“Il carcere? Può creare ponti di riconciliazione” di Rosanna Borzillo Avvenire, 6 luglio 2023 Parla il nuovo Garante dei detenuti di Napoli, don Tonino Palmese, salesiano, con una lunga esperienza nelle carceri e a fianco delle vittime dei reati. L’importanza di andare “verso l’altro” per ritrovarsi. Don Tonino Palmese, 66 anni, salesiano da oltre trenta, è stato scelto dal sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, come nuovo Garante dei diritti dei detenuti nel capoluogo campano. Prende il posto di Pietro Ioia, arrestato nell’ottobre del 2022, con l’accusa di aver introdotto sostanze stupefacenti e cellulari nel carcere di Poggioreale. Don Tonino perché un salesiano è stato scelto come Garante? La mia identità storica e sacerdotale coincidono. In questo c’è la forza e la bellezza del cristianesimo incarnato dove la separazione non impedisce alle persone di restare prete all’altare e cittadino nella storia. Sulla sua strada, come presidente della Fondazione Polis, da circa vent’anni, ci sono i familiari delle vittime innocenti della criminalità... Da tempo ci siano posti, con i familiari, il problema di come non emarginare dalla nostra riflessione il volto dell’altro: i colpevoli, quelli che hanno determinato nella vita delle vittime innocenti il dolore e la sofferenza. Questo percorso, iniziato prima nel carcere minorile di Nisida, poi, a Poggioreale e Secondigliano, mi ha dato la possibilità, insieme ai familiari delle vittime, di comprendere che quando si costruisce un ponte tra le vittime e i colpevoli si realizza un primo vero “miracolo”: l’esodo dalla propria condizione di rassegnazione perché vittima o perché colpevole. L’unico motivo per uscire è l’incontro verso l’altro da me: in questo andare verso l’altro c’è la possibilità anche di uscire dalla propria condizione di sudditanza, sia di chi ha subìto, sia di chi ha commesso l’errore. In questi anni ci sono stati degli incontri di riconciliazione importanti - fra tutti, Lucia Montanino, vedova di Gaetano, guardia giurata, uccisa durante una rapina e che ha scelto di riconciliarsi con il giovane che lo ha ucciso - che l’hanno portata anche a diventare referente della giustizia riparativa per la diocesi di Napoli... Credo che nella domanda c’è già l’ermeneutica della risposta perché la parola esatta è “riconciliazione”: Molte volte si utilizza in maniera impropria una parola che alla povera vittima o al povero colpevole determina frustrazione e anche la vergogna di non aver capito che cosa fare: cioè “perdono”. L’esperienza più vera e più matura è, invece, quella della riconciliazione che avviene a diversi livelli: con se stessi perché se si decide di poter dialogare con il mondo dei colpevoli vuol dire che si sta già superando il respingimento o l’odio per quello che è accaduto. Poi, c’è un’altra riconciliazione: imparare ad avere compassione dell’altro che nasce con l’incontrarsi, guardarsi negli occhi, fare memoria di ciò che è accaduto. Nel fare memoria - vittima e colpevole - si rendono conto, spesso, di stare dalla stessa parte: questa forma di riconciliazione - che è supportata dalla memoria dell’accadimento - è già una forma emancipata di riconciliazione. Lei andrà in carceri dove c’è il problema del sovraffollamento, edifici fatiscenti, dove sarà necessario garantire la dignità dei detenuti, ma dove c’è anche il mondo di tutti gli agenti con cui relazionarsi... Credo che il personale carcerario debba recuperare quanto più possibile - ovviamente non sono io il legislatore in tal senso - la dignità di essere i custodi e praticanti della Costituzione che, di fatto, si fa prossimità alle persone detenute. Certamente immaginando la fatica e il disappunto probabilmente di tante persone che lavorano nel carcere perché questa dignità - come accade per i detenuti - anche a loro non è riconosciuta. Noi abbiamo una carta costituzionale che è così intrisa di umanesimo cristiano che prevede nell’incontro con il detenuto non la soddisfazione di una vendetta verso qualcuno che ha sbagliato, ma la possibilità di abbracciare e di accompagnare qualcuno che deve riemergere dalla condizione di sudditanza e di morte nella quale è immerso. Il garantismo amorale di Isaia Sales La Repubblica, 6 luglio 2023 La riforma Nordio svela la cultura della destra sulla giustizia. L’abuso di potere (di cui l’abuso d’ufficio è solo una modalità) è un comportamento tipico delle élite. Per abusare del potere, infatti, bisogna averlo e, in genere, la gestione del potere è una prerogativa delle classi dirigenti. Nelle settimane scorse si sono incrociati alcuni avvenimenti che impongono una riflessione storica sull’argomento. Da un lato, la scomparsa di Silvio Berlusconi, la sua lunga dimestichezza con il potere e l’uso spregiudicato che ne ha fatto; dall’altra la riforma della giustizia del ministro Nordio che è a suo modo un manifesto ideologico di una parte delle élite del Paese; e poi le vicende della ministra Santanchè che rappresentano emblematicamente le virtù imprenditoriali di una donna di potere dell’Italia contemporanea; senza dimenticare la definizione delle tasse come “pizzo di Stato” da parte della Meloni, che ha squadernato una particolare idea di Stato (e del potere) da parte di chi dovrebbe rappresentare lo Stato e le sue leggi. La riforma di Nordio segna una svolta nella concezione della giustizia della destra italiana di derivazione non berlusconiana. Si tratta di una svolta formalmente “garantista”, ma tutto si può dire della cultura della destra italiana tranne che abbia alle spalle una tradizione garantista. La tradizione da cui proviene la maggior parte dei dirigenti di Fratelli d’Italia è stata sempre poco attenta ai diritti dei cittadini di fronte agli eccessi violenti delle forze dell’ordine, se non addirittura forcaiola. Perché, allora, così compatti dietro Nordio? Semplicemente perché in questo modo si sancisce il definitivo abbandono di una cultura di destra diffidente verso le élite (economiche, politiche, finanziarie) con l’identificazione piena in un’altra cultura finora antagonista ai suoi principi: quella dispregiatrice dell’autorità dello Stato e delle sue leggi. Dunque, Nordio inaugura (per Fratelli d’Italia) la stagione del garantismo di potere. La destra italiana è trina nelle sue espressioni partitiche ma si va ormai omologando in una identica cultura “acquisitiva”, una ideologia del “lasciar fare” che osteggia qualsiasi intromissione di regole nella fluidità del mercato e degli interessi, un atteggiamento di diffuso antistatalismo che si traduce nel rifiuto di qualsiasi superiorità degli interessi della collettività rispetto a quelli dell’impresa privata, una legittimazione dell’evasione e dell’elusione contributiva che fa tollerare ogni impresa che compete al di fuori del pagamento di ciò che spetta allo Stato. La potestà che fornisce il voto degli elettori viene considerata superiore a qualsiasi imposizione di legge. Tutto ciò lo si potrebbe sintetizzare in una battuta tratta da House of cards: “La morale è lo sproloquio di chi non sa vivere, la vendetta di chi non ha ottenuto successo, la rivalsa di chi ci ha provato e ha fallito o di chi non ha avuto neanche il coraggio di provarci”. La più grande vittoria di Berlusconi dopo la sua fine terrena è nell’aver conquistato tutta la destra italiana ai suoi principi: l’economia e la politica sono sottratti a qualsiasi considerazione etica e a qualsiasi limite di legge. In questa logica, il garantismo non è altro che tutela dei potenti dall’intromissione della giustizia nelle loro scelte anche quando violano le leggi dello Stato. E quando queste leggi non si possono aggirare, le si cambia. Una specie di garantismo amorale, che da difesa dei più deboli nei confronti degli abusi del potere (a partire da quello della giustizia) si è trasformato in tutela dei più potenti da ogni intervento della magistratura. In fondo, questa cultura fa proprio il convincimento che dentro le leggi non si può governare con efficienza, non si può competere sul mercato. Pertanto, sono degni dello status di potenti solo coloro che sfidano la legge senza pagarne conseguenze. L’abuso diventa una caratteristica del potere, non una sua degenerazione. In Italia, più che in altre nazioni, si considera il potere come sfida permanente alla legge. Tutte queste considerazioni potrebbero spiegarci perché nel nostro Paese si può essere considerati statisti senza che si abbia senso dello Stato e si può rappresentare lo Stato pur alimentando l’antistatalismo. Ddl Nordio, sì del Mef. E il sorteggio dei togati del Csm fa già discutere di Simona Musco Il Dubbio, 6 luglio 2023 È arrivata la bollinatura della riforma, che ora passa in Commissione Giustizia al Senato. Scintille sulla proposta di Zanettin. Dopo settimane di attesa, il ddl Nordio è pronto ad arrivare in Senato. È arrivato infatti ieri il via libera del ministero dell’Economia e delle finanze, impegnato, negli ultimi giorni, a trovare le coperture per garantire la possibilità di istituire il gip collegiale voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per le misure cautelari in carcere. Un progetto che prevede l’assunzione, nel giro di due anni, di 250 magistrati e dunque un impiego di risorse non indifferente. La bollinatura tanto attesa apre ora la strada al disegno di legge - che, tra le altre cose, abolisce l’abuso d’ufficio - verso la Commissione Giustizia del Senato. Dove a prendere il fascicolo in mano sarà la presidente Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega e tra le più attente ad evitare sbavature sulle riforme. Tant’è che è solo grazie al suo placet che, alla fine, il testo di Nordio è approdato in Consiglio dei ministri con la cancellazione dell’abuso d’ufficio, decisione non proprio condivisa da Bongiorno che però ha ottenuto in cambio la promessa di una revisione complessiva dei reati contro la pubblica amministrazione. Qualsiasi correttivo al testo, dunque, passerà per le mani della presidente leghista. Che vuole mantenere il “controllo” anche sul capitolo intercettazioni, al centro di un’indagine conoscitiva che a breve verrà condensata in una relazione e che rischia di creare una guerra pesantissima con la magistratura. Nordio ha annunciato, a più riprese, di essere intenzionato ad una profonda revisione, partendo dal budget a disposizione di ogni procura e passando per una concreta attuazione dell’articolo 15 della Costituzione, che tutela la segretezza delle conversazioni. Un ulteriore passo in avanti rispetto ai limiti già imposti alla pubblicazione delle captazioni, che ha suscitato l’ira della Federazione nazionale della Stampa. Ma c’è un limite che, secondo Bongiorno, non va superato: cancellarle è impossibile. Quindi le annunciate strette a più riprese attribuite al ministro - come quella di limitarle a mafia e terrorismo - sarebbero fuori discussione. In ogni caso, gli ingredienti per una nuova polemica con la magistratura ci sono tutti. E nonostante più volte, dall’ufficio di Giorgia Meloni, sia arrivato l’invito a non esasperare il rapporto con le toghe, gli annunci degli ultimi tempi non fanno ben sperare. Mentre è ancora vivo il dibattito sul ddl Nordio, infatti, dalla festa dei giovani di Fratelli d’Italia il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove ha annunciato il sì del governo alla separazione delle carriere e al sorteggio dei togati del Csm. Tutti temi che toccano in maniera innegabile i nervi della magistratura. E mentre si attende un testo sulla prima proposta, che richiede una modifica di tipo costituzionale della legge, in Commissione Giustizia al Senato sono in corso le audizioni informali nell’ambito del ddl presentato dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che ha proposto il sorteggio temperato per l’elezione della componente togata di Palazzo dei Marescialli. E già ieri si sono registrati i primi segnali di nervosismo: il Pd, infatti, ha difeso strenuamente la riforma Cartabia, la stessa che, ha ribadito Zanettin, non ha inciso minimamente sulle degenerazioni correntizie venute fuori con il caso Palamara. Per quanto riguarda il sorteggio, ha sottolineato in audizione Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale dell’Università del Salento, “non riesco a vedere, in scienza e coscienza, perché si debba passare per una revisione costituzionale. In nessun punto la Costituzione definisce il Csm come un organo di rappresentanza della magistratura”. E il fatto che la Carta parli di elezioni, ha aggiunto, non deve indurre in errore: “Le elezioni - ha sottolineato - non sono sempre volte all’instaurazione di un rapporto rappresentativo”. Il conclave, ad esempio, “elegge il Papa e il Papa non è il rappresentante del conclave”. Inoltre, “il giudice in quanto giudice non è libero di associarsi”, perché l’associazionismo “finisce inevitabilmente per concorrere con il circuito rappresentativo politico”. Per Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, basterebbe però la riforma Cartabia, “di cui aspettiamo ancora lo svolgimento del tema dei decreti attuativi”, ad evitare le degenerazioni. E il Csm, ha ricordato, è un organo di alta amministrazione e in quanto tale ha “un ambito di discrezionalità e di interpretazione nello stabilire come si organizza, non applicando la legge secondo un meccanismo di algoritmo automatico”. L’organizzazione prevede “scelte di impostazione”, dunque, ed anche il tema dell’associazionismo sarebbe superato: “Dal momento in cui c’è un’elezione - ha aggiunto - c’è il concetto di rappresentanza in quanto impostazione”. La riforma Cartabia, ha però replicato Zanettin, non basta: mentre su molti aspetti si è ancora in attesa dei decreti di attuazione, “il sistema elettorale è stato immediatamente precettivo ed è già stato sperimentato. Per nostra opinione - ha evidenziato - non ha superato le criticità che invece il sistema della stessa legge Cartabia aveva come obiettivo”. Tra questi anche la possibilità di garantire ai magistrati fuori dalle correnti di poter arrivare a Palazzo dei Marescialli: alle ultime elezioni, infatti, “è stato eletto un unico magistrato indipendente”, il secondo nella storia del Csm. “Con questa legge - ha dunque concluso - non ci sono stati sostanziali cambiamenti rispetto al passato”. Nel replicare, Esposito ha evidenziato che il sorteggio non esclude la discrezionalità del Csm: chi viene eletto, ha sottolineato, non si trasforma “in un automa”, mentre tale scelta garantirebbe “un metodo per evitare che vengano preposti al Csm non dei soggetti i quali rispondono a organizzazioni correntizie”. Anche perché, ha detto da avvocato amministrativista, “i provvedimenti scolasticamente più illegittimi che io abbia visto sono proprio quelli del Csm”. Le aggregazioni sono ovvie, ha spiegato, “ma se andate a leggere gli interventi che criticano il sorteggio fanno tutti riferimento ad argomenti propri della rappresentanza politica. Ma quindi è un organo di rappresentanza politica? Il Csm non dovrebbe creare un indirizzo politico alternativo”. E il sorteggio - già previsto dalla Costituzione, laddove disciplina i giudizi d’accusa contro il Capo dello Stato - “non preclude le elezioni”. Per Valerio Savio, presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Roma, il sorteggio non sarebbe utile a recidere il legame tra i componenti togati e le correnti. “Pensare che un sistema elettorale possa raggiungere questo risultato è un’idea ingenua - ha sottolineato -. Se può impedire la costruzione di carriere pianificate nel lungo termine, non riuscirebbe ad elidere il legame