Un giorno diremo: prigioni mai più di Tullio Padovani* L’Unità, 5 luglio 2023 Il carcere è fatto per annientare, per rendere talmente docili da farti uscire con l’idea che null’altro potrà toccarti nella vita di peggio: alla radice del male non c’è il degrado, le condizioni di vita e strutturali devastanti, il disinteresse della politica. Il movimento abolizionista è nato in Paesi dove le prigioni sembrano alberghi. Definire il carcere come “luogo di privazione non solo della libertà”, è riduttivo. “Luogo di privazione non solo della libertà” lascia pensare che in definitiva ci possa essere una sorta di misto composito: “c’è un po’ di libertà e poi c’è dell’altro”. No, il carcere è un’altra cosa. Il carcere è il luogo della soppressione della libertà e della sua sostituzione con la disciplina e con l’ordine, due entità che sono l’antitesi speculare della libertà. Per motivare questa conclusione anticipata vorrei riportarvi alle origini, ma prima di farlo vorrei sgombrare il campo da una premessa che spesso inquina il discorso. Noi ci concentriamo sulle condizioni di degrado del carcere, perché ne siamo giustamente colpiti. Quando andiamo a visitare un carcere ci offende vedere persone trasformate, nemmeno in animali, perché gli animali ricevono più cura, ma in qualche cosa di aberrante rispetto all’idea di uomo che chiunque di noi porta dentro di sé. Pensiamo che siano la struttura del carcere, l’assenza di mezzi, le condizioni materiali, la mancanza di finanziamenti, insomma la scarsa considerazione politica verso il carcere a costituire la radice del male e, quindi, che in definitiva il problema sia la riforma: il carcere deve essere riformato, portato a un livello tale da soddisfare l’esigenza costituzionale della funzione rieducativa. Il carcere deve diventare quello che i costituenti hanno pensato dovesse essere. Noi non ci siamo ancora, abbiamo carceri devastanti dal punto di vista delle condizioni di abitabilità, spesso sono seminterrati e interrati, invasi dall’acqua, privi del minimo conforto, torridi d’ estate, gelidi d’inverno. C’è di tutto. Poi basta entrare in un carcere, visitarlo appena e si resta inorriditi. Ma con ciò finiamo col ripetere un rito che dura da duecentocinquanta anni circa, cioè dura da quando i riformatori settecenteschi decisero che la pena conveniente per la nuova società fosse la pena privativa della libertà personale. Il carcere in luogo delle pene del regime precedente, dell’ancien régime: le pene corporali, le pene di morte, le pene di infamia, le fustigazioni, le mutilazioni e quant’altro; lo “splendore dei supplizi”, esibiti sul corpo del condannato in modo che restasse impresso su di lui il marchio di ciò che aveva commesso. Nella nuova società, il dato fondamentale che accomunava tutti gli esseri umani, resi uguali fra di loro, era l’uguale godimento di un bene, la libertà, che doveva essere punto di riferimento per punire, proprio perché la libertà è un bene uguale per tutti; tutti sono titolari di quello stesso bene, e la pena interviene su un bene che accomuna tutti. Ma non solo questo: la pena carceraria, proprio perché consente di intervenire sulla persona diventa una pena utile, perché permette di far compiere al detenuto un percorso al termine del quale egli deve potersi reinserire nella società. È l’utopia settecentesca delle pene che devono avere una finalità proficua: si punisce allo scopo di restituire alla società qualcosa di meglio rispetto a ciò che è entrato; il reato è rimasto fuori, la persona è entrata dentro, ed esce migliore. In taluni paesi questo percorso si è compiuto. Il carcere è stato riformato rispetto alle istituzioni penitenziarie settecentesche ereditate dall’ancien régime dove serviva soprattutto come istituto di custodia cautelare. In Norvegia, ad esempio, trovate un carcere che in realtà è un albergo di buona qualità, con tanto di palestra, locale personale, bagno separato, giardinetto, godimento di tutto ciò che si può avere salvo la libertà di uscire, di andarsene in giro dove ti pare e ti piace, ma per il resto tutto quello di cui una persona può disporre: anche di visite a scopo di incontri sessuali. Vivo in uno spazio separato, ma vivo come se mi trovassi, in buona sostanza, in un’altra casa che mi è stata destinata. Però, è proprio in questi paesi che è sorto il movimento per l’abolizione del carcere, proprio in questi. Gli abolizionisti sono per lo più studiosi di paesi dove il carcere ha avuto questa evoluzione riformatrice perché, all’esito di questa evoluzione riformatrice, si sono resi conto che il risultato non cambiava. Se voi guardate su internet, mettete i nomi delle carceri tedesche, sapete cosa trovate? Un sito, destinato al carcere, che si presenta e che vanta le sue caratteristiche, come se fosse una beauty farm, un hotel ragguardevole; il tono non è proprio questo ma ci si avvicina: si indicano le attrezzature sportive, c’è la piscina, c’è la palestra, si ospitano detenuti di un certo tipo e si specifica quali, si indica quanti educatori ci sono, quali opportunità di lavoro, insomma, si legge e ci si conforta. Poi andate in queste carceri e vedete che è tutto pulito, tutto in ordine, tutto perfetto come si conviene ai tedeschi. Non c’è niente che sia fuori posto. Poi parlate con i detenuti e scoprite che sono tedeschi anche nella “polizia”, nel senso che il trattamento è ispirato a un rigore disciplinare assoluto, drasticamente attuato, perché questa è la caratteristica reale del carcere ed è questo che determina il suo contenuto effettuale: l’essere un universo disciplinare. E questo non c’entra niente con lo stato delle pareti, con i tubi dell’acqua, con i lavandini che non funzionano. Certo, se c’è pure questo, figuriamoci; ma direi che questo è un di più che, paradossalmente, serve a sviare il nostro sguardo, perché restiamo persuasi che il problema sia mettere a posto gli edifici, rendendoli più umani. Certo, va fatto, perché far vivere le persone in quelle condizioni disturba il sonno di ognuno che prenda coscienza. Sono uscito da una visita recente al carcere di Pisa (era un po’ che non entravo in un carcere oltrepassando la soglia riservata agli avvocati) e vi confesso che non ho trascorso una notte tranquilla; e me ne rallegro. Certo, riforme sono indispensabili, ma non sono risolutive del problema, per niente; il problema del carcere resta. A parte il fatto che il cammino di un carcere dal volto umano si è compiuto soltanto in certi paesi, nella maggioranza di essi questo cammino non si è compiuto. Il carcere è infatti soggetto a una prima legge fondamentale assoluta, inderogabile: deve rappresentare, comunque, la peggiore delle condizioni socialmente possibili in quel determinato contesto sociale; deve essere la peggiore, non può distanziarsene, neanche di una spanna, perché se se ne distanzia solo di una spanna si alterano le condizioni di sopravvivenza sociale, e può diventare appetibile. Se il carcere desse lavoro, come pur sarebbe possibile, organizzando un’impresa in cui lavorassero solo i detenuti, scoppierebbe la rivoluzione: perché i disoccupati direbbero “Ma che dobbiamo fare? Dobbiamo andare a rubare per trovare un posto di lavoro?”. Vedete, questo che vi sembra un discorso populista (e in una certa qual misura lo è) è un discorso nel quale, limitandomi a un aggiornamento di tipo verbale, riprendo le parole di un illustre socialista di fine Ottocento, che era anche un penalista, e che si chiamava Enrico Ferri: un uomo certo non sospettabile di derive autoritarie. Lui che veniva dal Polesine a chi si lamentava della condizione carceraria, replicava: se i detenuti hanno vitto pessimo e condizioni di salute precarie, andate a vedere i contadini del Polesine come vivono, con la pellagra, con la malaria, pieni di malattie, muoiono nei primi anni di vita come le mosche. E noi a questi dovremmo dire che ci occupiamo dei detenuti per rendere la loro vita migliore di quella che essi patiscono? Quindi, il carcere dovrà sempre essere in fondo, e in un paese come il nostro il fondo sta piuttosto in fondo, fatalmente, inesorabilmente. In Norvegia starà pure giù, solo che l’ultimo gradino della Norvegia è incommensurabilmente più alto del nostro gradino mediano. Ma anche in Norvegia il carcere è sempre quello che è, e che non può non essere. Per cui la prospettiva finale sarà inevitabilmente quella di doversi render conto che il carcere non può svolgere la funzione che gli è attribuita, non può essere rieducativo. Del resto, il legislatore costituente non ha mai detto che il carcere deve essere rieducativo, ha detto piuttosto che le pene debbono tendere alla rieducazione. Ma quali sono le pene? Noi abbiamo un sistema carcerocentrico in cui tutto è incentrato su tale pena, ma l’articolo 27 richiama “le pene”, qualunque pena: anche quella pecuniaria deve tendere alla rieducazione; infatti, anche la pena pecuniaria deve essere modulata in modo da tendere a questo scopo. Il nodo che non si può sciogliere è costituito dal fatto che il carcere è un’istituzione totale; e quindi è un’istituzione dominata dal potere di disciplina. Che cosa significa questo? Significa che si parte dal concetto di libertà personale per determinare la pena: cioè, io ti privo della libertà personale per poi “gestire” questa libertà personale in una istituzione nella quale, in realtà, tutto concorre a eliminare la libertà stessa, attraverso un meccanismo intensamente disciplinare. La disciplina non è un attributo della sola istituzione carceraria: la disciplina è un’invenzione della società moderna. Quando la società moderna si organizza produttivamente in modo alternativo rispetto al regime degli status medievali, di carattere personale, per cui ognuno faceva il mestiere secondo la sua appartenenza di ceto: i contadini erano servi della gleba ecc. Quando tutto questo si rompe e tutti diventano uguali, titolari in astratto della stessa libertà personale, ecco che interviene a regolare il complesso di rapporti sociali non la fissità degli status (“tu sei servo della gleba e resti servo della gleba, tu e i tuoi figli” e così via a salire nella scala sociale fino al nobile che tramanda la propria posizione ai propri discendenti), ma la disciplina. Come rilevava Michel Foucault, si tratta, con la disciplina, di ottenere “corpi docili con i mezzi del buon addestramento”, e per rendere docile il corpo occorrono due tecniche fondamentali: l’arte della ripartizione e il controllo delle attività. L’arte della ripartizione si articola in quattro formidabili elementi: la clausura; la localizzazione elementare; l’ubicazione funzionale e il rango. Anche in una impresa trovate tutto questo, non solo in un carcere. Difatti, anche in una impresa si pone il problema dell’invadenza del potere disciplinare. Nel Settanta, lo Statuto dei lavoratori di questo si occupava, di regolare i limiti della disciplina in fabbrica in quanto potere pervasivo. Ciascuno di questi elementi meriterebbe un commento particolare, cosi come il controllo delle attività che si rivolge all’impiego del tempo, all’elaborazione temporale degli atti di ciascuno, alla correlazione tra corpo e gesto, all’articolazione corpo-oggetto, all’utilizzazione esclusiva del tempo. Tutto è regolato, nel carcere, in modo ossessivo. Ed è regolato secondo uno schema che procede dal rito d’ingresso. Leggete Asylums di Erving Goffman e vi convincerete che non c’è modo di cambiare questa realtà se non eliminandola. All’ingresso, si realizza un processo di spoliazione della personalità: tu perdi tutto ciò che ti distingue, che ti caratterizza, non hai più oggetti personali, non hai più niente. Riceverai, in forma di privilegio, di premio, eventualmente, qualcosa in funzione di come ti inserirai nell’assetto disciplinare. E nel corso di tutta la vicenda ogni tuo gesto, ogni tuo bisogno, ogni tua necessità saranno accompagnati dal vincolo a un’autorità che concede, limita, vede, valuta, controlla. Tu non sei titolare più di nessun frammento di libertà personale, sei oggetto di un potere disciplinare che ha sostituito l’intera tua situazione giuridica, e sino al punto di ridurti a un livello di infantilizzazione estrema: il detenuto deve diventare tosi docile da essere, in sostanza, plasmabile a volontà, sensibile a ogni movimento dell’autorità. Esattamente il contrario di ciò che si può supporre o ipotizzare costituisca una qualsiasi forma di educazione e rieducazione. Il carcere è fatto per sputare all’esterno rifiuti, inutili, inidonei, incapaci di tutto. Se poi qualcuno si salva da questo universo disciplinare non è certo in virtù delle capacità che il carcere abbia di sanare situazioni di questo tipo, ma solo grazie alle sue doti personali, alla sua capacità di resistenza, gli incontri che possono essergli capitati persino in un’istituzione come quella penitenziaria. Insomma, è un destino che lo riguarda personalmente ma che non riguarda l’istituzione, non la riguarda per niente. Il carcere è fatto per distruggere, è fatto per annientare, è fatto per rendere talmente docili da farti uscire con l’idea che null’altro potrà toccarti nella vita di peggio se ti azzarderai a commettere ciò che hai commesso all’origine, quando sei entrato. Potrai essere terrorizzato all’idea del carcere, ma lo stato di spoliazione che hai subito, soprattutto nei periodi di lunga detenzione, sarà tale da impedirti in pratica di trovare un lavoro. Nella visita a Pisa, ho incontrato una persona, un detenuto, che raccontava “io utilizzo i permessi per andare a cercare lavoro”. Siccome era persona di bell’aspetto, robusto, e pronto a qualsiasi tipo di attività, riceveva lì per lì un’accoglienza favorevole. “Che cosa sai fare? “Mah, so fare questo, so fare quest’altro, sono disposto a fare tutto”. “Alt, benissimo, dice”. “Precedenti?” “Sono in permesso”. “Ah, le faremo sapere”. Ovviamente senza seguito, perché è inevitabile che il carcere finisca col determinare uno stigma che socialmente risulta praticamente invalicabile. L’assistenza post carceraria un tema che accompagna la pena detentiva da duecentocinquant’anni. Se leggete la penitenziaristica ottocentesca vedrete che i problemi sono esattamente gli stessi, solo che allora c’era la fiducia, anche un po’ ridondante, di poter davvero determinare il destino delle persone. Un penitenziarista francese non esitava ad affermare che “Subito dopo Dio viene il legislatore penitenziario, perché, come Dio, anch’esso affonda nel profondo dell’animo degli uomini”. Non aveva capito ancora niente del carcere, anche se in quel momento si poteva forse riconoscere la buona fede, per quanto tradotta poi nella forma di mi controllo ossessivo, pervasivo e totale, che è l’obiettivo del carcere: Bentham, col Panottico, in cui il sorvegliante al centro ha la possibilità di controllare tutti i raggi, e ciascun detenuto sta nella sua celletta, visto costantemente senza poter vedere. È una distopia che si realizzerà, perché noi possediamo oggi gli strumenti per un controllo così fatto. Probabilmente il carcere sarà abolito proprio quando questi strumenti di controllo ossessivo, pervasivo, totalizzante avranno raggiunto un livello di perfezione tale da potervi rinunciare, perché il controllo si eserciterà in una forma anche più accurata di quella che il carcere consente. Speriamo non sia così; quel che ritengo certo è che - non so fra quanti anni, mi auguro non molti - noi tratteremo il carcere come oggi trattiamo le pene di mutilazione, le pene di marchio, le pene di bollo, le pene di fustigazione, con lo stesso ribrezzo, con lo stesso orrore, con la stessa incredulità che nomini pensanti abbiano potuto concepire una tale mostruosità. Speriamo che il tempo sia vicino, ma per ora contentiamoci di lottare perché questa istituzione sia messa in condizioni di nuocere il meno possibile. Lo scopo che dobbiamo cercare di raggiungere nel carcere è che esso sia il meno desocializzante possibile. Quanto, non possiamo dirlo, non sarà mai abbastanza, e in questa strada si incammina Nessuno tocchi Caino con una convinzione che è sempre assistita dal grande motto Spes centra Spem. Noi continuiamo a sperare contro ogni speranza. E non ci ferma nessuno. *Presidente d’onore di Nessuno tocchi Caino Mauro Palma e il “tempo vuoto” delle carceri italiane di Giulia Sofia Fabiani ultimavoce.it, 5 luglio 2023 Le persone in Italia sotto il controllo penale sono 137.000. Per Palma la nostra è ormai una società del controllo che cerca di risolvere ogni contraddizione affidandola al penale, quando questo non dovrebbe essere che l’ultimo strumento possibile. Dalla parte di chi lotta per essere riconosciuto, dell’essere umano e dei suoi diritti. Mauro Palma, Garante dei diritti dei detenuti, parla della situazione delle carceri italiane, luoghi di angoscia, suicidi e sovraffollamento. Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale dal 2016, ha presentato il rapporto sullo stato di salute delle carceri italiane e noi abbiamo deciso di intervistarlo. Per prima cosa, gli abbiamo chiesto quali fossero i dati più preoccupanti del rapporto presentato. Mauro Palma spiega che spesso si parla di affollamento delle carceri, quindi anche dei pochi metri quadri destinati ai singoli detenuti. Sicuramente questo è uno dei problemi principali, ma preferisce da subito porre il focus su un’altra questione. L’affollamento sarebbe meno grave se le persone trascorressero del tempo che avesse significato fuori dalla cella. Il vero problema è la mancanza di attività costruttive fuori dalla stanza. Il tempo di qualità è ciò che manca principalmente. Dal rapporto, sono tre i livelli di dati che vale la pena citare... “Ci sono più di 4..000 persone in carcere che scontano una pena, e non un residuo di pena, inferiore a 2 anni. Di questi, sono 1500 quelli con una pena inferiore a un anno. Che significato ha questa pena? Se il reato non era di questa enorme gravità, forse il carcere non era la misura migliore. Il carcere è una misura complessa, ci vuole tempo per conoscere una persona e organizzare un reinserimento sociale. Quando parliamo di 6 mesi, è solo tempo sottratto. Si tratta di un’interruzione di vita e non viene perseguita la finalità della rieducazione, presente all’articolo 27 della Costituzione. La persona viene riconsegnata alla società dopo un tempo inutile e con un stigma”. Il secondo punto sul quale Palma si sofferma è la fortissima selezione di classe presente. I detenuti provengono spesso da ambienti marginali, con scarsa istruzione. Invece di trovare delle risposte, trovano un completo disinteresse sociale... “Sebbene siano 1.400 gli studenti universitari in carcere, molti altri sono senza istruzione. Queste persone che provengono da ambienti deprivati sul piano sociale e culturale fanno si che, oltre alla popolazione immigrata, abbiamo 5000 detenuti non stranieri che non hanno adempiuto all’obbligo scolastico e 900 sono totalmente analfabeti. Prima di parlare di progetti io credo che il carcere dovrebbe far sì che le persone abbiano uno strumento per comprendere”. Il terzo dato preoccupante è quello dei suicidi in carcere. A luglio 2023 si contano già 33 suicidi, senza considerare il numero dei tentati suicidi o degli episodi di autolesionismo. Perché così tanti? “L’idea di carcere che noi trasmettiamo è quella di un buco nero. Pensiamo alle espressioni come buttare la chiave o pena esemplare. Questa idea di carcere porta alla disperazione chi è più fragile. Moltissimi si suicidano nel primissimo periodo di detenzione perché si ha la sensazione di essere entrati in un mondo di disinteresse. Alcuni però, come una donna qualche giorno fa, lo fanno persino alla fine del percorso”. La situazione peggiora persino se si parla delle condizioni dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), conferma? “Tutti gli elementi positivi si annullano nei Cpr. Qui si parla di un tempo totalmente vuoto per le persone che si stanno già misurando con un proprio fallimento, ovvero l’ipotesi di migrazione. I tempi di detenzione sono più brevi, parliamo di un paio di mesi, ma il degrado e il vuoto del tempo sono peggiori”. Ci sono differenze tra le varie regioni italiane sul trattamento dei detenuti? “Ci sono dei luoghi dove c’è maggiore abbandono e mancano tantissimi direttori e comandanti. Un direttore che deve gestire tre istituti non può progettare nulla. Ci sono esperienze positive, come quella di Padova, ma accanto ce ne sono molte altre carenti”. Com’è la situazione delle carceri italiane rispetto a quella di altri paesi europei? “Se consideriamo l’Europa “larga”, il carcere italiano è in una posizione intermedia. Se ci limitiamo ai paesi con democrazia consolidata, il carcere italiano allora soffre di alcuni elementi “punitivi”. Per esempio, a differenza di alcuni paesi, in Italia i detenuti non possono incontrare i loro partner in momenti e spazi di affettività. Noi di positivo rispetto agli altri abbiamo il rapporto con il volontariato e con l’esterno, basti pensare alle numerose associazioni che progettano. In Francia non entra nessuno in carcere. Come Paese abbiamo una scarsa capacità però di diffondere queste singole esperienze positive e farle diventare comuni su tutto il territorio”. Esiste la tortura nelle carceri italiane? “La tortura, intesa come violenza finalizzata a ottenere qualcosa, l’abbiamo vista ampiamente a Genova venti anni fa, o a Santa Maria Capua Vetere qualche mese fa. Parliamo di violenza imposta, non di reazione, è una violenza di tipo sistematico. Sono episodi gravissimi sul quale non bisogna sorvolare. Esiste una cultura di aggressività interna”. Parliamo in fine dei bambini in carcere con le loro madri. La proposta della legge Serracchiani che proponeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili è stata ritirata, cosa ne pensa? “I bambini in carcere questa mattina erano 17. Vanno distinte 3 possibilità. Ci sono le case famiglia protette che dovrebbero essere la prima soluzione, ma i comuni investono poco in queste in quanto c’è una collettività che non si vuole molto interessare del carcere. La seconda è quella degli ICAM, qui il personale non è in divisa, non ci sono sbarre alle porte e alle finestre, i bambini vanno al nido esterno e sono una soluzione intermedia presente solo in alcune città come a Milano, Venezia e Torino. La terza opzione è quella dei nidi all’interno del carcere e ad oggi sono soltanto tre”. Per concludere, quali possono essere le misure più urgenti affinché si possa garantire un carcere decente? “Portare innanzitutto fuori dal carcere le pene brevissime (quelle fino a 2 o 3 anni), creando delle strutture di controllo e supporto meno estreme e più connesse al territorio. Poi, investire molto sulla conoscenza e sull’istruzione per comprendere il presente e l’esperienza di detenzione. Investire maggiormente sul supporto psicologico necessario per i detenuti ma anche per il personale. Dopo la pandemia la situazione è andata in burnout totale”. La bomba a tempo delle carceri di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 5 luglio 2023 C’è da scommetterlo! Da qui a poco verranno indirizzate verso il Governo Meloni ed il ministro Carlo Nordio tutte le colpe del mondo per quello che risulta essere lo stato orribile di tante nostre carceri e, come è immaginabile, si soffierà sul fuoco apparentemente sopito dei detenuti, dei loro familiari e di quanti, pure a ragione, ne lamentano le tristi condizioni. Gli agitatori ideologici, pur di fare “ammuina”, proveranno ad attizzarlo alimentandolo con ogni sorta di esca. Si tratta di quello stesso fuoco che, in questi ultimi dieci e passa anni “di mischiate” politiche, si è tenuto soffocato negli ambienti intellettuali che contano, narcotizzandolo con le promesse, mai mantenute, di miglioramento del sistema penitenziario e, addirittura, rilanciando, da astuti bari, delle proposte oggettivamente impossibili, se non anche provocatorie, capaci però di sollevare anche la reazione piccata delle stesse organizzazioni sindacali del personale penitenziario, in primis quelle della polizia, e di quanti hanno il torto di occuparsi pure delle vittime dei reati. Per converso, però, nessun serio investimento in risorse umane, davvero adeguate nel numero e nella qualità professionale, nonché in quelle strumentali e tecnologiche è stato, di fatto, realizzato, non mostrandosi i governi trascorsi neanche in grado di contenere il prevedibile e scandito turnover conseguente agli inevitabili pensionamenti del personale, favorendo così il determinarsi di voragini organizzative pericolosissime negli organici, dove mancano interi pezzi della filiera, determinando dei black holes che si traducono in uno stato d’insicurezza per le nostre carceri. Insomma, ancora una volta, il tradizionale lancio di fumogeni ideologici, ammantati da belle parole, farciti con frasi d’effetto e con l’immancabile richiamo ad asseriti studi statistici, soprattutto in tema di recidiva, senza però mai avvalorarne la chiara paternità scientifica, ma dando vita ad un carosello di dotte dichiarazioni che, riflesse tra loro e così rafforzandosi in un astuto gioco di sponda, ha consentito agli oranti accreditati dal sistema di spacciarle per buone, benché nessun serio peer review sia stato realmente compiuto. Alimentati i dogmi penitenziari, si sono poi invocati modelli carcerari d’importazione, semmai sudamericana, dimenticando di ricordare come in quella parte del mondo, quando scoppiano le rivolte, non si contano i feriti tra i detenuti e le forze di sicurezza, ma ci si accontenta di annotare il numero delle teste mozzate. Lo stucchevole richiamo a “realtà penitenziarie aperte”, situate in regioni del mondo ove, non poche volte, ci pervengono al contrario immagini e notizie poco rassicuranti sul piano della tenuta sociale di quelle realtà, è stato propinato con disinvoltura, quasi a convincerci sulla “inutilità del carcere”. Insomma, ancora una volta si è potuto constatare come la menzogna, quando rotola a valle, non solo tenda ad ingrossarsi come volume ma, addirittura, si trasformi in verità, seppure priva di ogni concreto e testato accertamento, pure perché mancante di ogni realizzata pre-condizione di fattibilità. Ma, d’altronde, è un gioco che conviene a tanti quello di alzare, sempre di più, l’asticella delle attese, mentre il presente si mostra come un girone infernale, la cui responsabilità va additata al fato, talché sarebbe un inutile dispendio di energie quello di ricercare colpe e colpevoli, quantomeno in ambito politico o di alta amministrazione. Eppure tutti siamo convinti, giustamente, che occorra davvero “umanizzare il carcere”, ma a farlo non possono certamente essere quanti lo abbiano ridotto in questo stato penoso. Occorrerebbe, invece, favorire una autentica azione di conciliazione penitenziaria, dove la politica, ed il governo anzitutto, porgano attento ascolto verso gli stessi operatori penitenziari ancora in servizio e a tutte le organizzazioni sindacali, che “matte non sono; un ascolto che fino a oggi, purtroppo, è mancato. Occorrerebbe uno studio serio, pure per proporre soluzioni di alleggerimento di un carico umano di “captivi” insopportabile, e non tanto come numero in sé, ma come obiettive capacità recettive delle nostre strutture penitenziarie, sempre più indecenti e carenti a causa di una antica incapacità a manutentarle regolarmente; semmai rilanciando, in accordo con la magistratura, le misure alternative alla pena e, in primo luogo, quella delle semilibertà, oggi praticamente assenti. Finora, per realizzare delle nuove carceri, il tempo medio è stato probabilmente quello di non meno venti anni dal momento della decisione di farle, talché, immaginare che sia quella la soluzione a breve o medio periodo è una illusione, è autolesionismo istituzionale. E basta poi con il furbesco rimando a nuovi “Stati generali” che fanno rima con “Stati confusionali”, per fare il punto della situazione, ben noto a quanti lavorino in carcere, per immaginare possibili concrete soluzioni, concentrandosi invece sul perché non vengano correttamente impiegate le norme già esistenti. Al trentun maggio di quest’anno, ad esempio, le persone detenute all’interno delle nostre carceri erano 57.230, di queste le donne erano 2.504: ebbene le persone ristrette in semilibertà solo 1151, pur a fronte di ben di 42.050 condannate, neanche il 2,8 per cento. Qualcuno potrebbe affermare: “Ma vi sono i detenuti pericolosi, i mafiosi, l’alta sicurezza? ebbene, pure ove volessimo sottrarre questi, nella misura di circa 750 del circuito del 41 bis ed altri 9.200 dell’alta sicurezza, non si spiegherebbe un numero così modesto di detenuti semiliberi. La semilibertà, si chiarisce, non è libertà, perché si è tenuti ad un programma di trattamento controllato dalle forze dell’ordine e anche dagli assistenti sociali, attraverso stringenti verifiche sul posto di lavoro o dove si sia autorizzati a collocarsi, inoltre è contemplato il rientro giornaliero in carcere. Praticamente, ad una massa di detenuti, dalla quale possiamo sottrarre gli autori dei reati più gravi, viene di fatto negata una possibilità contemplata dal nostro ordinamento giuridico fin dal 1975; eppure tutti hanno la consapevolezza che stiamo parlando di una popolazione ristretta costituita da soggetti prodotti da condizioni di disagio sociale, che si traduce in microcriminalità, figlia pure di una “disoccupazione” antica, così come per l’assenza di reti sociali, di buoni maestri di vita, di scuole funzionanti, conseguenza di una tossicodipendenza diffusa, alla