“Abbiate il coraggio di fare un’amnistia” di Angela Stella L’Unità, 7 luglio 2023 Morello (Csm): “Servirebbe a far ripartire la macchina, come servirebbe una seria depenalizzazione. Ma la politica teme di perdere consenso, così negli ultimi 30 anni ha lasciato il cerino in mano ai giudici. Per una toga non c’è nulla di peggio di un processo mediatico”. Intervista a Tullio Morello, membro togato del Csm in quota Area, già Presidente della V sezione penale al Tribunale di Napoli. Cosa ne pensa del primo ddl Nordio? La riforma per come prevista innanzitutto mi lascia perplesso perché non accelererà di un giorno nessun processo in corso, come invece ci è stato chiesto dall’Europa. È l’ennesima riforma che non crea un beneficio al processo penale né lo rende più efficiente. Sono riforme, ad esempio quella dell’abolizione dell’abuso di ufficio, viste bene dalla politica usa non so quanto dai cittadini. Questo reato come quello di traffico di influenze nascevano dall’esigenza di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione e l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’Anm ha denunciato che mancano magistrati e risorse strumentali per attuare come si deve le riforme del civile e del penale. Non ci si poteva pensare prima? Sicuramente c’è un problema tutto italiano: ogni Governo fa la propria riforma e contemporaneamente deve gestire quella del precedente. Invece la giustizia avrebbe bisogno di stabilità. Ovviamente delle riforme ci sono state anche richieste dall’Europa, penso alla digitalizzazione e accelerazione dei processi, e richiedono degli investimenti che l’Italia fino ad ora non ha fatto. Il Csm sta facendo la sua parte con tavoli tecnici con cui cerchiamo di affrontare tutte le problematiche e segnalarne al Ministero della Giustizia. Comunque ci saranno nuovi concorsi… Ma il problema è adesso e va avanti da molto. Mancano in Italia 1.400 magistrati. A Napoli decine e decine. E in un ufficio grande la carenza si sente ancoro di più. L’ufficio di cui ero coordinatore, quello del dibattimento penale, ha carenze di 30 giudici. Sono numeri che gridano vendetta. Da un lato c’è carenza di giudici dall’altro lato però aumentano i reati perseguibili, ingolfando le carceri. Non è contraddittorio? Sicuramente. Una delle poche cose positive imposte dall’Europa - perché non so fino a che punto le abbiamo maturate intimamente noi italiani - è quello della giustizia riparativa che tende a creare un po’ una deflazione della pena, intesa come restrizione. Il problema grosso è che siamo troppi pochi e dobbiamo gestire migliaia di fascicoli. Gestiamo numeri enormi e siamo troppi di noi ad interessarci di un singolo processo. È un lusso che il sistema non può permettersi. Quali sono le soluzioni? Una seria depenalizzazione di reati che hanno disvalori penali minimi e che potrebbero prevedere sanzioni amministrative e multe che possono avere una efficacia più deterrente nella mente di chi viola la norma. E poi spesso la pena neanche viene eseguita perché il processo si prescrive. Il problema risiede anche nelle norme previste dalle leggi speciali. L’altro strumento sarebbe l’amnistia che consentirebbe di ripartire ad una macchina andata fuori giri. Essa avrebbe anche il pregio di far svuotare le carceri che stanno vivendo un momento davvero critico. Depenalizzazione e carcere come extrema ratio erano anche nel programma di Nordio ma non condivise dal partito che lo ha fatto eleggere, ossia Fratelli d’Italia… Io dico quello che penso da operatore tecnico del settore. Su depenalizzazioni e amnistia anche l’avvocatura è d’accordo. Bisogna avere il coraggio di dire che il sistema così com’è non funziona. Negli ultimi 30 armi la politica ha lasciato il cerino in mano al giudice perché fare una seria depenalizzazione o un’amnistia avrebbe rischiato di far diminuire il consenso elettorale. Poi quegli stessi cittadini se la prendono con i giudici che sono spesso costretti a sancire la prescrizione: questo è più comodo per la politica. Secondo il Garante Palma “dobbiamo riflettere, infatti, come un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e applicato all’ambito penale abbia portato in anni recenti all’estensione dell’area del controllo penale, pur in presenza della riduzione numerica dei reati più gravi”… Purtroppo ogni vicenda che viene enfatizzata sulla stampa e in tv porta poi molto spesso alla creazione di nuovi reati. False emergenze vanno ad ingolfare un codice già saturo. Il 34% dei detenuti totali è in carcere per la legge sulle droghe: quasi il doppio della media Ue. Quasi la metà di loro è tossicodipendente. È quanto emerso dalla quattordicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe presentato da organizzazioni della società civile. Concorda con la necessità di politiche di decriminalizzazione per ridurre anche il sovraffollamento? Le carceri sono piene di tossicodipendenti. Sono piene degli ultimi, dei rifiuti della società, delle persone che hanno più problemi. Certo, una decriminalizzazione potrebbe essere una soluzione e non sono il solo a pensarla così. L’altro giorno c’è stato uno scontro tra Riccardo Magi di +Europa e la premier Meloni sul tema della legalizzazione della cannabis. Sarebbe favorevole? È un tema scivoloso che si presta a più interpretazioni. Il contrabbando di sigarette esiste comunque, nonostante nei circuiti tradizionali sia legale la vendita di sigarette. Sicuramente un po’ servirebbe a contrastare il fenomeno criminale ma non basterebbe per vincere definitivamente la lotta alla criminalità organizzata. La battaglia si vince soltanto dotando le forze di polizia e gli organi inquirenti e chi deve assicurare la giustizia delle strutture e uomini necessari. Inoltre occorre creare le basi culturali affinché non sia più favorevole nella testa di qualcuno associarsi ad un clan invece che studiare e lavorare onestamente. In carcere ci sono troppo suicidi. Chi e dove si sbaglia? I detenuti purtroppo non riescono a ricevere quella rieducazione che dovrebbero avere attraverso percorsi di studio e di reinserimento lavorativo. Le condizioni disagiate sono poi anche degli operatori e gli educatori. Tutto questo è indecente in uno stato democratico. Come è indecente la mancata attuazione della riforma delle Rems. Qualche giorno fa proprio a Napoli un giudice è stato aggredito verbalmente mentre leggeva una sentenza e uno degli avvocati difensori è stato preso a schiaffi dai parenti della vittima… È una cosa vergognosa quella accaduta a Napoli. Come ho detto ai giovani magistrati che mi sono stati affidati negli anni: massimo rispetto per il dolore di ogni persona offesa ma il protagonista del processo è l’imputato. Abbiamo il compito difficilissimo ma anche il privilegio che la legge ci dà di giudicare vicende umane e decidere se una persona è colpevole o innocente. E lo dobbiamo fare col massimo rispetto verso l’uomo imputato. Esistono fatti aberranti ma le persone non sono aberranti. Il disappunto dell’opinione pubblica verso sentenze assolutorie e pene diminuite non dipende anche dalle aspettative create da pur a volte troppo zelanti nella comunicazione? È un circolo vizioso che viene alimentato da questo e anche dalla voglia della stampa di creare sensazionalismo. Il processo mediatico penso che sia la cosa peggiore che possa capitare ad un giudice che deve avere spalle larghe per gestire un processo che ha l’attenzione dei media. Decreto anti-rave party, nuovo ergastolo ostativo, respingimenti. Che giudizio dà? La nostra Costituzione è invidiata in tutto il mondo e anche l’indipendenza della magistratura e l’eguaglianza tra i cittadini dinanzi alla legge; ma è anche la meno attuata, pone principi bellissimi spesso disattesi da alcune leggi e dalla pratica quotidiana. Questo governo sta facendo una politica di destra, è chiaro. Ma la Costituzione è inattuata ormai da sessant’anni. Due giorni fa il nuovo Procuratore di Firenze è stato nominato con il voto decisivo del vice presidente del Csm Pinelli… Tutti e tre i magistrati in corsa erano figure eccellenti. Ma quando si decide per una nomina lo si fa per l’ufficio che andrà a dirigere. Squillace conosceva quell’ufficio per averci lavorato e anche bene. Ci sono rimasto male perché il vice presidente per la prima volta ha esercitato - seppur legittimante - il suo diritto di voto, anche se non lo aveva mai fatto, ed è stato decisivo. Non abbiamo condiviso quanto da lui detto: “oggi faccio una eccezione e lo farò in futuro per le pratiche più importanti”. Le pratiche sono tutte importanti, altrimenti dal Csm parte un messaggio sbagliato facendo ritenere che una nomina sia più importante di un’altra ed è inaccettabile. Suo padre è stato estensore della sentenza che ha assolto Enzo Tortora. Lei ha raccontato che dopo quella decisione fu isolato. L’ambiente è ancora così malsano? Non saprei. Erano altri tempi. Non si sono stati da allora processi così eclatanti. Resta il fatto che ieri come oggi il giudice deve essere indipendente; l’indipendenza è nella nostra coscienza e nella nostra forza. Al di là di tutto dobbiamo creare anche noi un sistema che sappia tutelare la nostra indipendenza, ponendo delle regole che aiutino il giudice ad essere indipendente. In che senso? Penso alle regole di assegnazione dei processi: quando l’assegnazione di un processo ad un giudice viene fatta ad personam da un dirigente non so poi fino a che punto sei indipendente. Le carceri non siano i nuovi manicomi di Irene Testa Il Dubbio, 7 luglio 2023 Appello al Presidente Mattarella. Illustre Presidente, chi Le scrive è la Garante delle persone private della libertà della Regione Sardegna. Scrivo a Lei in quanto garante dei principi costituzionali, in particolare del rispetto della dignità umana che passa anche attraverso il diritto alla salute di tutti i cittadini, anche dei cittadini che hanno sbagliato. Non appena insediata, dal mese di febbraio di quest’anno, ho condotto visite in tutte le carceri dell’Isola e in questi giorni ho concluso il primo giro con la visita nel carcere di Uta a Cagliari, avvenuto poche ore fa. Il bagaglio di conoscenza e di esperienza di questi pochi mesi, che mi porto appresso, è molto difficile da trasmettere: quanto hanno visto i miei occhi e udito le mie orecchie mi risulta difficile da descrivere. Ma so che è mio preciso dovere provare a farlo, anche se questo dovesse suscitarLe orrore, cosa per cui mi scuso in anticipo ma che ritengo in un certo modo necessaria. Oggi, ad esempio, ho incontrato, nella sezione transito nel carcere di Uta a Cagliari, un detenuto di soli 18 anni, con problemi psichiatrici, che è stato arrestato perché schiaffeggiava le signore sull’autobus e alcune volte è stato sorpreso a mettere le mani nelle borsette. Con lui non si riesce a parlare - non la sottoscritta, ma neanche gli operatori - e questo rende difficile persino individuare la patologia da cui è affetto. Ho poi incontrato Claudio, affetto da infermità mentale media, che entra ed esce di continuo dal carcere, dove dà sfogo alle sue frenesie allagando la cella e i corridoi della sezione con acqua e litigando con il detenuto della cella vicina, anche lui, a sua volta, soggetto psichiatrico. Non sono i soli con problemi psichiatrici più o meno gravi: urlano, scagliano liquidi, bevande, alimenti, rompono i materassi e gli arredi. Inutili risultano in questi casi i vari Consigli di disciplina e le relative sanzioni disciplinari, perché molti di questi soggetti non ne comprendono il significato. E a dire il vero non lo comprendo neppure io: come si può pensare di trattare un malato psichiatrico secondo le misure di convivenza forzata, disciplina e sicurezza di un carcere? Come possiamo pretendere che la cura adatta a questi malati possa avvenire rinchiusi in celle, dove al limite, per limitare i danni che possono infliggere a se stessi e agli altri, vengono loro sottratti arredi e materassi? Aggiungo, quindi: come possiamo pensare di lasciare soli gli operatori e i direttori a gestire situazioni fino a tal punto deliranti, privi di strumenti idonei? Nel carcere di Bancali, a Sassari, che ho visitato recentemente, la situazione forse è ancora peggiore. Un detenuto malato psichiatrico aveva lanciato nel corridoio un panino farcito con i suoi escrementi. Un altro, dopo essersi strappato un’unghia dal piede, la esibiva come un trofeo, nella sua cella sporca di sangue. Un detenuto fissava il muro da settimane, un altro sosteneva di aver fatto rivoluzionarie scoperte archeologiche e protestava perché nessuno gli crede. Le celle dove sono rinchiusi questi malati sono sporche, le pareti variamente imbrattate. Questo non per incuranza degli operatori o perché non vengono effettuati i giusti sopralluoghi. No. Semplicemente perché ci sono malati con forme gravissime che non dovrebbero stare lì. Purtroppo, il problema dei malati psichiatrici nelle carceri non è un problema che riguarda solo territorio della Sardegna: è diffuso in tutti gli istituti della penisola, ma capita anche che detenuti da altre regioni vengano spostati come pacchi postali nelle carceri sarde per l’osservazione psichiatrica. Al riguardo, gli unici dati che si riescono ad avere sono quelli delle associazioni che a vario titolo si occupano di carcere. Emerge che: nei 109 istituti di pena italiani, circa il 70% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% si tratta di una patologia psichiatrica. Mentre oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci. In assenza di dati ufficiali, che qualora esistessero non sono comunque svelati, Signor Presidente, non si tratta quindi certo di un fenomeno circoscritto, ma il numero dei malati in carcere è davvero impressionante. Come si risponde a tutto questo? Tra i mille problemi connessi al mondo della pena detentiva, una straordinaria urgenza deve rivestire la questione dei malati psichiatrici. Come Lei ben sa, il suo predecessore, il Presidente emerito Giorgio Napolitano, diede un grande contributo per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari: ebbe a definirli luoghi dell’orrore e aveva senz’altro ragione. Come però spesso accade nel nostro Paese, molte riforme rimangono incompiute. Così è stato dopo la chiusura degli Opg. Le Rems, le strutture che dovevano quindi curare questi soggetti con patologie psichiatriche autori di reati, non sono state create in numero sufficiente. Il risultato è che oggi le carceri sono diventate i nuovi manicomi. Occorrono più Rems, con l’individuazione anche di strutture filtro che siano una via di mezzo tra carcere e Rems, che possano essere luoghi di cura e non di tortura. Presidente Mattarella, non so se leggerà queste poche righe e non so se riterrà di intervenire in questa situazione. Le posso dire con certezza che l’amore per il diritto e la legalità mi portano in ultimo a essere con determinazione Garante dei diritti soprattutto degli ultimi. E proprio per questo, non sarò il Garante di questo scempio della dignità umana, delle leggi e del diritto. Rems: la tutela della salute mentale dentro e fuori il carcere di Silvia Proietti piuculture.it, 7 luglio 2023 Il tema delle Rems interroga la complessa questione della gestione della salute mentale in Italia dentro e fuori dal carcere. 