con le correnti, indebolendo il peso rappresentativo dei consiglieri togati rispetto a quelli eletti dal Parlamento”. Abuso d’ufficio e intercettazioni, Bruxelles in allarme per la riforma Nordio di Claudio Tito La Repubblica, 6 luglio 2023 Nel report annuale della Commissione sullo Stato del diritto, si punta il dito sulle ultime mosse del governo Meloni. A Bruxelles scatta l’allarme sulla giustizia italiana. Nel report annuale della Commissione sullo Stato del diritto, si punta il dito sulle ultime mosse del governo Meloni. L’Ue sta infatti “monitorando” la riforma Nordio che cancella l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze. Mette sotto osservazione i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni e tiene conto delle preoccupazioni sul progetto di separare le carriere di giudici e pm. Il report dell’esecutivo guidato da Ursula von der Leyen e firmato dal commissario alla giustizia, il belga Didier Reynders, si riferisce dunque esplicitamente alle iniziative assunte dal governo di centrodestra. Sottolinea che i progressi compiuti in questo settore sono determinati soprattutto dalla riforma Cartabia. Quindi dall’intervento svolto dal precedente esecutivo Draghi. Ma che c’è comunque ancora molto da fare. Sui tempi lunghi dei processi che rappresentano “una sfida seria”, sulla digitalizzazione della giustizia, sul conflitto di interessi e sulla difesa dei giornalisti e della libera stampa. Le osservazioni, ovviamente riguardano anche gli altri 26 stati membri. E l’attenzione si concentra in particolare sui due paesi sovranisti: Polonia e Ungheria. Che non hanno compiuto passi avanti. Il report parte da un presupposto: solo il 39 per cento degli italiani pensa che l’indipendenza dei magistrati raggiunga un livello adeguato. Anche sulla riforma del Csm è allora in corso un “monitoraggio”. Lo studio dell’esecutivo di Bruxelles sottolinea quindi alcune preoccupazioni che stanno emergendo in questa fase. La prima riguarda l’obiettivo della separazione delle carriere che secondo “i soggetti coinvolti provoca allarme” perché espone i giudici ad una “potenziale influenza politica”. Così come desta timori il procedimento disciplinare avviato dal ministro Nordio nei confronti dei magistrati di Milano. Ma sono le recenti proposte del gabinetto Meloni a provocare i maggiori timori. L’idea di cancellare l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, infatti, “depenalizzerebbe importanti forme di corruzione e potrebbe avere un impatto nella effettiva lotta contro la corruzione”. I passi avanti sono stati compiuti dal governo Draghi anche grazie ai fondi del Pnrr. Progressi sulla digitalizzazione, sul numero dei magistrati e sulla lunghezza dei processi. Anche se tutto questo ancora non basta. Basti pensare che mediamente solo il primo grado di una causa civile si chiude in 550 giorni. Il faro europeo illumina anche le condizioni relative alla libertà di stampa. Si osserva che il recente progetto del governo “limita la possibilità per i giornali e i giornalisti di pubblicare i contenuti delle intercettazioni”. Mentre bisognerebbe “rafforzare la difesa del segreto professionale e delle fonti giornalistiche”. Per quanto riguarda l’informazione, il Report presenta una parte tutta dedicata alla Rai. Nella quale si rimarca la “necessità di una riforma che difenda meglio la tv pubblica dai rischi di una influenza politica e una dipendenza finanziaria dal Governo”. Secondo la Commissione, servirebbe “un più adeguata e stabile fonte di finanziamento coerente con la funzione di servizio pubblico”. “Indebolita la lotta alla corruzione”. L’Ue boccia la riforma Nordio di Raffaella Malito La Notizia, 6 luglio 2023 Bruxelles contro l’abolizione dell’abuso d’ufficio. L’affondo nel Rapporto sullo Stato di diritto. L’unica nota positiva riguarda i progressi significativi nella digitalizzazione della giustizia, per il resto l’edizione di quest’anno del Rapporto sullo Stato di diritto in Italia della Commissione europea tira le orecchie al nostro Paese su molti campi di azione. Il richiamo più forte arriva sull’abuso d’ufficio. La sua abolizione contenuta nella riforma della giustizia targata Carlo Nordio, denuncia l’esecutivo comunitario, potrebbe compromettere la lotta alla corruzione. “È stata presentata una proposta di legge che mira ad abrogare il reato di abuso di ufficio pubblico e a limitare la portata del reato di traffico di influenze”, nota il rapporto. “Le modifiche depenalizzerebbero importanti forme di corruzione e potrebbero comprometterne l’efficace individuazione e contrasto”. “Le autorità giudiziarie - conclude il paragrafo - stanno seguendo da vicino gli sviluppi di questa riforma e il potenziale impatto sulle indagini”. Appena qualche ora prima il ministro Francesco Lollobrigida sosteneva che l’abuso d’ufficio dovesse essere rivisto. La denuncia che arriva dall’Europa non sfugge invece al M5S che ovviamente la sposa diversamente dal deputato di Azione, Enrico Costa, secondo cui l’avvertimento che arriva da Bruxelles è “una mostruosità giuridica”: “manco hanno letto i testi”, dichiara. La relazione sullo Stato di diritto in Europa, ormai alla quarta edizione, si concentra su quattro macro-temi: il sistema giudiziario, la corruzione, gli ‘anticorpi’ (check and balances) e i media. Il rapporto indica che in Italia “sono stati compiuti alcuni progressi nell’adozione di una legislazione completa sui conflitti di interesse” sottolineando che “gli sforzi precedenti per varare una legislazione completa sui conflitti di interesse per i titolari di cariche politiche, compresi i parlamentari, si sono arenati nel corso degli anni”. Ma non basta. L’Ue sprona l’Italia ad “adottare norme complete sui conflitti di interesse e sulla regolamentazione delle attività di lobbying, istituendo un registro operativo”. Bruxelles chiede poi a Roma di “affrontare in modo efficace e rapido la pratica d’incanalare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche e introdurre un registro elettronico unico per le informazioni sui finanziamenti ai partiti e alle campagne elettorali”. Sul fronte dei media risulta poi “necessario rafforzare le garanzie per l’indipendenza editoriale e finanziaria del servizio pubblico”. Dunque la Rai. Il governo, pur avendo preso misure per sostenere i media in difficoltà economica dopo la pandemia, dovrebbe poi stilare interventi “più strutturali per promuovere il pluralismo dei media”, specie a livello locale. L’Ue chiede all’Italia di “proseguire il processo legislativo per riformare e introdurre garanzie per il regime di diffamazione, la protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche, tenendo conto degli standard europei sulla protezione dei giornalisti”. Inoltre è necessario “proseguire gli sforzi per creare un’istituzione nazionale per i diritti umani, tenendo conto dei Principi di Parigi delle Nazioni Unite”. Sul fronte del Codice degli Appalti la Commissione richiama i rilievi critici che le diverse autorità in Italia, a partire dall’Anac, hanno mosso al nuovo Codice degli Appalti, targato Salvini. Come segnalato l’anno scorso - si legge nel Rapporto Ue - le autorità di contrasto e giudiziarie continuano a constatare un aumento della possibilità di infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia legale e nelle future assegnazioni di fondi pubblici del Pnrr, data la notevole entità di questi ultimi, che potrebbe avere gravi ripercussioni sull’abuso di fondi pubblici. Prescrizione, l’asse FdI-FI-Azione vuole battere Nordio sul tempo, M5S sulle barricate di Liana Milella La Repubblica, 6 luglio 2023 Netto il no dei magistrati a una nuova modifica, la terza in cinque anni. Il Pd dovrà fare i conti con la riforma dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando. “En attendant” Nordio. Si può intitolare così la pièce che da due settimane va in onda alla commissione Giustizia della Camera sulla prescrizione. Con l’incubo che vada a finire come con l’abuso d’ufficio. Dove il Guardasigilli Carlo Nordio ha lasciato “giocare” i deputati, per poi bloccarli con un altolà prima dell’ultimo goal. Della serie: il ministro sono io, e le leggi le faccio io. E non voi. E così, dopo aver perso due mesi a sentire il mondo sull’abuso d’ufficio, la commissione Giustizia si è vista sfilare tutta la pratica che adesso passa al Senato assieme al ddl Nordio. Che cancella l’abuso dal codice penale. La “norma” Nordio, appunto. Lo stesso scenario si profila adesso sulla prescrizione. Due settimane di audizioni, giuristi di fama, i procuratori più noti d’Italia, il presidente dell’Anm Santalucia, il vice procuratore europeo Ceccarelli, pareri a raffica tutti contrari all’ipotesi di cambiare di nuovo le regole sulla prescrizione, tornando alla legge Orlando del 2017, e forse mantenendo pure la legge Cartabia del 2021 sull’improcedibilità. Un boccone gustosissimo per gli addetti ai lavori che ormai si parlano dalla tribuna dei giornali e delle riviste giuridiche. La prescrizione è un tema che appassiona da sempre. Non c’è giurista che non si misuri sulla formula più adatta. E in queste ore il problema è se, nell’ordine, si può cambiare di nuovo la legge dopo averla già cambiata due anni fa, se possono stare insieme la prescrizione di Orlando e l’improcedibilità di Cartabia, oppure se bisogna scegliere privilegiando la sola legge Orlando, che, per chi non lo ricordi, stabilisce una sospensione di 18 mesi in Appello e 18 in Cassazione per chi in primo grado ha perso il processo. Può questa prescrizione stare assieme all’improcedibilità di Cartabia, che invece impone tempi rigidi in Appello e fa cadere i processi se non vengono rispettati i tempi consentiti (due anni)? I giuristi dicono di no, come Nello Rossi, direttore di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, che bacchetta chi, come Enrico Costa di Azione e Ciro Maschio di Fratelli d’Italia ipotizzano la soluzione del doppio binario. Per Rossi si tratta quasi di una bestemmia. Giuridica ovviamente. E lo dice al ‘giornale degli avvocati’, il Dubbio. E dopo quella della settimana scorsa, le nuove audizioni confermano uno scenario già noto. Ecco il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia dire che non si possono tenere assieme la prescrizione di Orlando e l’improcedibilità. E poi il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato pronto a ricordare alla politica come siano ben “altre le priorità” e tra queste sicuramente non c’è la prescrizione. Dal Lussemburgo una bacchettata anche da Danilo Ceccarelli, il vice procuratore di Eppo, che boccia le nuove proposte definendole “contrarie al diritto dell’Unione Europea”, nell’ottica di una prescrizione che “dev’essere uno strumento eccezionale, visto che si tratta di un grandissimo spreco di risorse e una sconfitta dello Stato”. Pareri contrari che di certo non fanno demordere i tre partiti autori della proposta di ritorno alla legge Orlando. Tant’è che Costa non manca di punzecchiare tutti gli interlocutori che contrastano la sua idea. L’intenzione è quella di andare avanti, la prossima settimana scrivere un testo base, e continuare a discuterne. Di certo la prescrizione non andrà in aula entro il mese di luglio. Se ne riparla a settembre. Ma qui la grande incognita è l’eventuale intervento di Nordio il quale ha già detto che, tra le sue molteplici intenzioni, c’è anche quella di mettere mano alla prescrizione. E allora il pronostico è che andrà a finire proprio come per l’abuso d’ufficio, lunghe discussioni alla Camera, e poi il disegno di legge di Nordio. Che ha già annunciato, dopo il mini ddl sull’abuso d’ufficio e sul bavaglio alla stampa che non potrà più scrivere sulle intercettazioni riportandone il contenuto, che interverrà sui reati della pubblica amministrazione. Un passo obbligato il suo, visto che ha stretto un patto con la presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno, in cambio del suo via libera a cancellare l’abuso d’ufficio, la quale avrà in mano proprio il suo disegno di legge. Se Nordio non dovesse rispettare gli impegni presi, la Bongiorno avrebbe mano facile a rallentare il cammino del primo disegno di legge Nordio sulla giustizia. Peraltro arrivato dopo ben sette mesi di governo, e attualmente ancora in cammino verso palazzo Madama per via della mancata copertura di spesa per l’assunzione di 250 nuovi giudici. Ma cosa ci dobbiamo aspettare sulla prescrizione? Di certo la profonda arrabbiatura dei grillini. Che ancora ieri hanno dichiarato - tutti i deputati della commissione Giustizia a partire dall’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho - che l’obiettivo dei ddl sulla prescrizione è “solo quello di far naufragare i processi”. Il M5S fa quadrato sulla legge Bonafede che bloccava la prescrizione dopo il processo di primo grado. Legge a cui Cartabia, pur mantenendola, ha cambiato natura, agganciando una prescrizione “processuale” per contenere la durata del processo. In questo garbuglio i più appassionati sono i giuristi.che ancora una volta, negli ultimi cinquant’anni, possono discutere del tema più appetitoso, quello della prescrizione. Se fosse ancora vivo Berlusconi, la sua soluzione sarebbe alle viste: accorciare il tempo di caduta del reato in modo da far morire il prima possibile i processi. Cioè una nuova legge Cirielli dopo quella, tuttora in vigore, del 2005. Caso Csm, lo strappo istituzionale: il voto di Pinelli decisivo sulla Procura di Firenze di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 6 luglio 2023 La nomina del Procuratore di Firenze si era caricata di forti significati politici, per le inchieste su politica e mafia. Il voto del Csm per il procuratore di Firenze segna uno strappo istituzionale e una svolta politica. Filippo Spiezia è stato scelto dopo un ballottaggio al fotofinish: 15 voti sia per lui sia per Ettore Squillace Greco. Da regolamento, in caso di parità prevale il più anziano. Tranne in un caso: quando vota il vicepresidente del Csm, vale doppio. Questo è successo. Il vicepresidente Fabio Pinelli ha votato, ribaltando l’esito della contesa. Si tratta di un inedito istituzionale. Non l’unico. La decisione di Pinelli è maturata in mattinata, quando alla conta dei voti s’è scoperto che Spiezia, magistrato moderato sostenuto dalla destra politico-giudiziaria, non aveva più i numeri. Convulsi conciliaboli, poi la decisione di schierarsi. Il vicepresidente del Csm, che è uno dei 10 componenti laici eletti dal Parlamento, ha legittimo diritto di voto. Ma per prassi lo esercita con parsimonia. In questo caso, le ragioni della prudenza erano accresciute: raramente il vicepresidente vota su uffici territoriali e ancor più raramente se il Csm è spaccato; la nomina del Procuratore di Firenze si era caricata di forti significati politici, per le inchieste su politica e mafia; Pinelli aveva ricoperto fino al momento dell’elezione al Csm due incarichi professionali da avvocato in cui era controparte del procuratore di Firenze, come difensore dell’avvocato renziano Alberto Bianchi nel processo sulla fondazione Open e come patrocinatore del Senato nel conflitto tra poteri davanti alla Corte Costituzionale sollecitato da Renzi contro la Procura di Firenze. Nonostante ciò, Pinelli ha votato. Ed è stato decisivo per determinare quella “discontinuità” nella Procura di Firenze ripetutamente invocata da Renzi, che peraltro di Pinelli è grande estimatore come ha testimoniato anche recentemente incontrandolo nella sua città. Pinelli ha rivendicato il suo comportamento richiamando un’imprecisata “prassi costituzionale”. Viceversa