mercè delle grandi criminalità, di disagio psicologico e psichiatrico, di malattia e questo non da oggi lo dicono a squarciagola le organizzazioni sindacali tutte, in primo luogo quelle della polizia penitenziaria, così come il mondo del volontariato e di tutti gli operatori penitenziari piegati dalle carte e dal loro inutile esercizio amministrativo. Non c’è bisogno di essere sociologi per comprenderlo, basterebbe udire ciò che da anni gli stessi poliziotti penitenziari urlano delusi, quando raccontano le loro condizioni di vita lavorativa, al punto, e questo è significativo, che hanno chiesto che venisse istituita anche per loro la figura del garante nazionale, il che potrebbe voler dire che finora la figura istituita per le persone detenute e private della libertà personale non sia stata percepita come garante anche di un equilibrio necessario tra sicurezza e diritti umani. La circostanza che fosse passata, obiettivamente in silenzio, l’insana decisione governativa di alcuni anni fa, che ha ordinato la pericolosissima aggregazione di masse di persone detenute, fatte migrare dalle loro celle sovraffollate, ma comunque di regole costituite da gruppi omogenei e/o non in conflitto tra di loro di detenuti, per collocarle dalla petit chambre della stanza detentiva assegnata a quella grand chambre, costituita dai corridoi delle sezioni (per essere più chiaro, è come se si spostassero gli alunni di tutte le classi di una scuola, perché le aule risultano inadeguate, presso i corridoi di ogni piano, nonostante si tratti di classi diverse, con insegnanti diversi, con programmi diversi, e con età degli studenti anch’esse diverse), ha, in molte realtà, fatto perdere ogni forma di serio controllo delle persone ristrette, incentivandole a dare vita, sotto la regia di abili capi, alle stesse logiche di occupazione degli spazi che si attuano negli slarghi delle periferie abbandonate a sé stesse. In tal modo replicandosi le logiche claniche di organizzazione della vita di quei luoghi, dove alla sorveglianza della polizia penitenziaria, nei fatti impossibile da parte dei pochi agenti in servizio, si contrappone quella delle sentinelle dei vari gruppi malavitosi, distinti ovviamente su basi etniche, regionali, di banda, grado ed anzianità. I fautori dello establishment penitenziario la chiamano “sorveglianza dinamica” (forse perché sfugge velocemente di mano), imitando solo nel nome quello che in altre parti d’Europa si realizza con distinti presupposti e reali risorse umane e tecnologiche e non, certamente, come lo si è imposto da noi, determinando la dura e preoccupata reazione della generalità dei poliziotti penitenziari e di quanti, per davvero, operino all’interno degli istituti di pena, e non presso gli ovattati uffici ministeriali, dove il fetore ed i rumori delle carceri non giungono e dove, di regola, ogni richiesta umana (soprattutto se si tratti di invocazioni di aiuto) si tramuta in altra carta che spera di essere letta e non semplicemente accatastata. Immaginate, per un momento, come debba essere la vita in quei corridoi, soprattutto per chi, seppure detenuto, semmai è davvero innocente, anche se tale condizione potrà emergere dopo qualche tempo, nel corso della definizione del procedimento penale che lo riguardi. Costretto a lasciare ogni giorno la propria cella, dove semmai era riuscito a costruire un rapporto di dialogo con qualche compagno, si troverà a cospetto dei gruppi clanici che parlano tutte le lingue del mondo e che, semmai, vorrebbero saggiare anche la sua, se di bella presenza, in senso metaforico ovviamente. Corridoi intasati di persone detenute, dove trafficare un qualcosa di illecito è un attimo, che sia droga oppure una sim-card, e non una lama rudimentale: uguali sono come modalità di scambio, semmai sotto l’indifferente sguardo di telecamere non funzionanti, ma che comunque, pur ove efficienti, possono essere facilmente aggirate, mentre l’unico agente in servizio è circondato dagli altri detenuti i quali gli impediscono di vedere oltre la barriera umana che essi stessi hanno formato; come se non bastasse, la vigilanza viene ulteriormente impedita dai portoncini blindati delle celle, lasciati spalancati, trasformati così in paratie, capaci di formare degli spazi addirittura riservati, quasi dei fitting room. Quelle location, così come i cortili dei passeggi, sono i posti buoni per regolare dei conti in sospeso tra gli stessi gruppi malavitosi, i quali potrebbero perfino armarsi delle lunghe gambe dei tavolini di legno, trasformati in rudimentali manganelli, per aggredirsi l’un verso gli altri; nel frattempo, semmai, chi ha ricevuto la sua bustina o la roba nascosta nella carta stagnola, se la gusta beatamente. Di fronte alle risse poco c’è da fare da parte dei poliziotti penitenziari; spesso neanche si possono usare gli idranti, perché le lance ed i nastri sono riposti proprio all’interno dei corridoi occupati dai detenuti (gli architetti e gli ingegneri non avevano previsto che divenissero piazze), idem per gli estintori, per cui potrebbe perfino accadere che per evitare che siano i detenuti ad impiegare i dispositivi antincendio in caso di rivolta, semmai contro gli stessi agenti, siano stati perfino rimossi e riposti altrove, col rischio che, in caso di bisogno, l’operatore di polizia penitenziaria, non informato sullo spostamento, a motivo della rotazione dei posti di servizio, manco sappia dove prenderli ed in quanto tempo. Sembrano barzellette, lo so, ma se non ci credete andate a chiederlo agli addetti ai lavori, quelli veri, quelli che buttano il loro sangue nelle sezioni e che attendono da anni risposte serie. *Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma Morti in carcere, un gruppo di sostegno per i familiari di Luna Casarotti* Il Dubbio, 5 luglio 2023 Riunioni online dal 21 luglio, ogni venerdì dalle 18 alle 19, per confrontarsi. Anche avvocati, volontari, associazioni e garanti potranno inviare le loro opinioni alla mail di Yairaiha Onlus. Nasce un gruppo di sostegno che sarà possibile seguire tramite la piattaforma online zoom affiancata dal medico e psichiatra Vito Totire, attivista e portavoce del circolo “Chico Mendez” di Bologna, dalle 18 alle 19 ogni venerdì a partire dal 21 luglio, in cui sarà possibile raccontare il proprio dolore e confrontarsi con altre persone che hanno vissuto la tragica esperienza di avere familiari morti in carcere. Le riunioni si terranno online e i link per accedere saranno pubblicati sul gruppo telegram “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei morti in carcere”, https://t.me/MortiInCarcere. Inoltre sarà possibile inviare le storie dei familiari dei detenuti che hanno perso la vita all’interno delle carceri italiane all’indirizzo email dell’Associazione Yairaiha Onlus yairaiha@ gmail. com. Anche avvocati, volontari, associazioni e garanti potranno raccontare il loro punto di vista. Gli 84 suicidi e i 214 morti in totale nel 2022 rappresentano un record drammaticamente allarmante delle carceri italiane. Nel 2023 si sono tolti la vita come soluzione estrema del dolore già 33 persone e si è già raggiunta la soglia dei 68 morti. L’ambiente carcerario è un ambiente altamente deprivante che annienta definitivamente la persona detenuta tanto da trovare nella morte la liberazione. Ci si toglie la vita per segregazione, inalando il gas dal fornellino o con rudimentali corde. L’impatto psicologico dell’arresto, la condanna, lo stress che si vive quotidianamente in carcere, i pochi corsi formativi e attività di reinserimento sono molto spesso destinati a pochissimi detenuti determinando per i più l’ulteriore condanna all’inazione per la maggior parte del tempo di detenzione. Allo stesso tempo poche misure alternative esterne al carcere, la paura di affrontare la vita al di fuori di quelle quattro mura, la paura di non trovare un lavoro a causa della fedina penale. I morti per malasanità non si contano più. Essere gravemente malato in carcere quasi sempre equivale a una condanna a morte. L’articolo 27 della Costituzione afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. L’articolo 32, invece dice che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. In un paese civile chi è nelle mani dello Stato, non può perdere la vita. Forse più persone dovrebbero sapere che la morte assume caratteri d’insopportabilità se avviene in modo traumatico, c’è lo shock e l’incredulità di credere che sia realmente accaduto. Quando una persona viene a mancare senza permettere alcuna forma di preparazione ci si ritrova completamente spiazzati. Tutti dovrebbero tornare alla libertà e uscire dalle celle con le proprie gambe. Non si può chiudere gli occhi per non vedere, né tapparsi le orecchie per non sentire. Il linguaggio rafforza la distanza psicologica, le etichette riducono le persone a livello di un oggetto e giustificano comportamenti umilianti. La privazione della libertà non è lo strumento più adatto a cambiare in meglio gli individui, se troppe persone sono morte e continuano a morire lo strumento carcere non funziona. Il carcere deve essere investito di un processo di riforma radicale che sconfigga definitivamente trasformismi e cambiamenti di facciata. Morire in carcere e di carcere è fallimento per tutti noi. *Associazione Yairaiha Onlus È la prima sperimentazione per individuare percorsi di aiuto di Vito Totire* Il Dubbio, 5 luglio 2023 Obiettivo: implementare politiche di prevenzione e alleviare le sofferenze. I “dati epidemiologici” sono impressionanti e peraltro noti (suicidi, decessi, autolesionismo, perdita di speranza di salute); si ritiene che per ogni evento suicidario sia accompagnato da una intensa sofferenza di una area di una decina di persone; stiamo quid parlando di “fenomeno” connotato da un impatto psicosociale enorme; cerchiamo di progettare una attività che possa anzitutto implementare politiche di prevenzione e che possa alleviare le sofferenze causate dal fallimento della prevenzione quando non si è riusciti a garantirla. La ipotesi di lavoro potrebbe essere questa: • Si costituisce un gruppo sulla base della libera adesione di persone motivate a lavorare sulla “questione carcere”. • L’invito ad aderire è rivolto a chi ha subito un danno o un lutto diretto o indiretto da uno stato di privazione della libertà che avrebbe dovuto e potuto essere gestito diversamente (incuria, mancanza di prevenzione, violenza deliberata o preterintenzionale). • Pare congruo “aprire” il gruppo a persone che non hanno ricevuto un danno irreparabile ma paventano di poterlo ricevere. • Pare congruo inoltre includere tra gli invitati a partecipare non solo che è stato coinvolto da un evento suicidario ma anche chi ha subito una morte prematura evitabile. • Il vissuto relativo al suicidio e quello relativo alla morte per omissione di assistenza sono abitualmente diversi ma non pare proponibile “dividere” quasi “nosograficamente” situazioni simili che includono peraltro anche condizioni borderline ed effetti di condotte autolesioniste nelle quali il confine tra volontarietà, atto subconscio e condotta reattiva a violenza può essere labile; i familiari e le persone care possono elaborare chiavi di lettura anche “difensive” che può essere utile non attaccare e demolire ma gestire in maniera dialettica • Non sarebbe congruo non invitare anche chi, pur non avendo subito personalmente lutti, sia fortemente motivato per senso civico o per ragioni professionali alla prevenzione che in sostanza si identifica nell’impegno ad agire per garantire alle persone private della libertà la stessa speranza di vita di salute psicofisica che rivendichiamo per tutti gli esseri umani presenti sulla terra • Il gruppo si articola secondo le consolidate procedure del “gruppo di auto aiuto” : 1) riunioni periodiche 2) definizione dell’argomento centrale di discussione e degli scopi 3) partecipazione (volontaria) di tutti ; finalità: 1) verbalizzazione del disagio, delle sue forme e della sue cause 2) discussione sul vissuto e sui rimedi 3) uscire dall’isolamento e della rimuginazione e dalla sensazione di “vicolo cieco” 4) superare il sentimento di “vergogna” (evidentemente presente e forte tra le persone che facciamo più fatica a contattare e ad “aprirsi” e che non rispondono ai nostri tentativi di contatto) 5) trasformare il disagio/ lutto in energia per il cambiamento e la prevenzione • Per quanto ricercato (ricerca che ovviamente non può essere considerata esaustiva, magari ve ne sono in corso nel forse pure consolidate) non sono emerse esperienze precedenti analoghe, che ruotino attorno al “pianeta carcere”, a quella che ci proponiamo di costruire pur esistendo esperienze di auto-aiuto molto articolate; esistono invece esperienze specifiche sorte per iniziative di familiari e di gruppo di pari (studenti che si sono interrogati dopo il suicidio di un compagno di scuola) come esistono associazioni di “survivors” (Padova, Torino) che svolgono una attività molto utile e importate nell’ambito della rete che si occupa di “suicidologia”; certamente potremo contattare per approfondire consigli e suggerimenti • Supporto ed eventuali attività di consulenza sono assolutamente gratuite/ i; precisazione per certi versi superflua ma utile, di questi tempi, in cui l’Ordine nazionale psicologi ha firmato una convenzione son una nota associazione per prestazioni libero- professionali … a pagamento per chi ha subito lutti in ambito occupazionale! Si tratta comunque di un percorso “sperimentale” da riconsiderare criticamente tappa per tappa. Osservazioni e critiche ovviamente legittime e auspicabili. *Psichiatra “Quell’uomo mi ha sfregiata, ma è giusto che esca dal carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 luglio 2023 Parla Lucia Annibali, avvocata ed ex parlamentare, che il 16 aprile 2013 fu sfregiata con l’acido su mandato dell’ex Luca Varani da Rubin Talaban, ora rilasciato in anticipo per buona condotta ed espulso in Albania. Lucia Annibali, già parlamentare di Italia Viva e attualmente difensore civico della Regione Toscana, due giorni fa ha saputo che Rubin Talaban, 41 anni, condannato con sentenza definitiva a 12 anni di reclusione, non è più in carcere. Ha scontato 9 anni, tra buona condotta e liberazione anticipata, e quindi è uscito prima del tempo. Ma è stato espulso in Albania lo scorso aprile. Talaban entrò in azione la sera del 16 aprile 2013 insieme a Altistin Precetaj, lanciando dell’acido in faccia alla donna, originaria di Urbino, ma in quel periodo residente a Pesaro, che stava rientrando in casa. Un’aggressione eseguita su mandato del suo ex, l’avvocato Luca Varani, che sta scontando una pena di 20 anni. Per lei in questi giorni è stato difficile rivivere quei momenti con i giornalisti, ma lancia un