632 persone sono attualmente ospitate nelle 31 Rems sorte sul territorio, e 675 sono in lista di attesa: questi i dati che emergono dall’ultima Relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sono state istituite con la Legge 81/2014 a seguito della definitiva chiusura nel 2013 degli OPG, Ospedali Psichiatrici Giudiziari, un “residuo manicomiale” sopravvissuto alla legge Basaglia definitivamente accantonato dopo anni di scandali e denunce in ambito nazionale ed europeo. “Con le Rems si è venuta a risolvere quell’ambiguità tra tutela della salute ed esigenza securitaria che caratterizzava gli OPG, in cui gli internati venivano trattati nello stesso tempo da malati e da normali detenuti sottoposti alla vigilanza della polizia penitenziaria”, spiega Michele Miravalle di Antigone. Le Rems sono strutture di un masssimo di 20 posti letti, gestite interamente da personale sanitario, deputate a ospitare persone non imputabili perché incapaci di intendere e di volere al momento dell’esecuzione del reato e, secondo una nozione ormai obsoleta, definite socialmente pericolose. Attualmente la capienza totale di posti letto ammonta a circa 650 unità. “Le Rems dovrebbero configurarsi come una tappa temporanea all’interno di un percorso di riabilitazione, che inizia con la presa in carico da parte dei servizi socio-sanitari territoriali sulla base di un Piano terapeutico riabilitativo individualizzato (PTRI). In questo senso diventano una delle tante opzioni di gestione del paziente psichiatrico colpevole di reato, equiparabile a quelle offerte dall’universo delle comunità riabilitative. Ma senza un ruolo forte dei servizi sanitari territoriali e senza un’effettiva presa in carico c’è il rischio di riproporre l’ambiguità del modello OPG, soprattutto in assenza di una seria volontà di un aggiornamento del codice penale. In un contesto come quello italiano, contraddistinto da uno dei più bassi livelli di spesa pubblica in salute mentale in Europa, si tratta di un problema non da poco”. Liste di attesa: problema o tutela? Tra i destinatari di un provvedimento di ricovero in Rems figurano sia persone accolte in misura di sicurezza provvisoria - cioè ancora in attesa di sentenza definitiva - che in misura definitiva. Secondo i dati dell’ultima Relazione al Parlamento del Garante nazionale il 46,7% degli attuali ospiti di Rems sono in misura di sicurezza provvisoria, contrariamente al principio per cui le Rems dovrebbero accogliere prioritariamente persone destinatarie di una misura definitiva. “Questa questione è strettamente correlata all’altro grande tema delle liste di attesa. Bisognerebbe infatti chiedersi: quanti dei destinatari di misura provvisoria attualmente in Rems avrebbero potuto essere assegnati a comunità terapeutiche? Allo stesso modo: quante delle attuali persone in lista di attesa, nella maggior parte dei casi ospitate in comunità terapeutiche, potrebbero venire confermate nelle stesse comunità ospitanti? Prerequisito per questo ragionamento, tuttavia, è una seria presa in carico sul piano sanitario - soltanto per il 46% dei pazienti accolti in Rems è stato redatto un piano terapeutico riabilitativo, ndr - che permetta al magistrato di poter valutare la soluzione migliore.” La presenza di nutrite liste di attesa, che a prima vista può apparire come una stortura del sistema sanitario italiano, a ben guardare assume un risvolto, se non totalmente positivo, quantomeno ambivalente. “Le liste di attesa molto lunghe sono legate al proposito di non superare il limite massimo di 20 posti letto per struttura, derogato solo dal sistema poli-modulare di Rems di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, che ospita 156 pazienti, cioè il 27,4% del totale degli internati italiani. L’imposizione di questo limite è una novità importante se confrontata con il cronico affollamento cui sono sottoposte le carceri italiane”. Salute mentale e carcere nel dibattito pubblico - Quello delle Rems è un universo composito, caratterizzato da una varietà di soluzioni. Sebbene gestite interamente a livello sanitario, per quanto riguarda le attività di sicurezza e vigilanza esterna si avvalgono di specifici accordi con le prefetture stabiliti a livello locale. Molte le soluzioni adottate: si va dalle strutture inserite in un contesto urbano a quelle costruite lontano dai centri abitati; da quelle con poche restrizioni a quelle che mostrano un approccio più securitario. Le Rems restano, come riconosciuto dallo stesso Garante nazionale, ancora “acerbe nel dibattito pubblico”. A favorire questa scarsa attenzione al fenomeno concorre il loro porsi a confluenza di due grandi rimossi dal discorso pubblico: il carcere, tema dominato quasi esclusivamente dall’ossessione securitaria, che trova piena manifestazione nel noto adagio del “buttare via la chiave”; e il problema della tutela della salute psichica, che sembrava essersi affacciato all’orizzonte nei duri mesi della pandemia per poi scomparire al rientrare dell’emergenza sanitaria. Secondo i dati del XVIII Rapporto Antigone, il 40,4% dei detenuti nelle carceri italiane è sottoposto a terapia psichiatrica. Analogamente fuori dal carcere, secondo il Mind Health Report 2023 redatto da AXA, soltanto il 18% degli italiani dichiara di trovarsi in uno stato di pieno benessere mentale: si tratta del valore più basso, insieme a quello del Giappone, tra 16 paesi analizzati. Carceri di Busto Arsizio e di Perugia, altre due morti scoperte solo “per caso” di Riccardo Arena* Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2023 Una telefonata di una madre disperata e una lettera di una persona detenuta coraggiosa. In questo modo “RadioCarcere” in onda su RadioRadicale ha scoperto, un po’ per caso e non grazie alla tanto declamata “trasparenza”, della morte di altre due persone detenute. Una telefonata e una lettera senza le quali questi decessi in carcere sarebbero rimasti sconosciuti, nascosti, come forse lo sono tanti altri. E così, lunedì 3 luglio a RadioRadicale arriva la telefonata della signora Nadia che, con la voce di una madre distrutta, parla di suo figlio che il 6 giugno è morto nel carcere di Busto Arsizio. Si chiamava Ettore Dante Bosoni, aveva solo 29 anni e soffriva di una malattia psichiatrica. Ora, e per capire le cause di questo decesso, si dovrà attendere il risultato dell’autopsia anche se la mamma di Ettore nutre più di un sospetto e vuole soprattutto capire perché suo figlio è morto in carcere a soli 29 anni. Passano poche ore, e tra le tante lettere che arrivano dalle carceri c’è quella scritta da Ivan, che è detenuto nel carcere Capanne di Perugia. Ivan che scrive: “Cara RadioCarcere, ti scrivo per informarti che qui pochi giorni è morto un detenuto tunisino e qui in carcere gira la voce questo ragazzo sia morto per un’overdose da sostanza stupefacente. Un’ipotesi questa che a noi detenuti non ci scandalizza, visto che qui si spaccia qualsiasi tipo di droga, ma che ci rattrista soprattutto perché nessuno ne ha parlato come se la nostra vita non contasse nulla”. Ebbene, dopo aver verificato questa segnalazione (operazione che non è mai facile!) è arrivata la triste conferma: giovedì 15 giugno nel carcere Capanne di Perugia è morto un detenuto per una presunta overdose da sostanze stupefacenti. Il suo nome era Saber Zouaoui, aveva 32 anni ed era di nazionalità tunisina. Da quanto abbiamo appreso pare che Saber, che prima era detenuto nel carcere di Terni, da pochi giorni era stato trasferito nel carcere perugino per poter fare i colloqui con la moglie e i 2 figli. Morale, non solo altri due morti nelle carceri, ma anche due morti che, se non fosse stato per la telefonata di una madre disperata o per una lettera di un detenuto coraggioso, sarebbero rimaste sconosciute, come tante altre. Ci si chiede: nelle carceri italiane, oltre alla negazione dei diritti della persona, è anche negato il diritto all’identità di chi perde la vita? *Direttore di RadioCarcere Giustizia, ora quella riparativa è possibile di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 7 luglio 2023 Per essere completa, per arrivare a compimento, la legge sulla giustizia riparativa, approvata lo scorso autunno , aveva bisogno ancora di alcuni provvedimenti attuativi; e due di questi provvedimenti, due decreti, sono stati ora emanati nei giorni passati (e pubblicati giovedì sulla Gazzetta ufficiale). Non sembra dunque destinata a rimanere solo un’intenzione, questa legge: una legge annunciata ma non realizzata, come troppo spesso purtroppo succede alle nostre leggi. Ora sta diventando a tutti gli effetti una legge anche concretamente applicabile; salvo il fatto che in ogni caso spetterà poi a tutti coloro che operano nella giustizia (dai giudici agli avvocati, agli stessi mediatori) farla vivere di vita propria, nella quotidianità. Farla entrare nel corpo vivo delle cose, inscriverla nei nostri orizzonti quotidiani. Ma cos’è, la giustizia riparativa? Detto nel modo più semplice possibile, è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva. Bisogna essere molto chiari, al riguardo, anche perché questo è un piano che spesso ha generato e genera equivoci: la giustizia riparativa non intende sovrapporsi alla legge; non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici, e tantomeno intende contestarle. Al contrario: il rispetto della legge e delle sentenze ne rappresenta il presupposto che la orienta. Il fine della giustizia riparativa è quello di offrire ad autori e vittime dei reati, a patto che lo vogliano, quello spazio e quel tempo che i processi non contemplano, non prevedono: quello spazio e quel tempo all’interno dei quali autori da una parte e vittime dall’altra possano recuperare, alla presenza di un mediatore “equiprossimo”, la possibilità di un confronto e di un dialogo, per riempirli anche solo di sguardi e silenzi e non per forza di parole. Ma sul presupposto, appunto, che i fatti siano chiari, e che altrettanto chiare siano le responsabilità e la loro assunzione. La giustizia riparativa, come infatti si dice, opera non “al posto” ma “all’insegna” della legge. Potrà scaturirne un accordo, o perfino un perdono (pur nell’ambiguità di significati che la parola “perdono” porta con sé quando venga usata al di fuori di una sfera solo intima e personale, a maggior ragione quando venga evocata in ambito giuridico). Ma tutto questo comunque appartiene all’eventualità, e non alla necessità: una riconciliazione sarà sempre possibile, insomma, ma l’esito riparativo di cui parla la legge potrà avere il contenuto più vario. Cosi come, da parte sua, l’autorità giudiziaria potrà sempre valutare liberamente tale esito, qualunque fosse, senza esserne vincolata. Naturalmente ha molto detrattori, la giustizia riparativa. È inevitabile, quando gli ordini dati, i nostri orizzonti più abituali, vengono scompaginati da nuovi modelli che li mettano in discussione. È questo quello che fa la giustizia riparativa, la quale riguarda specificamente il diritto penale ma a ben vedere richiama il diritto all’interrogazione di se stesso molto più in generale: lo induce a ricordarsi che la sua funzione non dovrebbe essere quella di chiudere la realtà dentro una successione di norme tecniche, bensì quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze. La tentazione (sbagliata) del muro contro muro di Massimo Franco Corriere della Sera, 7 luglio 2023 Le accuse anticipano nuovi veleni ed espongono ogni potere alla strumentalizzazione dell’altro. La freddezza che si percepiva al Senato durante il discorso di Santanchè, indagata a Milano, è un segnale. Bisognerà capire quali costi politici il governo, e in particolare la premier Giorgia Meloni, riterrà di poter pagare per difendere il ministro del Turismo di FdI, Daniela Santanché. E non tanto per arginare l’offensiva di opposizioni confuse e divise. Piuttosto, il problema di Palazzo Chigi è di evitare che la vicenda venga utilizzata in un conflitto sotterraneo nella propria maggioranza: tanto più in vista delle Europee del 2024. La freddezza che si percepiva al Senato durante il discorso di Santanchè, indagata a Milano, è un segnale. E l’”imputazione coatta” del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, pure di FdI, di cui si è avuta notizia ieri, ripropone una questione più generale. L’accusa è di avere rivelato al compagno di partito Giovanni Donzelli notizie riservate riguardanti l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di carcere duro. Il tema, tuttavia, finisce per riflettere la difficoltà di ristabilire rapporti normali tra politica e magistratura: tanto più per una forza come FdI, additata in passato di essere troppo dalla parte dei giudici. L’idea che i tempi della politica siano condizionati da provvedimenti giudiziari riaffiora come una maledizione. E si tratta di una maledizione non solo per gli eletti ma per gli stessi magistrati. Ma il cortocircuito è in agguato. Palazzo Chigi reagisce all’imputazione di Delmastro dicendo che “è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Sono accuse che anticipano nuovi veleni. E espongono ogni potere alla strumentalizzazione dell’altro. La tentazione di rispondere radicalizzando la dialettica, abbozzando riforme che suonano punitive, può avere effetti-boomerang. Invece di sanare l’anomalia, la perpetuano e la estremizzano, prefigurando un conflitto dal quale uscirebbero sconfitte sia la politica sia la giustizia. La stessa tendenza a brandire il “garantismo” come bandiera contro l’invadenza dei magistrati promette di provocare soprattutto malintesi e polemiche. Suona come reazione a un “giustizialismo” cresciuto all’ombra delle forze populiste; e fonte di conflitti che hanno lasciato una scia di incomprensioni e veleni tuttora in circolazione. Ma dare la sensazione di replicare un muro contro muro ereditato dal passato, pensando di farlo da posizioni di forza, invece di guarire un rapporto anomalo promette di alimentarlo e di offrirgli un alibi. Per il governo, riuscire a sottrarsi a questo cortocircuito che esalta soltanto le posizioni più radicali non sarà facile. Eppure dovrà provare a farlo per non diventarne vittima. La tregua è finita: così i casi Santanchè e Delmastro riaccendono il conflitto tra toghe e politica di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 luglio 2023 La premier Meloni infuriata con la sua ministra ma anche con i pm per la fuga di notizie pilotata che ha reso un calvario l’informativa della titolare del Turismo. Il caso non è chiuso e lo sanno tutti, probabilmente lo sa anche la diretta interessata, Daniela Santanchè. A conti fatti il passaggio in aula si è rivelato un autogol. L’accorata invettiva della ministra contro gli agguati della magistratura e della stampa non hanno fatto presa. La sensazione generale è che se Daniela Santanchè non sapeva di essere indagata era perché non voleva saperlo. Impossibile essere tenuti all’oscuro di un’indagine in corso da 8 mesi. Certo, l’indagata può sostenere di non essere stata raggiunta da avvisi di garanzia, ma in questi casi è la norma. Può denunciare l’agguato e in effetti la pubblicazione della notizia dell’indagine a ridosso del dibattito in aula è un colpo basso, ma nulla più di questo. Peggio: l’autodifesa è stata in larghissima parte incomprensibile per il colto, al secolo i parlamentari, e tanto più per l’inclita, i comuni spettatori. Ma i punti in cui gli interrogativi erano invece chiari e semplici sono proprio quelli nei quali lo scudo della “imprenditrice” si è dimostrato più fragile: i lavoratori in azienda nonostante fossero formalmente in cassa integrazione, i debiti con le aziende non saldati, i 2 milioni e passa non restituiti allo Stato. Sia chiaro, è probabile che dopo la tempesta Covid molte aziende si siano trovate in situazioni simili e abbiano fatto salti mortali di dubbia correttezza, ma in questi casi essere o non essere parlamentare e addirittura ministro fa una certa differenza. Dunque la faccenda resta aperta e rimarrà tale sino a quando, in un modo o nell’altro, Daniela Santanchè non deporrà la veste di ministro. Ma questo è solo uno dei fronti tuttora aperti: non l’unico. Già mercoledì sera, con la premier di ritorno da Varsavia, si moltiplicavano le voci che raccontavano un’irritazione multipla. Sulla questione Santanchè in sé perché Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di permettere che sul suo governo e sulla sua nuova destra si addensino le stesse ombre che hanno gravato per anni su Berlusconi: lo spettro del conflitto di interessi, di un uso personale del ruolo politico, di adoperare a man bassa la menzogna, di comportamenti nella migliore delle ipotesi di dubbia correttezza. Per ora Santanchè è intoccabile perché non la si può dare vinta a quella che l’oratore Balboni, in aula definisce “stampa scandalistica” e all’offensiva soprattutto del M5S. Dopo le vacanze, nel contesto di un rimpasto più vasto che non concentri l’attenzione solo sul caso Santanchè, le cose probabilmente cambieranno e Meloni si sbarazzerà di quella che per lei è ormai solo zavorra. Ma la premier, dicono, è altrettanto furibonda per la fuga di notizie pilotata che ha reso l’informativa della ministra un calvario e ha modificato all’ultimo momento il quadro costringendo l’indagata, che si