i consiglieri progressisti di Area lo hanno accusato di aver “rotto la prassi, dando all’esito della votazione una netta portata politica”. L’operazione Firenze nasce da lontano. Nel luglio scorso, la nomina del nuovo procuratore era stata definita dal vecchio Csm “urgente”, tanto da subire un’accelerazione. Quando sembrava prossima la nomina di Ettore Squillace Greco, già pm a Firenze e “in continuità” con la gestione precedente, era stato Alessio Lanzi, già avvocato di Berlusconi e consigliere in quota Forza Italia, a bloccarla. Nuovo Csm, nuovi equilibri. Squillace Greco era dunque stato additato come “toga rossa” al pari dei vertici della Procura fiorentina, Luca Turco e Luca Tescaroli, invisi rispettivamente il primo a Renzi; il secondo Berlusconi; nonché a Verdini. L’impallinamento si è sviluppato prima a livello politico, poi nel Csm. Fino al voto decisivo di Pinelli. Che in fondo ha fatto, quattro anni dopo e al netto di notturni convivi come quello dell’hotel Champagne, ciò che Ferri Lotti e Palamara non riuscirono a far fare a David Ermini, che avevano issato alla vicepresidenza con un’operazione definita “la vittoria più bella del renzismo”. I tre pretendevano esattamente che Ermini votasse sulle nomine dei procuratori più strategici (Roma e Perugia in primis, Firenze dopo aver “tolto dai coglioni” Creazzo), perché il suo voto sarebbe stato decisivo per spostare gli equilibri. E si inalberarono (“Totale delusione, mi rode il culo”) quando costui si rifiutò. In quattro anni, Ermini non ha mai votato sulla nomina di un procuratore. Anche in passato, casi di vicepresidenti che si espongono così sono quantomeno rari. Perciò il voto di Pinelli ha un forte significato istituzionale. Il vicepresidente rappresenta nel Csm il presidente di diritto, che è il capo dello Stato. Di qui il suo ruolo super partes. Un garante, non un capo politico. A meno che non diventi ago della bilancia tra fazioni. Dal punto di vista politico, da oggi al Csm si consolida una maggioranza politica (membri laici e togati) blindata e omogenea a quella parlamentare. Il procuratore di Firenze viene nominato sulla base di un gradimento politico, nel segno dell’asse destra-Renzi che sulla giustizia è saldissimo. Vedi le lodi sperticate a Nordio, che peraltro non aveva perso tempo a mandare un’ispezione alla Procura di Firenze, su richiesta di Renzi. E proprio sul ddl Nordio a breve lo stesso Csm dovrà esprimere un parere. Che il ministro attente con fiducia. Non si fa fatica a capire perché. “Il diritto alla salute prevalga sul mandato d’arresto Ue”. Sarà la Consulta a decidere di Valentina Stella Il Dubbio, 6 luglio 2023 Davanti alla Corte le norme che impongono la “consegna” anche nei casi in cui il destinatario sarebbe costretto a interrompere le cure. Questa settimana è ritornata all’attenzione della Corte costituzionale (relatore: Viganò) la questione di legittimità costituzionale sollevata nel 2020 dalla Corte di appello di Milano rispetto agli articoli 18 e 18-bis della legge numero 69 del 2005, nella parte in cui non prevedono quale motivo di rifiuto di consegna del destinatario del mandato d’arresto europeo ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona. Nel 2019 il Tribunale municipale di Zara, Croazia, ha emesso un mandato di arresto europeo nei confronti di un cittadino italiano D.L.E., perché sospettato di aver commesso nel 2014, sul territorio croato, il reato di detenzione a fini di spaccio e cessione di sostanze stupefacenti. Il procuratore generale di Milano ha chiesto l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. Tuttavia l’uomo era portatore di patologie psichiatriche, aveva tentato un suicidio nel 2013 ed era stato, tra l’altro, anche sottoposto ad un Tso, come riportato nella documentazione prodotta dal suo legale Nicola Canestrini. A D. L. E. non viene applicata alcuna misura e si respinge la richiesta di consegna. La Corte ha disposto una perizia psichiatrica che concludeva nel senso che “la capacità di intendere e volere di E. D. L., portatore di patologia psichiatrica, era al momento dei fatti assente per scompenso acuto; nell’attualità egli è persona che conserva sufficienti capacità per partecipare al giudizio”. Inoltre “il periziando ha necessità di cure, la cui interruzione rappresenterebbe un possibile pregiudizio per la sua salute e per il percorso da quattro anni intrapreso”. Il perito evidenziava anche un forte rischio suicidario, qualora fosse finito in carcere in Croazia. Appare evidente, quindi, che l’uomo “non è individuo adatto alla vita carceraria, necessitando di poter mantenere il percorso iniziato e che si può dire sia oggi avviato ma certamente ben lontano dall’essere concluso”. Sulla possibilità di guarigione il perito ha sollevato diverse perplessità. La Corte d’appello di Milano ha considerato, da un lato, che l’esecuzione del mandato d’arresto europeo avrebbe interrotto il trattamento di E. D. L. e avrebbe determinato un aggravamento del suo stato generale con un concreto rischio per la sua salute, con possibili effetti di eccezionale gravità, tenuto conto dell’acclarato rischio di suicidio. Dall’altro lato, il giudice ha constatato che le pertinenti disposizioni della legge n. 69/ 2005 non prevedono che ragioni di salute di questo tipo possano costituire un motivo di rifiuto della consegna nell’ambito delle procedure di esecuzione di un mandato d’arresto europeo. Sulla scorta di tali circostanze, la Corte d’appello di Milano, con ordinanza del 17 settembre 2020, ha sollevato questioni di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale. Quest’ultima però nel 2021, riconoscendo che le questioni prospettate “non concernono soltanto la compatibilità con le disposizioni della Costituzione italiana, ma coinvolgono preliminarmente l’interpretazione del diritto dell’Unione europea, del quale la legge nazionale censurata costituisce specifica attuazione”, ha interpellato a sua volta la Corte di Giustizia, condividendo il deficit di tutela. A Lussemburgo si sono espressi ad aprile di quest’anno sostenendo, tra l’altro, che “qualora sussistano valide ragioni di ritenere che la consegna di una persona ricercata, in esecuzione di un mandato d’arresto europeo, rischi di mettere manifestamente in pericolo la sua salute, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può, in via eccezionale, sospendere temporaneamente tale consegna”, aggiungendo che laddove, “alla luce delle informazioni fornite dall’autorità giudiziaria emittente nonché di tutte le altre informazioni a disposizione dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione, risulti che tale rischio non può essere escluso entro un termine ragionevole, quest’ultima autorità deve rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo”. Ora la Corte costituzionale è chiamata a decidere sulla questione di legittimità costituzionale alla luce delle statuizioni indicate dal Lussemburgo. Il relatore Viganò ha chiesto alle parti di suggerire come sarebbe possibile incorporare le indicazioni della Cgue nella legge 69 del 2005. Il professore avvocato Vittorio Manes, che si è aggiunto davanti alla Corte Costituzionale alla difesa di D.L.E., ha dichiarato che la migliore sentenza sarebbe quella “di accoglimento a carattere additivo: ossia una pronuncia che dichiari l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate nella parte in cui non prevedono la facoltà o l’obbligo di rifiutare la consegna qualora l’interessato sia concretamente esposto al pericolo di subire un grave pregiudizio alla salute nello Stato richiedente, così colpendo l’omissione testuale del legislatore”. Dal canto suo, l’avvocato Nicola Canestrini ha sottolineato che “le indiscutibili e crescenti esigenze della lotta contro la criminalità sul piano internazionale sollecitano giustamente una sempre più fattiva e leale collaborazione tra gli Stati, ma non possono in nessun caso andare a detrimento dei valori che la Costituzione dichiara inviolabili, quali quella della tutela del diritto alla salute”. Detenzione inumana, la domanda risarcitoria respinta è riproponibile per cambiamenti della giurisprudenza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2023 Il giudicato esecutivo è assunto rebus sic stantibus ed è superabile se emergono nuovi fatti, leggi o orientamenti. La domanda risarcitoria per aver patito una detenzione illegittima a causa delle condizioni carcerarie inumane o degradanti può essere riproposta a fronte di fatti nuovi o preesistenti, ma non considerati. In pratica, il giudicato esecutivo costituito da un reclamo respinto è superabile se la nuova domanda ex articolo 35 ter dell’Ordinamento penitenziario è riproposta in base a elementi innovativi rispetto al momento della prima decisione che è assunta appunto rebus sic stantibus. Lo afferma la Cassazione penale, con la sentenza n. 28749/2023. La novità può essere costituita da riforme normative o da nuovi orientamenti della giurisprudenza nazionale e sovranazionale in materia di applicazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta la tortura così come i trattamenti detentivi inumani e degradanti. Sono rilevanti tali fini le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’Unione europea e del massimo consesso di giurisprudenza nazionale cioè le sezioni Unite della Corte di cassazione. Proprio l’orientamento affermato dalle sezioni Unite sull’interpretazione della norma Cedu era stato posto a fondamento della riproposizione della domanda di risarcimento in precedenza respinta con decisione che aveva raggiunto la forma di cosa giudicata. La Cassazione ha annullato la decisione che - a fronte del rilevato giudicato esecutivo sulla precedente domanda - non esaminava nel merito la nuova richiesta risarcitoria pretermettendo del tutto l’esame sulla rilevanza del nuovo orientamento nomofilattico espresso dalle sezioni Unite penali e indicato dal reclamante. Esame che ora il giudice del rinvio dovrà invece compiutamente effettuare ai fini di una decisione fondata sulla novità giurisprudenziale espressa dalle sezioni Unite e che incide nel merito della questione. Lazio. Il Garante, Stefano Anastasìa, presenterà in Consiglio regionale la sua relazione annuale consiglio.regione.lazio.it, 6 luglio 2023 Nell’occasione sarà presentata la “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari”. Venerdì 7 luglio, dalle ore 10, 30 in sala Mechelli, dopo i saluti del presidente del Consiglio regionale del Lazio, Antonello Aurigemma, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, presenterà la relazione annuale sull’attività svolta negli anni 2021 e 2022, così come previsto dall’articolo 7 della legge regionale n. 31/2003, istitutiva di questa autorità di garanzia. Sarà presente Daniela De Robert, membro del collegio che costituisce il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Anastasìa presenterà i dati relativi alla popolazione ristretta negli istituti penitenziari del Lazio, nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria. Il Garante riferirà sulle numerose segnalazioni ricevute dagli sportelli a servizio dei detenuti, dei loro familiari e dei loro legali e sull’attività di monitoraggio svolta dalla Struttura di supporto al Garante stesso, nonché sugli interventi realizzati dall’amministrazione penitenziaria, grazie agli stanziamenti della legge regionale 7/2007, “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio”. Anastasìa infine illustrerà le funzionalità del sito www.garantedetenutilazio.it nel quale sono pubblicate le schede relative a ciascun luogo di privazione della libertà del Lazio, nonché le news e l’agenda degli appuntamenti sul mondo carcerario. Nell’occasione sarà presentata la “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari”, realizzata dalla “Struttura amministrativa di supporto al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e al Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza” del Consiglio regionale del Lazio, d’intesa con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise. La “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari” è un vademecum, tradotto in quattro lingue oltre all’italiano, attraverso il quale le nuove persone detenute possono conoscere i propri diritti, sapere come affrontare tutti quei problemi pratici che la vita detentiva può presentare e a chi rivolgersi per ottenere i servizi sanitari, legali e le modalità per fruire del supporto degli uffici del Garante dei detenuti della Regione Lazio e i riferimenti per entrare in contatto con la stessa. L’evento in sala Mechelli sarà trasmesso in diretta streaming attraverso la pagina Facebook garanteprivatilibertalazio e il canale Youtube Garante Detenuti Lazio. Reggio Calabria. Un carcere-inferno per le detenute e nella “psichiatrica” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2023 Donne recluse in spazi ridotti e sovraffollati, con alti tassi di infortuni e autolesionismo. Il Garante nazionale sollecita interventi immediati per superare l’emergenza. A differenza degli uomini dello stesso carcere, le donne recluse vivono in cinque dentro delle celle con spazi ridotti. Colpisce, sempre relativamente alle detenute, un alto numero di infortuni accidentali e gesti di autolesionismo. Non solo, la sezione dell’articolazione psichiatrica è un vero e proprio disastro nonostante sia stata chiusa, in seguito riaperta, per lo stesso motivo. Questo e altro ancora è emerso dalla visita del Garante nazionale delle persone private della libertà presso il carcere “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria. La visita ha avuto lo scopo di verificare l’implementazione di raccomandazioni precedenti e dimostrare vicinanza al personale dell’Istituto, che ha affrontato recentemente alcune vicende giudiziarie coinvolgenti anche membri apicali della struttura. Nella sezione femminile del carcere di Reggio Calabria, si sono riscontrate alcune problematiche legate alle condizioni di detenzione. A differenza delle celle destinate agli uomini, quelle per le donne sono affollate e spesso ospitano un numero eccessivo di persone rispetto alla loro capienza. Alcune stanze multiple sono state registrate con quattro o addirittura cinque persone, superando le dimensioni ridotte dello spazio. Nella cella n. 13, con una capienza di quattro posti, sono presenti sette persone. Secondo l’applicativo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, l’affollamento in queste stanze supera il 160%, mentre nelle sezioni maschili il massimo è del 124,62%. Durante l’analisi dei registri, è emerso un alto numero di donne detenute vittime di infortuni accidentali. Nonostante la popolazione femminile sia inferiore a 30 persone, sono stati registrati 9 casi nel primo trimestre del 2023. Il Garante nazionale ha riscontrato anche un elevato numero di gesti di autolesionismo; un caso particolare riguarda una detenuta in attesa di essere inserita in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Secondo la psichiatra, questa donna non ha mai manifestato comportamenti auto o etero aggressivi in precedenza, ma li ha sviluppati durante la detenzione, portando a diversi tentativi di suicidio. Attualmente, la detenuta è seguita da uno staff multidisciplinare e sottoposta a un Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso). Tuttavia, la sua mancata assegnazione a una Rems e il suo permanere in un istituto penitenziario senza titolo detentivo rappresentano una mancata presa in carico sanitaria, necessaria per le sue condizioni di salute. Per quanto riguarda le attività trattamentali, l’offerta