messaggio importante a tutti quelli che le hanno detto che la scarcerazione non ci sarebbe dovuta essere: “Mi ha fatto del male, non lo scordo, ma è giusto così”. Onorevole quando e come ha saputo della scarcerazione? Due giorni fa, ero immersa nel mio lavoro e mi ha chiamata un giornalista di Pesaro. Devo dire che la notizia non mi ha scosso più di tanto. Sarebbe stato diverso se mi avessero detto che era uscito Varani, il coinvolgimento emotivo sarebbe stato diverso. Invece in questo caso sono tranquilla, anche perché come ci siamo dette spesso nelle nostre interviste è giusto così: sono trascorsi dieci anni, lui li ha scontati, ed era previsto che tornasse nel suo Paese. Il fatto che sia in Albania la fa sentire più al sicuro? Certamente, si mantiene una distanza fisica. Invece il giorno che uscirà dal carcere Varani sarà diverso perché se lo potrà trovare vicino? Quando uscirà dovrà fare tre anni di libertà vigilata ma comunque la dimora sarà credo nella mia zona. Lui in questi anni non ha mai cercato di contattarla? No, mai. Invece Talaban qualche anno fa le scrisse per mostrare segni di pentimento... Mi mandò una lettera quando ero parlamentare. Ho deciso di non rispondergli perché non mi sembrava opportuno anche per il ruolo che ricoprivo. Come dissi allora, in quella lettera lui aveva chiesto perdono, quindi era anche una sorta di ammissione visto che durante il processo nessuno aveva mai parlato. Se davvero si era reso conto di ciò che aveva fatto, poteva essere quella anche una conquista importante per se stesso. Poi devo essere sincera il suo pentimento cambia poco nella mia vita che da allora è completamente cambiata. Non sembra paradossale che Talaban si sia fatto avanti e Varani no? No, perché Talaban non aveva alcun tipo di coinvolgimento. Mentre Varani sì. Ieri noi giornalisti l’abbiamo tempestata di telefonate. Arriverà il giorno in cui cadrà l’oblio su Lucia Annibali, come donna vittima di un terribile reato? Non so se questo accadrà mai. La mia storia è diventata patrimonio del Paese, grazie anche al mio impegno pubblico politico ed istituzionale. Per fortuna nel frattempo la mia vita si è riempita di cose diverse. Dopo l’esperienza parlamentare oggi cosa fa? Sono difensore civico della Regione Toscana. Tutte le settimane vado a Firenze e mi occupo di altro, anche se metto insieme tutte le esperienze accumulate in questi anni. Possiamo dire che la sua storia personale si è trasformata anche in una battaglia pubblica con le sue iniziative parlamentari, grazie al bagaglio culturale di avvocato... Nella mia esperienza parlamentare il mio vissuto era sempre con me ma non ho voluto mai parlarne. Le mie battaglie le ho condotte sempre in nome dei principi in cui credo. In questi anni, col Dubbio, lei ha sempre parlato di politica giudiziaria. Mai affrontato la sua storia personale. Italia Viva non è affatto il partito dagli slogan facili quali “buttate via la chiave”. Per lei è stato difficile far prevalere i principi costituzionali quale ad esempio quello ad una giusta pena sulla drammatica emotività della sua vicenda personale? Forse è più difficile farlo capire all’esterno, a quelli che per esempio in questi giorni mi hanno scritto che Talaban non doveva uscire dal carcere. Ripeto: per me è giusto così. Posso dire questo perché in questi anni ho fatto un mio percorso sia personale che accanto ai detenuti. Purtroppo nella società permane questo senso di pena come vendetta senza fine. Quando lei era parlamentare, è stata introdotta la riforma Cartabia che prevede anche la giustizia riparativa. Occorre un salto culturale prima che una modifica giuridica? Premesso che nessuno è obbligato ad intraprendere un percorso di giustizia riparativa, credo che questa previsione possa aiutare a seminare una cultura diversa tra i cittadini. Io personalmente non intraprenderai questo percorso ma mi metto al servizio in altri modi. Ammetto che quando partecipo ai progetti come vittima di reato è molto faticoso e doloroso ma credo che la testimonianza e la condivisione di certi principi soprattutto per la nuova generazione siano un contributo importante, affinché non crescano con questa subcultura in tema di giustizia. Nelle ultime settimane altre donne uccise. Dove sbagliamo? Il tema della violenza sulle donne è molto complesso. Il difetto è relegarlo solo sul piano securitario, aumentando pene e reati. Non è questo l’approccio giusto per occuparsi della vittima e della società, perché si arriva dopo. Occorre prevenire nel modo giusto, a cominciare dalle scuole. Annibali e la scarcerazione dell’uomo che la sfregiò. “Non la vedo come un’ingiustizia, lo prevedeva la sentenza” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 5 luglio 2023 Intervista all’ex parlamentare dopo che l’uomo che le tirò l’acido in volto è stato scarcerato ed è andato in Albania: “Sono riemerse molte cose che erano sepolte dal tempo”. Lucia Annibali ha saputo che Rubin Talaban, il suo “uomo nero”, è libero. Dopo dieci anni di carcere ha finito di pagare il debito alla Giustizia con due primavere di anticipo rispetto alla sentenza ed è tornato a casa sua, in Albania. Quella sagoma scura e incappucciata che lei vide tirarle l’acido in faccia - “dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra” - è nel suo Paese, come prevedeva la stessa sentenza a fine pena. Resta in carcere, invece, Luca Varani, l’ex di Lucia che assoldò Talaban per farle del male. Era il 16 aprile 2013. È turbata dalla notizia di Talaban libero? “Devo dire la verità: lì per lì non mi ha scosso più di tanto perché quando me l’hanno detto ero presa da altro. Poi ci ho pensato. Ci ho riflettuto eri sera, prima di dormire. E mi sono messa a fare ricerche su Internet. Sono tornate a galla tante cose... È stato un viaggio fra i ricordi, mi sono venute in mente sensazioni, flash...Ho letto di quando lo catturarono mentre io ero ancora in ospedale. Insomma: le prime ore ho sottovalutato un po’ la potenza della notizia rispetto alla mia memoria. Non sono turbata, più che altro mi sono ricordata tante cose che ovviamente non avrei ripensato e alle quali non pensavo da tempo”. E oggi? È già passata l’ondata dei ricordi? “Beh, se voi giornalisti mi chiamate in mille la vedo difficile... Stamattina ho guardato il telefono e ho trovato molti messaggi di amici. Tutti a chiedermi come sto, qualcuno dice che è una ingiustizia che lui sia già fuori”. E lei come la vede? “Io penso che invece non ci sia nulla di ingiusto nella sua libertà. È andata come doveva andare, sono passati dieci anni, ci sta. Lui era condannato a 12 e la sentenza stabiliva già che sarebbe stato espulso. Non la vedo come una ingiustizia”. Tra l’altro proprio Talaban è stato il solo a mostrare segni di pentimento scrivendole quella lettera per chiedere perdono, tempo fa. “Diciamo fra molte virgolette che lui è stato il più consapevole dei tre. Stanotte leggendo di lui ho ripensato al processo, alla prima volta che l’ho visto in aula e a quando lo trovai in casa, quella sera. Ho rivisto la scena nella mia mente: lui vestito di scuro e con il passamontagna, quel gesto calmo nel prendere la mira... l’uomo nero. Mi sono ricordata mentre scappava per le scale, il suo modo di muovere le gambe, come fanno i calciatori quando si allenano. Insomma, sono riemerse cose che erano sepolte dal tempo”. Parliamo di paura... “Non ho paura. Rispetto a lui io ero già piuttosto in pace. Stiamo parlando di un uomo che se n’è andato nel suo Paese e che mantiene da me una distanza rassicurante. Sono ragionevolmente certa che non avrà più a che fare con la mia vita”. Altra cosa sarà quando finirà di scontare la sua pena Luca Varani? “Beh, lì sono sentimenti diversi, certo. La distanza nel suo caso non potrà essere la stessa dell’uomo che adesso è in Albania, ma non voglio parlare comunque di paura. Vedremo quando sarà il momento...” Pesaro è la città dove tutto è successo ed è una città piccola, dovrà mettere in conto la possibilità di incrociarlo, prima o poi... “Se succederà saprò come reagire ma per ora non è una preoccupazione. In queste ore, comunque, ho anche pensato molto a Pesaro. Ci vivono i miei genitori, ho degli amici, io ci passeggio con la mia nipotina. Ma ogni volta che cammino per le sue strade mi immergo nei pensieri di quello che mi è successo, soprattutto quando sono sola. È inevitabile. Quella città contiene ricordi dai quali è impossibile per me fuggire”. La casa dell’agguato con l’acido? “L’ho venduta l’anno scorso e ne ho comprata una a Roma. La mia vita adesso è fra Roma e Firenze, dove faccio la difensora civica regionale” Lei ripete da tempo di voler essere Lucia e basta, non “Lucia sfregiata con l’acido”... “Da una parte è quello che vorrei, sì. Ma mi rendo anche conto che faccio parte della cronaca di questo Paese, ho condiviso il mio percorso e la mia esperienza con chi ha seguito la mia storia. Quindi capisco che il passato possa tornare a galla. Del resto io faccio i conti ogni giorno con il mio viso. Fra le tante cose che ho letto stanotte c’era un articolo che parlava di giorni davvero bui, quando ancora non si sapeva se avrei recuperato la vista... Oggi, dopo tante operazioni ho deciso di accettarmi così come sono, ma nello specchio ogni mattina vedo quel che è stato e diciamo che archiviare del tutto la pagina dell’acido è impossibile”. Cosa augura a Rubin Talaban libero? “Io spero che abbia capito, che abbia fatto fino in fondo il percorso della consapevolezza del male che mi ha fatto. Spero che sia una persona migliore di com’era quando fu arrestato e che non torni a delinquere mai più. Io sono convinta da sempre che ogni persona recuperata in carcere sia una persona che alla fine rende il mondo più sicuro. Se per lui è così meglio per tutti noi. A me interessa che non abbia più nulla a che fare con la mia vita”. Il ddl Nordio aspetta ancora la bollinatura del Mef di Paolo Pandolfini Il Riformista, 5 luglio 2023 Il testo, atteso già da diversi mesi, era stato vagliato dagli uffici di via Arenula e nulla lasciava intendere che ci sarebbero stati problemi. E invece. Il governo avrebbe trovato le risorse finanziarie per il disegno di legge Nordio sulla giustizia, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno. L’assenza di coperture aveva di fatto bloccato il testo, impedendogli così di essere trasmesso al Senato dove è già stata incardinata la sua discussione. Pur non essendo la prima volta che un provvedimento di legge, dopo essere stato approvato da Palazzo Chigi, rimane per qualche settimana in stand by in attesa delle ‘bollinatura’ da parte del Mef, nel caso del dl Nordio tale impasse è risultata essere quanto mai inaspettata. Il testo, infatti, atteso già da diversi mesi, era stato vagliato dagli uffici di via Arenula e nulla lasciava intendere che ci sarebbero stati problemi di sorta. L’incaglio è dovuto essenzialmente alla decisione di aumentare la pianta organica dei magistrati di 250 unità. L’incremento si era reso necessario per il nuovo regime dei provvedimenti cautelari, attualmente disposti dal giudice monocratico, la cui competenza passerà al collegio. La collegialità riguarderà, però, solo la più grave delle misure cautelari, quella in carcere, non essendo stata estesa alle ordinanze per gli arresti domiciliari o alle misure di minore impatto sulla vita delle persone. Nell’ottica di valorizzare il carattere di extrema ratio della misura restrittiva in carcere, “sei occhi sono meglio di due”, ripete spesso Carlo Nordio. La collegialità, a regime, sarà prevista nella fase delle indagini, non quando la misura è adottata durante le procedure di convalida di arresto o fermo, per le eventuali pronunce di aggravamento delle misure cautelari, e per l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza detentive. La collegialità avrà, inevitabilmente, forti ripercussioni sull’organizzazione dei Tribunali, soprattutto per le possibili incompatibilità dei tre giudici rispetto alle successive fasi del processo. In pratica, c’è il rischio che i giudici diventino prima o poi tutti incompatibili, essendosi occupati a vario titolo del fascicolo. Ecco quindi spiegato il perché si è reso necessario aumentare l’organico con 250 nuovi magistrati, da destinare come detto alle funzioni giudicanti. L’entrata in vigore di questa parte della riforma, una volta approvato, verrà differita di due anni, proprio per consentire le necessarie assunzioni. Per quanto riguarda i nuovi magistrati, da sempre ‘nota dolente’, Nordio ha comunque previsto una riscrittura delle regole per il concorso e per le relative tempistiche di immissione in ruolo. L’ambizioso obiettivo è quello di abbattere i tempi pluriennali per l’ingresso in servizio dei nuovi magistrati. La norma predisposta inizialmente per il disegno di legge era stata inserita nel decreto legge in materia di organizzazione della Pa e di sport, per velocizzarne l’entrata in vigore. In dettaglio: si riducono a otto mesi (da nove) i tempi oggi indicati per la formazione della graduatoria dopo l’espletamento dell’ultima prova scritta e a dieci mesi quelli per definire l’intera procedura concorsuale, con l’effettivo inizio del tirocinio dei candidati dichiarati idonei. Si affiancano, inoltre, rimedi organizzativi volti a far sì che la nuova tempistica possa essere effettivamente rispettata. In particolare, si prevede che, allorché i candidati che hanno consegnato gli elaborati scritti siano in numero rilevante (2mila unità), la Commissione venga integrata passando da 29 a 33 componenti oltre il presidente. A tale previsione si aggiunge la possibilità di suddividere tale Commissione in tre Sottocommissioni (anziché in due, come sinora previsto), ciascuna delle quali potrà poi operare mediante ulteriore ripartizione in tre collegi. Il risultato sarà, quindi, la possibilità di contemporanea attività di ben nove collegi (rispetto ai sei attuali), incaricati del lavoro per ridurre i tempi delle correzioni degli elaborati. In attesa, quindi, della bollinatura da parte del Mef del dl Nordio, il Consiglio superiore della magistratura voterà questa mattina per il nuovo procuratore di Firenze. In pole ci sono il procuratore di Livorno, Ettore Squillace Greco, ed il rappresentante italiano presso Eurojust, Filippo Spiezia. La partita è quanto mai aperta e si deciderà, quasi sicuramente, sul filo di lana. Fine di un’era: “Repubblica” scopre le virtù del garantismo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 5 luglio 2023 Che Repubblica offra spazio di tribuna allo scrittore Antonio Monda con un articolo dall’inequivocabile titolo “Ma io sto con Nordio” e che lo faccia proprio nel giorno in cui il sindacato dei giornalisti chiama a manifestare contro “il bavaglio” delle norme anti- intercettazioni, è una sorprendente e piacevole mirabilia. Ma forse anche il segno che la grande muraglia del giustizialismo, o del “colpevolismo” in senso lato, sta iniziando a sgretolarsi. E che quella “rivoluzione” avviata trent’anni fa dalla procura di Milano con l’inchiesta di Mani Pulite, sospinta dalla furia manettara dei giornali, dall’impeto del processo mediatico permanente, comincia anche lei a perdere la cosiddetta spinta propulsiva. Anche perché le riflessioni di Monda, che mette a confronto il conflitto tra potere politico e ordine giudiziario in Italia e negli Stati Uniti, sono un piccolo e prezioso manifesto su cosa significhi essere garantisti oggi. Mettendo subito a fuoco i mostri creati dal basso commercio che avviene da anni tra redazioni e procure, Monda si chiede: “Quante volte abbiamo conversazioni che non avevano nulla a che fare con le indagini in corso e hanno umiliato, a volte distrutto la dignità delle persone? Non vi sembra aberrante la possibilità di intercettare le conversazioni tra l’imputato e il proprio avvocato?”