era preparata per giorni alla prova, a dover improvvisare. Il conto con la magistratura (e con la stampa) più prima che poi intende saldarlo. È lecito dunque attendersi un nuovo intervento di Nordio, probabilmente molto più drastico dei precedenti e del resto già spesso ventilato. Se la premier, che in fondo non ha mai cavalcato la battaglia sedicente “garantista” quanto gli alleati, è stata tentata dal cercare una tregua con il potere togato, quella tentazione si è in buona parte dissipata ieri. E Palazzo Chigi ha fatto sapere senza utilizzare perifrasi ha fatto circolare una nota di disappunto, anche per l’imputazione coatta disposta dal Gip di Roma per il sottosegretario Delmastro. C’è però un’altra ferita che il caso della ministra del Turismo, in questo caso tutto interno all’opposizione. La battaglia poteva essere comune e, dopo il primo passo del salario minimo, in vista della strenua resistenza contro l’autonomia differenziata, sarebbe stato un tassello piccolo ma importante. Conte, che in quanto ha spregiudicatezza non è secondo a nessuno, ha scelto invece di forzare da tutti i punti di vista. La trovata della conferenza stampa con le dipendenti rimaste senza Tfr è stato un colpo di teatro ma di quelli riusciti: ha permesso ai 5S di intestarsi più di ogni altro la battaglia per le dimissioni di Santanchè e la forzatura sulla mozione di sfiducia, presentata dal solo Movimento nonostante il parere contrario del Pd, di Avs e di Calenda è stato uno sgambetto in piena regola. Elly Schlein è stata costretta a un inseguimento trafelato, con la decisione di sottoscrivere e votare la mozione dei 5S senza presentarne una propria. Costretta a seguire, come l’intendenza. Il caso mette in chiaro qual è oggi il problema del Pd sul fronte delle alleanze: dei 5S non può fare a meno, ma sapendo che il Movimento non perderà occasione per usare le battaglie comuni contro il Pd stesso. L’ira di Meloni: “Certe toghe fanno opposizione” di Andrea Colombo Il Manifesto, 7 luglio 2023 “È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Una nuova guerra con la magistratura, sul modello e con l’intensità di quelle combattute per decenni dalla destra di Berlusconi, Giorgia Meloni ha sperato e forse anche cercato di evitarla. Scontri e polemiche anche aspri erano in conto ma senza tornare alla contrapposizione frontale dei vecchi tempi. La tentazione di riprendere quello scontro durissimo e a tutto campo si è invece riaffacciata a palazzo Chigi nelle ultime 48 ore. Fonti anonime ma circostanziate del governo, parlando della decisione del gip di Roma di non archiviare l’inchiesta a carico del sottosegretario Delmastro, escludono le dimissioni “che non sono e non saranno richieste”. Nulla di men che prevedibile. Segue però un commento molto più avvelenato: “È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Parole al confine con le “toghe rosse “dei bei tempi, che nessuno aveva mai usato, neppure informalmente, dalla nascita del governo in poi. A scatenare l’irritazione della premier non è stato il caso Delmastro. La mancata archiviazione è pioggia, pur se torrenziale, sul bagnato. La scintilla è stato il caso Santanchè. Mercoledì sera, ancora prima che l’aereo di ritorno da Varsavia atterrasse nella capitale, circolavano già indiscrezioni fluviali su quanto la “fuga di notizie” sull’iscrizione della ministra del Turismo nel registro degli indagati avesse mandato fuori dai gangheri la premier. Non che l’autodifesa della ministra le sia piaciuta, anzi. Quello è stato il primo motivo di malumore e comunque proceda l’inchiesta la permanenza al governo per più di qualche mese dell’imprenditrice indagata è a dir poco pericolante. Ma alla premier non è piaciuto affatto il trabocchetto consistente nel far uscire la notizia dell’indagine in corso proprio a ridosso dell’informativa al Senato. La ministra, che si era preparata un modello di autodifesa studiato con gli avvocati e concordato a grandi linee con la stessa premier, si è trovata in una situazione radicalmente diversa. Ha cercato annaspando di improvvisare ma con esiti desolanti. Il sospetto di una magistratura in campo per colpire il governo, la conseguente ira e la decisione probabile di passare subito al contrattacco sono nate su quell’aereo. FdI ieri ha scelto di reagire con una raffica di dichiarazioni tutte improntate alla massima fiducia nell’esito positivo per Delmastro della vicenda e alla “sorpresa” per la decisione del gip. Più che le parole conta l’inondazione di comunicati tricolori che ha sommerso in poche ore le agenzie di stampa. Il Pd è attento a incamerare il punto segnato ma senza calcare troppo i toni: anche con la richiesta di dimissioni bisogna stare attenti all’inflazione. “Crolla l’imbarazzata e imbarazzante difesa di Nordio. Ancor più grave la copertura politica della premier”, afferma Provenzano. Serracchiani, responsabile Giustizia, Orlando, Verini e Lai sottolineano “il gravissimo e illecito uso delle prerogative istituzionali per colpire un avversario” ma specificano di non aver chiesto loro l’apertura del fascicolo giudiziario e si limitano a sollecitare “un chiarimento politico-istituzionale” da parte di Nordio, della premier e del sottosegretario. Un giro di parole per evitare il termine “dimissioni” che invece adoperano Ilaria Cucchi e Bonelli, che aveva presentato l’esposto contro Delmastro. Non ci saranno dimissioni, comunque vada a finire. Meloni non ha alcuna intenzione di scaricare un suo fedelissimo. La battaglia si combatterà su un altro fronte: la stretta sulla possibilità di rendere note le iscrizioni nel registro degli indagati e gli avvisi di garanzia che sta preparando Nordio. Giustizia penale, rischio paralisi di Ezia Maccora* La Stampa, 7 luglio 2023 Nel cantiere sempre aperto della giustizia penale si annuncia una nuova riforma che rischia di paralizzare seriamente gli uffici gip-gup impegnati a ridurre i tempi dei processi e contribuire a raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Un intervento settoriale espressione di una bulimia legislativa già conosciuta. Ogni ministro (governo) propone la propria ricetta salvifica senza aver effettuato uno studio né dell’impatto di quanto proposto né degli esiti delle riforme già attuate. Nel nuovo ddl, ad esempio, si interviene in materia di intercettazioni telefoniche senza alcun studio sugli effetti prodotti dalle riforme del 2017 e 2020. Il nuovo intervento mira a rafforzare ulteriormente la tutela del terzo estraneo al procedimento, già considerata nell’attuale normativa che ha raggiunto un ragionevole punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza e investigative. Dal punto di vista dell’efficacia del mezzo di ricerca della prova l’intervento riformatore non sembra creare particolari problemi dal momento che il giudice potrà sempre utilizzare il contenuto intercettato se esso è considerato rilevante. Rischia invece di creare tensioni con l’informazione e le sue prerogative, essendo affidato al giornalista un controllo sociale esterno per garantire la trasparenza dell’agire pubblico e potendo in futuro pubblicare solo ciò che è menzionato dal giudice nei suoi provvedimenti o che è utilizzato in sede dibattimentale. Una tensione poco comprensibile se si considera che il garante della privacy ha segnalato che dal 2020 non vi sono state violazione e tutto si è svolto nel rispetto delle norme. Un intervento tra l’altro intempestivo dato che la commissione giustizia del Senato ha avviato una indagine conoscitiva in tema di intercettazioni e i relativi lavori sono in fase molta avanzata. Così come sull’abuso d’ufficio, la scelta del ministro della Giustizia è stata quella di proporne l’abolizione, senza considerare l’intervento del 2022 che ha opportunamente ristretto l’ambito di operatività della norma stabilendo che non sono più penalmente rilevanti le condotte che rispondono all’esercizio di un potere discrezionale. Diventeremo l’unico Paese, tra i 22 stati membri dell’Unione, a non avere tale reato. In realtà oggi oltre il 95% dei procedimenti si conclude con un decreto di archiviazione ed è quindi la stessa magistratura ad operare un’approfondita selezione degli abusi penalmente rilevanti. Rimane sullo sfondo il rapporto non positivo tra i cittadini e la pubblica amministrazione, testimoniato dal numero elevato degli esposti/denunce che evidenzia la profonda insoddisfazione per l’inefficienza della pubblica amministrazione. È stato annunciato anche un ulteriore intervento sulla prescrizione, istituto modificato ben tre volte negli ultimi dieci anni, da ultimo con la riforma Cartabia, ma ancor prima, con la “riforma Orlando” e con la “riforma Bonafede”. La strategia del cantiere sempre aperto della giustizia penale è in azione, nonostante la sensibilità e importanza del settore richiederebbe di tenerlo fuori da logiche di parte e di formazione del consenso. La vera priorità per la giustizia continua a essere la ragionevole durata dei procedimenti. Ne abbiamo un riscontro recente nella decisione della Cepej che il 16 giugno 2023 ha adottato un nuovo strumento per aiutare i Paesi a ridurre l’arretrato giudiziario e tendere alla ragionevole durata. Un piano strategico d’intervento rivolto a tutti gli Stati membri che sembra andare in controtendenza con l’atteggiamento del nostro legislatore che si appresta a varare ulteriori riforme senza valutare che oggi gli uffici giudiziari sono tutti seriamente impegnati alla attuazione degli obiettivi del Pnrr, che per il settore penale, prevedono una riduzione del 25% dei tempi dei processi. Al riguardo la norma più dirompente per l’organizzazione degli uffici giudiziari è quella che introduce la valutazione collegiale in caso di applicazione della misura cautelare custodiale. Una norma innanzitutto discutibile se si considera la filosofia di fondo dell’attuale codice di procedura penale che consente al giudice monocratico la decisione sulla responsabilità penale per reati puniti con una pena massima non superiore ai dieci anni di reclusione e nel caso di rito abbreviato o di proscioglimento ex art. 425 c.p.p. anche per reati puniti con pene maggiori. Una previsione del tutto irrealizzabile se si considera l’attuale scopertura dell’organico della magistratura, ampiamente superiore al 15% e destinata ad aumentare visti i pensionamenti in corso e i tempi non brevi per l’ingresso dei nuovi magistrati. Se la mini riforma diventerà legge occorreranno scelte organizzative che rivoluzioneranno gli uffici senza ottenere alcun utile risultato sui tempi di risposta che potranno solo aumentare. Un domani, nel giudizio cautelare, quello che oggi è evaso da un solo giudice richiederà la presenza di tre giudici, in contrasto con l’esigenza di velocità dell’intervento giudiziario che contraddistingue l’altro ddl - quello cosiddetto di completamento del codice rosso- presentato dal ministro Carlo Nordio in materia di violenza di genere pochi giorni prima di quest’ultimo. Né appare risolutivo l’aumento di organico previsto dal ddl, su cui non vi è stata ancora la bollinatura del Mef, perché se il concorso fosse bandito nel 2023 prima dell’inizio del 2026 non si avrebbe l’ingresso di nuovi magistrati. Così come ingestibile è la previsione che un giudice di Milano debba recarsi a Lodi o a Busto Arsizio o a Varese per decidere una misura cautelare o un aggravamento. Si rischia seriamente la paralisi degli uffici. La stessa attuazione della riforma Cartabia, indispensabile per raggiungere gli obiettivi del Pnrr, verrebbe seriamente compromessa. L’ufficio milanese ha definito nel 2022: 43.442 decreti di archiviazione-noti, 5.005 sentenze di rito alternativo, 2303 decreti penali di condanna e 5.607 decreti che dispongono il giudizio. E, nei primi sei mesi del 2023, in attuazione della riforma Cartabia, vi è stato un aumento del 30% circa delle sentenze di proscioglimento. Dati particolarmente significativi della funzione, anche deflattiva, svolta da questi uffici, che difficilmente potranno sopportare le modifiche organizzative che il ddl richiede che, se diventerà legge, metterà nel nulla gli sforzi in atto per conseguire gli obiettivi del Pnrr e ottenere la ragionevole durata dei procedimenti su cui è impegnata anche la Cepej. *Presidente aggiunta Gip Milano Intercettazioni e avviso di garanzia. La nuova stretta Meloni-Nordio sulla scia del caso Santanché di Liana Milella La Repubblica, 7 luglio 2023 Il Guardasigilli pronto a ulteriori modifiche al suo disegno di legge che già contiene il divieto di pubblicare gli ascolti. Il testo non è ancora arrivato al Senato, ma potrebbe contenere subito misure più drastiche. “Le intercettazioni? Sono una barbarie”. “Contro l’abuso che se ne fa noi non vacilleremo”. Poi la promessa di non toccare “solo” quelle su mafia e terrorismo. Che la stessa premier Giorgia Meloni definisce “fondamentali”. Ma su tutte le altre - oggi possibili per i reati puniti oltre i cinque anni - il Guardasigilli Carlo Nordio ha intenzione di intervenire il prima possibile, e con misure drastiche. Visto che, come lui stesso continua a ripetere, “costano 200 milioni di euro l’anno”. E potrebbe già farlo sfruttando il suo stesso disegno di legge che ha avuto il via libera da palazzo Chigi il 16 giugno, ma non è ancora arrivato in Parlamento. Lo aspettano al Senato, nella commissione Giustizia presieduta da Giulia Bongiorno. Il luogo giusto visto che proprio lì la responsabile Giustizia della Lega ha fatto ben 46 audizioni sulle intercettazioni e sta lavorando a una relazione finale. Ma Nordio, sempre nello stesso disegno di legge, potrebbe ulteriormente operare una stretta sulle indagini preliminari, aumentando ulteriormente il loro grado di segretezza, con la conseguenza di vietare drasticamente qualsiasi pubblicità sia all’iscrizione di un indagato, sia all’avviso di garanzia, punendo di pari passo in modo pesante l’eventuale pubblicazione arbitraria di atti ancora coperti dal segreto che oggi è solo un reato bagattellare, punito con una contravvenzione evitabile pagando pochi euro. Il caso Santanché, e le polemiche sulla sua indagine a Milano, forniscono l’occasione giusta per attuare i propositi “garantisti” di Nordio, su cui del resto il ministro ha più volte parlato da quando è entrato in via Arenula. Il suo disegno di legge non è che l’antipasto di una “manovra” sulla giustizia che, da un lato, rende sempre più segreta l’indagine, e dall’altra blocca la pubblicità delle intercettazioni. Già adesso il testo contiene il divieto di pubblicare gli ascolti a meno che essi non siano contenuti “nella motivazione di un provvedimento o utilizzati nel corso del dibattimento”. Ecco poi la tutela dei cosiddetti “terzi” che finiscono nelle intercettazioni perché citati da chi parla. Il disegno di legge Nordio stabilisce che “è dovere del giudice di stralciare le intercettazioni includendovi, oltre ai già previsti dati personali sensibili, anche quelli relativi a soggetti diversi dalle parti, fatta salva l’ipotesi che essi risultino rilevanti ai fini delle indagini”. A questo si aggiunge l’obbligo di interrogare la persona prima di arrestarla. Un interrogatorio definito “di garanzia” ma che ovviamente comporta dei rischi, come un possibile inquinamento delle prove, la distruzione di materiale utile alle indagini, nonché la stessa fuga dell’indagato. Ma è sulle intercettazioni che il Guardasigilli Nordio ha in mente di intervenire, sfruttando l’approfondimento in corso al Senato. Non può e non intende toccare quelle per i reati gravi e gravissimi, mafia e terrorismo, che la stessa premier, ancora ieri, ha definito “fondamentali”, ma i suoi uffici lavorano sull’ipotesi di ridurre tutte le altre, eventualmente alzando il tetto dei 5 anni. Si tratta di un intervento molto delicato, che ovviamente avrebbe una ripercussione anche sulle indagini in corso. Soprattutto per i reati contro la pubblica amministrazione oggi ovviamente intercettabili. Una rapida scorsa al titolo secondo del codice penale fa capire subito che tagliare le intercettazioni per questi reati non sarà facile. Il peculato punito fino a 10 anni. La concussione punita da sei a 12 anni. La corruzione per l’esercizio della funzione da tre a otto anni. La corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da