guerrafondaie, da sguaiati discorsi di acquirenti di volgarità militaresche e di vittorie totali, che non hanno purtroppo accettato di farsi rudere. Gli appelli churcilliani di Fulton sembrano, al confronto, invocazioni pacifiste. Per scendere sul biografico, Kennedy e Kruscev, che furono i protagonisti di quel rassicurante Freddo, mi paiono più rassicuranti di Putin e di Biden. Mi si ammonisce: ti fai adescare da termini ormai logori, ideologie invecchiate dai tempi del Muro, figure sclerotiche di una storia geopolitica già ipotecata dal lieto fine che fu, allora, anno domini 1989, la vittoria dell’Occidente. Quel che è fatto è fatto. Di più: perché tirar su dalla cantina modelli screditati o peggio ancora trappole micidiali? Non ci saranno, sotto sotto, le solite stagionate nostalgie dei Politburo affollati di ex rivoluzionari decrepiti, dei misteri moscoviti decifrati dai cremlinologi, delle magnifiche sorti del socialismo ahimè! reale, e del Mondo Libero senza se e senza ma? Purtroppo la guerra in Ucraina ha messo in piedi una geografia internazionale informe dove l’Ordine americano del dopo Ottantanove, arrogante e subito sfiancato da omissioni, asinerie e ritirate, spasima e si indebolisce; leghe e alleanze, Nato, Unione europea, l’Eurasia russo-cinese, i non allineati, sono come abiti troppo stretti o troppo larghi. E siamo orfanelli della posticcia Weltanschauung globalista, di quel monumento all’Acquisto senza frontiere che era il nostro trastullo, di mondo ben fornito di palanche e passaporto: assassinato dalla prepotenza putiniana senza che la pietra del sepolcro possa miracolosamente spalancarsi. Siamo impantanati, gli ucraini, i russi, noi, nella guerra di usura, la più costosa in perdite umane e la più soggetta al rischio che qualcuno giochi la carta del tutto per tutto per svellere i piedi dal fango. È un caos che ha i suoi segni, i suoi messaggi, i suoi geroglifici. Che sono il ritorno alla forza come criterio nel rapporto tra le nazioni; la formazione di blocchi contrapposti economici, militari, culturali, disumani; la edificazione di una trincea dal Baltico al mar Nero attraverso cui ci scarmigliamo scambiando cannonate e messaggi di reciproca negazione; il ritorno in gran voga di dittatorelli munificati dalla geografia e dal sottosuolo che si vendono a gran prezzo all’uno e all’altro in cambio di omertà e immunità. Mi accorgo che, se non si è ipnotizzati dai centimetri di carta geografica persi e rubati che sono sanguinanti ferite sulla pelle degli ucraini, ho appena descritto i veri obbiettivi di guerra di Putin. Che in questo mondo trova, purtroppo, una sua permanente ragione di esistere. E forse per questo bisognerebbe riconoscerlo già vincitore. Ben oltre i misteriosi golpe del Cuoco. Erano i connotati anche della Guerra Fredda ma li si era aggiustati all’interno di un sistema di regole, scritte e non, che ne limitavano i rischi, a iniziare da quello della Apocalisse. Perchè il confronto veniva legato a terrene e transeunti ideologie, comunismo e liberismo, e non riportato come oggi a teologiche sfide finali tra il Bene e il Male. Era un sistema pratico che ha impedito lo scontro atomico per mezzo secolo e ha, ad esempio, reso possibile tra l’altro lo smantellamento del colonialismo. Con tutti i suoi limiti, bugie e vergogne costituiva una armatura chiusa che dava in fondo una sensazione di sicurezza esponendosi al fuoco della concorrenza tra i due giganti armati di atomiche. Forse il modo per impedire che la guerra sul terreno diventi senza fine, e per non consentire a Putin conquiste di fatto, è quello di un vertice tra Grandi che metta a punto un sistema di equilibrio, fissi nuovi spazi reciproci di sicurezza, eviti avventure catastrofiche, sapendo che nel confronto tra sistemi le idee diventano ipertrofiche e corrono spesso a un estremo pericoloso. Dal 24 febbraio viviamo in una età sommamente e pericolosamente retorica. Arte che, tra l’altro, consiste nell’attribuire al prossimo e a noi stessi per ingannarlo meglio sentimenti che esso non ha e di persuaderlo a crederci. Si muovono le opinioni pubbliche in base a problemi mal posti, a ipotesi interessate, a dilemmi posticci. La resa incondizionata o la