. Se un’intercettazione non contiene alcuna notizia criminis non deve finire sui deschi dei caporedattori, ma andare direttamente al macero. E la libertà di stampa, il diritto a sapere, a essere informati garantito dalla Costituzione? Qui lo scrittore tocca uno degli aspetti centrali, quasi filosofici, del diritto liberale, ricordando la centralità dell’habeas corpus: “Anche il più utile e informativo degli articoli non vale il rischio di ledere la dignità di un essere umano”, paragonando poi “l’enfasi con cui si viene buttati in pasto ai lettori” con il risalto ridicolo dato agli articoli di “riabilitazione” quando gli accusati alla fine vengono assolti. “Ci sarà chi si avvantaggerà dalle riforme. Garantismo non deve significare impunità, ma la dignità di un cittadino è un valore superiore a ogni rischio”. Le parole di Monda sono una boccata di aria fresca e il fatto che siano apparse nella cornice di Repubblica, un quotidiano che, un po’ per convinzione, un po’ per vocazione pop, da Tangentopoli in poi ha sempre cavalcato l’onda giustizialista conferisce ancora più valore al suo bell’intervento. Prescrizione, la riforma non piace ai magistrati di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 luglio 2023 Il pg della Cassazione Salvato: “Prima valutiamo gli effetti della Cartabia”. È un coro di no quello indirizzato dai magistrati alla Commissione Giustizia della Camera sulla riforma della prescrizione. Le tre proposte - avanzate dai deputati Costa (Azione), Pittalis (Fi) e Maschio (Fdi) - sono state attaccate in maniera dura ma non inattesa, visto il dibattito andato avanti anche fuori dalle stanze istituzionali. Il pg della Cassazione Luigi Salvato sostiene che prima di muoversi bisognerebbe valutare gli effetti della Cartabia, perché cambiare tutto di nuovo potrebbe “minare i risultati positivi che sono stati conseguiti” per quello che riguarda i tempi dei processi. “Ci dovremmo chiedere se le questioni impellenti da affrontare non siano altre - ha detto ancora Salvato - cioè porre rimedio all’ipertrofia del diritto cognitivo attraverso una sostanziale depenalizzazione e rafforzare adeguatamente le risorse in termini di uomini e mezzi, che è la modalità necessaria per portare a conclusione quel processo virtuoso avviato anche grazie al Pnrr e bilanciare ragionevolmente la pretesa punitiva e i diritti dei cittadini attraverso processi giusti e anche rapidi”. Un parere simile a quello espresso dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, che ricorda come dal 2017 ci siano stati “tre interventi legislativi” e che “non abbiamo ancora sperimentato in maniera approfondita l’attuale legislazione”. Ancora più netta la posizione di Danilo Ceccarelli, capo della procura europea, secondo cui “la prescrizione deve essere strumento eccezionale, visto che è un grandissimo spreco di risorse, una sconfitta per lo Stato”. Inoltre la riforma sarebbe anche “contraria al diritto dell’Ue”. Sulla “lentezza dei giudizi”, definiti “il vero dramma” punta invece la pg di Milano Francesca Nanni per dire che la ragionevole durata del processo andrebbe discussa prima di passare alla prescrizione. “Dobbiamo concentrarci sugli esiti del processo - ha detto ancora Nanni -. Tutto quello che si oppone a una semplificazione e a una decisione in tempi ragionevoli è deleterio”. Il nodo vero, ad ogni buon conto, è quello dell’improcedibilità creata dalla riforma Cartabia, un dettaglio che ai tempi della sua introduzione aveva lasciato perplessa anche la stessa magistratura, che invece adesso la ritiene pressoché un totem. E se le proposte firmate da Costa e Maschio mirano a far correre su due binari diversi i tempi della prescrizione e quelli dell’improcedibilità, l’idea di Pittalis è quella di tornare indietro fino alla riforma Orlando, con l’abrogazione totale della seconda. Tutte ipotesi che non convincono del tutto la maggioranza e che vengono lette in maniera estremamente critica dal M5s. “Le pdl depositate sono prive di qualsiasi sistematicità - si legge in una nota - entrano a gamba tesa in un meccanismo già critico. È evidente che il solo obiettivo di queste proposte è avere l’intervento della prescrizione nel maggior numero possibile di processi così da farli svanire nel nulla”. Prescrizione, i superprocuratori contro la riforma “Testiamo prima la legge Cartabia...” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 luglio 2023 Le toghe contro le proposte di Costa, Maschio e Pittalis. Il deputato di Azione: “Tutti si sono soffermati su tecnicismi, nessuno pensa ai patimenti dall’imputato”. Volendo usare una metafora, ieri in Commissione Giustizia della Camera è andato in scena un vero plotone di esecuzione dei procuratori nei confronti della riforma della prescrizione. Nel giorno che ha ospitato le ultime audizioni sulle tre proposte di legge - Costa, Maschio, Pittalis - si è formata la linea Maginot dei magistrati inquirenti intorno allo status quo. Il che appare un po’ paradossale, considerato che l’istituto dell’improcedibilità, frutto della riforma di mediazione Cartabia, era stato stigmatizzato non solo dall’avvocatura e dall’accademia ma anche dalla stessa magistratura. Invece adesso, volendo tirare le somme, delle due giornate di audizione appare chiaro che l’improcedibilità è intoccabile. Ma vediamo nel dettaglio le posizioni. Valutare gli esiti della riforma Cartabia “prima di procedere all’ennesima modifica” della prescrizione, che non costituisce affatto una priorità e che per come è stata formulata “potrebbe minare i risultati positivi che sono stati conseguiti” sul piano della riduzione dei tempi dei processi è la netta indicazione arrivata ieri dal procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, sentito nell’ultimo giorno di audizioni. “Ci dovremmo chiedere se le questioni impellenti da affrontare non siano altre, cioè porre rimedio all’ipertrofia del diritto cognitivo attraverso una sostanziale depenalizzazione e rafforzare adeguatamente le risorse in termini di uomini e mezzi, che è la modalità necessaria per portare a conclusione quel processo virtuoso avviato anche grazie al Pnrr e bilanciare ragionevolmente la pretesa punitiva e i diritti dei cittadini attraverso processi giusti e anche rapidi”, ha detto Salvato. Per il Pg non ci sono dubbi: “Reintrodurre la prescrizione nei giudizi di impugnazione non è coerente con l’obiettivo di ridurre la durata dei giudizi”, in linea con quanto detto nelle precedenti audizioni dal professor Gianluigi Gatta. Dunque meglio prima verificare gli effetti della riforma Cartabia garantista che ha realizzato un “ragionevole bilanciamento” tra le esigenze in campo, “perché è vero che la prescrizione cessa con la sentenza di primo grado ma le esigenze di tutela dell’imputato a base della prescrizione sono adeguatamente presidiate dall’improcedibilità”. Comunque, ha ribadito, a livello metodologico in premessa, sulla prescrizione “è necessario un bilanciamento complesso di interessi” degli interessi delle vittime e degli imputati e “la soluzione non può essere consegnata a polemiche contingenti, a semplificazioni né a slogan a effetto tipici dei social, tanto suadenti quanto fuorvianti”. A bocciare gli interventi che si prospettano anche il viceprocuratore capo della procura europea Danilo Ceccarelli: sono “contrarie al diritto dell’Unione europea” le proposte di modifiche della prescrizione all’esame del Parlamento, oltre a scontare una “totale mancanza di sistematicità” ; vanno “a toccare un impianto già traballante con il solo obiettivo di avere la prescrizione consumata nel maggior numero di processi possibile”. “La prescrizione deve essere strumento eccezionale, visto che è un grandissimo spreco di risorse, una sconfitta per lo Stato”, ha detto tra l’altro Ceccarelli, secondo cui “già ora i termini di prescrizione sono così brevi da renderci “del tutto isolati in Europa”. Il vicecapo della procura europea ha fatto l’esempio dell’indebita percezione di fondi pubblici sanzionata in Italia con pene di 3- 4 anni al massimo e per la quale è prevista perciò una prescrizione breve: in situazioni come queste “vi è una chiara violazione del diritto dell’Unione europea nel momento in cui non assicuriamo efficienza ai processi”. “Il vero dramma del processo penale è la lunghezza dei giudizi: dobbiamo in primis garantire la ragionevole durata del processo. E solo dopo pensare alla prescrizione” : non ha avuto dubbi Francesca Nanni, procuratrice generale di Milano. Il magistrato ha in particolare criticato le proposte di Enrico Costa (Azione), e Ciro Maschio (FdI): “Contengono una criticità molto forte, quella di mantenere tutti e due i regimi della improcedibilità e della prescrizione”. “Dobbiamo concentrarci sugli esiti del processo - è l’invito della Pg - Tutto quello che si oppone a una semplificazione e a una decisione in tempi ragionevoli è deleterio”. Anche il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia guarda con sfavore a una nuova modifica della prescrizione - “dal 2017 ci sono stati tre interventi legislativi e non abbiamo ancora sperimentato in maniera approfondita l’attuale legislazione”. E soprattutto ha bocciato la proposta di legge presentata da Costa. Tenere in piedi, come fa quel progetto, sia la prescrizione sostanziale sia l’improcedibilità introdotta dalla riforma Cartabia “crea una serie di complicazioni nel giudizio di impugnazione” e costituisce un “incentivo oggettivo” per l’imputato a impugnare per ottenere la prescrizione. Così, ha avvertito, “si mina l’equilibrio tra l’esigenza di celere definizione dei procedimenti e quella di garantire la funzione naturale del processo penale, cioè l’accertamento dei fatti”. Infine è intervenuto Antonio Gialanella, avvocato generale della Repubblica presso la corte d’appello di Napoli, che ha esposto i rischi della proposta Pittalis che intende abolire l’improcedibilità: “Reintrodurre la prescrizione nei giudizi di impugnazione abolendo l’improcedibilità darebbe un messaggio contrario rispetto agli obiettivi del Pnrr”, quelli di ridurre la durata media dei processi penali del 25%. Tornare ora a “meccanismi sospensivi della prescrizione allungherebbe i tempi medi del processo penale, proprio mentre lo sforzo del sistema giudiziario è massimamente volti a ridurli, con risultati assolutamente apprezzabili”. Per l’onorevole Costa, responsabile giustizia di Azione, “tutti in queste audizioni si sono soffermati su tecnicismi ma nessuno si è fermato a pensare ai patimenti dall’imputato, che rimane prigioniero del sistema giustizia, che sente il processo come già una pena in sé”. Le leggi-propaganda che fomentano l’odio e non risolvono nulla di Sara Manfuso La Notizia, 5 luglio 2023 Dalle borseggiatrici in metro alle banlieue. Chi alimenta l’intolleranza pensa solo ai voti. La qualità della vita del cittadino si misura a partire dalla qualità dei servizi essenziali garantiti dalle amministrazioni e che sono perfettamente misurabili attraverso una serie di parametri codificati, così da avere - attraverso i freddi numeri - una attendibile istantanea della situazione. C’è da chiedersi allora come mai questi dati spesso non coincidano con la percezione che la persona ha di un determinato fenomeno. La microcriminalità, che pure nella sua capillare diffusione (pare non distinguere più tra centri urbani e periferie) risulta nettamente in calo in questi anni, eppure l’insicurezza sembra regnare nelle varie città. Qualcuno potrebbe attribuire la responsabilità a un certo tipo di stampa o a qualche parte politica che strumentalmente utilizza il tema per portare acqua al proprio mulino: una copia in più venduta di un giornale, o voti recuperati qua e là. L’origine più profonda di questo disagio è invece da rintracciarsi nella giustizia e nella pena che spesso non assolve alla sua principale missione: la rieducazione e il reinserimento delle persone nella società. In questi mesi abbiamo assistito alle polemiche derivanti dall’immissione in rete - su pagine social i cui numeri crescono a velocità supersoniche - di video di borseggiatrici intente a commettere reati, con tecniche che appaiono perfettamente collaudate, in numerose città italiane. Il nobile intento civico di denunciare i fatti mettendo in guardia le persone addirittura attraverso la diffusione di fotografie dei delinquenti contiene subdolamente un’altra forma di violazione, oltre naturalmente a quella della privacy, che è quella della fiducia nel lavoro delle forze dell’ordine. Attivare una gogna mediatica fomentando campagne d’odio contro determinate fette di popolazione, come ad esempio i rom, non aiuta a risolvere il problema ma acuisce il sentimento di rabbia tra cittadini mettendo in moto delle campagne discriminatorie che confondono la parte con il tutto. Come quando in questi giorni, commentando i fatti francesi, decliniamo in chiave italiana il dibattito per attaccare l’Islam senza operare una doverosa distinzione tra la parte moderata di questa religione monoteista e le forme di fondamentalismo estremo. In questo modo dinanzi a un musulmano saremo portati ad avere una originaria forma di pregiudizio che ci porterà a non cogliere la ricchezza della diversità culturale, ma la minaccia dell’egemonia e della sopraffazione. Allora, sarebbe importante fare un perpetuo bagno di realtà ricordando che quelli che sono stati definiti “freddi numeri” corrispondono alla vita delle persone e che la sensazione di insicurezza e di paura diffusa può essere curata investendo nell’efficacia e celerità degli strumenti di cui uno stato di diritto deve avvalersi. Integrazione, prevenzione, reinserimento sociale non sono concetti da etichettare come “buonista” ma devono essere i pilastri su cui costruire