sei a 10 anni. La corruzione in atti giudiziari da sei a 12 anni, ma fino a vent’anni nei casi più gravi. L’indebita induzione a dare o promettere utilità punita da sei anni a 10 anni e sei mesi. Dunque tutti reati intercettabili. Si tratta dunque di un intervento delicatissimo. Ma su cui via Arenula è in piena azione. “L’Ue stia tranquilla: sulla lotta alla corruzione non ci sono incertezze” di Simona Musco Il Dubbio, 7 luglio 2023 Il viceministro Sisto rassicura il commissario Ue alla Giustizia Reynders. L’Ue non ha nulla da temere: nessun passo indietro dell’Italia nella lotta alla Corruzione. A dirlo è il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che dopo l’intervista del commissario Ue Didier Reynders a Repubblica sui rischi derivanti dall’abolizione dell’abuso d’ufficio prova a tranquillizzare tutti: “Nella lotta contro la corruzione non cambia assolutamente nulla”, spiega. Un concetto già chiarito dal ministro Carlo Nordio allo stesso Reynders poco meno di un mese fa, quando illustrando il suo ddl aveva evidenziato l’esistenza di 17 fattispecie per i reati contro la pubblica amministrazione. Il governo, dunque, procede dritto sulla propria strada. E il viceministro ci tiene a sgomberare il campo da qualsiasi dubbio su possibili frizioni con la magistratura: “Nessuno scontro, il Paese non può permetterselo”, sottolinea. Ma per scrivere le riforme serve anche il contributo dell’Accademia e dell’avvocatura, che Sisto, parlando di intercettazioni, rassicura: “Le conversazioni tra avvocato e assistito sono sacre”. Il commissario Ue Reynders, in un’intervista a Repubblica, si è detto preoccupato per l’abolizione dell’abuso d’ufficio, dimostrando timori in merito alla lotta alla corruzione. Cosa risponde a queste affermazioni? Cambia qualcosa per la lotta contro la corruzione? Assolutamente no. La scelta del ministero e del governo è stata ponderata e lungamente. I numeri sull’abuso d’ufficio dimostrano che nel nostro Paese è una norma che, con oltre il 93 per cento di assoluzioni favorevoli agli indagati, provoca solo danni agli amministratori, e di duplice tipologia. Il primo danno, diretto, è nei confronti di chi è costretto ad essere iscritto inutilmente nei registri della procura, spesso per anni, per essere poi prosciolto; e nel frattempo subisce le conseguenze del processo mediatico, con ricadute inevitabili sul piano personale e politico. Il secondo effetto patologico della persistenza dell’abuso d’ufficio può definirsi indiretto: il pubblico amministratore, politico o dirigente che sia, è costantemente affetto dalla “paura dell’atto lecito”, sindrome che paralizza le procedure amministrative sia nei tempi, sia nei risultati. Conseguenza è che il cittadino da questa fobia giudiziaria della Pa è spesso irreparabilmente danneggiato nel giusto ottenimento dei suoi diritti. Alla Camera è partito l’esame del ddl sulla prescrizione, ma voci interne alla maggioranza fanno sapere che Nordio ha intenzione di fare così come ha fatto con l’abuso d’ufficio, presentando un proprio ddl e “scavalcando” di nuovo i lavori parlamentari. Si rischia uno scontro? Il governo è sempre molto rispettoso dei percorsi parlamentari e da sempre cerca di tenerli nella debita considerazione procedimentale: nessuno scontro, neanche ipotetico. Nel rispetto sostanziale delle prerogative di ciascuno, i percorsi legislativi saranno protagonisti assoluti del buon fine delle riforme. Sul piatto ci sono molti argomenti: il sottosegretario Delmastro, dalla festa dei giovani di FdI, ha rilanciato la separazione delle carriere assicurando che si farà, inoltre in Commissione Giustizia al Senato si discute di sorteggio temperato per i togati del Csm, con i primi scontri con Pd e M5S, pronti alle barricate. Si va allo scontro con la magistratura? Nessuno scontro, meno che mai con la magistratura, il Paese non può permetterseli. Un dato è certo però: si discute, ci si confronta, si verificano le rispettive opinioni, ma poi è il Parlamento che deve decidere in ossequio a quanto nell’articolo 101 della Costituzione per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Com’è il clima tra le due parti, dopo le polemiche sul ddl Nordio? Dobbiamo necessariamente collaborare nel rispetto delle prerogative di ciascuno, non tralasciando la “chiamata in garanzia” dell’avvocatura e dell’Accademia. Ai guastatori, agli arruffa popolo desiderosi di spaccature rispondo: “go home”. Altro tema quello delle intercettazioni: dopo la vicenda Santanché notizie di stampa rilanciano la stretta a tale strumento, che però, stando a Bongiorno, non si tocca. Il governo che direzione prenderà? Sia chiaro una volta per tutte: le intercettazioni sono uno strumento di indagine ineliminabile. Il ministro Nordio, come più volte dichiarato, intende però evitare che diventino una consuetudine senza il doveroso bilanciamento con la presunzione di non colpevolezza e il diritto alla riservatezza. Su questo tema si è conclusa l’indagine conoscitiva in Commissione Giustizia. Tra le questioni affrontate anche la tutela della segretezza delle conversazioni tra avvocato e assistito. Si faranno passi avanti, dopo gli abusi degli ultimi anni e le violazioni del diritto di difesa? Le conversazioni tra avvocato difensore e cliente devono essere considerate sacre, preservate da ogni intromissione che non sia rigorosamente indispensabile. I divieti di utilizzazione previsti dal codice di rito non ritengo possano essere sfiorati. È invece utile chiedersi se non sia necessario ipotizzare strumenti di rafforzamento per la tutela di qualche insostituibile presidio. “L’improcedibilità è una cosa mostruosa: meglio tornare alla legge Orlando” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2023 Intervista al segretario di AreaDg, Eugenio Albamonte. Due i temi caldi di politica giudiziaria: la nomina del procuratore di Firenze grazie al voto decisivo del vice presidente del Csm e la prescrizione. Ne parliamo con Eugenio Albamonte, Segretario di AreaDg. Come legge quanto accaduto in Csm? È un precedente che ha lasciato sorpresi. Da che ho memoria, quindi almeno da vent’anni a questa parte, non ricordo un caso in cui il vicepresidente ha voluto o dovuto ricorrere all’espediente del doppio voto per far prevalere una posizione rispetto all’altra. In più si trattava di una nomina che la politica ha voluto rivestire di un significato particolare e quel voto del vice presidente assegna una lettura politica di quella delibera, non finalizzata a scegliere la persona più adatta in base al curriculum ma quella che dà l’impressione, ad alcuni ambienti della politica, ad essere più o meno disponibile nelle aspettative di trattazione di singoli procedimenti, come avveniva in quelle discussioni notturne dell’Hotel Champagne dove una parte politica molto vicina a quella che ha agito in questo caso si preoccupava che Creazzo dovesse essere promosso al fine di essere rimosso proprio in relazione alla gestione di quegli stessi processi. Si riferisce a Matteo Renzi? Leggo i giornali e mi sembra che i due temi caldi della Procura di Firenze che concentrano l’attenzione della classe politica siano da una parte il processo sulla Fondazione Open e dall’altra le indagini che si stanno facendo ancora una volta su via dei Georgofili. Da questo traggo spunto per cercare di capire cosa si è mosso dietro queste nomine. Si torna a parlare di prescrizione. Che ne pensa del dibattito che si sta svolgendo? Penso che il tema della prescrizione sia stato eccessivamente connotato di valenza politica prima durante il periodo in cui Silvio Berlusconi era il primo attore della politica nazionale e la disciplina della prescrizione è stata più volte utilizzata per interferire nel corso dei processi che lo riguardavano. E adesso che è morto? C’è una forte contrapposizione ideologica tra i Cinque Stelle che difendono la riforma Bonafede e chi, al di là delle conseguenze sul piano processuale, vogliono abolire quel risultato dell’ex Guardasigilli pentastellato, ma solo per il significato politico da esso assunto. Quindi? Mi sembra assurdo mettere mano alla prescrizione con una ennesima nuova disciplina diversa da tutte quelle che conosciamo fino ad ora. Se non c’è la disponibilità del Governo attuale o del Ministro Nordio a mantenere il regime così com’è, allora l’unica cosa che si può accettare come linea di mediazione è quella proposta da Nello Rossi in una intervista proprio al vostro giornale, ossia tornare alla riforma Orlando - che poi non è stata neanche mai sperimentata - e che all’epoca sembrava condivisa sia dall’avvocatura che dalla magistratura. Lei pertanto sarebbe contrario a far convivere l’orologio della processuale e quello della sostanziale? Tornare alla Orlando vorrebbe dire togliere definitivamente di mezzo questa mostruosità della prescrizione processuale, mascherata nella forma dell’improcedibilità. Lei criticò molto però Orlando in passato... L’ho tanto criticato quando era Ministro ma oggi gli direi che su tutta una serie di cose aveva ragione lui, a partire dalla prescrizione e dall’archivio riservato delle intercettazioni come punto di approdo moderno, funzionale ed equilibrato tra privacy ed esigenze investigative. Il paradosso è che proprio il Pd non voglia tornare alla Orlando. A dimostrazione anche il fatto che abbiano chiamato in audizione il professor Gatta che ha detto che “abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del PNRR, sarebbe un suicidio”... A me sembra che il fatto che sia il professor Gatta che il Partito Democratico vogliano continuare a sperimentare l’improcedibilità corrisponde un po’ al vecchio adagio ‘ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja’. Essendone loro i padri spirituali la tutelano come se fosse una figlia, al di là dei meriti o demeriti effettivi che possa avere. Io credo che sia un meccanismo non destinato a produrre buoni risultati, soprattutto in una situazione in cui le Corti di Appello - alcune in modo particolare - continuano ad essere un collo di bottiglia. Il rischio è che avremo - ne parlavo ieri con gli avvocati - trattati celermente i procedimenti nuovi, quelli sottoposti alla mannaia dell’improcedibilità, mentre tutto il resto sarà destinato a rimanere fermo. Si avranno processi a vita per alcuni e una pronta definizione per altri, in una situazione in cui una corretta distribuzione dei tempi della giustizia corrisponde anch’essa ad una eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Ma la pax raggiunta qualche giorno fa tra Nordio e Anm è solo apparente? Non si sono mai interrotti i rapporti tra il Ministro e l’Anm ed è giusto così, perché l’Anm non ha la tendenza a ritirarsi impermalosita sull’Aventino anche quando si dicono delle cose su di lei che non si ritengono giuste. Ha comunque il dovere, nell’interesse della giurisdizione e dei cittadini, di far rimanere aperta la linea del dialogo. Dopo di che una cosa è il dissenso sui singoli temi che deve essere espresso con argomenti, altra cosa è la delegittimazione. Ben venga una differenza di orientamenti tra Anm e Ministero e Nordio su quali possano essere le soluzioni migliori per il sistema giustizia, malissimo continuare con la linea della delegittimazione dell’Anm, diminuendone il prestigio e le capacità di interlocuzione. Mafia “legalizzata” dalla legge Cartabia? Falso: il “Fatto” legge male le norme di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 7 luglio 2023 In un articolo di Peter Gomez si commenta con durezza un’ordinanza sulle interdittive antimafia che, in base alla riforma dell’ex ministra, non possono più essere inflitte sulla base di un patteggiamento. Ma oggi patteggiare sul 416-bis è diventato impossibile In un saggio del 1941, Ernst Fraenkel sviluppava, a proposito del nazionalsocialismo, la teoria del “doppio Stato”. Nel suo scritto, evidenziava come la rottura che il nazismo aveva consumato nei confronti dei principi democratici era dovuta alla evocazione dello stato di eccezione o “di assedio”, che aveva consentito di investire la politica dei cosiddetti “pieni poteri”, secondo l’adagio popolare per il quale la necessità non ha Legge. Nello stato di eccezione, il potere politico non era più sottoposto al diritto (sub lege), né si esplicava attraverso norme generali (per legem), ma era, al contrario, svincolato dal rispetto della legge ed esercitato mediante giudizi di opportunità. In questa realtà distopica, che Fraenkel definiva “Stato discrezionale”, non erano i tribunali a controllare l’amministrazione dal punto di vista della legalità, ma era l’autorità di polizia a controllare i tribunali dal punto di vista della opportunità. Per tale motivo, chiosava l’Autore, la Costituzione (cioè, la fonte da cui promanava il potere pubblico e rispetto alla quale ogni altra istanza era recessiva) era lo stato d’assedio. Nel nostro Paese, ormai da decenni, la Costituzione è la lotta alla mafia, intesa come obiettivo da perseguire, per ragioni di opportunità politica, non necessariamente sub lege e per legem, nel contesto di un perenne stato di eccezione. L’evocazione di una “lotta”, perfetta concretizzazione del “diritto penale del nemico”, ha consentito al potere politico la creazione di doppi binari, anche processuali, per la repressione e, soprattutto, per la prevenzione del fenomeno mafioso, dotati di caratteri di peculiare asistematicità rispetto ai principi generali dell’ordinamento. Ma ha anche facilitato la nascita di un fenomeno sociale, quello dell’Antimafia, che, spesso del tutto digiuno di nozioni giuridiche, si risolve quasi sempre nella proclamazione di cahiers de doléances secondo i quali la mafia sarebbe deliberatamente favorita da una legislazione nella migliore delle ipotesi troppo blanda, se non addirittura compiacente. E che, secondo un anacronistico “dagli all’untore”, invoca sempre nuove limitazioni delle libertà, nuove sanzioni, nuovo “terrore”. Solleticando la pancia del popolo, esasperandone le paure, eccitandone la sensazione di essere in stato di assedio, si è legittimato agli occhi dei cittadini la necessità e, di più, la legittimità di una produzione legislativa e giurisprudenziale che, colpo su colpo, ha attratto alla normativa antimafia situazioni e soggetti che con la mafia non avevano nulla a che fare: i corrotti, gli evasori fiscali, gli stalker, i predatori sessuali e tutta quella congerie di criminali comuni che oggi si vedono processati e sanzionati, specie con riferimento alle misure di prevenzione, come i mafiosi. Una aggressione ai diritti costituzionalmente protetti degli individui, dettata dalla contingente opportunità politica di mostrare fermezza rispetto ai fenomeni criminali che, in una determinata epoca storica, siano avvertiti come allarmanti: oggi il femminicidio, solo ieri i rave parties, poco prima la corruzione, domani chissà. Insomma, la materializzazione dello stato di eccezione, sempre figlio (o padre) di regimi autoritari. In questo milieu di fanatismo intransigente va letta la reazione mediatica ad una recente ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (ord. 209/23), che ha sospeso cautelativamente una informativa interdittiva antimafia (misura di prevenzione non ablativa) resa nei confronti di un imprenditore, sulla scorta della nuova formulazione dell’articolo 445, comma 1-bis del codice di procedura penale. La “riforma Cartabia”, infatti, ha espressamente normato quello che era un principio ispiratore della riforma codicistica del 2003 che, nell’ottica di incentivare il ricorso a riti deflattivi e premiali, aveva privato la sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) di effetti extrapenali e, dunque, di efficacia di giudicato nei procedimenti civili, amministrativi, contabili e disciplinari. Principio rapidamente obliterato da numerose pronunce della giurisprudenza civile e amministrativa, in particolar modo di merito, secondo cui il patteggiamento, “pur non essendo equiparabile ad una sentenza di condanna, presupporrebbe un’ammissione di colpevolezza”. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano, recependo la riforma legislativa, ha dunque correttamente dichiarato l’irrilevanza, nel procedimento di prevenzione, di una sentenza di patteggiamento che costituiva l’unico presupposto per l’irrogazione della interdittiva antimafia, la cui efficacia è stata sospesa. Ma, occasione irripetibile per i “professionisti dell’Antimafia”, quella sentenza penale era stata resa in relazione al delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale. Da qui, con i registri comunicativi allarmistici tipici dello stato d’assedio, un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 5 luglio 2023, dal significativo titolo “Legalizzare la mafia: grazie al dl Cartabia ce la stiamo facendo”. Nel denunciare “la logica perversa della riforma Cartabia” e nell’escludere (ma solo per insinuarlo) che il governo Draghi abbia “operato in segreto in favore dei malviventi”, l’autore suggerisce al lettore, sapientemente indotto alla indignazione, che se il mafioso patteggia una pena “non gli succederà niente”, perché potrà liberamente continuare a contrattare con la pubblica amministrazione. Lo scritto soffre di una generalizzazione e di una certa approssimazione tecnica. Quanto al primo aspetto, l’ordinanza vituperata interviene sul caso, rarissimo se non unico, di una misura di prevenzione adottata sul solo presupposto di una precedente sentenza di applicazione della pena su richiesta. Al cittadino era stato, cioè, impedito il libero esercizio dell’impresa (nel che si sostanzia la negazione del diritto di iniziativa economica, costituzionalmente protetto) per essere incappato in un singolo procedimento penale, conclusosi con una sentenza di patteggiamento. Circostanza che rende, obiettivamente, piuttosto arduo prevedere quella messe di conseguenze criminogene ipotizzate dal quotidiano. Quanto al secondo aspetto, l’autore non si confronta con la concreta vicenda processuale, né con il dato testuale del novellato articolo 445 del codice di rito penale. Nel caso trattato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, infatti, l’associazione per delinquere oggetto di pena concordata era cessata ad aprile del 1997, ossia quasi trenta anni or sono! Già l’elemento temporale consentirebbe di ritenere aberrante la presunzione di perenne mafiosità, che sottende alla volontà persecutoria di espellere dal circuito dell’economia legale un cittadino che ha chiuso i propri conti con la giustizia nel secolo scorso (nel che si sostanzia la tendenziale attitudine criminogena dell’abuso delle misure di prevenzione). Ma, oltre a ciò, occorre volgere lo sguardo all’assetto normativo attuale, che, da un lato, vieta di concordare una pena superiore a due anni per i delitti di mafia (articolo 444, comma 1-bis del codice di procedura penale, che non consente il patteggiamento “allargato” per talune ipotesi di reato) e, dall’altro, prevede una pena edittale minima di dieci anni di reclusione per il delitto di cui all’articolo 416-bis cp. È, dunque, matematicamente impossibile oggi patteggiare una pena inferiore a due anni per il reato di associazione mafiosa, mentre lo era nel 1997, quando la pena edittale minima era pari a tre anni di reclusione. Gridare allo scandalo per l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, quindi, è strumentale al mantenimento dello stato di eccezione, perché alimenta il fanatismo popolare distogliendolo dalla costante privazione di diritti fondamentali, frutto di una legislazione di opportunità, propria di una “Stato discrezionale” e non di uno “Stato normativo”, per tornare alle suggestioni di Fraenkel. Ma il fanatismo dei “pieni poteri”, dello stato d’assedio è l’anticamera dello Stato illiberale. Chiudiamo allora il nostro intervento con Voltaire: Écrasez l’Infâme. Schiacciate l’infame. Cancellatelo. Il grande filosofo francese si riferiva al fanatismo religioso ma quello del “diritto del nemico” non è, credeteci, meno pericoloso. *Avvocato del foro di Catanzaro **Avvocato del foro di Torino Veneto. Baldin (M5S): “Suicidi, sovraffollamento e poco personale, Nordio si occupi delle carceri” lapiazzaweb.it, 7 luglio 2023 Ieri mattina la visita della capogruppo in Consiglio regionale del Movimento 5 Stelle alla casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia. “Trentadue detenuti suicidi in Italia dall’inizio dell’anno rappresentano il fallimento dello Stato, incapace di garantire la vita di chi è recluso. A Venezia, due suicidi nel giro di due settimane nella casa circondariale sono un campanello d’allarme. Chiedo alla Regione di attivarsi sia per le questioni sanitarie, di diretta competenza, che presso il governo per affrontare le criticità legate a sovraffollamento e carenza di personale. Le carceri venete stanno scoppiando, il ministro Nordio intende occuparsene?”. Così Erika Baldin, capogruppo in Consiglio regionale del Movimento 5 Stelle, che spiega: “Oggi ho visitato la struttura di Santa Maria Maggiore. La visita era in programma da tempo; in aprile ho presentato in Consiglio regionale una Risoluzione relativa alla situazione delle carceri venete, che già allora definivo tragica per sovraffollamento e carenze croniche di personale. Nell’atto, depositato il 19 aprile a palazzo Ferro Fini e non ancora discusso dall’Assemblea, cito i dati della relazione del Garante regionale dei diritti della persona riferita al 2022. In questi mesi la situazione non è di certo migliorata: a Venezia, i detenuti sono circa 200 a fronte di 160 posti assegnati. Il Veneto è la terza regione per sovraffollamento carcerario: il tasso di occupazione è pari a 127,54%, inferiore solo a Lombardia e Puglia, con picchi che raggiungono il 150%. Per quanto riguarda la carenza di personale della polizia penitenziaria, l’organico previsto è di 1.787 unità, ma gli agenti effettivi sono 1.551, cioè 236 in meno. A mancare sono anche gli educatori, con una media di 70 detenuti per professionista”. “Il sovraffollamento, combinato con le gravi carenze d’organico - conclude Baldin - rischia di pregiudicare quella funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Con la mia risoluzione, che chiedo urgentemente di votare, sollecito una risposta da parte del governo a un’altra questione: quella dell’Istituto Penale Minorile di Treviso, chiuso da aprile 2022 e a oggi non ancora entrato in funzione”. Torino. “Cara Graziana, le sbarre sono dentro di noi” La Voce e il Tempo, 7 luglio 2023 Pubblichiamo la lettera scritta dalle detenute della Terza sezione del padiglione femminile della Casa Circondariale torinese “Lorusso e Cutugno” in memoria di Graziana Orlarei, loro compagna di detenzione, morta suicida mercoledì scorso. La lettera, inviataci dai cappellani, è stata letta al termine dell’eucaristia domenicale celebrata nella cappella del carcere in cui si è pregato per lei. “Cara Graziana, con il tuo gesto hai lasciato a tutte noi un grande e profondo dolore. Per essere arrivata a tanto chissà quanta amarezza avrai avuto dentro di te. Eri una persona solitaria. Non lasciavi lo spazio per esserti vicino. Ma la colpa non era tua. Hai avuto una vita difficile e, al momento in cui avresti potuto dare una svolta alla tua vita e iniziare daccapo, ti sei spaventata. Rimarrai per sempre dentro di noi. Il tempo potrà forse accantonare questo dolore così intenso, quello che stiamo vivendo ora. Si sa, quando qualcuno muore si dicono sempre parole belle in ricordo di chi non c’è più, ma noi diciamo solo la verità, affinché ognuna di noi capisca e afferri che, per quanto la vita è ingiusta con noi, non dobbiamo arrenderci, perché siamo noi che cambiamo la nostra vita. Dopo ciò che è accaduto, perciò, non diciamo: “è il carcere, sono le ingiustizie, ad annientarci”. Dobbiamo essere forti e lottare. Le sbarre sono di fronte a noi, non dentro di noi. Il carcere non può abbatterci. La nostra sofferenza dobbiamo farla diventare forza. Noi tutte ti vogliamo bene, ciao Graziana, riposa in pace”. Viterbo. Detenuto in coma a Belcolle, colpito da malore in carcere poco dopo l’arresto di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 7 luglio 2023 Detenuto ultrasettantenne in coma a Belcolle, è stato colpito da malore pochi giorni dopo l’arresto. Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato esanime nella sua cella del carcere di Mammagialla, dove era stato condotto una settimana fa, la mattina di venerdì 30 giugno dai carabinieri, che lo hanno arrestato su disposizione del tribunale di sorveglianza di Roma, in quanto doveva scontare una pena diventata definitiva a un anno e otto mesi di reclusione per spaccio. Vista l’evidente gravità delle sue condizioni, il detenuto è stato immediatamente trasferito in ambulanza all’ospedale di Belcolle dove gli è stata diagnosticata una ischemia cerebrale e dove è tuttora ricoverato in coma presso il reparto di rianimazione. Caserta. Indagata la Garante dei detenuti, si cercano le prove ma per i giornali è già colpevole di Rossella Grasso L’Unità, 7 luglio 2023 Come un fulmine a ciel sereno mercoledì 5 luglio è arrivata la notizia della indagine fatta partire dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere nei confronti della Garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore. “Nella sua qualità di garante dei detenuti della provincia di Caserta avrebbe favorito in modo non lecito un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, procurandogli un cellulare intestato a un’altra persona. Non solo. Si sarebbe anche adoperata per fargli avere una relazione di servizio positiva, ricevendo in cambio un paio di scarpe dalla sorella del recluso, titolare di una boutique”. Recita così la notizia diffusa dall’Ansa nel raccontare i fatti. Belcuore venerdì ha avuto una perquisizione in casa sua durante la quale le sono stati sequestrati dispositivi elettronici, cellulari e computer per riscontrare le accuse, che per il momento non sono ancora state accertate. Belcuore, 40 anni e in carica da tre nel ruolo affidatole dall’amministrazione provinciale di Caserta, per il momento non è stata destinataria di misure restrittive, nemmeno cautelari. L’indagine è in corso sulla base di accuse, quelle mosse dagli inquirenti a Emanuela Belcuore come spiegato dall’Ansa, basate anche su annotazioni di servizio della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tra le contestazioni alla Garante, da verificare, anche quella di aver avvisato il detenuto di un’imminente perquisizione al fine di sbarazzarsi del cellulare che la garante gli aveva procurato. Dopo la perquisizione a casa sua Belcuore si è dimessa dal suo incarico, come sottolineato dal suo avvocato. L’Ansa riporta anche che i colloqui, quasi quotidiani, con i detenuti sarebbero stati connotati da rapporti opachi, in particolare con un recluso di Casal di Principe. Una relazione su cui la penitenziaria ha redatto diverse annotazioni fatte pervenire alla Procura di Santa Maria Capua Vetere che già da diversi mesi, con il sostituto procuratore Gionata Fiore e il procuratore Pierpaolo Bruni, indaga per fare luce sulla vicenda. Ma intanto per la stampa e per il tribunale del web, Emanuela Belcuore è già colpevole: questa volta ancor prima che sia emessa una qualsiasi misura restrittiva nei suoi confronti o che sia stata convocata davanti a un giudice. Colpevole di “corruzione e altri reati” da cui avrebbe guadagnato un paio di scarpe. Tutto da riscontrare e ancora da verificare. Tutte accuse a cui la garante risponderà nei luoghi e nei tempi preposti. Se fosse poi giudicata da un tribunale colpevole, il fatto sarebbe gravissimo. Ma dalla perquisizione alla sentenza in Cassazione, la strada è ancora molto lunga, certamente non breve come quella che separa le mani da una tastiera. E’ d’uopo in questa vicenda raccontare che il carcere di Santa Maria Capua Vetere è spesso balzato alle cronache per i disservizi come l’acqua marrone o l’aria irrespirabile e ancor di più per quella “orribile mattanza” avvenuta il 6 aprile 2020, violenze ai danni dei detenuti commesse dagli agenti penitenziari. Proprio per questi fatti è in corso un maxi-processo con 105 imputati nell’aula bunker annessa al carcere. Belcuore da anni porta avanti battaglie per i diritti dei detenuti e dei loro familiari, che abbiamo raccontato anche su questo giornale. Da maggio la sua battaglia per contrastare la droga in carcere, un vero dramma, un cancro, di cui abbiamo raccontato insieme a Belcuore ce aveva già denunciato alle Autorità. Da garante aveva invocato maggiori controlli su tutti coloro che entrano in carcere, compresa se stessa, affinché si potesse combattere efficacemente questo dramma. Dopo la diffusione della notizia dell’indagine nei confronti di Belcuore, lo ripetiamo, non della condanna di quest’ultima che rimane innocente fino a prova contraria, i primi a dire la loro sono stati i sindacati di polizia, gli stessi che avrebbero denunciato le non meglio precisate “malefatte” di Belcuore. “Dopo l’ex garante dei detenuti del Comune di Napoli Pietro Ioia anche quello di Caserta, Emanuela Belcuore, è indagata” hanno detto il presidente e il segretario regionale campano dell’Uspp, Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, secondo i quali, come più volte ribadito in passato, la figura del garante comunale “va eliminata perché non prevista dalla norma di legge che invece contempla il garante nazionale e quelli regionali”. Precisiamo che la figura del garante provinciale e comunale è previsto dall’ordinamento, come segnalato sul sito del Ministero della Giustizia dove si legge: “Sul territorio nazionale operano anche Garanti subregionali, le funzioni dei quali sono definite dai relativi atti istitutivi. Nell’ambito penitenziario, i Garanti regionali e subregionali possono effettuare colloqui con i detenuti, possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli articoli 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario. Inoltre possono essere destinatari di reclami ai sensi dell’art. 35 dell’ordinamento penitenziario”. In serata con una nota del suo avvocato, Mariagiorgia de Gennaro, Belcuore ha precisato la sua posizione dicendosi assolutamente fiduciosa del lavoro della magistratura nel far luce sui fatti. “La dott.ssa Belcuore Emanuela è profondamente colpita per l’indagine che l’ha travolta, svolta dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere - si legge nella nota - Confidando pienamente nella magistratura, ha inteso nell’immediatezza della comunicazione dell’indagine in corso, dimettersi dall’incarico di Garante dei Diritti delle Persone Detenute per la Provincia di Caserta, ruolo svolto dal giugno 2020 con passione e determinazione nell’interesse di tutti i detenuti attraverso il costante contatto presso le carceri del Casertano e mostrando sempre disponibilità e prodigandosi per le preoccupazioni dei familiari”. E ancora: “La dott.sa Belcuore, del resto, nei tre anni di mandato, ha portato avanti molte battaglie per risolvere le criticità rilevate nei contesti carcerari e, non da ultimo, si è battuta nel contrasto alla presenza della droga nelle carceri attraverso una denuncia nel dicembre 2022 resa nota con la pubblicazione di un’intervista rilasciata nel mese di maggio 2023. Pertanto, seppur sconvolta, è pienamente fiduciosa che riuscirà a delinearsi nel corso delle indagini quanto realmente accaduto rispetto alle imputazioni contestate e alle alterate notizie riportate da alcuni mass media”. “Sono profondamente addolorato per la vicenda che vede coinvolta Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della provincia di Caserta - ha detto il collega Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania in una nota - Anzitutto, è bene ricordare che, essendo nella fase delle indagini, non vi è stato ancora un definitivo accertamento dei fatti oggetto di contestazione, pertanto, sono da ritenersi inopportuni i “processi”, i gossip e i resoconti con dimensione sessista che spuntano nel mondo dell’informazione. Senza dubbio, sia la Belcuore sia i soggetti coinvolti nella vicenda risponderanno nelle sedi opportune al fine di ricostruire la dinamica dei fatti e far emerge la verità sull’unico caso contestato. Siamo Garanti e, in quanto tali, invochiamo il rispetto del principio di presunzione di innocenza. Vi è inoltre chi, strumentalizzando l’indagine in corso, fa erroneamente riferimento all’arresto dell’ex Garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia. Non vi è nessuna