vittoria totale per esempio. Dalle due parti, atlantista e moscovita, per paura di servitù ipotetiche, dubbie siamo chiamati ad accettare violenze presenti e sicure. E il circolo vizioso della stupidità coatta. Capisco che un regime come quello russo abbisogni per sopravvivere del “nemico alle porte”, della “lotta all’ultimo sangue”; ma che le democrazie vi si acconcino, ecco due buoni esempi di retorica pericolosa. La macchina bellica nelle piane ucraine lavora con metodica lentezza rugginosa. Ogni giorno ne stiamo in ascolto come animali nel bosco. Sul campo di battaglia ci si dissolve come una boccata di fumo, a migliaia. Penso alle città ucraine sparite e ai loro ruderi enormi, di cui solo gli archeologi potranno ricostruire la topografia originaria e gli innesti con la vita. Domanda: sarà davvero questo il mondo nuovo? Quello in cui le generazioni della de-globalizzazione si preparano a entrare è dunque lo stesso del nostro e lo rimarrà per un pezzo? Con la Bomba, le dittature, i venditori di cannoni che ingrassano, i popoli denutriti, le polizie persecutrici, la liquidità delle idee, la tentazione di sfuggire al disastro accettandolo e facendone una morale. La Francia ha paura: vietata ogni marcia in ricordo di Adama Traoré, ucciso dalla polizia nel 2016 di Niccolò Zancan La Stampa, 8 luglio 2023 Proteste nel Paese, la sorella del giovane: “Il prefetto getta benzina sul fuoco”. Nella Francia delle rivolte sta suscitando polemiche la decisione delle autorità francesi di vietare la marcia annuale in omaggio ad Adama Traoré, il ragazzo nero morto durante un fermo di polizia nel 2016. Il prefetto di Parigi firmerà questa mattina una ordinanza per vietare lo svolgimento della manifestazione in suo ricordo, prevista per le 15 di questo pomeriggio in place de la Republique nella capitale francese. Lo apprende l’emittente Bfmtv. A chiedere il corteo era stata Assa Traoré, sorella del ragazzo ucciso. La manifestazione era inizialmente prevista nel Val-d’Oise, ma anche qui era stata vietata ieri dal tribunale amministrativo. Così il partito La France insoumise aveva riconvocato la manifestazione nel centro di Parigi. Assa Traoré aveva presentato un ricorso per direttissima al tribunale amministrativo contro il divieto impartito dal prefetto della Val-d’Oise. “Spero che i giudici prendano la giusta decisione: è un raduno commemorativo, prezioso e necessario per tutta la famiglia”, aveva dichiarato la donna intervistata da Franceinfo. In un contesto già reso incandescente dalle rivolte urbane seguite alla morte di Nahel, il diciassettenne ucciso da un poliziotto il 27 giugno a Nanterre, alle porte di Parigi, Assa Traoré ha accusato adesso la prefettura di “gettare benzina sul fuoco” e di “cedere al panico”. La manifestazione in omaggio ad Adama, divenuto in questi ultimi anni simbolo delle violenze di polizia, era stata indetta per questo pomeriggio nei comuni di Persant e Beaumont-sur-Oise, nel settimo anniversario del suo decesso. Evocando le violenze urbane degli ultimi giorni, il prefetto di zona, Philippe Court, ha giustificato il divieto sottolineando il rischio di “gravi turbative all’ordine pubblico”. Adama Traoré era morto il 19 luglio 2016 nel cortile della caserma di Persan, ad una trentina di chilometri a nord di Parigi, poco dopo il suo arresto da parte dei gendarmi al termine di un inseguimento. La morte del ragazzo - su cui la giustizia deve ancora pronunciarsi - aveva portato a diverse notti di rivolte nei comuni di Persan e Beaumont-sur-Oise. “Lo stato di diritto? In Tunisia sta morendo nel deserto” di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 8 luglio 2023 L’intesa tra Ue e Tunisia contestata dalle organizzazioni umanitarie preoccupate per la deportazione dei migranti. Per la prima volta da inizio anno a Tunisi le temperature hanno superato i 40 gradi. Lungo il deserto al confine con Libia e Algeria si è arrivati anche a 45. In questo momento in quella fascia di terra ci sono 700 persone di origine subsahariana senza acqua e cibo. Le prime deportazioni di massa da parte delle forze di sicurezza locali sono cominciate il 2 luglio prima che la situazione nella città di Sfax, l’epicentro dei disordini di questi