risulta limitata, coinvolgendo soltanto nove donne detenute. La palestra, attrezzata al primo piano, è frequentata solo da tre detenute e, al momento della visita del Garante, risultava priva di luce a causa delle lampadine fulminate. Tuttavia, nella sezione femminile dell’Istituto è presente una sartoria coordinata da un maestro d’arte esterno, che produce camici, pantaloni e lenzuola. Inoltre, una donna svolge lavori su commissione sia interne che esterne. Queste iniziative offrono alle detenute opportunità occupazionali e creative. In un evento precedente alla visita del Garante, è stata organizzata un’iniziativa dedicata alle donne detenute, incentrata sulla cura di sé e finalizzata a favorire un rapporto positivo con il proprio corpo. Questa iniziativa è stata gestita da un’associazione che solitamente si occupa di soggetti con disabilità fisica, insieme a un’associazione specializzata nel supporto alle donne con patologie oncologiche e con esperti nel trucco oncologico. Durante l’evento, è stato offerto alle detenute un’esperienza di trucco esteriore, che ha permesso loro di esplorare anche le proprie emozioni in un contesto psicologico. L’iniziativa è durata cinque giorni ed è stata partecipata da tutte le donne della sezione. A seguito di questa iniziativa, il Garante comunale ha coinvolto diverse istituzioni e autorità locali nella stipula di un Protocollo interistituzionale volto a potenziare le attività rivolte alle donne detenute, adottando anche i principi delle Regole di Bangkok. Le Regole di Bangkok sono una serie di norme adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2010 per il trattamento delle donne detenute e le misure non custodiali per le donne autrici di reato. Nonostante gli sforzi compiuti dall’associazione e dalle istituzioni locali, il Garante Nazionale esprime preoccupazione per le condizioni di sovraffollamento delle stanze destinate alle donne detenute. Questa situazione potrebbe essere considerata discriminatoria nei confronti del ridotto numero di donne presenti nell’Istituto, violando i principi di non discriminazione sanciti sia a livello nazionale che sovranazionale. Un altro grande problema riguarda l’Articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm) all’interno dell’istituto penitenziario. Secondo le osservazioni del Garante, la sezione, originariamente concepita come reparto per l’osservazione psichiatrica, ha ospitato persone per periodi ben superiori ai trenta giorni previsti dalla normativa. In particolare, è stato rilevato un caso in cui una persona è rimasta nel reparto per quasi sette mesi senza ricevere alcuna adeguata presa in carico, causando un peggioramento delle sue condizioni di salute. La mancanza di attività trattamentali per i pazienti, unita alla pratica di trascorrere l’intera giornata in cella, ha peggiorato le condizioni di salute delle persone coinvolte. Inoltre, la persistenza di lunghi periodi di permanenza di individui problematici in un’area non idonea e senza la possibilità di usufruire di un’ora d’aria ha messo a rischio anche il personale di Polizia penitenziaria, esponendolo a situazioni di pericolo e aggressione da parte dei pazienti ristretti. Oltre alle problematiche legate alle condizioni di salute e alla sicurezza, il Garante Nazionale evidenzia anche gravi carenze strutturali dell’Articolazione. L’accesso al reparto è compromesso a causa di una scala stretta, trascurata e pericolosa, che durante la visita si è addirittura rotta. Le camere destinate ai pazienti presentano condizioni inadeguate, e la grata di separazione che divide il personale di Polizia penitenziaria dalle camere non garantisce la sicurezza necessaria. La ristrutturazione del reparto, affidata a una ditta esterna senza esperienza specifica, ha comportato lavori non a norma, con piastrelle con spigoli taglienti, finestre dotate di maniglie non conformi alle norme, videocamere non sicure e vetri antisfondamento fragili. Questa situazione non rispetta i criteri di sicurezza richiesti per ambienti dedicati a pazienti psichiatrici, come avviene negli Spdc o nelle Rems. Il mancato rispetto della riservatezza dei pazienti è un’altra problematica evidenziata nel documento. Il sistema di videosorveglianza installato nella stanza degli agenti riprende non solo le stanze, ma anche i bagni e i servizi igienici, violando così il diritto alla riservatezza delle persone. A ciò si aggiunge la carenza di Articolazioni attive all’interno degli Istituti penitenziari in Calabria. Nonostante la presenza di numerosi istituti con una capienza di oltre 3.000 posti, i posti disponibili per pazienti con disagio psichico sono estremamente limitati, solo 17 in totale. Questo evidenzia una grave lacuna nel sistema penitenziario della Calabria, che non dispone delle adeguate risorse e strutture per affrontare in modo adeguato le problematiche di salute mentale dei detenuti. La mancanza di Articolazioni adeguate e la scarsità di posti disponibili per pazienti con disagio psichico contribuiscono a creare un ambiente detentivo non idoneo e non rispettoso dei diritti fondamentali delle persone. Trento. Donna morì in cella, medico patteggia di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 6 luglio 2023 Due anni e risarcimento di trecentomila euro. I dubbi sul decesso sollevati dalla figlia. Ha patteggiato due mesi e venti giorni di reclusione, pena sospesa, oltre al risarcimento alla parte civile di quasi 300 mila euro il medico del carcere di Spini di Gardolo, che era finito a processo con l’accusa di omicidio colposo per la morte di una donna di 51 anni, di origini moldave, trovata morta nella sua cella la mattina del 4 gennaio 2022. La figlia dell’operatrice socio sanitaria, anche lei residente in Trentino, non aveva fin da subito creduto al decesso per cause naturali come riferito da un primo esame autoptico eseguito nella camera mortuaria del cimitero di Trento ed era voluta andare a fondo, denunciando il medico alla Procura di Trento con l’accusa di omicidio colposo. La cinquantenne, come aveva riferito la figlia, aveva diversi problemi di salute legati principalmente ad una lombosciatalgia ma anche “dolori alla schiena, al petto e faceva fatica a respirare”. Come emerge anche dal capo di imputazione, la donna aveva ricordato che la madre proprio in quei giorni antecedenti il decesso si lamentava per i dolori che aveva, “non stava bene”. Anche l’ultima volta che l’aveva sentita al telefono, il giorno prima del decesso: “Mi diceva che in carcere non facevano nulla per curarla e che aveva ancora male” e poi, riferendosi al giorno della sua morte, aveva dichiarato: “La mattina del 4 gennaio dovevo vedere mia madre, ma mi è stato detto che era deceduta nella notte”. Uno choc per la giovane che a quel punto si è rivolta ad un avvocato per formalizzare la denuncia querela alla Procura, ipotizzando l’omicidio colposo nei confronti del medico del carcere che era stato rinviato a giudizio per “negligenza, imperizia e imprudenza, determinandole uno choc cardiogeno acuto nel contesto di una insufficienza respiratori” causata da “intossicazione acuta da sostanze oppioidi, in particolare il Fentanyl” che la dottoressa avrebbe prescritto il 3 gennaio alla detenuta. Accuse che la difesa aveva rigettato sostenendo, invece, che il decesso dell’operatrice socio sanitaria fosse legato ad un mix di medicinali e non ad un sovradosaggio dell’antidolorifico per lombosciatalgia che il medico del carcere le avrebbe “prescritto impropriamente”, in eccesso, come sostenuto dalla Procura. Per quella vicenda ieri la dottoressa, che si è sempre professata innocente e che ha sostenuto di aver sempre operato correttamente, ha scelto la via del patteggiato ed è stata quindi condannata dal giudice del tribunale di Trento Enrico Borrelli a due mesi e venti giorni di reclusione per omicidio colposo, pena sospesa. Concedendo un risarcimento pecuniario alla famiglia, alla figlia. Milano. Condizioni di vita disumane all’interno del CPR di via Corelli: nuove denunce di Luca Talotta mitomorrow.it, 6 luglio 2023 Malati che non ricevono cure, tentati suicidi, condizioni igieniche scarse: anche tutto questo accade a Milano. Ancora testimonianze, parole e scritti che denunciano le condizioni disumane di vita all’interno del CPR di via Corelli a Milano. Immagini forti, assai lontane da una città che spesso si mostra in carta patinata salvo poi avere delle sacche cittadine di poco costosa e qualitativa carta straccia. La denuncia è portata avanti da LasciateCIEntrare, campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei detenuti, nata nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e nei C.A.R.A. (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Come si legge su pressenza.com, le condizioni di detenzione esercitate all’interno del CPR milanese sono davvero disumane: “Alcuni ragazzi reclusi stanno facendo uno sciopero della fame perché si sentono ingiustamente detenuti”, si legge. Altri, invece, raccontano di alcuni scioperanti che sarebbero stati repressi a suon di manganellate. Un detenuto in particolare sarebbe molto debilitato dal digiuno, soggetto a ripetuti svenimenti. Stante sempre le testimonianze, pare che un altro detenuto affetto da problemi renali non riceva adeguata assistenza medica. C’è anche un recluso che starebbe soffrendo di mal di denti ma che anch’esso non riceve cure. Risultano problemi anche per la presenza di due detenuti con problemi psichiatrici, di notevole entità ci dicono, che vengono lasciati negli spazi comuni e che destano notevole preoccupazione, a causa delle crisi alle quali sono soggetti, negli altri migranti reclusi nella stessa area. Il tentato suicidio nel CPR di via Corelli - Un altro evento saliente: mercoledì scorso un altro migrante detenuto al Corelli avrebbe tentato di “fare la corda” ovvero di suicidarsi legandosi una corda al collo e tirando. Il tentativo è stato sventato dai compagni detenuti nella stessa area. Si tratterebbe dell’ennesima conferma delle ordinarie situazioni di crisi alle quali sono soggette le persone che vengono detenute all’interno di quelle strutture. Si tratta, si legge sempre, di condizioni di privazione della libertà personale, vera e propria detenzione, senza che sia stato commesso un reato. La storia del CPR di via Corelli - Il CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) di via Corelli è un centro di detenzione amministrativa situato a Milano, in via Corelli 36. È un luogo dove vengono trattenuti i migranti in attesa di rimpatrio dopo l’adozione di un provvedimento di espulsione. Il CPR di via Corelli è stato aperto nel 2001 e gestito dal Ministero dell’Interno italiano. Ha suscitato diverse critiche e controversie riguardo alle condizioni di detenzione, ai trattamenti riservati ai detenuti e alla mancanza di accesso a servizi legali e assistenza adeguata. Nel corso degli anni, diverse organizzazioni per i diritti umani e associazioni hanno denunciato presunte violazioni degli stessi diritti nel CPR di via Corelli e in altri centri di detenzione amministrativa in Italia. Le denunce includono il sovraffollamento, l’isolamento, le limitazioni all’accesso ai servizi sanitari, la mancanza di informazioni chiare sui diritti dei detenuti e il trattamento inumano o degradante. Alcune di queste denunce sono state oggetto di indagini e critiche da parte di organizzazioni internazionali e di rapporti da parte di istituzioni come il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà (GNPL), organismo indipendente che monitora le condizioni di detenzione in Italia. Viterbo. Pestaggi a Mammagialla, la procura non vuole il processo per Auriemma e Dolce viterbotoday.it, 6 luglio 2023 Procuratore capo e pm di Viterbo davanti al gup per non aver indagato sulle presunte violenze denunciate da alcuni detenuti. La procura di Perugia ha chiesto il proscioglimento per il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce, finiti davanti al giudice per l’udienza preliminare per rifiuto di atti d’ufficio per non aver indagato, secondo l’accusa, in maniera approfondita su presunti pestaggi subiti da alcuni detenuti nel carcere di Mammagialla. Violenze denunciate in un esposto del Garante dei detenuti del Lazio presentato l’8 giugno 2018. Il procedimento, secondo la ricostruzione dell’accusa, è stato iscritto dai magistrati solo il primo agosto del 2018 “nel registro modello 45 (fatti non costituenti notizia di reato) nonostante dallo stesso emergessero specifiche notizie di reato”. Davanti al gup la procura di Perugia ha chiesto il non luogo a procedere per Auriemma e Dolce, ricalcando la richiesta di archiviazione già presentata in fase di indagine preliminare ma negata dal giudice. In udienza era presente anche l’avvocatura dello stato. Sono state ammesse come parti civili la presidenza del consiglio dei ministri, il ministero della Giustizia, il Garante dei detenuti del Lazio e i familiari di Hassan Sharaf, detenuto egiziano che nel luglio del 2018 è morto all’ospedale di Belcolle dopo una settimana di agonia dopo essere stato trovato nella cella del carcere con una corda artigianale ricavata da un asciugamano attorno al collo. Da palazzo Chigi e ministero della Giustizia è la richiesta di un maxi risarcimento danni per un milione 400mila euro, complessivi. L’avvocato Michele Andreano, che rappresenta la famiglia di Hassan Sharaf, ha invece chiesto il rinvio a giudizio di Auriemma e Dolce. Mentre il difensore dei magistrati, Filippo Dinacci, ha chiesto il proscioglimento. Dopo la discussione delle parti, l’udienza è stata rinviata al 18 ottobre per eventuali repliche e la decisione del giudice. Milano. “Vita coi carcerati”: storia di Salvo, poliziotto a Bollate di Donatella Stasio La Stampa, 6 luglio 2023 Salvo è un poliziotto penitenziario. Tra sovraffollamento, scontri e minacce, da oltre 20 anni vive l’altra faccia dei nostri istituti nel mirino dell’Ue. “Noi siamo pochi ma chi sbaglia sia punito. Le condizioni di vita qui sono disumane e la politica continua a ignorarci”. “Io sono un poliziotto e mi offendo quando mi chiamano guardia. Per favore, scrivi poliziotto”. È racchiuso in queste parole il senso di Salvo per la divisa, quella blu, e non più grigioverde, indossata la prima volta in un carcere di Reggio Calabria. Da lì è partita la sua vita da poliziotto penitenziario. Era il 1995, l’anno del primo concorso dopo la riforma che ha smilitarizzato il corpo. Salvo aveva 20 anni e l’impatto con il carcere fu duro, non per i detenuti ma per i colleghi, che gli davano dell’accamosciato, troppo gentile e dialogante, in fin dei conti un debole. Cresciuto con la cultura della Costituzione, dei diritti e del “trattamento”, Salvo si scontra subito con la cultura della guardia, machismo e forza per governare il carcere. Lo salva il trasferimento a Milano Bollate, che tutti chiamano “isola felice che non fa testo” ma che sempre galera è, solo che lì la Costituzione e la legge si riescono ad applicare e tanto basta a ridurre la recidiva del 10%. Poi la parentesi di Brescia: un salto indietro di 28 anni, all’ariaferma del carcere. E la cronaca, spietata, che racconta storie diverse dalla sua - nelle carceri, nelle questure, persino nelle strade -, non di poliziotti ma di “aguzzini”, gli dicono i ragazzi quando va nelle scuole insieme a detenuti e assistenti sociali a parlare di legalità e devianza. “Mi cade la faccia quando gli studenti ci chiamano così - dice Salvo, mortificato e frustrato -. Hanno ragione. Violenza, sopraffazione, negazione della dignità umana, indifferenza, non