relazione fra i due fatti, dunque, di che parliamo? Dulcis in fundo, ancora una volta, questa vicenda diviene il pretesto per sminuire, svilire, se non addirittura “silenziare” la funzione del Garante, autorità di garanzia indipendente, nominata dall’autorità pubblica. Basta con il becero moralismo e il populismo penale”. Conclude, infine, Ciambriello, “non vorrei che qualcuno dimenticasse le battaglie, le coraggiose denunce, nonché gli interventi su “Pianeta Carceri” che Emanuela Belcuore ha fatto nel corso di questi ultimi anni”. Torino. L’estate dei ragazzi in carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 7 luglio 2023 Non c’è tregua per le carceri torinesi: al “Lorusso e Cutugno” la scorsa settimana si è suicidata una detenuta di 52 anni, ad un mese dal fine pena per il tentato omicidio del compagno. Era una donna fragile e aveva timore di non riuscire a rifarsi una vita “fuori”. Salgono così a 25 i suicidi dietro le sbarre in Italia da inizio anno, di cui due nel penitenziario di Torino, nel 2022 il peggiore dopo quello di Foggia, con quattro suicidi e 35 tentativi sventati dagli agenti penitenziari. Intanto all’Istituto penale minorile (Ipm) “Ferrante Aporti”, dopo la denuncia dei Garanti del Comune e della Regione in seguito alle dimissioni della direttrice Simona Vernaglione, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha nominato Angela Piarulli, ex senatrice pentastellata e dirigente carcerario, a dirigere l’Ipm fino al 31 dicembre per “tamponare” il vuoto ai vertici del carcere minorile in attesa della nomina di un direttore stabile. Sulla precarietà (anche strutturale, l’ultima ristrutturazione risale al 2014) che grava ormai da anni al “Ferrante” abbiamo intervistato Pasquale Ippolito, responsabile della formazione professionale di Inforcoop Ecipa Piemonte, e presidente dell’Associazione di volontariato “Aporti Aperte” che da anni opera al “Ferrante”. Quando nel maggio scorso l’Arcivescovo ha visitato l’Ipm, tramite il nostro giornale “Aporti Aperte” ha invitato i lettori a dare una mano ad allestire la nuova area aggregativa con calcetti e giochi di società. La risposta è stata generosa con una raccolta di 7 mila euro e molto materiale. Senza il volontariato come sarebbe la vita dei ragazzi ristretti? L’associazione è uno strumento importante per umanizzare il più possibile il periodo detentivo dei ragazzi. Il tempo degli adolescenti è diverso da quello degli adulti, per noi scorre in fretta per loro non finisce mai. Il volontariato non può e non deve sostituirsi alle mancanze dell’Istituzione, ma è un valore aggiunto rilevante per far sentire che ci sono persone attente alla loro condizione e che dedicano loro del tempo. “Perché vieni qua il sabato invece di stare con il tuo ragazzo o a divertirti?”. Questa è la domanda che spesso viene fatta dai ragazzi reclusi ai volontari e la risposta è: “perché mi piace e mi diverto come ti diverti tu”. Ci si scambia sorrisi, ci si racconta storie, si creano legami e si diventa significativi gli uni per gli altri costruendo relazioni di fiducia che spesso in quelle istituzionali mancano o sono strumentali da parte dei ragazzi per ottenere qualcosa. Cosa cerca di proporre la vostra Associazione per cercare di “rimotivare” i ragazzi reclusi? Abbiamo riacceso i motori dopo quasi tre anni di stop forzato per l’emergenza pandemica. I ragazzi non sono “sacchi vuoti” da riempire sempre con attività strutturate, certo importanti. Accanto a queste sono necessari momenti di incontro informale. Sono cresciuto all’Oratorio di Valdocco e i momenti belli e spensierati erano proprio quelli passati nella sala giochi. Tra una partita e l’altra si instaurano relazioni, si impara a rispettare le regole, si passa del tempo insieme senza un apparente obiettivo educativo che invece è sempre presente, ma non in modo unilaterale. I ragazzi imparano a stare in gruppo, ma anche i volontari imparano dai ragazzi. Così tutti i sabati pomeriggio e qualche domenica, i volontari dell’Associazione si ritrovano a socializzare con i ragazzi in uno spazio che abbiamo allestito, grazie alle donazioni ricevute. Ci occupiamo anche dei bisogni primari dei ragazzi più poveri che non hanno una famiglia alle spalle a cui mancano vestiti, biancheria intima e prodotti per l’igiene personale, e anche di accompagnamenti all’esterno dei minori e giovani ristretti in occasione di permessi premio. Cerchiamo poi di far conoscere i prodotti realizzati durante le attività professionali partecipando a mercatini e ci siamo fatti promotori dell’allestimento di una sala teatro, un luogo d’incontro tra artisti e i ragazzi, con la possibilità di assistere a spettacoli e partecipare a laboratori specifici anche in collaborazione con la Scuola di “Cirko Vertigo”. Il nome “Aporti Aperte” evoca il principio di pensare l’Ipm aperto alla società civile… Certamente. C’è poi “un penale esterno”, la stragrande maggioranza dei ragazzi che commettono reati, non finiscono in carcere, ma hanno provvedimenti penali che per essere realizzati hanno bisogno di sostegno per attivare borse lavoro e tirocini: l’associazione si propone di sostenere economicamente alcuni di questi percorsi. Per i ragazzi “dentro”, il momento dell’uscita è una fase molto problematica: si rischia di compromettere un lavoro educativo se non ci sono opportunità, in particolare per i minori non accompagnati, di sistemazione abitativa e di sostegno economico. È importante pertanto costruire una rete di relazioni esterne per far fronte a queste necessità. Per quanto ci è possibile lavoreremo anche su questo fronte. Ben vengano pertanto donazioni specifiche. Lei più volte ha evidenziato come il periodo estivo sia il peggiore per i ragazzi detenuti, tempo in cui il volontariato è fondamentale… È così: molte attività come la scuola terminano con lo stesso criterio della “vita fuori”. Ma i ragazzi reclusi non vanno in vacanza e quindi si dovrebbe pensare per tempo ad attività alternative allo stesso modo educative e “di senso”. D’estate rimane, per scelta, la formazione professionale, le attività di “Aporti Aperte” e poco altro, soprattutto nel pomeriggio. E poi si aggiunge la mancanza di Agenti della Polizia penitenziaria, problema per altro che esiste tutto l’anno ma che peggiora nei mesi estivi. Occorre pensare all’estate con largo anticipo e il Dipartimento dovrebbe stanziare fondi appositi e invece le risorse sono sempre meno. Cosa chiedete alla nuova direzione per fare in modo che la situazione dell’Ipm torinese esca dall’emergenza? Chiederemo innanzitutto di restare e mettere radici a Torino, altrimenti ha poco senso impostare un lavoro a termine: un Direttore e un Comandante stabile, dopo viene tutto il resto. Occorre inoltre avere una visione di cosa si vuole fare degli Ipm, perché come sono adesso rischiano di essere inutili e dannosi per i ragazzi, ma anche per chi ci lavora. Occorre una visione progettuale condivisa che parta anche dall’alto, altrimenti l’emergenza diventa quotidianità. Non è facile, ma bisogna metterci mano e lavorare. Gestire l’esistente nel migliore dei modi, ma sapere dove si vuole arrivare, altrimenti sarà sempre peggio. Ho già detto più volte che bisogna intervenire prima che i ragazzi finiscano in carcere. In particolare sui minori stranieri non accompagnati abbandonati a loro stessi, occorrono istituzioni pronte ad accoglierli in modo serio. Napoli. Altro che “Mare Fuori”, ai ragazzi detenuti a Nisida serve il lavoro di Carmine Saviano La Repubblica, 7 luglio 2023 La devianza minorile a Napoli: Maria Luisa Iavarore la studiava prima che il figlio ne diventasse vittima. Ora, dopo un “viaggio” nell’Istituto penale minorile, sceglie di cambiare approccio. Intervista. Nella vita di Maria Luisa Iavarone, docente di Pedagogia sperimentale all’università Parthenope di Napoli, c’è un prima e un dopo il 18 dicembre del 2017, giorno in cui suo figlio Arturo viene aggredito da una baby gang e accoltellato alla gola. “Perché ha iniziato a fare tutto questo casino”, dicevano quei ragazzi: “Al figlio gli si è solo abbassata la voce”. “Da quel momento ho capito che dovevo, ancora di più, entrare con tutti e due i piedi nei fenomeni che avevo studiato per tutta la vita”. Da quel momento la priorità per Maria Luisa è cambiare le cose. O per lo meno non lasciare niente di intentato per farlo. Un diario del suo impegno è contenuto in Ragazzi che sparano. Viaggio nella devianza giovanile (FrancoAngeli) libro che ha curato con Giacomo Di Gennaro, ordinario di Sociologia giuridica alla Federico II sempre del capoluogo campano. Iavarone, a che punto del viaggio siamo? “Stiamo praticamente buttando i soldi dalla finestra”. Cioè? Quanti soldi? “L’esecuzione penale minorile ci costa 40 milioni di euro l’anno. Ma, dati gli indici di recidività altissimi, è come se noi continuassimo a curare un ammalato con un farmaco che non solo è molto costoso ma che è inefficace e alla fine fa morire il paziente”. Si può invertire la rotta? “Dobbiamo individuare i fenomeni, e poi ragionarci sopra affinché si possano costruire buone pratiche per combatterli”. Lei ha studiato a lungo il caso Napoli. La specificità? “La questione adolescenziale è la vera questione meridionale. Il contesto del territorio napoletano è particolarmente attrattivo e rende vantaggiose determinate condotte: qui un’infanzia a rischio si trasforma quasi sempre in un’adolescenza a rischio, che sfocia in una gioventù deviante e deviata”. Condotte “vantaggiose”, immaginiamo, per la criminalità… “I clan di camorra non vedono l’ora di arruolare giovanissimi. Soprattutto perché il reato commesso dai ragazzini ha conseguenze minori rispetto a quello commesso da adulti. Banalmente, si sta in carcere per meno tempo. E poi assoldare i ragazzi costa di meno”. Quanto? “Un killer giovane può costare tra cinquecento e mille euro. Ma per questi ragazzi la motivazione non è solo il denaro”. Che cosa li spinge? “La promessa di affiliazione ai clan, il rispetto, la riconoscibilità”. Sembrano temi lontani dalla città che abbiamo visto in festa per il Napoli… “Negli ultimi 50 anni non è cambiato niente. Mutata la forma, forse, non la sostanza: i minori sono a rischio perché esistono sacche di povertà materiali e culturali da far paura”. Da dove partiamo per identificare queste - ci passi il termine poco accademico - polveriere? “Dal 37 per cento di evasione scolastica. Dal fatto che in Campania ci sono 400 mila Neet, ragazzi che non studiano e non lavorano”. Per il libro avete intervistato i detenuti del carcere di Nisida. Quelli della serie tv Mare Fuori… “Il sistema dell’educazione carceraria non funziona. I ragazzi entrano in una giostra, sembra un villaggio turistico: corsi a ogni ora. Il punto è: che cosa fanno dopo? L’affidamento al lavoro è un miraggio. Nessuno assume un pregiudicato. Del resto lo confermano i ragazzi nelle interviste”. Che cosa le hanno detto? “Che nelle strutture seguono corsi da pizzaiolo, da ceramista, da attore. Ma se poi gli chiedi se farebbero questi lavori anche fuori dal carcere ti rispondono di no. Non è la loro ambizione. Ecco: l’educazione carceraria non disarticola il meccanismo cognitivo che li tiene in ostaggio”. Intorno a quale pensiero costruiscono la loro esistenza? “Tutto va fatto ai margini della legge perché la legge limita la vita, non la orienta. È una distorsione concettuale: percepiscono la regola come ostile. I loro piani di realtà sono ribaltati. La legge è contraria al principio della loro sopravvivenza”. E quindi che cosa fare? “Farli riflettere. Dare loro le categorie per comprendere che hanno commesso un reato. Che niente gli è caduto addosso: sono stati loro a uscire di casa portando con sé pistole e coltelli come fossero smartphone. Sono stati loro a scegliere di commettere reati. Serve investire sull’educazione”. Detta così non è troppo generica come soluzione? “Guardi, abbiamo studiato talmente tanto che possiamo essere specifici fino al dettaglio. Innanzitutto è possibile scientificamente identificare gli ambiti in cui fermenta il rischio sociale. La prevenzione si fa con la scienza, non con le chiacchiere”. Si possono prevenire questi fenomeni? “Ci sono quattro ricorrenze nelle biografie dei ragazzi di Nisida. Cura familiare negligente, contesto socio economico di povertà educativa, basso livello di consapevolezza cognitiva, assenza della figura paterna. Chi nasce e cresce in questa tipologia di famiglie ha un rischio triplo rispetto agli altri di incappare in condotte devianti. E non è determinismo, non è darwinismo sociale, ma è solo l’analisi delle ricorrenze statistiche”. Misure concrete da mettere in campo? “Seguire le madri. Fin dalla gravidanza. Poi lo screening capillare sulla dispersione scolastica. Per i ragazzi che sono già in carcere occorre una sorta di rieducazione: come dicevo, hanno categorie e coordinate fragili, esternalizzano, si auto assolvono. Infine l’educazione post carceraria. Che riguarda tutti i cittadini”. Cioè? “La devianza è un cancro sociale. Aggredisce anche i ragazzi come Arturo, i ragazzi e le famiglie che non hanno niente a che fare con la criminalità. Nessuno di noi può dirsi davvero al sicuro. È un’urgenza sociale”. E bisogna essere preparati per affrontare le urgenze... “Lo si fa con il dispositivo più potente che abbiamo: il mondo si cambia con la cultura. A volte però mi chiedo se gli uomini e le donne nelle nostre istituzioni ne siano al corrente”. Lecco. “Leggermente”, successo per i laboratori con i detenuti primalecco.it, 7 luglio 2023 Gli ospiti coinvolti nella preparazione di giochi da tavolo. Il progetto di collaborazione con la Casa Circondariale di Lecco - annunciato in occasione della presentazione della quattordicesima edizione della manifestazione Leggermente, organizzata da Assocultura Confcommercio Lecco - ha visto svolgersi a inizio giugno la prima tappa del percorso, grazie alla attivazione di un laboratorio ad hoc. A entrare nella struttura per accompagnare gli ospiti detenuti a Pescarenico in un’attività concreta, tesa alla realizzazione di un gioco da tavolo, è stato il pedagogista ludico Antonio Di Pietro. Tre le sessioni svolte: una nel pomeriggio del 7 giugno e due nella giornata dell’8 giugno. “I tre incontri alla Casa Circondariale hanno coinvolto una ventina di persone: dapprima c’è stata una presentazione dei giochi (storia, aspetti culturali, caratteristiche…), poi abbiamo giocato in modo che ciascuno potesse scegliere quale interessava di più da realizzare e tenere con sé - evidenzia lo stesso Di Pietro - I diversi giochi, antichi e moderni, sono stati realizzati utilizzando prevalentemente l’acquerello. I giochi, tutti di strategia, hanno coinvolto i partecipanti e l’intera attività si è svolta in un clima sereno e partecipato. Quasi tutti gli ospiti presenti al laboratorio hanno chiesto di continuare questo percorso avendolo apprezzato. Se ci saranno le condizioni per potere continuare assicuro fin da ora la massima disponibilità da parte mia”. A seguire per conto della Casa Circondariale il progetto laboratoriale è stata l’educatrice Gloria Cattaneo: “Gli incontri sono andati molto bene. I detenuti hanno trovato uno spazio accogliente e molto rilassato. Hanno apprezzato le attività proposte e chiesto di poter proseguire. Ci siamo detti che anche noi dall’interno cercheremo di riproporre questo tipo di attività. Ringrazio Confcommercio Lecco e gli altri partner del progetto per avere ideato questa iniziativa e ringrazio Antonio Di Pietro per l’attenzione mostrata durante gli incontri e anche per la disponibilità a rimanere in contatto”. “Siamo molto contenti che il laboratorio tenuto da Antonio Di Pietro abbia avuto un ottimo riscontro e sia stato apprezzato - evidenzia il presidente di Assocultura Confcommercio Lecco, Antonio Peccati - Questa prima tappa del progetto che ci vede attivare, insieme ad altre realtà del territorio, percorsi e iniziative culturali e formative all’interno della casa Circondariale, con cui da anni collaboriamo in occasione di Leggermente, conferma la bontà della scelta fatta. Ringrazio tutte le persone che hanno reso possibile questa proposta assolutamente di valore”. Uno dei punti di forza di questa iniziativa è stata anche la volontà di utilizzare