un’alternativa alla paura e alla discriminazione. L’illusione che si possa risolvere i problemi da soli, abbandonando lo strumento della denuncia (perché tanto inutile) è il modo peggiore di gettare la spugna e di non concorrere a rendere il proprio paese civile. L’invito più grande, quando sentiamo orazioni governative contro la gravidanza delle borseggiatrici e l’uso strumentale dei minori per continuare a delinquere, è di comprendere che sono tentativi di generare un clima d’odio così da portare a casa una “legge spot”. Governare e fare propaganda come quando si sedeva ai banchi dell’opposizione in taluni casi può essere complesso e “vendersi” all’elettorato leggi che parlano alla pancia prima che alla testa può essere utile in vista delle prossime europee. È giusto che chi sbaglia paghi e che chi commette un reato abbia una pena a questo commisurata, ma è altrettanto vero che il carcere e le sanzioni debbano essere nel rispetto dei diritti della persona perché recludere qualche giorno per rimettere nel tessuto sociale persone che non hanno una reale alternativa di vita offerta dalla Stato è quanto di più sbagliato possa esserci. Lavoriamo su questo, anziché sull’odio. Procure e uffici giudicanti senza capi a causa dei ritardi del Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 luglio 2023 Firenze, Torino, Milano, Napoli: sono decine gli uffici giudiziari privi di dirigenti. Il capo della procura di Firenze sarà scelto mercoledì, per tutti gli altri i tempi sembrano ancora lunghi. Il Consiglio superiore della magistratura nominerà oggi il nuovo capo della procura di Firenze, retta da più di un anno dall’aggiunto Luca Turco, subentrato temporaneamente a Giuseppe Creazzo, trasferito a Reggio Calabria per aver molestato sessualmente una collega. Basterebbe questa premessa per dare risalto alla vicenda. Non bastasse, c’è da ricordare che la procura è al centro delle cronache giudiziarie e politiche, con le sue discusse inchieste contro Matteo Renzi per l’ex fondazione Open e nei confronti di Silvio Berlusconi (venuto a mancare) e Marcello Dell’Utri per le stragi mafiose del 1993-1994. La sfida si preannuncia molto combattuta. La commissione incarichi direttivi ha infatti proposto al plenum tre nomi: Filippo Spiezia (3 voti), vicepresidente di Eurojust, Ettore Squillace Greco (2 voti), procuratore di Livorno con un passato alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze, e Rosa Volpe (una preferenza), procuratore aggiunto a Napoli. Al Csm, e non solo, sono in molti a pensare che alla fine a prevalere sarà Squillace Greco, esponente di Magistratura democratica, l’unico a rivestire un incarico direttivo. Quello di Firenze è solo uno dei tanti uffici giudiziari a essere senza capo da molto tempo. Tra le procure spicca Napoli, l’ufficio requirente più grande d’Europa per numero di componenti, la cui guida è vacante da maggio 2022, quando il procuratore Giovanni Melillo è stato nominato capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. A candidarsi sono stati in cinque: Rosa Volpe (procuratore aggiunto di Napoli e attuale reggente dell’ufficio), Aldo Policastro (procuratore di Benevento), Nicola Gratteri (procuratore di Catanzaro), Giuseppe Amato (procuratore di Bologna) e Francesco Curcio (procuratore di Potenza). Un’altra sede rimasta senza procuratore capo è Torino, dopo l’addio - per raggiunti limiti di età - di Anna Maria Loreto. Anche in questo caso la corsa si annuncia combattuta, con candidati di primo livello, tra cui Giuseppe Amato (procuratore di Bologna), Giovanni Bombardieri (procuratore di Reggio Calabria) e Paolo Guido (il pm che a Palermo ha arrestato Matteo Messina Denaro). Anche diversi uffici giudicanti non se la passano bene. Attendono un capo il tribunale di Milano, quello di Bologna, quello di Lecce (impegnato in diversi processi che riguardano magistrati). I ritardi nelle nomine sono da attribuire soprattutto alla lentezza del Csm, e in particolare ai ritardi della consiliatura uscente, guidata dal vicepresidente David Ermini. La consiliatura si è chiusa a fine settembre, ma si è dovuto attendere fino alla fine di gennaio per l’insediamento del nuovo Csm guidato da Fabio Pinelli. Un Consiglio formato da più componenti (33 anziché 30). Ed è proprio questo uno degli elementi di cui tener conto, secondo Giuseppe Di Federico, professore emerito di dell’Università di Bologna, il più grande studioso italiano di sistemi giudiziari: “I ritardi sono dovuti prima di tutto alla difficoltà per i membri del Csm di mettersi d’accordo. La riforma Cartabia, tuttavia, anziché ridurre ha aumentato il numero dei componenti del Csm, rendendo ancora più lente le procedure interne”, dice Di Federico al Foglio. C’è poi da considerare il ruolo svolto dalle correnti. Nel suo libro “Da Saragat a Napolitano. Il difficile rapporto tra presidente della Repubblica e Consiglio superiore della magistratura” (Mimesis, 2016), Di Federico ricorda che alla fine del suo settennato Ciampi inviò una lettera al Csm per denunciare i ritardi con cui l’organo assumeva le decisioni, sottolineando che questi erano in massima parte originati dalla conflittualità tra le correnti della magistratura. “Una conflittualità - ricorda oggi Di Federico - derivante dal desiderio di assicurare decisioni gradite o evitare decisioni sgradite ai magistrati della propria corrente”. Qual è la prima riforma che il ministro Nordio dovrebbe realizzare sul Csm? “Il Consiglio va destrutturato completamente - risponde Di Federico. Occorrono due Consigli superiori diversi, uno per i giudici e uno per i pm, quest’ultimo responsabile politicamente tramite il ministro della Giustizia o un procuratore generale nominato dal Parlamento, oppure possibilmente soltanto un Consiglio per i giudici, come avviene negli altri paesi”. Venezia. Morto in carcere, il pm dispone l’autopsia di Paolo Guidone Corriere del Veneto, 5 luglio 2023 Baldin (M5S) in visita a Santa Maria Maggiore: sovraffollamento e poco personale. La procura dispone l’autopsia per Santos Dei Freitas Alexandre, 52enne nato in Brasile ma naturalizzato italiano, arrestato dopo l’irruzione, dello scorso sabato, in aeroporto con petardi e chiodi e morto lunedì per un malore seguito da un infarto proprio mentre veniva trasferito dal carcere di Santa Maria Maggiore al tribunale di Venezia. Per fare luce e sgomberare qualsiasi possibile dubbio cause del decesso, la pm Antonia Sartori giovedì stabilirà l’incarico per l’esame autoptico. Il cinquantenne aveva accusato un malore mentre stava uscendo dalla casa circondariale ed è stato subito soccorso, anche con il defibrillatore. Ma ogni intervento è risultato vano. Si tratta del terzo decesso in nemmeno un mese a Santa Maria Maggiore e ieri, in una visita programmata in realtà da tempo, la consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Erika Baldin ha avuto modo di verificare la situazione di persona. “In aprile ho presentato una risoluzione relativa alla situazione delle carceri venete che già allora definivo tragica - premette - per sovraffollamento e carenze croniche di personale”. Da allora, sottolinea Baldin, “non ci sono stati miglioramenti, a Venezia i detenuti sono circa duecento a fronte di 160 posti assegnati - continua -. Due suicidi e un decesso in così poco tempo sono un campanello d’allarme: chiedo alla Regione di attivarsi per le questioni sanitarie di diretta competenza e presso il governo per affrontare le criticità legate a sovraffollamento e carenza di personale”. Un problema che riguarda tutto il Veneto dove il tasso di occupazione è del 127 per cento, terzo in Italia dopo Lombardia e Puglia “con picchi che raggiungono il 150 per cento”, ricorda la consigliera. “Con la mia risoluzione al consiglio regionale - conclude - che chiedo urgentemente di votare sollecito risposte urgenti da parte del governo”. Torino. Inizia il processo sulle presunte torture in carcere. Gli imputati non accettano riprese lavialibera.it, 5 luglio 2023 A due anni dal rinvio a giudizio e a un anno dalla richiesta delle parti civili di anticipare la data della prima udienza per la possibile prescrizione dei reati, è iniziato oggi il processo che vede 22 agenti di polizia penitenziaria accusati di aver torturato i detenuti dal 2017 al 2019. Gli imputati negano alla Rai il permesso di filmarli. “Non acconsento”. Negando le riprese, è iniziato oggi il processo per le presunte torture commesse nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino dagli agenti di polizia penitenziaria, durate tre anni: dal 2017 al 2019. Quasi tutti gli imputati in aula non hanno autorizzato le telecamere Rai a filmarli. Erano molti gli agenti presenti, mentre si notava l’assenza dell’ispettore Maurizio Gebbia: l’ex coordinatore della sezione dove si sarebbero verificati gli episodi e a cui - secondo la ricostruzione dell’accusa - farebbe capo la regia delle violenze. Prima udienza fissata a due anni dal rinvio a giudizio e a un anno dalla richiesta delle parti civili di anticiparne la data per la possibile prescrizione dei reati, respinta dall’allora presidente della terza sezione penale del tribunale di Torino, Marcello Pisanu. Un ritardo già denunciato da lavialibera e ancora più significativo considerato che, dopo un breve periodo di sospensione, alcuni agenti sono rientrati in servizio venendo persino a contatto con le presunte vittime. “Siamo dispiaciuti”, rimarca a lavialibera Francesca Fornelli, avvocata della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Torino, Monica Gallo, che si è costituta parte civile, insieme al garante nazionale, regionale, all’associazione per i diritti dei detenuti Antigone, e a sette persone offese. “Una data così lontana nel tempo rischia di pregiudicare l’accertamento stesso delle responsabilità dei soggetti coinvolti, visto che alcuni episodi si sono verificati nel 2017”. In 22, tra agenti di polizia penitenziaria e sindacalisti dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), hanno scelto il rito ordinario. Invece, a optare per il rito abbreviato, la cui prossima e forse ultima udienza è fissata il 14 luglio 2023, sono stati in tre: Domenico Minervini, ex direttore del carcere, e l’allora comandante degli agenti di polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza. Entrambi sono accusati di omessa denuncia e favoreggiamento. Tra gli agenti, l’unico ad aver adottato questa soluzione è Alessandro Apostolico che con “violenze gravi” e “crudeltà” avrebbe provocato “acute sofferenze fisiche” a un detenuto e poi l’avrebbe minacciato per assicurarsi l’impunità. Il pubblico ministero Francesco Pelosi ha chiesto un anno di carcere per Minervini, un anno e due mesi per Alberotanza e quattro anni per Apostolico. L’inchiesta sulle presunte torture - L’inchiesta è partita grazie alle segnalazioni di Gallo, venuta a conoscenza di ripetuti episodi di violenza e dell’uso improprio di alcune celle per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, quando in questi casi l’istituto penitenziario del capoluogo piemontese dispone di una sezione ad hoc. La gran parte delle vittime, in totale 11, si trovava nel padiglione C, quello destinato anche ai cosiddetti sex offender, cioè gli autori di reati sessuali. A loro, stando alle carte dell’inchiesta, l’ispettore Gebbia e gli agenti riservavano pestaggi e umiliazioni. Le parti civili: “Impossibile che i vertici non sapessero” - Una situazione di cui i vertici della casa circondariale erano a conoscenza. Ad avvertire Minervini, rimosso dopo le accuse, era stata Gallo. Ma, una volta informato, l’ex direttore aveva aiutato gli “agenti coinvolti ad eludere le investigazioni dell’autorità, omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza”, scrive il pm nella richiesta di rinvio a giudizio presentata a luglio 2021. Stesso modus operandi adottato anche dall’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza, accusato di aver anche lui aiutato gli “agenti coinvolti ad eludere le investigazioni delle autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni”, ma non solo: ha condotto “un’istruttoria interna dolosamente rivolta a smentire quanto accaduto”. Alberotanza - si legge sempre nella richiesta di rinvio a giudizio - era stato informato dell’indagine avviata dalla procura di Torino dai due sindacalisti: Leo Beneduci e Gerardo Romano. Grazie a loro, Alberotanza aveva saputo di avere il telefono sotto controllo per un’inchiesta sui pestaggi all’interno del Lorusso-Cutugno. “Non ho avvertito l’autorità giudiziaria perché le segnalazioni erano troppo generiche”, è stata questa la difesa di Minervini in aula. La stessa di Alberotanza, che ha detto di essere venuto a conoscenza dell’inchiesta condotta dalla procura di Torino solo il giorno dell’arresto degli agenti, quando tutti all’interno dell’istituto “sono rimasti sorpresi”, negando di essere stato informato dai sindacalisti. Ha anche sostenuto di non aver avuto notizia di abusi, se non in riferimento a un singolo episodio: un detenuto fatto rimanere in piedi davanti a un cancello contro la sua volontà. Una ricostruzione contestata dalle parti civili, che hanno ribadito: “Impossibile che i vertici non sapessero: hanno scelto di proteggere gli agenti a discapito del rispetto dei diritti dei detenuti”. Gli avvocati dei due Garanti, Davide Mosso e Roberto Capra, hanno anche ricordato la valenza del processo che il legale Mosso ha definito “estremamente importante”, precisando che “a 50 anni di distanza dal processo a Giorgio Coda, vice direttore del manicomio di Collegno e direttore della struttura psichiatrica per bambini Villa Azzurra, imputato per maltrattamenti, ci troviamo a fare un processo sull’altra istituzione totalitaria della città: il carcere”. Nella lente, ci sono ripetuti episodi di violenza che, per Capra, hanno leso la dignità dei detenuti ed erano caratterizzati dalla gratuità, cioè prescindevano dal comportamento dei reclusi in istituto, tanto “che gli agenti si erano preoccupati persino di ottenere le carte processuali dei reclusi, in modo da poterli insultare meglio”. Taranto. Visite “fantasma” in carcere: quattro medici sotto accusa di Francesco Casula Gazzetta del Mezzogiorno, 5 luglio 2023 Le indagini risalgono al 2015, chiusa l’inchiesta: nei guai tre specialisti e l’ex direttore sanitario. A un solo detenuto sarebbero stati estratti 40 denti, 8 in più di quelli di un normale essere umano. Un numero raggiungibile solo perchè alcuni denti risultavano estratti due volte, altri addirittura tre volte. Per un altro detenuto, invece, sulla carta sarebbero state eseguite ben 15 estrazioni dentarie, ma interrogato dagli investigatori l’uomo ha dichiarato di aver effettuato. È quanto emerge dalla nuova inchiesta sulla gestione della struttura sanitaria nel