sono concepibili né giustificabili. E non possono restare impuniti. Questo clima di odio verso chi è detenuto o arrestato, trattato come un “nemico”, è una pazzia collettiva e va fermato, perché genera reazioni a catena e vanifica tutti i nostri sforzi per cambiare l’immagine e la mentalità del corpo”. Salvo è uno dei 32.281 poliziotti in servizio dentro le patrie galere che al 30 giugno ospitavano 57.536 detenuti, diecimila più della capienza. Anche le divise sono in debito d’ossigeno, il personale invecchia e non viene sostituito: dovrebbero essere 41.865 ma il 31 maggio ce n’erano 37.041, di cui solo 518 direttivi, e con i maggiori vuoti al nord, proprio in Lombardia, perché i poliziotti sono soprattutto del sud e lì cercano di tornare appena possono. Non nel caso di Salvo, nato a Catania ma in servizio a Milano dal 2001. A Bollate, ma anche in qualche altro istituto, come Rebibbia a Roma, i poliziotti non fanno i “girachiave” né tanto meno le guardie, non si limitano ad aprire e chiudere blindati e cancelli, a custodire e a contenere con la forza; fanno i poliziotti penitenziari, o cercano di farlo, spesso in condizioni proibitive, condividendo con educatori, insegnanti, volontari, direttori il “trattamento”, ovvero il percorso del detenuto verso la libertà. A novembre 2022, Salvo è diventato viceispettore e lavora in una sezione femminile. In 28 anni il suo stipendio è passato da 1.300 a 1.900 euro al mese. Nel 2017 si è unito civilmente con Davide, palermitano e nutrizionista, e alla cerimonia c’erano tanti colleghi e amici siciliani, pure mamma Lucia, partita da Catania per Milano con i suoi 81 anni ma senza alcun pregiudizio verso quel figlio gay che, anzi, è sempre stato motivo di orgoglio per come onora la divisa e la Costituzione. “Anche in carcere l’omosessualità non è più un problema tra poliziotti e poliziotte - spiega Salvo -. E comunque io mi sono sempre imposto di essere me stesso, senza mai travestirmi per apparire diverso. Noi siamo i primi a dover avere una salda cultura dei diritti, a praticare il rispetto della persona, e dobbiamo impegnarci a trasmetterla. Se siamo credibili, anche i detenuti ci rispettano e imparano la cultura dei diritti”. Ho conosciuto Salvo nel 2008. Dopo 14 anni non è cambiato. E, oggi, tanti “poliziotti” e “poliziotte” (4.982 le donne, di cui 96 comandanti) hanno la stessa cultura. È cambiato, invece, il carcere, sempre più ingovernabile per la perdurante mancanza di politiche coerenti e di personale. È cambiata la società e il carcere ne è lo specchio. “La percezione è quella di una terra di nessuno, senza regole, in cui è sempre più difficile creare una relazione istituzionale con il detenuto”, spiega Salvo. La sua, pur breve, esperienza nel carcere Canton Mombello di Brescia è eloquente. Costruito nei primi del Novecento, dovrebbe ospitare 185 detenuti ma ce ne sono ben 332, di cui 215 definitivi e 173 stranieri. Sono per lo più detenuti comuni ma con gravissimi problemi psichiatrici. 197 i poliziotti, su un organico di 227. Il direttore si divide con altre carceri, 5 gli educatori. È una delle tante, piccole carceri vetuste che sopravvivono al loro degrado. “In alcune stanze ci sono fino a 13 persone, con un unico bagno, piccolissimo, dove c’è solo una turca e, sopra, una specie di doccia - racconta Salvo -. Ci si può sentire persone in un luogo così? Quale idea dello Stato ti fai, se lo Stato ti tratta in questo modo? Ti incattivisci e covi rancore. Inutile girarci attorno: sono “trattamenti inumani e degradanti”, quelli per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte dei diritti, eppure non è cambiato nulla. Confesso che ad alcuni detenuti ho detto di chiedere il trasferimento. Lì non si riusciva ad avviare un programma di trattamento, di studio, di lavoro perché non c’era nulla. L’unico sfogo era stazionare nel corridoio e giocare a carte... Che cambiamento è mai possibile? Al ritorno da Brescia ero così sconfortato che ho pensato all’inutilità del nostro lavoro. Ti senti abbandonato. Anche volendo, i colleghi non potevano concepire alcun “trattamento”, la loro priorità era solo la sicurezza perché i detenuti, abbrutiti e arrabbiati, ogni tre per due litigavano e si davano mazzate, scoppiavano risse e sommosse... Una totale ingovernabilità. Capisci che voglio dire?”. In quel periodo, sul lago di Garda si è svolta la festa del corpo di polizia. “Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari venne a visitare il carcere e, come altri prima di lui, non fece che ripetere che andava chiuso per farne un museo. Non è successo nulla. Non c’è volontà e progettualità politica. Del resto, il sottosegretario mica si è spinto a vedere il carcere vero. Si è fermato molto prima e poi se n’è andato. Se entrassero, vedrebbero le condizioni disumane in cui vivono i detenuti, e noi con loro. Ma non vogliono vedere. Si girano dall’altra parte e via”. Quattordici anni fa, con Salvo parlammo anche di pestaggi. Era il periodo del sommerso: tutti sussurravano ma nessuno aveva mai visto o denunciato. Ora il sommerso sta venendo a galla e anche i processi, alcuni per tortura, sono aumentati: Santa Maria Capua Vetere, Ivrea, Siena, solo per citarne alcuni. “Momenti dolorosi - ha detto in Parlamento il Garante dei detenuti Mauro Palma - che non devono gettare un’ombra complessiva sull’operato di chi amministra la sanzione con ordine, sicurezza e rispetto dei diritti di tutti”. Il dato positivo, però, è la “crescente insofferenza dei poliziotti più giovani, anche con maggiore cultura, verso atteggiamenti di violenza”; tuttavia, ha aggiunto con le stesse parole di Salvo, “in alcuni settori si è insinuata sempre più una concezione della persona privata della libertà come “nemico” e non come persona che va assicurata alla giustizia e custodita, ma tutelata nei suoi diritti. Una cultura assecondata dal discorso pubblico e dal linguaggio, talvolta anche istituzionale, basato sulla contrapposizione tra “noi” e “loro”. “È così - dice Salvo - Quando abbiamo saputo di Santa Maria, fra colleghi ne abbiamo parlato a lungo e ci siamo detti che non esistono giustificazioni: lo stress, il senso di abbandono o di impunità... Nulla può giustificare violenza, odio, indifferenza. Che provocano reazioni a catena, pure nei detenuti. Dobbiamo dircelo: questa cultura, che è anche politica, è profondamente radicata. Ma non possiamo lasciarle governare il carcere. Dobbiamo contribuire a sradicarla con la forza della Costituzione. Questo è il vero senso della divisa”. Milano. Lontano dai banchi, per imparare rappando con i baby detenuti Di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 6 luglio 2023 Una settimana di vacanza sui generis a Milano: una proposta della Caritas di San Miniato in collaborazione con la Misericordia di Pontedera che fa ritrovare sullo stesso pulmino il sottoscritto insieme a una ragazza e un ragazzo del servizio civile e a 6 studenti delle superiori di Fucecchio e dintorni. Vacanza sui generis perché il luogo di soggiorno non è per niente mondano: la nostra meta è Vimodrone, all’estremo nord-est della metropoli lombarda; il punto d’arrivo del viaggio del pulmino è per l’esattezza il varco di ingresso di un cortile sovrastato dalla scritta a caratteri cubitali “Non esistono ragazzi cattivi”. Scendiamo dal pulmino e ci ritroviamo dentro la comunità penale minorile Kayros: gli abitanti sono 40 adolescenti inviati in queste 4 palazzine tra loro comunicanti dal tribunale dei minorenni. Sono ragazzini che hanno commesso reati (spaccio, piccole rapine, furti, violenza di strada o violenza in famiglia) e che il giudice ha mandato agli arresti domiciliari in comunità anziché al carcere Beccaria. A dirigere questo avamposto educativo di frontiera per conto della giustizia italiana è un prete, don Claudio Burgio, che da 20 anni nella comunità Kayros ha scelto di andarci a vivere. Suo il motto contro lo stigma del ragazzo cattivo che campeggia all’ingresso. Sua la decisione di rispondere di sì all’invito che gli avevo fatto lo scorso inverno di ospitare in comunità 8 adolescenti di Fucecchio insieme a me, loro prof. “Ci sono anche delle studentesse? Ahia...”, mi aveva sorriso don Claudio: “Questi ci provano anche con le educatrici, figurati cosa succederà con delle ragazze della loro età”. Don Claudio mi spiegò che la mia proposta era senza precedenti, e che se questa condivisione di vita tra ragazzini di strada lombardi e studenti toscani “per benino” da un lato lasciava presagire delle ottime potenzialità educative, dall’altra c’era il rischio che alcune delle dinamiche comunitarie sfuggissero di mano. “Senti Tommaso, facciamo così: noi vi ospitiamo, a giugno, ma te devi accettare che se la situazione diventasse di difficile gestione per gli educatori noi dovremmo rimandarvi in Toscana all’istante”. Ma alla prova dei fatti, per fortuna, l’esperimento è riuscito. Non era scontato. Merito di tutti. Dei ragazzi della comunità, innanzitutto, che hanno accettato (chi a denti stretti chi con buonumore chi addirittura con entusiasmo) questa invasione di campo della scolaresca della Caritas: nelle varie unità abitative i baby detenuti e i miei studenti hanno cucinato insieme, fatto delle gite in montagna e in piscina, giocato interminabili partite a biliardino e a calcio, intervistato rapper, raccolto zucchine, ascoltato musica trap fino alla noia, e soprattutto cazzeggiato a volontà: tanti scherzi, ma anche storie di vita da condividere, che lasciavano intuire i background familiari devastanti e il fallimento della scuola pubblica che quasi sempre sono all’origine dei reati commessi. Io e i miei studenti abbiamo anche visto all’opera gli educatori (alcuni di loro ex ragazzi della stessa comunità, che negli anni sono riusciti a laurearsi e a tornare qui come formatori): è un lavoro difficilissimo, perché la privazione della libertà si sente eccome; e così il non essere liberi genera nervosismo, tensioni e liti accesissime da dirimere con pazienza, fermezza e amore. Ma allo stesso tempo è anche un lavoro appassionante: perché a differenza dei professori a scuola, qui gli educatori hanno un margine di manovra molto più ampio; in comunità educatori e ragazzini non stanno solo in aula ma vivono insieme, parlano un sacco di tempo a tu per tu, concordano dei percorsi formativi su misura; viaggiano insieme, imparano insieme, cercando di grattare piano piano quella maschera del piccolo gangster pieno di tatuaggi strani che tanti dei ragazzi della comunità esibiscono per paura; e invitandoli a trovare, fuori dall’omologazione, i veri se stessi, per masticare parole nuove come dolcezza, empatia, responsabilità; e farle proprie, e sentirsi finalmente liberi. Monza. L’introspezione è libertà: percorsi di consapevolezza per detenuti mi-lorenteggio.com, 6 luglio 2023 Grazie all’8xmille di Unione Buddhista. Sviluppo personale e di conoscenza di sé: l’associazione Liberation Prison Project (LPP) Italia offre percorsi di consapevolezza all’interno delle carceri principalmente alle persone detenute, ma anche al personale (come educatori e agenti di polizia penitenziaria), a ex-detenuti e familiari. Un’attività realizzata grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana e basata sulla convinzione che anche nei luoghi di detenzione è possibile lavorare sul piano dell’introspezione e della trasformazione di sé, sul proprio “essere umano”. LPP nasce nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa di una monaca buddhista e si ispira alla filosofia buddhista quale straordinario mezzo di studio della mente, ma i percorsi - di gruppo e individuali - sono del tutto laici e riguardano l’allenamento alla consapevolezza, ovvero la centratura della mente nel “qui e ora”, l’ascolto di sé stessi, con presenza non giudicante. I percorsi di LPP sono attivi in Italia dal 2009 e oggi sono presenti in 15 istituti penitenziari (Milano-Bollate, Monza, Torino, Pavia, Lodi, Padova, Modena, Pisa, Volterra, Livorno, Velletri, Trani, Alghero, Palermo, Treviso). La diffusione del progetto è in continua crescita anche per l’anno 2023. LPP cura con attenzione il contatto con ogni nuovo carcere per conoscere caratteristiche ed esigenze contingenti, e stabilisce una relazione forte con i funzionari giuridico-pedagogici. Gli operatori che entrano in carcere e conducono i percorsi di consapevolezza devono seguire un iter formativo che favorisce l’acquisizione di elementi teorici e pratici per operare in carcere (in relazione con la direzione penitenziaria, la popolazione detenuta, i funzionari e gli agenti di polizia penitenziaria). Oggi gli operatori attivi sono in tutto 22, e tengono gruppi settimanali composti da 10-15 persone. “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati. Gli operatori, insomma, sono dei guerrieri di compassione” commenta Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia, che continua spiegando come LPP accolga qualunque persona detenuta mostri interesse per il percorso: “È una proposta adatta a tutti perché fondata su aspetti che caratterizzano ogni essere umano; non importa l’estrazione sociale, la provenienza geografica, culturale o religiosa”. Il percorso va inoltre nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e ha tra gli obiettivi quello di contribuire a generare ambienti più pacifici, dentro e fuori dal carcere. È dal 2016 che l’Unione Buddhista Italiana sostiene progetti umanitari e sociali in Italia e all’estero, grazie ai fondi 8xmille che, attraverso la dichiarazione dei redditi, si può destinare a una confessione religiosa o allo Stato. Nel 2022 sono stati più di 150 i progetti umanitari sostenuti dall’Unione Buddhista e 40mila i beneficiari raggiunti. Ciascun progetto è selezionato in coerenza con l’idea, che sta alla base del pensiero buddhista, dell’interdipendenza e del prendersi cura, perché ogni essere senziente, umano o animale che sia, è interconnesso e quando ci si prende cura di qualcuno si agisce a favore dell’intera collettività. L’Unione Buddhista predilige piccole realtà non profit che sviluppano progetti concreti sul territorio rivolti alle categorie più fragili, con particolare attenzione ai diritti umani, al rispetto dell’ambiente e allo sviluppo di una cultura della sostenibilità umana, sociale ed economica. Si tratta di progetti non confessionali a favore della pluralità e della responsabilità sociale, dove l’Unione Buddhista porta un aiuto concreto supportando le reti territoriali esistenti. Tra gli esempi nel 2023: la produzione di salsa di pomodoro caporalato-free nel leccese; la liberazione dalle reti illegali da pesca che provocano la morte di preziose specie marine nell’arcipelago delle Eolie; i percorsi di meditazione in carcere, da Milano a Palermo, per acquisire consapevolezza e agevolare il reinserimento sociale; gli sportelli di ascolto, cura e cittadinanza attiva presenti in diversi quartieri di Torino; il rifugio in provincia di Rimini dove centinaia di cani, gatti e capre sono accolti e curati; il laboratorio tessile di prodotti artigianali creati dalle donne migranti accolte nel piccolo borgo calabrese di Camini. L’impatto delle attività finanziate con l’8xmille è evidenziato nell’Impact Report 2022, il primo rapporto di sostenibilità realizzato da una confessione religiosa in Italia. Stilato sulla base degli indicatori dell’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il rapporto è uno strumento di trasparenza nei confronti dei cittadini, utile per pianificare le future azioni di sostegno. È disponibile sul sito: https://unionebuddhistaitaliana.it/news/impact-report-2022/ Quando lo stato chiude gli occhi. Le violenze nelle case-famiglia di Diana Russo Il Domani, 6 luglio 2023 Il tema viene affrontato dal libro scritto dal pubblico ministero, Diana Russo, “Olivia e le altre, la normalità del male nel diario di una magistrata”, Zolfo editore. Le case-famiglia sono strutture protette che accolgono persone bisognose di sostegno psicologico e anche materiale, persone che, solitamente, hanno alle spalle storie miserabili di violenze, umiliazioni o anche solo abbandono, donne di ogni età vittime di persecuzioni a opera del partner o di un padre-padrone, schiave sottratte ai loro sfruttatori e aguzzini, anziani maltrattati da figli tossicodipendenti, ma soprattutto bambini. Lo stato ha purtroppo deciso di girarsi dall’altra parte e rimettere, di fatto, l’organizzazione e la gestione di queste strutture a privati, poi compensati con denaro pubblico. Il più delle volte si tratta di nobili onlus e associazioni di volontariato e di ordini religiosi, ma talvolta anche di soggetti che, al di là dell’apparenza di facciata, hanno deciso di sfruttare questo business del dolore: e non solo economicamente. I bambini che finiscono in tali comunità, quasi sempre perché non hanno più adulti di riferimento, spesso tendono a replicare i comportamenti sessualizzati o antisociali che hanno assimilato in famiglia; tuttavia, se riescono a instaurare un legame di fiducia con il personale che li assiste, rivelano gli abusi subiti. Si tratta però, in generale, di fatti difficilmente verificabili, in primo luogo perché sono avvenuti nel passato, risultando dunque esauriti, e in secondo luogo perché chi racconta può risultare poco attendibile: potrebbe aver sovrapposto o enfatizzato qualche ricordo, potrebbe star raccontando una verità parziale, o una menzogna, sia pure inconsapevolmente a causa di un ritardo mentale o disturbo psichico. Sono davvero pochi i casi in cui ho tratto risultati giudiziari da confidenze svelate nel contesto della casa-famiglia. La storia di Luca - Uno di questi, è quello di Luca. Siamo a Napoli. Luca è il maggiore di due fratelli, entrambi collocati in casa-famiglia a causa dell’incapacità dei loro genitori di prendersene cura. Depressione la madre, alcolismo il padre, in una spirale di violenza che ha portato i servizi sociali a intervenire tempestivamente. Luca è timido, ha sedici anni compiuti da poco, una lieve balbuzie e difficoltà relazionali. “Sai perché ti trovi qui?”, gli chiede Loredana, la consulente psicologa che mi assiste nell’audizione, capelli e occhi neri, minuta ma determinata. “Sto qua per quello che mi è successo, per la persona che mi ha fatto del male”. Siede sulla sedia con le mani ficcate nelle tasche del bomber nero, visibilmente emozionato, con la testa abbassata, i capelli neri scompigliati, gli occhiali spessi e i brufoli. È mingherlino ma alto. Ci sorride, guardandoci alternamente; e parla sottovoce. Capisco che tra noi e lui si sta instaurando un clima di fiducia. Si sta aprendo, ed è positivo. “Sì, hai ragione, è proprio per questo”. Un giorno la comunità di Luca è stata avvisata dalla scuola delle sue ripetute assenze. Ripreso dalla responsabile, il ragazzo si è giustificato raccontando di aver trascorso la mattinata con Angelo, un uomo di sessant’anni che Luca aveva conosciuto qualche anno prima, quando era ospite di un’altra comunità gestita dalla cooperativa di cui Angelo era rappresentante. Fra i due è nata una relazione intima, coltivata anche in occasione dei rientri di Luca in famiglia. Una relazione ossessiva, soffocante, plagiante. “La prima volta è successo quando stavo ancora nella sua comunità. Poi lui è venuto a cercarmi fuori scuola. Mi sorrideva, mi prendeva per mano, mi portava le caramelle alla Cola che mi piacciono tanto. Mi diceva vieni con me e andavamo in un posto… Cercava sempre una camera vuota per fare le cose con me”. Angelo si appartava con Luca nelle stanze vuote della comunità. Se aveva a disposizione un televisore, mostrava al ragazzo video porno omosessuali. “Lui mi diceva che era per amore. Mi diceva: sei speciale. Diceva che era bello, invece era brutto, molto brutto. Mi diceva che dovevo stare con lui perché ero l’unico che lo rendeva felice, che era una specie di prova per fargli capire la mia fedeltà”. Angelo chiedeva a Luca di non raccontare “perché altrimenti la gente pensava che era malato. Mi diceva che nessuno avrebbe mai accettato il nostro amore, perché nessuno l’avrebbe capito: era troppo speciale”. Un giorno, Luca, stanco delle continue violenze e gravato dal peso del segreto, ha trovato il coraggio di dire tutto alla responsabile della comunità. “Lei mi chiedeva dove ero stato quando avevo fatto filone e io le ho raccontato la verità. Lei mi ha dato coraggio. Ce lo avevo dentro ed è meglio che l’ho cacciato fuori”. Al termine dell’ascolto mi intrattengo a parlare con Loredana. Ci siamo conosciute qualche giorno dopo l’apertura del nuovo Palazzo di Giustizia, quando si è presentata in Procura per offrire la propria collaborazione come esperta. Siamo giovani e stiamo crescendo insieme. Pur ritenendo attendibile il racconto di Luca, Loredana mi esprime le sue perplessità sulla capacità di testimoniare del ragazzo, per via del suo deficit cognitivo: è di fondamentale importanza trovare dei riscontri, ma in che modo? Luca ci ha fatto il nome di una ragazza che aiuta in cucina nella comunità gestita da Angelo. Decido di farla sentire dalla polizia. Isabella, pur non avendo conoscenza diretta dei fatti denunciati, conferma in effetti l’esistenza di un rapporto stretto, quasi morboso tra i due, aggiungendo che dopo il trasferimento di Luca, Angelo si è legato a un altro giovane, di origini albanesi, Borian, da poco divenuto maggiorenne. Lo convoco, pensando che possa essere un’altra vittima dell’indagato. L’indagine - Borian entra nel mio ufficio accompagnato da Annamaria, l’ispettrice della Squadra Mobile che sta coordinando l’indagine. È un ragazzo bello, intelligente, volenteroso, pienamente capace di intendere e di volere. E di mentire. Parla fluentemente l’italiano, con un leggero accento straniero. “Sono un po’ emozionato, non so perché mi trovo qui”. È entrato in Italia a quindici anni fuggendo dalla povertà, ed è stato collocato in comunità in quanto, all’epoca, minore non accompagnato. Così ha conosciuto Angelo: in lui ha trovato il padre che non ha mai avuto. “Il signor Angelo è sempre stato gentile con me. Mi ha dato speranza quando non ne avevo”. Ci racconta che la mattina aiutava in comunità a fare le pulizie e piccoli lavori in cambio di una paghetta. Dalle cinque alle nove frequentava la scuola serale. Dopo la maturità è rimasto in struttura come collaboratore e autista personale di Angelo. Con orgoglio ci spiega di averne conquistato la stima e la fiducia, al punto da essere nominato legale rappresentante di una nuova società, destinata a gestire altre strutture di accoglienza per minori. Alla mia domanda diretta, Borian, arrossendo, nega di avere una relazione sessuale con Angelo. “Non so di costa stia parlando, dottoressa. Il mio rapporto col signor Angelo è solo di lavoro”. Si irrigidisce, contrae la mandibola, inizia a farci domande sulle ragioni della sua convocazione. Gli spieghiamo che è interesse dell’ufficio sapere come sta e come è stato trattato nelle comunità in cui ha vissuto. “Perché mi trovo qui? Ho fatto qualcosa di male?” Gli chiariamo che il suo ruolo è quello di persona informata dei fatti, di testimone, insomma. Poi gli domando, ancora una volta, se ha ricevuto proposte di altra natura da Angelo, se lui o qualcun altro gli ha mai chiesto di avere rapporti sessuali, se qualcuno ha mai provato a toccarlo, se è a conoscenza di molestie subite da altri ragazzi in casa-famiglia. No, no, no, no. Al termine dell’audizione gli sequestro il cellulare e lo consegno a Diego, consulente tecnico informatico, perché ne scandagli il contenuto. Gli ho affidato diversi incarichi e ormai siamo in confidenza quanto basta perché mi anticipi via WhatsApp, nel bel mezzo di una cena, le prove inequivocabili dei rapporti tutt’altro che professionali fra Borian e Angelo. Non sono mai prove facili da visionare, e devo lottare con tutta me stessa per non far prevalere rabbia e disgusto. Tuttavia, ne ho viste di peggio quando a Palermo, sede distrettuale, mi occupavo anche di pedopornografia. Il consulente informatico incaricato di estrapolare i contenuti illeciti dal materiale in sequestro mi consegnò la relazione con le lacrime agli occhi pregandomi di non chiamarlo più. Angelo finisce agli arresti domiciliari e trasmetto gli atti di indagine alla procura dei minori, che sapranno come agire riguardo alle comunità da lui gestite. È trascorso qualche mese dal mio trasferimento dalla Procura di Napoli Nord a quella di Velletri. Fabio, il collega che ha seguito il dibattimento, mi chiama per condividerne l’esito: Angelo è stato condannato a nove anni di reclusione. Sorrido: la sua rete di violenza e perversione è stata smontata. Luca e Borian sono finalmente al sicuro. Soddisfatta, compio il mio piccolo rituale: un messaggio lo invio al procuratore, uno a Loredana, uno a Diego, uno ad Annamaria. Il testo è un estratto dal libro “Olivia e le altre, la normalità del male nel diario di una magistrata, Zolfo editore, scritto dal pubblico ministero Diana Russo Lo specchio della povertà di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 6 luglio 2023 È necessaria una strategia unica di sviluppo del paese, che freni l’inflazione. Il tasso di inflazione misura la crescita del livello dei prezzi di un Paese sulla base di un paniere di beni e servizi che viene rinnovato con regolarità. Un suo rallentamento, come sta avvenendo nei mesi del 2023, non vuol dire che il livello dei prezzi si abbassi, ma semplicemente che continua a crescere, magari con intensità più bassa. E quindi, l’ultimo aumento, anche se più basso, si cumula ai precedenti. Il tasso di inflazione colpisce tutti. Ma non sempre nello stesso modo, dipende dai beni e servizi che ne sono toccati. Chi ha meno disponibilità economiche spende di più, in proporzione, per ciò che è indispensabile, alimentazione, bollette, affitto, energia. E queste spese pesano di più sul suo budget complessivo. Chi sta meglio economicamente può permettersi di variegare le proprie spese con più servizi ricreativi, altri beni, costi di trasporto maggiori. I più disagiati hanno anche vincoli di spesa oggettivi, risparmiano poco o per niente e devono ricorrere a indebitamento a fronte di eventi eccezionali. Gli altri hanno libertà di scelta. È così che il tasso di inflazione generalmente colpisce in modo differente i diversi gruppi di famiglie. Nelle fasi di minore inflazione (da gennaio 2016 a giugno 2021) il gap tra l’indice dei prezzi del gruppo con minor potere di spesa rispetto a quello con maggiori disponibilità è oscillato poco, tra - 0,7 e 1,0 punti percentuale. Lo documenta bene l’Istat. Nei due anni in cui i prezzi al consumo in Italia sono diminuiti (2016 e 2020), il gruppo con minore potere di spesa ha addirittura sperimentato una situazione migliore rispetto a quello con maggiori disponibilità. Il problema sorge da aprile 2021, già a luglio la differenza di tasso di inflazione era di 1,2 a svantaggio delle famiglie più disagiate, a gennaio 2022 diventa 2,6, a settembre 4,5 e tra ottobre e novembre raggiunge 9. Cioè, il tasso di inflazione dei più poveri raggiunge a ottobre il 18,6% contro il 9,9% dei più ricchi e a novembre lo stesso. Nel primo trimestre del 2023 con il rallentamento dell’inflazione il gap si riduce a meno di 3 punti percentuali. Quindi, in tutti questi mesi il potere d’acquisto delle famiglie con minor capacità di spesa è stato eroso più ampiamente di quello delle famiglie più ricche e la crescita dell’inflazione si è cumulata mese dopo mese. Non possiamo che aspettarci con elevata probabilità un ulteriore aumento della povertà assoluta nel 2022. Tanto più che la stabilità della povertà nel 2021 si è verificata principalmente per l’aumento dell’inflazione, che nel 2021 ha raggiunto solo il +1,9%, ma che comunque, come l’Istat segnala, ha impedito che la quota di famiglie in povertà assoluta scendesse. Nel frattempo che cosa succede ai salari nel nostro Paese? Più della metà dei lavoratori attende di sottoscrivere il contratto nazionale di lavoro. Il numero medio di mesi di attesa è alto, 23,4. Nella media del primo trimestre 2023 la dinamica salariale e quella dei prezzi (indice Ipca) differiscono di 7 punti percentuali, a svantaggio dei salari. Inoltre, il mondo del lavoro soffre di un problema grave di lavoratori poveri. Sono 4 milioni quelli che non arrivano a guadagnare 12 mila euro lordi all’anno, o perché hanno una paga oraria inferiore alla mediana, o perché svolgendo lavori precari o a intermittenza non riescono a raggiungere un numero di ore adeguato per avere un salario dignitoso. La crescita del Pil è importante, ma non è condizione sufficiente a garantire la soluzione di questi problemi e la diminuzione delle diseguaglianze sociali. La povertà è raddoppiata nel 2012 e non siamo mai riusciti a tornare ai livelli precedenti. L’occupazione è in ripresa, ma stiamo ancora a livelli bassissimi rispetto ai Paesi Ocse, per l’occupazione maschile, femminile, giovanile. Pochi occupati vuol dire molta povertà. Bassi salari vuol dire più lavoratori poveri. È necessaria una strategia unica di sviluppo del paese, che freni l’inflazione, sviluppi occupazione di qualità e infrastrutture sociali, sostenga i salari, combatta la povertà. Non è una misura che conta, ma un complesso di misure coerenti tra loro. Il salario minimo è una di queste. E ci permette anche di ridurre diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali. Dobbiamo capirlo. Non possiamo lasciare che le condizioni di vita delle persone più vulnerabili peggiorino ulteriormente e che nuovi poveri vadano ad ingrossare le fila dei vecchi.. Scuola. Seguo le rivolte francesi e penso ai miei studenti: credo che il discrimine sia la responsabilità di Andrea Bellelli Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2023 Le proteste di giovanissimi in Francia, conseguenti all’omicidio di Nahel, ci fanno riflettere: vorremmo capire le aspettative e il disagio sociale, di questi giovani, le condizioni oggettive di svantaggio e quelle psicologiche di chi si sente svantaggiato. Io non ho modo di investigare questo; posso al massimo leggere quello che ne scrivono giornalisti e sociologi. Però posso raccontare la mia esperienza con i miei studenti, che sono più o meno coetanei di quelli che protestano in Francia. Io insegno la biochimica in vari corsi di laurea della Facoltà di Farmacia e Medicina, e, sebbene i miei studenti si rassomiglino molto tra loro, mi sembra che il gruppo più interessante da descrivere in questo contesto sia quello dell’Infermieristica della sede di Formia e Gaeta. Come in tutte le sedi distaccate, questo corso è gestito in convenzione con il distretto sanitario locale e realizza l’obiettivo di avvicinare l’Università all’utenza. I miei studenti non sono ricchi e in gran parte sono pendolari, che risiedono con la famiglia d’origine nell’entroterra campano o pontino, zone certamente non privilegiate. Spesso ne incontro qualcuno alla stazione o sull’autobus, perché anche io per quel corso sono pendolare, e possiamo scambiare un saluto e due chiacchiere. Molti di loro fruiscono di borse di studio erogate dalla regione o da altri enti, senza le quali non potrebbero permettersi l’università. Non