esclusivamente materiali di recupero per realizzare i tabelloni, le pedine di gioco e i loro contenitori, grazie alla collaborazione con Silea, la società pubblica lecchese per l’economia circolare. “In questo progetto abbiamo voluto coinvolgere la Piccola Sartoria Sociale, la start-up di Silea per il recupero dei rifiuti tessili, che ha realizzato buste e sacchetti su misura rigenerando tessuti e divise usate che sono stati messi a disposizione da un noto hotel a 5 stelle del Lago di Como: in questo modo siamo riusciti a mettere simbolicamente in comunicazione mondi diversi, cucendo un filo di collegamento e di supporto con la realtà carceraria - commenta la presidente di Silea, Francesca Rota - È stato un laboratorio di aggregazione e incontro che ha coniugato sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale”. Varese. “Espressione per immagini”, detenuti diventano poeti per esprimere i loro bisogni varesenews.it, 7 luglio 2023 Sempre, abbiamo bisogno di qualcosa. Ma un conto è arrivare, magari con sacrifici, a soddisfare una necessità. Un conto è non riuscire a guardarsi dentro, a non sapere come fare anche semplicemente a parlarne, di quel bisogno. E uno dei luoghi dove questo è più difficile, è senza dubbio il carcere che coi suoi tempi, e i luoghi che stravolgono la vita di chi è costretto a starci, rischia di allontanare le persone anche da sé stesse. Dunque, in soccorso di questa condizione, molto possono fare i metodi educativi interpretati e impiegati come scienza empirica. Un po’ quello che è successo in questi mesi al carcere di Varese dei Miogni dove è stato attivato un progetto che si chiama non a caso “Espressione per immagini” che nasce dalla collaborazione tra la Casa circondariale di Varese e l’Università dell’Insubria attraverso l’attività intensiva di tirocinio di 200 ore della studentessa tirocinante Irene Mainardi del terzo anno del corso di laurea in Educazione Professionale. Durante il tirocinio, infatti, possono essere realizzati progetti educativi che permettono alla tirocinante di mettere in pratica la teoria studiata durante sui libri. Il progetto è stato condiviso dal Capo area educativa dell’istituto di pena Domenico Grieco che attraverso il suo intervento ha individuato i detenuti con la quale realizzare il progetto e ha partecipato a tutti gli incontri realizzati per supervisionare il lavoro svolto dalla tirocinante e verificare l’andamento del progetto. Progetto che nasce da un’attenta osservazione della tirocinante, la quale ha individuato il bisogno dei detenuti di esprimersi e di tirare fuori le proprie emozioni, in un contesto nella quale queste sembrano nascoste e faticano ad emergere. Per raggiungere lo scopo desiderato viene impiegata una particolare tecnica che prende il nome di “Metodo Caviardage”. Si tratta di “un metodo di scrittura poetica ideato da Tina Festa, che aiuta a tirar fuori la poesia nascosta dentro di te attraverso un processo creativo che parte da una pagina già scritta.” Per il progetto sono stati identificati 14 detenuti suddividendoli in due gruppi da 7. Per ogni gruppo sono stati effettuati due incontri. Il primo incontro è servito per la spiegazione dell’attività tramite un PowerPoint realizzato appositamente dalla tirocinante, ma anche per iniziare il lavoro creativo. Il secondo incontro è servito per ultimare il lavoro iniziato nell’incontro precedente e per dare una restituzione finale al gruppo, allenando la capacità di parlare di se stessi e di esternare il proprio stato d’animo. Al termine di questi due incontri, è stato organizzato con 3 detenuti un momento in cucina per la realizzazione di alcuni dolci da poter consumare insieme il giorno successivo, in un incontro conclusivo finale che vede coinvolti tutti e due i gruppi partecipanti al progetto. Il progetto “Espressione per immagini” è stato realizzato nella seconda metà del mese di giugno 2023. “L’iniziativa proposta dalla tirocinante”, dichiara la direttrice Carla Santandrea, “è stata accolta con favore in quanto innovativa e mirata a far esprimere i vissuti e le emozioni spesso non manifestate dai detenuti. I detenuti hanno partecipato con emozione e coinvolgimento, comprendendo la finalità del progetto”. Il carcere dei Miogni ha attivato da tempo anche altri progetti che aiutano il detenuto a sopportare il periodo di carcerazione e di restrizione della libertà, come avviene per il progetto legato alla “partita di calcetto” in carcere dove i detenuti possono riabbracciare i figli attraverso momenti di gioco. Perugia. Vinicio Capossela incontra la comunità carceraria di Capanne umbriacronaca.it, 7 luglio 2023 Per un evento tra musica e parole: il cantautore suonerà e dialogherà con i detenuti della casa circondariale di Perugia. Tra canzoni, racconti e dialoghi per e con i detenuti, Vinicio Capossela torna in Umbria per un evento speciale targato Moon in June dal titolo “Carcere e altri stati di minorità”. Lunedi 10 luglio, alle ore 16 al carcere di Capanne di Perugia, il cantautore sarà protagonista di un incontro tra musica e parole per suonare e dialogare con i carcerati. Sarà anche l’occasione per presentare in Umbria, in maniera diversa dal solito, il nuovo lavoro dell’artista che tratta temi sociali di grande attualità e anche riferiti al carcere e alla condizione di carcerato. E per affrontare una delle drammatiche urgenze dei nostri tempi, la situazione delle carceri, Capossela ha scritto “Minorità”, canzone che ha pubblicato nel suo nuovo disco “13 canzoni urgenti” generati appunto da un sentimento di urgenza, come l’ha definito il musicista. “A chi servirà una pena che non sa cambiare ma solo consumare? Che senza riabilitare è solo pena corporale”, scrive e canta il cantautore. Un brano che fa riflettere soprattutto dopo i casi di pestaggi in carcere, il record di suicidi dietro le sbarre, e la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito. “Minorità” arriva dopo la lettura del libro “Fine pena: ora” scritto dal magistrato Elvio Fassone, ispirato da una corrispondenza durata tanti anni tra un ergastolano e il suo giudice. E con in mente l’articolo 27 della Costituzione italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A moderare il dibattito sarà il giornalista Leonardo Malà, con interventi anche della giornalista Donatella Miliani e dello psichiatra Silvio D’Alessandro. Figli e fine vita, la legge del caos di Elena Loewenthal La Stampa, 7 luglio 2023 C’è qualcosa di profondamente distorto in un Paese in cui i diritti dell’individuo - i diritti primari, quelli di scegliere i confini della propria vita e dei propri affetti, e quelli che riguardano le garanzie fondamentali - sono affidati se non al caso certo a una contingenza, a una sorta di congiunzione astrale politica e geografica drammaticamente mutevole a seconda dei luoghi, dei momenti, delle voci chiamate in causa. La procura di Savona, andando in controtendenza rispetto alle scelte di (purtroppo) tante altre realtà italiane, ha deciso di non impugnare la dichiarazione di nascita di un bambino, figlio di due madri, registrata in città il 28 marzo scorso. Il via libera è arrivato dal procuratore capo di Savona Ubaldo Pelosi, il quale ha ufficializzato l’iscrizione del figlio di Giulia e Roberta, che pertanto non dovranno avviare quel lungo, complesso e sfiancante procedimento legale di adozione cui sarebbe stata costretta una delle due madri. Il tutto mentre a Padova, Milano e in altre città italiane succede, in casi analoghi, il perfetto contrario: fascicoli che si aprono, trascrizioni che si bloccano, situazioni anagrafiche che si complicano - tutto in nome di un’incertezza giuridica di cui fanno puntualmente le spese uomini, donne e bambini. A proposito di incertezze, sofferenze gratuite e diritti calpestati con quell’algida disinvoltura di cui a volte la burocrazia e la giustizia sono capaci, il giudice del tribunale di Trieste Edoardo Sirza ha ordinato di accertare entro trenta giorni se sussistano le condizioni previste dalla sentenza Cappato della Corte Costituzionale (del 2019) per far accedere al suicidio assistito una donna di cinquantacinque anni affetta da sclerosi multipla, che ha iniziato la propria battaglia per un fine vite dignitoso e responsabile di sé ormai alcuni anni fa. Ancora il 4 novembre scorso aveva chiesto di accedere alla verifica per la morte assistita ai sensi della sentenza. Ma non le hanno detto né sì né no: non hanno risposto. A fronte di questa inadempienza, la giustizia ha deciso di prendere tempo, seppure “soltanto” (si fa per dire) trenta giorni. Ecco dunque come su due fronti così lontani, anzi opposti, della vita di ognuno di noi, l’applicazione di diritti fondamentali e necessari come quelli di una dignità anagrafica alla nascita e del rispetto della volontà di morire perché la vita non ti dà altra scelta, sono affidati all’arbitrio di decisioni che dipendono da variabili imperscrutabili: la geografia dei tribunali, la capacità di esercitare l’empatia da parte di chi deve mettere una firma, la volontà di interpretare la legge in un modo piuttosto che in un altro. E, soprattutto, la presenza o meno di quel senso di responsabilità che ci vuole per provare a mettersi nei panni del prossimo, sia esso una coppia di madri e un bambino o una donna che soffre le pene dell’inferno. Di strada da fare i diritti in questo nostro Paese ne hanno ancora tanta: essi sono il terreno su cui si gioca l’energia di andare incontro al futuro, di cambiare nella direzione giusta. Ma non è ammissibile che questa strada sia una rete capillare e contraddittoria disseminata in tante decisioni del momento, buone o cattive che siano. Bambini in case-famiglia in aumento, molti sono a rischio abusi e ritardi evolutivi di Chiara Bidoli Corriere della Sera, 7 luglio 2023 Sono 7 milioni i bambini che nel mondo vivono dentro istituti di accoglienza e più di 20mila sono a rischio di abusi fisici ed emotivi. Sono i dati emersi dalla Conferenza Internazionale “Gli interventi a sostegno della genitorialità basati sull’attaccamento” che si è tenuta all’Università di Pavia. Si stima che i bambini ospitati in case famiglia e istituti di accoglienza siano 7 milioni nel mondo. I dati, in crescita anche a causa delle guerre, riportati nella Conferenza internazionale su “Gli interventi a sostegno della genitorialità basati sull’attaccamento” che si è tenuta nei giorni scorsi all’Università di Pavia, coordinata da Lavinia Barone (professore ordinario, psicologa psicoterapeuta del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia) e Marlene Moretti (professore orinario e Direttrice del Laboratorio adolescenza della Simon Fraser University di Vancouver) ha posto l’attenzione sugli effetti dell’istituzionalizzazione e poi dell’affido e dell’adozione sullo sviluppo psicologico dei bambini. Lo studio - Secondo un importante studio condotto nel 2020 su più di 100.000 bambini provenienti da oltre 60 Paesi, i ritardi evolutivi dei bimbi ospitati negli istituti riguardano lo sviluppo della circonferenza cranica, il peso, l’altezza, ma anche lo sviluppo intellettivo e socio-emotivo. Questi bambini se non sono seguiti da un caregiver dedicato, nel tempo possono avere un danno socio-emotivo permanente che solo la struttura di una famiglia che li accoglie può attenuare in modo significativo. “Ci siamo concentrati sugli interventi a sostegno dei genitori. È scientificamente provato che lavorando sui caregiver primari si riescono a ridurre i rischi legati allo sviluppo dei bambini, spiega Lavinia Barone Responsabile del Laboratorio per l’Attaccamento e il sostegno della Genitorialità - LAG dell’Università di Pavia. Si tratta di interventi certificati sulle evidenze, con risultati convergenti da lavori decennali provenienti da laboratori di ricerca di tutto il mondo e che riguardano un’ampia serie di indicatori dello sviluppo dei bambini e degli adolescenti. È emerso che la struttura della famiglia, indipendentemente dal fatto che sia biologica, adottiva, affidataria, è in assoluto quella che può recuperare meglio e più velocemente i danni, i ritardi e disagi socio-emotivi dei bambini. Al contrario, orfanatrofi e istituti di accoglienza sono luoghi dove aumentano le problematicità dei minori. Le ultime evidenze scientifiche ci dicono che è il caregiver che si occupa del minore che fa la differenza nell’aiutarlo, ma dev’essere supportato per rendere al meglio nelle proprie capacità. Il legame biologico, invece, è risultato relativamente importante”. Gli interventi - Sono certificati sulla efficacia non prevedono sempre il coinvolgimento diretto di bambini o adolescenti, ma lavorano sui genitori (o caregiver) per migliorare la relazione con i minori che poi va a incidere positivamente, e per lungo tempo, sugli stati d’animo e sui comportamenti di bambini e ragazzi. “Si raggiungono i minori tramite i genitori. Nel caso dei bambini più piccoli, fino alla scuola primaria, si tratta di interventi domiciliari. In pratica si va nelle case e si registrano dei video con interazioni di vita quotidiana dove avvengono scambi di relazione e gioco, piuttosto che momenti in cui il genitore dà regole, disciplina e cerca di guidare il bambino su cosa si può o non si può fare. Supportati da uno specialista, tramite il videofeedback, i genitori vedono e capiscono quali comportamenti sono più sensibili e efficaci e quali invece correggere. Per quanto riguarda invece i genitori degli adolescenti gli interventi sono di gruppo e si fa un lavoro esperienziale attraverso, per esempio, giochi di ruolo dove si mettono alla prova in alcune situazioni tipiche. Il vantaggio è che, in entrambi i casi, si tratta di interventi brevi, che durano dai 2 ai 3 mesi massimo e la cosa interessante è che questi risultati non si esauriscono una volta terminato l’intervento ma si mantengono nel tempo, e possiamo perciò considerarle terapie con un ottimo rapporto costi/benefici”, spiega Barone. L’importanza dell’attaccamento - In America e in Canada questi interventi sono praticati anche come prevenzione sociale, per tenere i ragazzi lontani da “compagnie pericolose”. Nei Paesi in via di sviluppo, tra cui Kenya, Sudafrica, Messico e India si stanno diffondendo grazie al lavoro di molti professionisti che si sono formati con training specialistici e certificati. “Di fatto sono interventi che aiutano l’attaccamento, che è la base del legame affettivo e sociale che si impara all’interno della famiglia. Se la famiglia riesce a rimanere un riferimento affettivo capace di ascolto, guida e protezione, anche nei momenti di crisi o quando i ragazzi crescono e cercano la loro indipendenza come in adolescenza, questo fa la differenza. Per i bambini adottati che hanno conosciuto percorsi di vita con separazioni e perdite, o addirittura traumi, il coinvolgimento dei genitori adottivi attraverso questi interventi è una “terapia naturale di recupero” con risultati positivi e di grande aiuto per tutti”, conclude Barone. Stati Uniti. Libertà d’espressione senza controllo di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 7 luglio 2023 Negli Usa l’unico intervento pubblico sulle piattaforme social è stato bloccato da una decisione senza precedenti di un magistrato che interpreta in modo ultraradicale il Primo emendamento della Costituzione. Nell’era delle reti sociali decisive per l’informazione e la formazione delle opinioni dei cittadini in tutti i campi, dalla politica alla salute, all’ambiente, negli Usa l’unico intervento pubblico - le agenzie federali che segnalano i casi più gravi di disinformazione o i tentativi di destabilizzare diffondendo teorie cospirative e chiedono alle piattaforme di correre ai ripari - viene ora bloccato da una decisione senza precedenti di un magistrato americano. L’ingiunzione con la quale Terry Doughty, giudice federale della Louisiana nominato nel 2018 da Donald Trump, ha vietato alla Casa Bianca e tutte le agenzie federali (da quella sanitaria, la Cdc, a quella per la cybersecurity) anche solo di parlare di contenuti immessi in rete con Facebook, Twitter, YouTube e gli altri social, non ha suscitato grande clamore: la complessità della questione e le sue implicazioni tecniche e giuridiche la rendono un tema assai poco sexy per la stampa. Eppure la