giorni, degenerasse completamente. È quindi arrivata l’ora di porsi una domanda: queste persone saranno ancora vive? Nel mentre i contatti diretti si fanno sempre più sporadici e la società civile tunisina non ha ancora registrato un singolo caso che sia riuscito a raggiungere una città del sud della Tunisia dal deserto. I fatti sono chiari: da giorni si registrano casi di respingimenti collettivi lungo la frontiera libica e algerina da parte della polizia, impegnata a caricare a Sfax cittadini di origine subsahariana su degli autobus per poi abbandonarli in una zona militarizzata inaccessibile anche alle agenzie delle Nazioni unite. Il quadro più ampio coinvolge l’intera città, uno dei punti più strategici per le partenze verso Lampedusa, dove da quasi una settimana si registrano casi di violenze e aggressioni di ogni tipo. Dopo la morte per accoltellamento di un cittadino tunisino di 38 anni, la bomba sociale è definitivamente esplosa. Human Rights Watch ha fatto appello alle autorità a interrompere queste deportazioni senza ottenere risposta. Nel frattempo persone originarie dell’Africa occidentale e del Sudan hanno riempito la stazione dei treni di Sfax per cercare riparo altrove. Alcune lo hanno trovato in uno dei quartieri bene della capitale nello spiazzo davanti alla sede dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e si sono aggiunte alle altre centinaia di ragazze e ragazzi (inclusi bambini e neonati) che da mesi non sanno dove andare dopo il duro discorso di Saied lo scorso 21 febbraio contro la comunità subsahariana. “Io sono arrivato questo giovedì da Sfax”. A parlare è Aboubakar, 23enne dalla Sierra Leone. La seconda città del paese gli ha lasciato un conto molto duro da pagare: un braccio rotto, alcuni denti anche e vistose ferite alla testa. “Mercoledì stavo camminando in città per tornare a casa e all’improvviso mi sono trovato circondato da alcuni giovani tunisini. Hanno cominciato a colpirmi al viso e poi su tutto il corpo con dei bastoni. Mi hanno preso il telefono e rubato i soldi che avevo in tasca. Appena uscito dall’ospedale ho preso il primo treno per Tunisi. Prima di salire la polizia ha registrato le impronte di tutti. Ora mi trovo qui a dormire insieme ad altri miei conoscenti senza neanche una tenda”, prosegue Aboubakar. SFAX è terra che rifiuta ma che sa anche mostrare il suo lato più accogliente: sono centinaia i tunisini che hanno offerto un aiuto concreto alle persone in difficoltà. Quello che manca senza dubbio è una presa di posizione della sponda nord del Mediterraneo, in primis l’Unione europea. Un’istituzione che fino a poco tempo fa era impegnata in fitte trattative con il presidente Saied per un memorandum d’intesa che prevede un appoggio economico da quasi un miliardo di euro per incentivare gli investimenti e rafforzare le frontiere esterne del paese. Dopo mesi di visite di Stato europee ma soprattutto italiane, al momento non è ancora stata registrata alcuna reazione politica. Un silenzio che fa porre un’altra domanda alla società civile tunisina: cosa comporterebbe questo accordo per il paese? “Innanzitutto c’è un problema di trasparenza - racconta a il manifesto Antonio Manganella, direttore regionale EuroMed di Avocats sans frontières - la prima questione sono i termini di questo accordo. Se ci affidiamo alle dichiarazioni pubbliche non si capisce e tutto è il contrario di tutto. Non si riesce a capire chi ci guadagna tra europei e tunisini. Solo una cosa è chiara: lo stato di diritto non interessa più. La politica estera europea sta morendo in quel pezzo di deserto. L’Ue sta negoziando con un paese del vicinato strategico con un dittatore a seguito di un colpo di Stato fatto due anni fa”. C’è un altro elemento che in questi mesi ha tenuto alta l’attenzione: la definizione di Tunisia come paese sicuro da parte di diversi attori internazionali, in primo luogo l’Italia. Un concetto privo di contenuti ma che è cominciato a essere smentito dalle diverse segnalazioni arrivate in questi giorni da Sfax: “Sono arrivati a casa [i tunisini, ndr]. Domani se non sono più raggiungibile è perché mi hanno aggredito e preso il telefono. È impossibile chiudere gli occhi, siamo in pericolo. Buonanotte”.