carcere di Taranto che vede al momento indagati quattro medici. I fatti risalgono al 2015, ma nelle scorse settimane il sostituto procuratore della Repubblica Maria Grazia Anastasia ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini condotte dai poliziotti della Divisione Anticrimine di Taranto: l’atto è stato poi notificato alle parti e ai loro difensori. Secondo l’accusa, tre medici specialisti e l’allora direttore sanitario della struttura penitenziaria avrebbero sostanzialmente dichiarato di aver effettuato prestazioni sanitarie che in realtà per gli investigatori non c’erano mai state. In particolare due odontoiatre, avrebbero avuto un aumento significativo degli incassi a partire dal 2008 quando cioè la gestione della struttura sanitaria è passata dal Ministero della Giustizia all’Asl di Taranto: fino a quell’anno nessuna delle due aveva superato la somma di 18mila euro all’anno a causa dei limiti di spesi imposti dall’amministrazione, ma da quando la gestione è diventata compito dell’Asl i compensi sarebbero lievitati. Nelle carte si legge, ad esempio, che una delle due avrebbe incassato nel 2012, la somma di 85mila euro. Un aumento che gli investigatori definiscono “insolito quanto notevole”. Negli atti dell’inchiesta si evidenzia inoltre che “veniva dunque incrementato anche il numero delle prestazioni sanitarie per detenuto fornito dalle due dottoresse, tanto da far legittimamente pensare ad un impegno delle dottoresse, considerati i tempi tecnici e fisiologici necessari per ogni singola prestazione, che protrarsi per circa 12 ore per giornata lavorativa”. Inoltre gli investigatori scrivono che una delle due si recava “presso la casa circondariale circa 4 o 5 volte al mese effettuando mediamente oltre 100 prestazioni al giorno suddivise tra quattro o cinque detenuti”. Non solo. L’Asl ha scritto in una lettera che non è stato ritrovato alcun contratto stipulato con le due professioniste che non risultano neppure iscritte nell’elenco dei “medici abilitati all’esercizio della medicina penitenziaria”. Insomma per l’accusa i due medici non potevano effettuare prestazioni nella struttura carceraria eppure dal 2008 al 2016 hanno percepito circa 90mila euro annui. Come detto nei giorni è stato notificato ai quattro medici l’avviso di conclusione delle indagini preliminari: entro i 20 giorni successivi dalla notifica, gli avvocati dei professionisti sotto accusa, tra i quali gli avvocati Antonio Raffo e Ivan Zaccaria, avranno la facoltà di chiedere l’interrogatorio dei propri assistiti oppure depositare memorie scritte con le quali chiarire la propria versione dei fatti. Subito dopo sarà la procura a decidere se archiviare le accuse oppure chieder di mandare a processo gli indagati. Palermo. Violazioni nei confronti dei detenuti. La denuncia dell’avvocato Cimiotta tp24.it, 5 luglio 2023 Perché vuoi parlare con l’avvocato? Non basta indicare, nella richiesta di colloquio telefonico, locuzioni come “motivo di giustizia” o simili, occorre comunicare i motivi specifici. E’ quanto accade al carcere Pagliarelli di Palermo, nella denuncia dell’avvocato marsalese Vito Cimiotta, giudicando gravissimo ciò che è accaduto ad un suo assistito, Ludovico Collo, che ha rappresentato la circostanza al garante dei detenuti della Sicilia e al tribunale di sorveglianza di Palermo. In pratica, se il detenuto vuole parlare al telefono con l’avvocato, deve anche dire di che cosa parleranno. L’avvocato ha inviato una segnalazione anche alla ONG “Nessuno tocchi Caino”, parlando di “grave violazione del diritto di difesa e del diritto di privacy che si sta palesando al carcere Paglierelli di Palermo”. Durante l’emergenza Covid, in cui non era consentito ricevere visite, la struttura carceraria aveva concesso la possibilità di una telefonata al giorno per parlare con familiari e avvocati. Finita l’emergenza, dal dicembre scorso era stato comunicato il ritorno alla normalità, ovvero la ripresa delle visite in presenza ed un colloquio telefonico a settimana. Salerno. Cuscini a forma di cuore e borsette dal carcere per le donne malate di tumore tvoggisalerno.it, 5 luglio 2023 Il cuore delle detenute batte per le donne malate di tumore al seno che affrontano un percorso difficile, donne per le donne per raggiungere due obiettivi: contribuire nel percorso di guarigione delle donne che hanno subìto intervento al seno, e garantire alle detenute del carcere di Salerno di mettere in pratica un’arte che può rivelarsi utile nel reinserimento sociale. E’ stato firmato questa mattina presso la sala teatro della Casa circondariale di Salerno, il protocollo di intesa denominato “De-tengo un cuore per Te” che prevede come partners la Regione Campania, l’Associazione “Isola Felice”, l’Associazione “Angela Serra” l’Azienda Ospedaliera di Salerno e la Casa Circondariale di Salerno. Il progetto si pone l’obiettivo di realizzare, nell’ambito del laboratorio di sartoria creativa, cuscini ergonomici a forma di cuore e di borsette a tracolla, che possano contenere i drenaggi da donare alle donne in degenza nei reparti ospedalieri oncologici. Il Protocollo d’intesa è stato sottoscritto dal direttore della casa circondariale di Salerno, Rita Romano, dal direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Ruggi, Vincenzo D’Amato, e da Roberta Mastrogiovanni (associazione Isola Felice) e Arturo Iannelli (associazione Angela Serra). Taranto. I detenuti e le loro famiglie al Museo Archeologico Nazionale beniculturali.it, 5 luglio 2023 Il 23 luglio 8 detenuti con le loro famiglie insieme al MArTA. Otto detenuti, dopo averlo espressamente richiesto agli educatori in carcere, saranno in visita al museo con le loro famiglie. “Il progetto ha scelto l’approccio alla persona partendo dall’esperienza con la bellezza - spiega Maria Teresa Liuzzi, dell’associazione T.R.O.I.S.I. - e attraverso questo incontro riuscire così a favorire il ripristino di un legame tra i detenuti e la società e in particolar modo tra i detenuti e i loro figli. E così che si è innescato un processo virtuoso che ha visto insieme poi istituzioni, associazioni, privati, riabilitati a loro volta al bisogno di integrazione e cura che deve riguardare tutti gli anelli fragili della società”. “L’iniziativa è sostenuta finanziariamente dall’Associazione “Amici dei Musei di Taranto” - dice la presidente dell’associazione, Patrizia De Luca - che ne condivide l’obiettivo di inclusione sociale e rafforzamento dei legami parentali attraverso una attività culturale che promuove la conoscenza del patrimonio storico-artistico del territorio”. La direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, Eva Degl’Innocenti, sottolinea che “in un momento storico in cui ogni elemento di riferimento sembra vacillare, è fondamentale comprendere che studiare, approfondire, ricordare, educare al bene comune, permette a tutti non soltanto di ritrovare le proprie radici e sviluppare la propria sensibilità, ma anche di recuperare la propria identità e sentirsi parte integrante della storia delle civiltà”. Baby Gang di Chiara Oltolini Vanity Fair, 5 luglio 2023 L’infanzia poverissima, il crimine, il carcere e ora gli arresti domiciliari: storia del trapper Baby Gang che attraverso la musica cerca il riscatto. Abbiamo incontrato il trapper in comunità, dove sconta gli arresti domiciliari e cerca il riscatto con la musica. Dopo una serie di curve a gomito, in fondo a una strada isolata di ciottoli, si spalanca a sorpresa la vista di una villa signorile del 1600, con parco sontuoso e approdo privato sulla sponda orientale del lago di Como. Le porte della facciata liberty sono aperte e alle finestre non ci sono le sbarre. Questo posto accoglie ospiti agli arresti domiciliari, in affidamento o in fase di disintossicazione. Oggi quelli della Comunità terapeutica Il Gabbiano sono 24, due donne e 22 uomini, che stanno imparando a gestire la libertà. Il più giovane è Baby Gang, all’anagrafe Zaccaria Mouhib, per tutti qui Zac, per chi è fuori “il trapper criminale” da milioni di ascolti su Spotify. Italo-marocchino, ha 22 anni appena compiuti, “oltre la metà passati dentro”, racconta. Al Gabbiano, duemila metri quadrati, è arrivato a marzo direttamente dal carcere di Monza, dove ha scontato i primi sei mesi dei 46 che gli toccano per una rapina (a mano armata), non la prima. Non può uscire senza il permesso del giudice, anche le visite sono vietate salvo autorizzazione. Allora taglia l’erba, fa le pulizie, non cucina ma si ferma a contemplare la natura. “Le attività si dividono tra gli ospiti”, spiega Francesca, una delle otto educatrici. “Le regole sono quelle di convivenza di uno studentato”. La stanza di Zaccaria, una doppia, è all’ultimo piano, il quarto, l’unico senza portici. Si supera il primo con la biblioteca, il secondo e il terzo con un’esposizione di stendini e panni. Della sua camera colpisce l’ordine: l’accappatoio di Versace appeso, il letto fatto alla perfezione, la targa di Youtube per il milione di subscription raggiunte appoggiata alla parete, le scatole di accessori Fendi, Gucci e Supreme esposte con rigore geometrico. In bella vista sulla scrivania c’è il suo secondo album in versione vinile, Innocente, uscito con No parlo tanto / Warner Music Italy il 26 maggio: 14 tracce e un’infilata di collaborazioni prestigiose del calibro di Lazza, Ghali, Emis Killa e Guè. Zaccaria, però, preferisce tornare giù e mettersi in terrazza. Forse per fumare una sigaretta via l’altra. Indossa pantaloncini da basket e cappello da baseball, l’irrinunciabile borsello e la T-shirt bianca. Il braccio sinistro ospita una serie di tatuaggi: “Il destro invece deve restare libero, perché rappresenta il futuro, pulito”, dice. E poi prosegue con la spiegazione dei tattoo: “Il primo è la scritta ACAB, sta per All cops are bastards, tutti i poliziotti sono bastardi: l’ho fatto appena uscito da una questura a 15 anni. Il secondo è un’altra scritta in stampatello: fuck police, dopo un brutto episodio con una pattuglia… botte, schiaffi, bam bam bam, come nel videogioco della Playstation GTA San Andreas. L’iniziale di mia madre me la sono tatuata da solo in galera: ago, penna e dolore. Qui ho il simbolo dei dollari, qua il volto di un carabiniere, poi la parola sauvage e la mano di Fatima, ovvero mia nonna materna, disabile, che mi ha cresciuto. È lei mia madre e mia madre è come una sorella”. L’album di famiglia di Zaccaria si sfoglia veloce. “Per tanto tempo con i miei genitori non ho avuto un gran rapporto. Si sono separati quando avevo un anno. Mio padre non è chi mi ha messo al mondo, ma chi c’è stato, e cioè il compagno di mia mamma, un uomo paziente, lo rispetto. Abbiamo sempre vissuto in bilocali troppo affollati, a Calolziocorte (nel Lecchese, ndr), dove sono nato: c’erano anche i nonni, tre zii… per andare in bagno dovevo prendere la prenotazione. I litigi erano all’ordine del giorno, da chiamare i carabinieri, che mi hanno conosciuto fin da piccolo. A dieci anni non ce l’ho fatta più e sono scappato definitivamente, a Torino, dopo qualche prova generale: due o tre notti fuori di casa a dormire sui treni, in giro. Avevo questo vizio, dovevo per forza rubare: non volevo essere il più povero dei poveri, non potevo essere sfottuto per le mie scarpe bucate o lo zaino di Spiderman da quelli che non avevano niente. Alla fine mi hanno beccato da H&M e portato direttamente in comunità. Sono fuggito dopo poco. Entravo e fuggivo, entravo e fuggivo, così dal 2012. E le fughe erano i momenti peggiori: senza acqua, senza cibo, senza soldi, senza documenti. Come un clandestino. Camminavo tra i cespugli, facevo l’autostop, aspettavo pullman che non passavano mai”. La prima volta in carcere a 15 anni, all’istituto penale per i minori di Bologna. “Ma mi hanno trasferito subito al Beccaria di Milano per avvicinamento ai famigliari. Non ci stavo male, sono sincero. Anzi, era il mio habitat, più della comunità. I ruoli semplificavano la permanenza: io il detenuto, tu la guardia che mi chiude e apre la cella, non dobbiamo parlare”. È lì che Zaccaria ha conosciuto don Claudio Burgio, 54 anni, la maggior parte dei quali trascorsi ad accogliere ragazzi in difficoltà. Ha gli occhi blu come il lago alle nostre spalle e il sorriso di chi sorride alla vita. È venuto a trovare Baby, spesso lo chiama così, con cui è rimasto in contatto. È un amico, più che una guida spirituale. “Il primo ricordo che ho di lui è lo sguardo”, dice il don. “Non scorgevo altro: era steso a letto, avvolto nelle coperte, magrissimo, ci spariva dentro. Per mesi mi ha tenuto un po’ a distanza: spavaldo e fragile, non è uno che consegna facilmente la sua storia. E l’esperienza del carcere non ha aiutato: non è un posto dove sviluppare un’identità positiva, piuttosto dove confermare un’identità criminale, uno stigma che Zac avvertiva già da bambino. Un giorno mi ha chiesto di venire nella mia comunità, Kayrós, a Vimodrone. Gli ho domandato: “Che progetto hai in mente?”. Risposta: la musica. Penso che allora avesse messo solo una canzone su Youtube e l’ho smontato, ma Baby non si è lasciato smontare: “Farò il cantante”. Doveva stare con noi due anni, ha voluto fermarsi tre: l’ho visto scrivere a mano i suoi pezzi, di notte; l’ho accompagnato a registrarli in certe bettole di studi che soltanto lui conosceva. E, cosa ancora più importante, attraverso i suoi brani, a partire da Tre occhi, siamo entrati in connessione”. “Avevo un cervello piccolo così”, Zaccaria riproduce con il pollice e l’indice la dimensione di una noce. “La musica me l’ha spalancato, lo giuro. Un po’ l’ho scelta anche per metterla nel culo a mio padre naturale. Per un periodo, tra una comunità e l’altra, mia madre mi ha portato da lui in Marocco, con la speranza che mettessi la testa a posto. Avete presente le favelas? La gente si lava con i secchi d’acqua, i bambini sniffano la colla, la criminalità è altissima. Io che fumavo le canne ero considerato un barbone. E mio papà rincarava la dose: “Lo diventerai, un barbone. Diventerai un tossico”. Una volta stavo guardando un video di Lil Wayne, Mirror, con Bruno Mars, e glielo ho mostrato: “Guarda chi diventerò, un cantante come lui”. All’inizio ha riso: “Fammi sentire la voce, cacciala fuori”. Mi sfotteva insieme a un suo amico. Poi ha aggiunto: “Se tu diventi un cantante, il tuo cuginetto Adam diventa presidente degli Stati Uniti”. Capite? Ho cominciato a lavorare sodo. Sul lavoro sono determinatissimo, dritto. Portavo in carcere i beat registrati sulla chiavetta usb, caricavo i video in rete”. Mentre don Claudio si convertiva alla trap, dopo anni da direttore della Cappella Musicale del Duomo di Milano, Baby Gang riceveva le benedizioni di Marracash, Guè e Ghali. “Una sera me l’ha anche portato in comunità”, ricorda il prete. “Stai sveglio, don, che ho una sorpresa, mi ha detto. Non era la prima: una volta ha introdotto di nascosto un cane, un cucciolo di american bully di nome Boss”. Ghali conferma e vuole aggiungere una cosa: “Con il suo talento, prima o poi, Baby Gang sarebbe arrivato a coprire un ruolo importante nella scena musicale. E ce n’era bisogno. Ora che tutti lo conosciamo, sembra banale, ma ve lo immaginate oggi l’hip pop italiano senza una presenza come la sua?”