drastica decisione di un giudice che, pur non essendo ancora intervenuto nel merito del caso sollevato dai procuratori (trumpiani) di due Stati del profondo Sud conservatore (Louisiana e Missouri), ha comunque bloccato tutto, nel giro di 48 ore ha già provocato le prime conseguenze come la cancellazione di un incontro tra Dipartimento di Stato e piattaforme sulle minacce di destabilizzazione causate da offensive informatiche lanciate da avversari stranieri degli Stati Uniti. In un campo, quello del deterioramento della civiltà e della veridicità del discorso pubblico dovuto alla totale irresponsabilità delle reti sociali per i contenuti da loro diffusi (con conseguente indebolimento della democrazia), il pronunciamento ideologico di questo magistrato che interpreta in modo ultraradicale il Primo emendamento della Costituzione Usa (che garantisce l’assoluta libertà d’espressione) rischia di spazzare via il poco che l’Amministrazione era riuscita a fare, in mancanza di regole, almeno a livello di consultazione. Se passa la tesi del ricorso - l’intervento della Casa Bianca considerato comunque coercitivo perché dietro ci sarebbe una ventilata minaccia di mettere limiti - rimarrà solo l’autoregolamentazione di social privati per nulla interessati a usare filtri che danneggiano il business; e che, quando ne hanno introdotto qualcuno, sono stati bollati da Trump come censori. Tunisia. Il mito della democrazia senza giustizia sociale di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 luglio 2023 Primavera mancata. Dal 2011 la Tunisia ha inanellato conquiste: elezioni libere, una costituzione tra le più progressiste del mondo arabo, parità di genere, matrimonio civile. Da cui il cortocircuito liberal: urne e diritti civili come massima espressione di un sistema democratico. Una narrazione che esclude la questione focale invocata dalla rivoluzione: uguaglianza socio-economica. E Sfax, che ieri manifestava contro lo stato, oggi scende in piazza per cacciare i migranti. La violenza feroce di una parte della popolazione di Sfax contro i migranti subsahariani riesce dove tante analisi hanno fallito: sfatare il mito della Tunisia come unica rivoluzione araba riuscita. Un mito che ha travisato la realtà del processo democratico intrapreso dal paese nordafricano grazie alla rivoluzione dei Gelsomini, deflagrata nel dicembre 2010 tra le fiamme accese da Mohamed Bouazizi, ambulante di Sidi Bouzid, profondo entroterra tunisino. Con quelle fiamme si uccise, di fronte all’ennesimo abuso della polizia, nel simbolico e disperato tentativo di togliere all’autorità il monopolio della violenza. Dalla Tunisia la rivolta si propagò al Nord Africa, al Golfo, al Levante. E dalla Tunisia partì un’apparente democratizzazione narrata come un successo. In parte lo è stato, a sancirlo una cerimonia a Oslo nel 2015: il Nobel per la Pace assegnato al “Quartetto” - lo storico sindacato Ugtt, la Confindustria, la Lega per la difesa dei diritti umani, l’Ordine nazionale degli avvocati. A differenza dei paesi vicini dal 2011 intrappolati in controrivoluzioni e guerre civili, la Tunisia ha inanellato piccole grandi conquiste: elezioni libere, una costituzione tra le più laiche e progressiste del mondo arabo, riforma del diritto di famiglia, parità di genere, matrimonio civile. Da cui il cortocircuito liberal: urne e diritti civili come massima espressione di un sistema intrinsecamente democratico. Una narrazione che esclude la questione focale invocata dalla rivoluzione dei Gelsomini: giustizia e uguaglianza socio-economica, fine dell’autoritarismo politico-economico dello stato. Quella democrazia in Tunisia non è mai nata. La struttura piramidale della società è intatta, affatto scalfita dalla pioggia di miliardi di dollari che su Tunisi sono piovuti da occidente, Ue, Usa, Fmi. La pioggia si è asciugata lasciando sul selciato inflazione, disoccupazione, carenza di cibo, medicine e carburante, esclusione dell’entroterra più povero con la costa che ingurgitava gli investimenti infrastrutturali a favore del turismo internazionale. I tunisini si sono accorti ben prima di noi che la democrazia non era mai arrivata. Hanno manifestato la disillusione in tanti modi, solo apparentemente contraddittori: ingresso in forze nelle fila dei movimenti islamisti in cambio di un salario (la prima “cittadinanza” dei foreign fighters dell’Isis è la tunisina); emigrazione verso l’Europa; proteste di piazza. Negli anni non sono mai cessati scioperi, scontri con la polizia, attivismo sindacale per ottenere servizi e salario. Ovunque, a Tunisi, Kasserine, Jebeniana, Sidi Bouzid, Mornag. Volevano la loro primavera, la risposta è stata austerity sul fronte esterno e autoritarismo su quello interno. Il terzo prestito del Fmi, 1,9 miliardi di dollari, è appeso al sì di Tunisi a un pacchetto lacrime e sangue: taglio dei sussidi su pane e carburante (con impatto a cascata sul prezzo degli altri beni), riduzione radicale dei dipendenti pubblici e dei loro stipendi, ristrutturazione delle aziende statali (privatizzazioni), aumento dell’Iva, svalutazione della moneta per attirare investimenti stranieri. Non proprio la strada verso la giustizia sociale. Chiedete a Egitto, Marocco, Giordania. In casa, le libertà conquistate si sono via via ristrette, come spesso accade sfruttando lo spettro del terrorismo: dal 2015 la Tunisia è in stato di emergenza con l’obiettivo palese di contrarre lo spazio pubblico del dissenso, fino all’apice del golpe istituzionale del presidente Saied. La primavera non è arrivata, soffocata dalla letale simbiosi tra autoritarismo e neoliberismo. In Tunisia assume le sembianze delle luci e dei grattacieli sul lungomare, le vie per turisti e i cafè a ogni angolo, l’allucinazione neoliberista che offusca la miseria del popolo tunisino. Che oggi devia la sua rabbia in una guerra tra poveri: se Sfax, fino a poco fa, scendeva in strada contro l’élite politica, oggi lo fa per cacciare i migranti, intossicata dalla retorica razzista e nazionalista di Cartagine. È il paese della mancata primavera, del mito della democrazia che contrappone diritti civili a diritti sociali e della leggenda della “stabilità” a difesa dell’Europa: baluardo del terrorismo e frontiera esternalizzata di Bruxelles. Quale stabilità cresce sulla povertà? Tunisia. Caccia ai disperati di Sfax di Giorgia Linardi La Stampa, 7 luglio 2023 Buttati nel deserto. Questa la sorte dei migranti subsahariani cacciati da Sfax, dove gli episodi di intolleranza xenofoba non sono una novità ma mai avevano raggiunto i livelli di questi giorni. La notte la città si trasforma in una caccia alla pelle nera. Intere famiglie sono state buttate fuori dalle proprie case, bastonate, insultate e deportate nel deserto al confine con la Libia. Le “notizie dal fronte” riportano una donna incinta deceduta, mentre già si sapeva che avesse un’emorragia. Abbandonata nel deserto senza cibo né acqua, nel Sahara a luglio. Neonati buttati a terra in mezzo a uomini feriti. Nessun aiuto umanitario. Le organizzazioni internazionali guardano da Lac, il quartiere di Tunisi in mano agli Emirati dove hanno sede le rappresentanze internazionali. Nella striscia di sabbia tra Tunisia e Libia nessuno ha accesso: è zona militare. Ricordo che un anno fa, arrivata alla città di confine Ben Guerdane, non mi fecero andare oltre il check-point. Cosa accade più in là, nella zona a più alta densità di traffico di qualsiasi bene con la Libia, non ci deve riguardare. Eppure, proprio in quella fascia di terra, la polizia tunisina e i cittadini locali si sono uniti contro un nemico comune. Si vedono gli agenti della Garde Nationale armati accanto a civili che scagliano pietre contro i migranti. Khaled è tra i respinti al confine che in pochi giorni sono diventati da circa 400, secondo Human Rights Watch. Ha la testa aperta da una mazzata. L’ho già vista una testa così, in un centro di detenzione a Tripoli, dove in una cella le guardie avevano massacrato le persone che chiedevano di poter respirare. In cambio gli hanno aperto i lembi a colpi di AK47, calci e tubi in ferro. La testa apparteneva a un bambino di 12 o 13 anni. Piangeva da due giorni per il dolore. Gli avevano messo del dentifricio o qualcosa di simile, sperando facesse l’effetto di un medicamento. Non so che fine abbia fatto. Sparito, come la gran parte dei migranti irregolari in Libia. Libia-Tunisia-Europa: c’è un filo diretto che ci dice due cose. La prima è che l’Ue può mettere tutte le toppe che crede vantando gli accordi di cooperazione (vacui) con i Paesi nordafricani, ma le persone continuano a fuggire. La seconda è che quanto sta accadendo in Tunisia non può non essere visto in relazione alle politiche di contenimento europee. L’Ue è disposta a tutto pur di fermare la migrazione dal continente africano. Rendendosi ricattabile, ha offerto a Saied la possibilità di usare i migranti come carta da gioco nei negoziati con Bruxelles per ottenere i fondi di cui ha disperato bisogno per evitare l’imminente collasso socio-economico. Intanto - come si suole fare anche dalla nostra parte del Mediterraneo - per distrarre i cittadini dalle responsabilità politiche della situazione drammatica in cui versa il Paese, ha incitato all’odio razziale additando i migranti come causa del malessere generale. Così facendo, ha contestualmente alimentato la fuga verso l’Europa, foraggiando il business dei trafficanti che ha già causato centinaia di morti partiti da Sfax. Ma mentre ci arrivano immagini di donne nere che svuotano le loro case nel timore di essere aggredite nella notte e deportate nel deserto, Johansson in visita a Lampedusa ha elogiato la cooperazione con la Tunisia. Per l’Ue, infatti, la Tunisia deve qualificarsi come un Paese sicuro dove investire sui rimpatri - e in fretta. Svuotare l’Europa, alzare la fortezza: questo l’obiettivo urgente. Nessun commento su quanto sta accadendo: la verità sulla Tunisia ridurrebbe il disegno europeo a carta straccia. Ma le immagini e le testimonianze che ci arrivano da Sud parlano chiaro, mentre i contatti con le vittime si interrompono non appena i loro telefoni vengono sequestrati. D’altra parte, la censura delle violenze contro la popolazione subsahariana non è nuova, come mi ha raccontato a Tunisi un ragazzo sudanese che ha perso casa, lavoro e rispetto dopo il discorso xenofobo di Saied a febbraio. La polizia durante una retata avrebbe torturato alcuni ragazzi subsahariani sottoponendoli a elettroshock proprio nel commissariato del ricco quartiere di Lac. L’obiettivo delle sevizie: sapere chi pubblica le immagini dei violenti sgomberi della polizia contro le persone migranti. Intanto oltre 1.220 persone sono arrivate a Lampedusa in circa 24 ore. Una donna ha partorito durante la traversata. Ha preferito questo rischio a quello di morire dissanguata nel deserto. Un’incosciente, diremmo noi da qui. Libano. I rifugiati siriani scappati dalla guerra del 2011 non sono più graditi La Repubblica, 7 luglio 2023 Deportazioni arbitrarie, anche di minori non accompagnati, e arresti: gli abusi contro i rifugiati documentati da Human Rights Watch. Le forze armate libanesi (LAF) hanno arbitrariamente arrestato e deportato migliaia di siriani, compresi i minori non accompagnati, in Siria tra aprile e maggio 2023, scrive Human Rights Watch. I siriani deportati hanno affermato che le LAF non hanno tenuto conto del loro status di rifugiati né del rischio che avrebbero potuto subire forme di persecuzione in caso di ritorno. Un uomo ha detto che l’esercito siriano lo ha arbitrariamente detenuto, torturato e arruolato nelle forze di riserva dell’esercito siriano dopo che è stato deportato ad aprile. I rimpatri sommari, che si sono intensificati dal 1° gennaio, hanno generalmente preso di mira i siriani senza status legale in tutto il Libano. La vicenda. A maggio e giugno 2023, Human Rights Watch ha intervistato telefonicamente o di persona undici uomini di origine siriana che le forze armate libanesi hanno rimpatriato in Siria, oltre a 5 parenti di persone che sono state, anch’esse, arbitrariamente arrestate e deportate. L’organizzazione ha anche intervistato 10 rappresentanti di ONG internazionali e nazionali, associazioni della società civile e membri della comunità umanitaria che lavorano sulla situazione dei rifugiati siriani in Libano. L’8 giugno, Human Rights Watch ha inviato lettere con i risultati della ricerca alle LAF e alla Direzione della sicurezza generale e ha chiesto chiarimenti. Le LAF hanno risposto il 22 giugno, affermando che l’esercito stava mettendo in atto la decisione del 24 aprile 2019 del Consiglio superiore di difesa di deportare tutti i siriani entrati in Libano in modo irregolare dopo l’aprile 2019. L’esercito ha negato di arrestare sistematicamente i siriani senza documenti e ha sostenuto che i rimpatri forzati avvengono nell’ambito di operazioni di sicurezza. Le bugie delle LAF. Tuttavia, in 15 dei 16 casi esaminati da HRW, le persone deportate erano entrate in Libano prima del 2019. Tre dei cinque parenti intervistati hanno affermato di non aver avuto notizie dei propri familiari dal momento dell’arresto. Due hanno ricevuto telefonate dai loro parenti diversi giorni dopo l’espulsione. Uno era stato arruolato forzatamente dall’esercito siriano, un altro ancora era stato reclutato contro la sua volontà per prestare servizio nella riserva militare siriana. E si tratta solo di alcuni casi di quelli analizzati da HRW. I dati. Sebbene non esistano statistiche pubbliche ufficiali sul numero di arresti o deportazioni effettuate dalle LAF, una fonte umanitaria consultata da HRW ha affermato che, dall’aprile 2023, ci sono stati oltre 100 raid, 2.200 arresti e 1.800 deportazioni di rifugiati siriani. Gli operatori umanitari hanno sottolineato che l’ondata di rimpatri forzati del 2023 è la più grave degli ultimi anni. Human Rights Watch ha anche intervistato 3 persone che le LAF hanno deportato dopo averle salvate il 31 dicembre 2022 da una barca con a bordo più di 200 persone che tentavano di fuggire in Europa attraverso il Mediterraneo. In tutti i casi di rimpatri documentati, l’esercito non ha fornito ai deportati l’opportunità di contestare la decisione. Quando le persone arrestate hanno detto di essere registrate come rifugiati presso l’UNHCR, le loro dichiarazioni sono state ignorate. Sei persone hanno riferito di avere subito abusi durante la deportazione, tra cui percosse, minacce, molestie sessuali e trattamenti degradanti come l’essere bendati, schiaffeggiati e costretti a stare in piedi per ore. In diverse occasioni l’UNHCR ha confermato che la Siria non è ancora un Paese sicuro, per cui tutte le persone rimpatriate sono in pericolo di vita. I rifugiati in Libano. Il Libano ospita più di circa 1,5 milioni di rifugiati siriani fuggiti dal 2011, attualmente è il paese con la più alta popolazione di rifugiati pro capite al mondo. Nel mezzo di una crisi economica senza precedenti che attanaglia il paese, il 90 per cento dei rifugiati siriani vive in condizioni di estrema povertà. Fino a gennaio 2015, i siriani in fuga dalla guerra potevano entrare nel paese senza visto e rinnovare la residenza praticamente senza spese. Dal 2015 in poi la Direzione Generale della Sicurezza ha vietato alle Nazioni Unite di registrare i rifugiati siriani e ha imposto regolamenti restrittivi e costosi per il rinnovo della residenza, impedendo a molti rifugiati di mantenere uno status legale nel Paese. Attualmente solo il 17 per cento dei rifugiati siriani ha la residenza legale. La mancanza di status legale significa che le persone non possono muoversi liberamente e hanno difficoltà a ottenere servizi come l’assistenza sanitaria o l’istruzione e a registrare nascite, morti e matrimoni. Nel 2019 il Consiglio superiore di difesa del Libano ha preso diverse decisioni che hanno aumentato la pressione sui rifugiati siriani in Libano, tra cui la deportazione sommaria di coloro che entrano irregolarmente nel paese e la repressione dei siriani che lavorano senza autorizzazione. Il risultato ha portato a una serie di regolamenti coercitivi e pratiche ad hoc progettate per fare in modo che i rifugiati siriani alla fine si sentano come se non avessero altra scelta che tornare in Siria.