conosco le loro idee politiche, che immagino siano variegate, però una cosa gli è chiarissima: che esistono doveri dello Stato e doveri dello studente. In questo dimostrano una profonda maturità che io credo li possa proteggere dall’aggregarsi a gruppi che mettono a fuoco e fiamme una città. I miei studenti sanno che avere una università o la possibilità di accedere a una borsa di studio è un loro diritto, ma sanno anche che vincere il concorso di ammissione, superare gli esami o vincere la borsa di studio non è un diritto ma un premio che deve essere guadagnato, un obiettivo da conquistare. Non sono marginalizzati e non si sentono tali, ma sono consapevoli che l’inserimento sociale si conquista con lo studio e col lavoro. Certamente concorre alla loro maturazione il tirocinio pratico che svolgono negli ospedali, a contatto con la malattia, la sofferenza e la morte; ma poiché io li vedo al primo anno, molta della loro maturità deve venire dall’insegnamento ricevuto a scuola e in famiglia. L’esperienza personale, per quanto estesa, non fa statistica; al massimo può fornire esempi. Però l’esempio, non essendo riferito a eventi eccezionali, mi suggerisce almeno una cosa: che la marginalizzazione sociale e l’esclusione, salvo casi particolari, non sono destini ineludibili, ma condizioni alle quali il soggetto, almeno nelle società avanzate, può in parte opporsi. Se lo Stato offre scuole e università pubbliche, e borse di studio per frequentarle, sta all’individuo attivarsi per usufruirne e costruire la sua carriera e il suo inserimento sociale; e sta sempre all’individuo coltivare aspettative realistiche sulle proprie possibilità di inserimento e sui doveri dello stato nei suoi confronti: chi studia Infermieristica ha l’ambizione di diventare infermiere, e sa che non sarà miliardario. Io credo che i diciottenni italiani non siano diversi dai loro coetanei francesi: credo che anche in Italia ci siano diciottenni che soffrono di condizioni di disagio e che sono capaci di proteste violente. Credo però che il discrimine si ponga tra i diciottenni che si assumono le proprie responsabilità, tra i quali quelli che io incontro all’università, e i diciottenni neet, che io non incontro, che né studiano né lavorano e che attribuiscono allo stato responsabilità che dovrebbero assumere loro, e che lo stato non potrebbe assumere senza diventare coercitivo. *Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza Migranti. Il governo contro le navi delle Ong: otto mesi di bugie e schizofrenia di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 luglio 2023 I numeri degli sbarchi smentiscono il pull-factor. Intanto la guardia costiera coordina i “soccorsi multipli” criminalizzati dal Viminale. In principio fu il pull-factor. Teoria già sbandierata in passato, mai dimostrata, riciclata dalla destra tornata al governo. Per esempio dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che il 16 novembre scorso diceva: “Dalle più recenti analisi di rischio elaborate da Frontex emerge che la presenza di assetti navali delle Ong in prossimità delle coste libiche continua a rappresentare un fattore di attrazione, il cosiddetto pull-factor”. Di questo leggendario rapporto dell’agenzia Ue, citato per tutto l’autunno da esponenti della destra, non si è mai saputo nulla. Cinque europarlamentari leghisti - Rinaldi, Campomenosi, Zanni, Tardino, Panza - lo hanno perfino chiesto alla Commissione con un’interrogazione a risposta scritta. Evidentemente né loro né i colleghi di partito, che pure lo hanno usato a sostegno delle loro tesi, lo avevano mai visto. Dall’istituzione Ue non è arrivato nulla. Frontex non lo ha mai pubblicato. Dopo i primi otto mesi e mezzo del nuovo esecutivo, comunque, il bilancio di dichiarazioni e misure del governo sulle imbarcazioni umanitarie va fatto con i numeri. Se il 26 ottobre 2022 il titolare del Viminale diceva che puntava a “non avere navi che trasportano migranti”, 253 giorni dopo quell’obiettivo è fallito. Basta mettere a confronto il primo semestre di quest’anno - il decreto anti-Ong di Piantedosi, poi convertito in legge, è in vigore dal 2 gennaio - con lo stesso periodo 2022. Le navi umanitarie sono passate da 8 a 12, le missioni da 19 a 43. Complessivamente nei primi sei mesi dello scorso anno le Ong avevano salvato 4.066 persone, quest’anno 4.694 (anche se il 30% del totale è rappresentato da tre mega soccorsi realizzati dalla Geo Barents di Msf). La strategia del governo ha fallito? Non proprio: è andata a segno nel limitare l’operatività delle Ong, ma questo non ha avuto alcun impatto sugli sbarchi. In rapporto al numero complessivo di arrivi via mare la percentuale di migranti soccorsi dalle organizzazioni umanitarie è crollata dal 14%, valore stabile negli ultimi anni, al 7%. Perché mentre le Ong sono tenute fuori gioco per giorni, grazie al combinato della nuova legge con la prassi di assegnare un porto dopo il primo soccorso ma a centinaia di chilometri, gli sbarchi sono cresciuti del +134%: erano 27.633 il 30 giugno 2022, 64.930 nella stessa data del 2023. L’aumento non è solo complessivo, ma anche relativo alla Libia. Se lo scorso anno questa rotta era in testa alla classifica con circa 15mila persone nei primi sei mesi, quest’anno è stata superata da quella tunisina ma segna comunque una crescita in termini assoluti: più o meno 27.500 persone (con le partenze dalla Cirenaica leggermente superiori a quelle della Tripolitania). Eppure le navi umanitarie, spedite al centro-nord al primo salvataggio, non sono potute rimanere a pattugliare per giorni le acque internazionali davanti alle coste libiche realizzando “soccorsi multipli”. Cioè proprio il comportamento che secondo il governo spingerebbe i migranti a partire. Così la premier Giorgia Meloni il 3 febbraio scorso: “Le Ong vogliono stare anche settimane davanti alle coste africane: prendono dei migranti e non vanno nel porto ma aspettano di riempire la nave e la vogliono portare al porto che loro ritengono. È più un servizio di traghetto che di salvataggio”. Al di là dei numeri, cosa è accaduto in mare nell’ultima settimana? Il centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano (Imrcc) ha coordinato ben sette salvataggi di navi umanitarie che stavano risalendo verso il porto assegnato: quattro per la Humanity 1 diretta a Ortona e tre per la Geo Barents in navigazione verso Marina di Carrara. Tutti lungo la rotta Tunisia-Lampedusa ma nella zona di responsabilità maltese. In pratica la guardia costiera italiana, che dipende dal ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini e intorno alla maggiore delle Pelagie è oberata di lavoro per gli sciami di barchini, ha chiesto aiuto alle Ong facendo realizzare loro proprio quei “soccorsi multipli” che il decreto del Viminale di Piantedosi vorrebbe impedire e sulla cui base sono stati realizzati anche dei fermi (l’ultimo: Sea-Eye 4 il 2 giugno). “Siamo contenti della cooperazione con le autorità italiane. Dovrebbe andare sempre così”, dice il portavoce di Sos Humanity Lukas Kaldenhoff. Gli fa eco il capomissione di Msf Juan Matías Gil: “Siamo soddisfatti che la guardia costiera italiana si stia finalmente facendo carico dei soccorsi fuori dalla sua zona di responsabilità e ci coordini per realizzarli. È vergognoso, però, che continui a mandarci a centinaia di chilometri”. Da notare che nelle mail che l’Imrcc invia alle Ong per indicare il luogo sicuro di sbarco è comparsa una nuova dicitura: “Il MINISTERO DELL’INTERNO (in maiuscolo, nda) italiano ha indicato il porto di…”. Sembra voler precisare chi ha la responsabilità di spedire i naufraghi dall’altra parte dell’Italia. Droghe. Ignoranza e dati a caso: la propaganda tossica della destra di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 6 luglio 2023 Contrariamente a quanto vogliono far credere, l’incidenza dell’uso di sostanze negli incidenti con lesioni è assai basso. Ma l’obiettivo del governo è colpire gli stili di vita criminalizzando soprattutto i giovani. “L’Istat certifica che il 27% degli incidenti vengono provocati da persone che sono sotto uso di sostanze”. Così Francesco Giubilei, l’enfant prodige della destra italiana, domenica mattina a Omnibus su LA7 ribatteva sicuro alle argomentazioni di Riccardo Magi, fra i pochi in questi giorni ad opporsi alle novità proposte in Consiglio dei Ministri sulla tolleranza zero su droghe e guida. Per il segretario di +Europa si tratta di “una persecuzione nei confronti di chi usa sostanze illegali, mentre i consumatori di alcol possono stare tranquilli perché non viene rilevato giorni dopo l’assunzione come altre sostanze”. Ma i dati di Giubilei portavano immediata forza al messaggio lanciato dal Ministro Salvini: sospensione immediata della patente dopo il test salivare positivo. Pur fra le contestazioni di Magi, in trasmissione non c’è stato modo di chiarire il dato su droghe e incidenti stradali. Ci ha pensato proprio Giubilei quello stesso pomeriggio, rispondendo ad un tweet e citando tanto fieramente quanto malamente un virgolettato: “Caro Magi ecco dati Istat che dicevi non essere veri: “Conducenti giovani che causano incidenti stradali sotto l’effetto di stupefacenti sul totale è al 27% per la guida sotto effetto di droghe”. Che nulla c’entra con quanto detto in trasmissione, come sottolineato dagli oltre 300 commenti degli utenti, alcuni dei quali hanno suggerito che si riferisse al dato, questo reale, che fra i conducenti sanzionati per droghe il 27% si colloca nella fascia 15-24 anni. Continua dunque la narrazione tossica da parte del Governo Meloni sul tema droghe. In perfetta linea con la kermesse anti-cannabis del 26 giugno e sfruttando l’onda emozionale dell’incidente stradale di Casal Palocco, e dell’insensata morte del piccolo Manuel. “Giubilei non è uno qualunque - chiosa Magi - ma uno dei volti che la destra di governo ha scelto di mandare in TV. Non sanno di che parlano, ma vogliono governare”. Hassan Bassi cura da alcuni anni la sezione del Libro Bianco sulle droghe dedicata proprio all’incidenza del consumo di sostanze su quanto avviene sulle strade italiane. “Gli ultimi dati dell’Istat - spiega Bassi - sono riferiti al 2021 e pur non esaustivi sono abbastanza chiari: Carabinieri e Polizia Stradale su un totale di 52.459 incidenti con lesioni hanno elevato 5.085 sanzioni per stato di ebbrezza (art. 186 CdS) e 1.676 per stato alterato da stupefacenti (187 CdS). Si tratta rispettivamente del 9,7% e del 3,2% degli incidenti da loro rilevati, quelle per droghe pure in leggera diminuzione rispetto a 2020 e 2019. Anche per quanto riguarda i controlli su strada l’incidenza è molto bassa: ad esempio la Polizia Stradale nel suo report del 2022 segnala che su 415.995 conducenti controllati con etilometri e precursori, solo 1.181 sono stati sanzionati perché risultati positivi a droghe: lo 0,28% del totale.” Un dibattito serio guarderebbe prima di tutto a questi dati e alle principali cause degli incidenti stradali che rimangono velocità e distrazione alla guida, spesso legata all’uso dello smartphone. E senza sottrarsi al tema dell’alterazione alla guida causata da uso di alcol e droghe, guarderebbe alle esperienze degli stati che hanno scelto di regolamentare le sostanze, come il Canada, dove proprio grazie alle campagne di informazione trasparente sugli effetti delle sostanze ed alla prevenzione sono diminuiti i comportamenti a rischio, compreso il mettersi alla guida dopo aver consumato cannabis (-40%). Senza alcun aumento degli incidenti stradali a seguito della legalizzazione. Invece in Italia si citano statistiche a caso, strumentali solo a solleticare la pancia del proprio elettorato e a colpire - a prescindere dall’effettiva guida in stato alterato - le scelte di vita di determinati segmenti sociali. Fra gli obiettivi preferiti ci sono i giovani e i consumatori di cannabis, la sostanza i cui metaboliti possono rimanere all’interno del corpo anche dopo settimane dall’ultimo uso. Anche per Elia De Caro, avvocato e Difensore Civico dell’Associazione Antigone si tratta di un provvedimento che “colpisce indiscriminatamente i consumatori di sostanze stupefacenti al di là di loro comportamenti dannosi o pericolosi. Dalle indiscrezioni - argomenta De Caro - sembrerebbe che si voglia irrigidire, se non riscrivere, la disciplina che ora sanziona penalmente la condotta di chi guida in stato di alterazione psicofisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti. La proposta sembrerebbe voler omettere l’accertamento dello stato di alterazione e sanzionare penalmente chi guida risultando positivo a dei test, anche in assenza di tale prova. Alcune sostanze - continua il Difensore Civico di Antigone - rimangono per tempo nei liquidi biologici e la positività non è elemento da solo sufficiente a provare lo stato di alterazione. Ritengo che la proposta violi i principi costituzionali di presunzione di innocenza, di legalità e ragionevolezza che orientano il nostro sistema penale. Si tratta dell’ennesima ricerca di una scorciatoia verso il populismo penale, piuttosto che investire in metodiche di ricerca e verifica più serie dello stato di alterazione.” *Segretario Forum Droghe Droghe. “Cannabinoidi devastanti se tagliati con spice drugs” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 6 luglio 2023 L’Ordine dei medici di Roma: “I ragazzi corrono grossi rischi perché si tratta spesso di composti dall’effetto psicotropo pericolosissimo quando edulcorati con droghe sintetiche”. Le sostanze cannabinoidi non sono più le semplici “canne” che usavano gli hippies negli anni 60 per sballarsi. Si tratta spesso, invece, di composti dall’effetto psicotropo devastante quando vengono edulcorati con prodotti di sintesi, forme sintetiche realizzate in laboratorio, ovvero le spice drugs, usate come sostanze per “tagliare” l’erba. Composti che fanno perdere la percezione della realtà e che, quindi, fanno anche commettere reati gravi. Lo ha spiegato il vicepresidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (Omceo) di Roma, Stefano De Lillo, coordinatore del Gruppo di lavoro dell’Omceo della Capitale sugli effetti della cannabis. “Se un ragazzo fuma una canna su cui è stato versato un liquido contenente spice drugs - precisa Alessandro Vento, psichiatra e responsabile dell’Osservatorio sulle dipendenze- fuma una cosa che ha una potenza farmacologica che non è più quella del Thc, il tetraidrocannabinolo, principio attivo della cannabis naturale”. “L’etimologia della parola hashish - chiarisce De Lillo - deriva dall’arabo e significa “assassino”. I sicari, infatti, fumavano prima di compiere un omicidio per annebbiare la propria capacità di controllo e per eliminare il rimorso di aver compiuto crimini così gravi. Ovviamente non tutti i consumatori di cannabis commettono omicidi”. “Il consumo di hashish e cannabinoidi - sottolinea il vicepresidente dell’Omceo Roma - costituisce anche la chiave di lettura di moltissimi e dolorosissimi incidenti stradali, in cui il guidatore perde il controllo della realtà e, quindi, del proprio veicolo”. Secondo Stefano De Lillo “dobbiamo far comprendere all’opinione pubblica il dato scientifico e che non si tratta di droghe “leggere”, la cui definizione, ci tengo a ribadirlo, non esiste. Si tratta, invece, di sostanze fortemente psicotrope che, oltre a far perdere la percezione della realtà, possono avere anche risultati devastanti se assunte continuativamente, portando il 15-20% dei casi, secondo la bibliografia scientifica, a schizofrenia e psicosi”. Non sono, però, solo i cannabinoidi a dover preoccupare. “I ragazzi - aggiunge Alessandro Vento - assumono tutte le sostanze psicoattive, dall’alcol alla cannabis fino alla cocaina, in età sempre più precoce rispetto al passato. Sappiamo per certo da numerosi studi, tra cui lo studio Espad, che un 25% degli studenti delle scuole superiori, dunque in una fase adolescenziale, ha fumato cannabis nell’ultimo periodo”. Vento punta poi l’attenzione su un altro tema importante. “I social network, internet, hanno anticipato le tappe dell’adolescenza”. “È vero, dunque, che c’è una condizione di discontrollo degli impulsi: una persona che molto precocemente ha iniziato a fumare in modo continuativo, a prendere sostanze, a bere alcol da quando è giovane - precisa Vento - non ha freni inibitori e può arriva a commettere cose terribili perché non si rende conto delle conseguenze delle proprie azioni”. Come arginare questo fenomeno? “La chiave per una svolta - risponde lo psichiatra - è un’informazione ben articolata e ben orientata da parte di medici, psicologi, assistenti sociali, genitori e insegnanti di scuola che si occupano di queste tematiche. L’importante, però, è che tutti siano debitamente formati. Ecco perché l’Ordine dei medici di Roma, per esempio, sta supportando iniziative di informazione e di promozione di salute nelle scuole, insieme a insegnanti, genitori e ragazzi, per potenziare questa strategia di prevenzione”. Una strategia di prevenzione da iniziare il prima possibile. “Per i ragazzi - conclude Vento - prima è, meglio è: direi dagli 8-9 anni. Fare campagne di prevenzione con i ragazzi di 15 anni è sicuramente già un po’ tardi”. In Tunisia è partito un pogrom, centinaia di deportati in Libia di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 6 luglio 2023 Le persone abbandonate in una terra di nessuno senza acqua, cibo o cure mediche. A Sfax nuove violenze contro i subsahariani. Saied torna a prendersela con gli stranieri. Resta in silenzio l’Ue che proprio sul partner nordafricano ha puntato tutto. Da 20 a 100. Da 100 a 220. Da 220 a più di 400 e domani chissà. Mentre a Sfax continuano a registrarsi atti di aggressioni e violenze di ogni tipo, quello che sta succedendo al confine tra Tunisia e Libia rischia di diventare presto un dramma umanitario. In una ricostruzione basata solamente su testimonianze dirette, Human Rights Watch (Hrw) ha stimato in 400 le persone di origine subsahariana che sono state deportate lungo la frontiera sud tra i due paesi senza acqua, cibo o cure mediche, in una zona militarizzata il cui accesso è bloccato a giornalisti, agenzie Onu e società civile. Tra loro sono segnalati richiedenti asilo, donne incinte, bambini e neonati di sei mesi. Tuttavia mantenere un contatto telefonico è un’impresa difficile: sono numerosi infatti i casi di pestaggi e violenze da parte delle forze di sicurezza tunisine, impegnate anche a sequestrare cellulari e a distruggere i passaporti delle persone fermate. Le azioni della polizia vanno avanti almeno dal 2 luglio scorso con i primi casi venuti alla luce. Un’operazione che parte da Sfax, dove si concentra la maggior parte della comunità subsahariana, e finisce a più di 300 chilometri di distanza in un lembo di terra letteralmente di nessuno. “Siamo riusciti a verificare la posizione delle persone. Sappiamo che riescono a fare avanti e indietro tra Tunisia e Libia per cercare cibo e acqua”, racconta al manifesto Salsabil Chellali di Hrw. Quanto sta succedendo in questi giorni nel piccolo Stato nordafricano è qualcosa di mai visto prima. Nei numerosi video arrivati nelle ultime ore si vedono decine di persone denunciare di essere state deportate nel deserto in condizioni di precarietà assoluta. Ci sono anche frammenti da Sfax, epicentro delle tensioni tra popolazione locale e comunità subsahariana, in cui alcuni cittadini tunisini esultano nel vedere i bus pieni di migranti partire verso la Libia o decine di persone distese a terra sono controllate dalle forze di sicurezza. Altre immagini mostrano roghi in diverse abitazioni. L’impressione è che in Tunisia si sia arrivati a un definitivo cortocircuito istituzionale e sociale. Da un lato la sensazione di insicurezza ha raggiunto un livello tale che l’ultimo colpevole rimasto è la comunità subsahariana presente nel paese, in particolar modo a Sfax dove centinaia di persone provenienti da Guinea, Camerun, Costa d’Avorio e Mali hanno cominciato a raggiungere la stazione dei treni per cercare riparo in altri luoghi della Tunisia. Dall’altro il discorso del presidente della Repubblica Kais Saied del 21 febbraio sembra dare frutti altamente avvelenati. “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica del paese, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”, erano state le parole pronunciate. A cui è seguita un’ondata di violenze diffusa in tutto il paese. Sembrava terminata, ma ora pare addirittura diventata di Stato. La corte penale di Sfax ha dichiarato di avere arrestato tre tunisini, rei di aver ospitato migranti subsahariani in posizione irregolare. In attesa di comprendere nei dettagli l’orizzonte delle violazioni dei diritti umani contro la comunità subsahariana, nella giornata di martedì Saied è tornato a riprendersi la scena in ambito migratorio. Prima attraverso un colloquio telefonico con il capo di governo di unità nazionale della Libia Abdelhamid Dbeibah. Al centro dei discorsi, l’urgenza di trovare una “soluzione collettiva che impegni tutti i paesi coinvolti dal fenomeno dell’immigrazione irregolare, che siano a sud o a nord del Mediterraneo”. Poi con la convocazione di una riunione al ministero dell’Interno con tutti i quadri securitari del paese per ribadire il rifiuto di dare ospitalità o permettere il transito agli irregolari presenti in Tunisia. In un lungo e articolato discorso sulla sovranità della nazione, il presidente ha lasciato i presenti con due domande: chi arriva nel piccolo Stato nordafricano dopo avere percorso migliaia di chilometri è cosciente della situazione che troverà? Queste persone sono effettivamente migranti o sono manipolate da gruppi criminali che approfittano della loro miseria per minacciare la sicurezza della Tunisia? In un quadro altamente frammentato a fare rumore è il silenzio dell’Ue, con la Commissaria europea per gli affari interni Ylva Johansson che nella visita a Lampedusa di martedì scorso con il ministro degli Interni Matteo Piantedosi ha dichiarato: “i migranti sono una sfida europea”. Tunisia. Deportazioni e violenze contro i profughi: “Bambini costretti a bere acqua di mare” di don Mattia Ferrari La Stampa, 6 luglio 2023 Oltre 400 persone imprigionate in condizioni disumane ai confini della Tunisia, una donna incinta è morta. L’Italia e l’Europa irrobustiscono i respingimenti su cui le mafie prosperano: serve il coraggio di dire basta. “Ragazzi, io vi auguro che lo Spirito Santo vi metta un’inquietudine tale davanti alle cose che non sono buone, che non sono oneste, che non sono giuste, che non sono pulite, vi metta una inquietudine tale che voi abbiate a levare la voce ogni volta che il corpo del Signore non viene riconosciuto nel volto dei fratelli”: queste parole di don Tonino Bello, vescovo pugliese sempre accanto agli ultimi, indicato da Papa Francesco come “profeta”, risuonano con forza in questi giorni, in cui arrivano nuovamente immagini di violenza disumana perpetrata sui migranti in Libia e Tunisia, dove l’Italia e l’Europa cercano di far respingere le persone migranti. Il 3 luglio la ricercatrice presso “Human Rights Watch” Lauren Seibert e Alarm Phone hanno denunciato che dopo una perquisizione in una casa a Sfax, in Tunisia, 48 persone migranti sono state arrestate e 20 tra loro, di cui 6 donne, due incinte e una di 16 anni, sono state deportate dai militari tunisini al confine con la Libia, senza denaro e cibo. Queste pratiche di deportazione e violenza perpetrate dalle autorità tunisine sulle comunità migranti sono tra l’altro documentate da tempo. Nella giornata del 4 luglio si sono verificate altre catture e deportazioni e al momento sono più di 400 le persone imprigionate in condizioni disumane nella zona militarizzata al confine tra Tunisia e Libia. Alcune di queste persone pare siano già rimaste uccise: tra queste, una delle due donne incinte deportate due giorni fa. Secondo una persona sul posto, la situazione sanitaria è catastrofica: “I bambini sono costretti a bere acqua di mare” dice. Nel mentre l’Italia e l’Europa cercano di irrobustire la strategia dei respingimenti appaltati alla Tunisia, che comportano il contenimento dei migranti in quelle condizioni disumane. Queste politiche producono solo un aumentare della violenza, come già è avvenuto in Libia, dove le mafie prosperano sui respingimenti dei migranti che l’Italia ha appaltato alla cosiddetta Guardia costiera libica. Siamo responsabili di quella disumanità, la nostra coscienza non può ritenersi pulita. Dovremmo invece promuovere l’accoglienza e, per garantire la libertà di restare nei Paesi di origine, riconoscere finalmente la soggettività e il protagonismo dei popoli e dei movimenti del Sud del mondo che chiedono di essere riconosciuti, di scrivere un sistema sociale ed economico nuovo tutti insieme e di uscire così finalmente dal colonialismo economico delle nostre multinazionali che li opprime. Il problema però è che ai migranti, e in generale a tutti i poveri, non viene riconosciuto il diritto ad essere soggetti e protagonisti: si discute di loro, ma non con loro. Così anziché scelte coraggiose si sceglie la strada della violenza. La violenza ai danni dei migranti non è un fattore isolato, ma è profondamente connessa alle tante altre forme di violenza che la nostra società perpetra. In alcuni casi si tratta di violenza fisica, ad esempio nel caso dei migranti o delle persone private del diritto alla casa, in altri casi si tratta di quella che il grande sociologo Pierre Bourdieu definiva violenza simbolica, cioè quella violenza sottile, che viene perpetrata cercando di imporre visioni del mondo e strutture mentali che impediscono una piena emancipazione e opprimono ad esempio le donne e le persone Lgbtqi+. Tutte queste violenze sono il frutto di un sistema autoritario, capitalista, patriarcale e nativista, che viene introiettato da tutti noi. La violenza ai danni dei migranti rappresenta l’apice di tutto questo. Ogni persona che abbia un cuore umano dovrebbe levarsi. Sembra che la globalizzazione dell’indifferenza dilaghi sempre di più: la disumanità è stata normalizzata. Ma l’indifferenza e la disumanità non hanno ancora avuto l’ultima parola. Ci sono realtà, come Mediterranea Saving Humans, che ho l’onore di servire come cappellano, tutta la “civil fleet” e tanti altri movimenti, che operano una vera e propria resistenza dell’umano e hanno scelto di lottare, con i propri corpi e le proprie vite, assumendo veramente la strada della fraternità. Questo è il valore politico che deve diventare centrale nella nostra epoca storica. Siamo davanti a un bivio: o assumiamo radicalmente l’amore e la fraternità e li facciamo diventare carne, attraverso i nostri corpi e le nostre relazioni, o la spirale di violenza, autoritarismo, capitalismo, patriarcato e razzismo che si è innescata ci condurrà sempre di più verso il collasso, verso un mondo in cui ci ripieghiamo sempre di più su noi stessi e in questo modo diventiamo sempre più arrabbiati e infelici. Per fortuna ci sono giornali, come La Stampa, che continuano a raccontare con coraggio anche ciò che è scomodo e provano a svegliarci. Ecco allora che grazie a questo giornale vorrei augurare a ogni persona di avere il coraggio di aprire il proprio cuore all’amore viscerale, di toccare con mano le ferite dell’umanità, di assumere radicalmente il valore politico della fraternità, di andare incontro alle persone che lottano per la vita e la dignità riconoscendo in esse quel dono di umanità che può salvarci. Se avremo il coraggio di amare veramente e di credere sulla base di questo amore che tutto può cambiare, allora insieme troveremo la strada. Allora saremo capaci di compiere un vero esodo e di giungere a quella terra promessa che è la civiltà dell’amore, una società dove la felicità non è un’illusione che ci viene prospettata da false speranze, ma è la gioia che dà senso alla tua vita quando hai il coraggio di amare veramente. Se queste sembrano utopie, si venga a conoscere questi movimenti, come Mediterranea, dove tutto questo è già realtà. Sudan. Niente fondi all’assistenza, mille ostacoli per chi fugge dalla guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 luglio 2023 Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), da metà aprile oltre 563.000 persone hanno superato la frontiera sudanese per fuggire dal conflitto. In Ciad ne sono arrivate oltre 120.000, nel Sud Sudan 129.000, in Egitto oltre 250.000. Di fronte a tutto questo, alla data del 27 giugno, gli oltre 566 milioni di dollari chiesti dall’Acnur per i rifugiati erano stati finanziati solo per il 13 per cento. C’è di più. Nella precipitosa evacuazione dei cittadini e del personale diplomatico degli stati occidentali, nelle ambasciate sono rimasti molti passaporti di persone che avevano fatto richiesta d’ingresso nell’Unione europea mediante un visto per l’area Schengen. Senza un passaporto o altro documento d’identità, non si entra agevolmente neanche negli stati che confinano col Sudan: tantissime persone in fuga dalla guerra sono bloccate alle frontiere. Emblematico è il caso dell’Egitto. Da un lato, merita un plauso perché ha accolto il maggior numero di persone in fuga dal conflitto sudanese. Ma, secondo le informazioni raccolte da Amnesty International, risalenti al 10 giugno, le autorità egiziane chiedevano a tutti i sudanesi di munirsi di un visto d’ingresso presso il consolato di Wadi Haifa o a Port Sudan, sia per combattere la produzione di visti falsi che per gestire meglio l’afflusso alla frontiera. Fino a quella data, sulla base delle norme vigenti prima del conflitto, il visto d’ingresso era richiesto solo ai ragazzi sudanesi di oltre 16 anni e agli uomini sudanesi di età inferiore ai 50 anni. All’inizio della crisi, le autorità egiziane addette all’immigrazione hanno accettato, alla frontiera terrestre, documenti temporanei di viaggio per le donne, le ragazze, i ragazzi di meno di 16 anni e gli uomini ultra-cinquantenni. Questa prassi è tuttavia terminata, senza preavviso, il 25 maggio, provocando caos, gravi ritardi e sovraffollamento ai punti di frontiera. Le autorità egiziane hanno anche annullato la prassi di consentire l’ingresso ai cittadini sudanesi col passaporto scaduto, estendendone la validità per altri sei mesi, e di permettere ai bambini di essere aggiunti al passaporto dei genitori. Con un’altra decisione, presa il 29 maggio e il cui testo è stato esaminato da Amnesty International, le autorità egiziane hanno introdotto nuovi controlli di sicurezza per i ragazzi e gli uomini compresi tra i 16 e i 50 anni in arrivo all’aeroporto internazionale del Cairo. Per poter entrare in territorio egiziano, il numero e la data dei controlli di sicurezza devono essere stampati sul visto d’ingresso. Amnesty International ha poi ricevuto allarmanti segnalazioni sul rifiuto, da parte delle autorità egiziane, dell’ingresso alla frontiera terrestre ricevuto da rifugiati siriani ed eritrei in fuga dal Sudan. Un testimone ha riferito che alla fine di aprile, alla frontiera di Argeen, l’ingresso era stato negato in quanto i documenti in loro possesso era scaduto. Ciò ha causato anche separazioni familiari.