. Nel 2020 la Warner l’ha messo a contratto. Perché investire in un artista dalla fedina penale corposa? La risposta che ci ha dato la casa discografica: “È il simbolo di una generazione sottorappresentata. Baby Gang è in grado di raccontare uno spaccato di realtà che non tutti conoscono o fanno finta di non conoscere. Lo fa in modo sincero e diretto”. Il talento prima della cronaca giudiziaria. Ne è convinto anche don Claudio: “La musica di Baby è di denuncia. È chiaro che arriva come un pugno nello stomaco, soprattutto ai genitori. Anch’io ho reagito così. Però mi sono detto: è la sua realtà. E può aiutare noi adulti a porci delle domande: com’è possibile che un ragazzino abbia attraversato quell’inferno? E ci rendiamo conto che quell’inferno è più vicino di quanto pensiamo?”. “Nelle mie canzoni c’è l’uno per cento delle mie tre vite, perché ne ho già vissute tre”, continua Zaccaria. Le sere in strada scambiato per un pusher, le notti a dormire sotto i ponti o nei sotterranei, le mattine a lavarsi alle fontanelle. Furti, risse, Daspo - il divieto di accedere alle manifestazioni sportive -, porto d’armi abusivo e pistola tenuta sotto il cuscino, il carcere punitivo come “una tomba” senza nemmeno un’ora d’aria. “Se dovessi raccontare tutto, non mi crederebbe nessuno. E poi ci vorrebbe un altro linguaggio: quello del cinema. Ci arriverò”. Intanto in comunità è l’ora della merenda: tè freddo, frullato di banana, brioche e biscottini. Zac ci presenta Mike da Lodi, uno dei pochi amici che ha qui: “Per il resto sto da solo, gli altri ospiti hanno 40, 45 anni”. “Sessantotto il più anziano”, si inserisce la responsabile della struttura Loana Di Dio detta “la comandina”. “A lui ripetiamo sempre che ha più pena che vita!”. Risate generali, ma lo sguardo di Baby Gang va ai velisti che sfruttano la Breva che spira. Sotto sotto un po’ lo preoccupa che l’etichetta diventa il personaggio e il personaggio diventa un destino. “Non mi pento, però sto cambiando. Questo è il mio essere d’esempio. Ho avuto problemi con l’alcol, ora non più. Facevo rapine, ora guadagno con la musica”. Il primo acquisto folle: “Una statua con la mia testa. È alta così (indica il petto, ndr), l’ho pagata seimila euro. Sta a casa di mia madre. Le ho preso una villetta davanti ai palazzi Aler dove abbiamo abitato. Ne vorrei comprare un’altra, di casa”. Il dopo-comunità è un pensiero leggero. L’impossibilità di esibirsi live è un pensiero macigno. L’idea di diventare padre è un pensiero lontano ma concreto: “Un figlio mio ci sta, però vorrei adottare, per dimostrare a quella persona che si può partire in svantaggio e risollevarsi poi. Sono musulmano e ho sempre saputo che il mio Dio avrebbe trasformato la merda in oro”. Zac è innamorato? “Nì. Ho sofferto così tanto che non ci provo più con nessuna, deve essere lei a fare il primo passo. L’orgoglio è tutto”. Meglio non caricare la Corte costituzionale di aspettative eccessive di Luigi Testa* Il Domani, 5 luglio 2023 La Corte è il più importante presidio di tutela della legalità costituzionale contro le decisioni della maggioranza. Non è un caso che altrove non manchino tentativi del potere politico di “catturare” le proprie Corti. In Italia, tuttavia, non è necessario alcun allarmismo. Tra quest’autunno e la fine del 2024, cambierà notevolmente la composizione della Consulta. Ma la maggioranza politica può influenzare direttamente la nomina soltanto di un terzo dei membri della Corte, con il voto dei due terzi dei membri del Parlamento. La funzione contromaggioritaria della Corte è, in ogni caso, ben al riparo. Ma non è il caso di caricarla di eccessive aspettative. Non si può chiedere al giudice costituzionale di fare quello che è la politica a dover fare. Si sa: in tempi di forte polarizzazione e contrapposizione politica, gli occhi son tutti puntati al Quirinale. E non solo alla presidenza della Repubblica, ma anche alla Corte costituzionale, che sullo stesso colle ha la sua sede, ad angolo col palazzo presidenziale. La topografia costituzionale ha le sue ragioni. Presidente e Corte sono entrambe istituzioni di garanzia - l’una politica, la seconda giuridica. Entrambe alla stessa distanza dai palazzi della politica. E proprio la Corte è il più importante presidio di tutela della legalità costituzionale contro le decisioni della maggioranza politica al parlamento e al governo. Non è un caso, d’altronde, che altrove non manchino tentativi del potere politico di “catturare” le proprie corti - vedi Stati Uniti o Israele. In Italia, tuttavia, non è necessario alcun allarmismo. Modificare ruolo e funzioni della Corte richiederebbe una revisione costituzionale che non è facile, e che non compare in alcuna agenda politica. E anche per quanto riguarda la composizione dell’organo, i rischi, se esistono, sono molto bassi. La maggioranza politica, infatti, potrebbe influenzare direttamente la nomina soltanto di un terzo dei membri della Corte. Di quei cinque, cioè, che vengono eletti dal Parlamento, mentre altri cinque sono eletti dalla magistratura e gli ultimi cinque nominati dal Quirinale. E peraltro, in Parlamento, è richiesta il voto dei due terzi dei membri (che diventa dei tre quinti dopo il terzo scrutinio), quindi è chiaro che la maggioranza da sola non ce la fa. È il sistema stesso, dunque, che garantisce che anche i membri della Corte eletti dalla politica abbiano una “rappresentatività trasversale”, come ricordava la presidente Sciarra in una recente intervista. Ciò non toglie, tuttavia, che, sin da subito, si siano instaurate per via di prassi delle convenzioni politiche di “redistribuzione” dei giudici di nomina parlamentare tra le diverse forze politiche. Ai tempi della Prima Repubblica, con qualche eccezione, la regola era due alla DC, e le altre tre divise tra PSI, PCI, e liberali (poi repubblicani). Le cose sono evidentemente cambiate con la Seconda Repubblica, senza formule precise, ma stabilizzandosi tendenzialmente su un 3+2 tra maggioranza e opposizione. A questo Parlamento toccherà presto, quando in novembre scadrà proprio la Presidente Sciarra, eletta dal Parlamento nell’autunno 2014. Pochi giorni prima di lei termineranno il mandato altri due giudici, che però erano stati nominati dal Presidente della Repubblica, e dunque toccherà a lui sostituirli. C’è da capire se Mattarella attenderà la scelta del Parlamento o se giocherà d’anticipo, potendo ragionevolmente prevedere quale sarà l’area politica che sponsorizzerà il giudice di nomina parlamentare. D’altra parte, la scelta di riservare un terzo dei giudici al Quirinale è pensata proprio in funzione di riequilibrio dell’organo, e certamente il Presidente considererà che, a dicembre 2024, scadranno altri tre giudici, tutti di nomina parlamentare, e dunque toccherà ancora alla politica. Una occasione (relativamente) ghiotta per la maggioranza, tanto più che poi non ci saranno altri giudici in scadenza e quindi da rinnovare fino a novembre 2026. La funzione contromaggioritaria della Corte è, in ogni caso, ben al riparo. Ma non è il caso di caricarla di eccessive aspettative. Molte volte, nei mesi scorsi, le perplessità dinanzi ad alcune scelte della maggioranza politica hanno preso la forma ottativa di un giudizio di costituzionalità. Ma ci sono due cose da tenere in conto. La prima è la difficoltà tecnica. Una legge può essere portata alla Corte soltanto se il dubbio di costituzionalità nasce nel corso di un procedimento giudiziario concreto. Insomma, una sorta di incidente di percorso, in cui ad un certo punto il giudice, che deve applicare proprio quella legge per risolvere il caso, sospetti ragionevolmente della sua legittimità costituzionale. Cosa non scontata, e che comunque richiede i suoi tempi. E poi c’è un secondo, fondamentale, elemento. Non ogni scelta inopportuna o non condivisibile dal punto di vista politico integra una violazione costituzionale. Anzi, evidentemente è vero il contrario: la maggior parte delle scelte legislative non integrano una violazione della Costituzione. Tanto più quando si tratta di fare un bilanciamento tra diritti e interessi, la Corte ha ben poco margine nello scrutinio della ragionevolezza della scelta legislativa. Certe decisioni, in definitiva, sono tutte politiche: e, su questo, la Corte non interverrà. D’altra parte, non si può chiedere al giudice costituzionale di fare quello che è la politica a dover fare. Altrimenti, smetterebbe di essere quella garanzia che è. *Ricercatore di diritto pubblico comparato presso l’Università dell’Insubria; Accademic fellow presso l’Università Bocconi In Italia triplicano i minori in povertà: senza finanziamenti il mondo scolastico gira a vuoto di Luigi Gallo* Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2023 Cosa sta accadendo alle nuove generazioni? Da docente, tra i banchi di scuola, in soli 10 anni ho visto, ascoltato e sperimentato una situazione sempre più grave. Ragazzi aggressivi, apatici, annoiati, avversi alle regole comuni, sempre di più imitano i contesti del mondo adulto aggressivo, violento, povero e ignorante in cui nascono e crescono. La mia potrebbe essere una lettura della realtà deformata da una singola esperienza personale, ma i dati mi confermano che il fenomeno è più generale. Con buona precisione, dal 2010 possiamo misurare il Benessere equo e sostenibile (BES). Questi multi-indicatori sono importanti anche per il superamento della dottrina del PIL, indicatore economico unico, che ingabbia la nostra società al soddisfacimento di desideri consumistici ed egoistici e all’arricchimento personale. I BES sono uno strumento statistico puntuale che valuta i miglioramenti o le regressioni che subiamo sul piano sociale e ambientale spostando la qualità della vita e dell’ambiente al centro della scena. A partire dal 2016, i BES sono diventati indicatori di monitoraggio degli obiettivi dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, i Sustainable Development Goals (SDGs) delle Nazioni Unite. Il rapporto BES 2023 ci dice che in Italia c’è un peggioramento delle relazioni sociali, del benessere soggettivo, dell’istruzione e della formazione e del benessere economico. Ma la situazione peggiore è nel campo dell’istruzione e della formazione. E come se non bastasse il governo di destra di questo paese per il 2023 porterà “un aumento della disuguaglianza del reddito netto, misurata dal rapporto fra il reddito totale del 20% più ricco della popolazione con quello del 20% della popolazione più povera” (rapporto BES 2023). I vantaggi per professionisti e autonomi che hanno ricavi fino a 85mila euro, l’introduzione della flat tax incrementale e la sostituzione del Reddito di cittadinanza producono un incremento elevato per i più ricchi (+7,7 per cento), a fronte di un moderato aumento del reddito per i più poveri (+1,6). Questo ha un grosso impatto sui più piccoli e gli adolescenti. In 10 anni, in Italia, il tasso di minori in povertà assoluta è triplicato raggiungendo 1,4 milioni. Mentre la famiglia benestante riesce ad ottenere il meglio dalla scuola pubblica grazie alla propria capacità di investire soldi e attenzione ai propri figli. Una famiglia povera, invece, può spendere solo 5 euro al mese per il proprio figlio ma soprattutto non ha la capacità di sostenerlo nello studio, nell’impegno e nella motivazione a causa di lavori usuranti dei genitori o per situazioni di fragilità familiare dovute a divorzi, perdita dei genitori e criminalità. Il problema vero, più dell’abbandono, è che i ragazzi non sviluppano apprendimenti adeguati e diventano destinati ad una esistenza precaria, sotto ricatto di criminalità e di imprenditori senza scrupoli, non veramente liberi in un territorio a diffusa illegalità. Il parlamento, in questi ultimi 5 anni, non ha ascoltato la voce di chi - come me e pochi altri - ha chiesto l’istituzione nazionale di doti educative da consegnare direttamente ai minori (per pagare libri, mense, corsi, sport, cultura) e dare così un sostegno economico strutturale per tutti i bambini e gli adolescenti. Ma ogni giorno, in ogni Comune si perde la battaglia quotidiana per avere politiche sociali all’altezza del fenomeno da contrastare, per garantire davvero una vita diversa da chi è già segnato da povertà e violenza dalla nascita. Affidare alle scuole la sfida della dispersione scolastica o quella degli apprendimenti di minori svantaggiati è il vero problema. È come affidare all’ospedale il problema dei senzatetto o dell’alimentazione quotidiana di un paziente. Ci vuole un esercito di assistenti sociali nei Comuni per costruire dei presidi permanenti nelle scuole, dei programmi capillari di accompagnamento dei minori e delle famiglie. I comuni che non lo fanno hanno decretato il fallimento non solo sociale e criminale del loro territorio, ma anche economico. Una nazione che non finanzia adeguatamente questi interventi sta facendo girare parte del mondo scolastico a vuoto, e tutti diventiamo un ingranaggio che ha un costo economico, spende energia ma non può cambiare la vita a chi ne ha più necessità degli altri. *Politico, ex deputato M5S Il gioco d’azzardo, i peana e i silenzi assordanti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 5 luglio 2023 Giorgia Meloni si era scagliata contro Renzi per un governo che “fa cassa sulla ludopatia”. Da quando è a Palazzo Chigi non ha più detto una parola. “Sul gioco d’azzardo FdI ha avuto sempre la stessa posizione: particolarmente in un momento come questo, nel quale la povertà e la disperazione dilagano, il rischio di rifugiarsi nella ludopatia è alto”. Parole di Giorgia Meloni, tredici mesi prima di stravincere le elezioni del settembre 2022. Rileggiamo: “Sempre la stessa posizione”. Esempio? Nell’ottobre 2015, indignata perché il gioco era schizzato a oltre 88 miliardi, appioppò a Matteo Renzi, una scudisciata: “Ci fa schifo un Governo che fa cassa su una malattia gravissima come la ludopatia, che porta alla disperazione quasi 2 milioni di italiani. Renzi spieghi il perché di questo vergognoso pizzo pagato alle lobby del gioco d’azzardo”. Non era la sola, a provare schifo. Finita lei a Palazzo Chigi e salito ora l’azzardo a 136 miliardi, non ha più fatto una piega. Manco una riga sull’Ansa. Manco un plissé. Così come non ha speso una sola parola, per commentare l’ultimo Rapporto Lottomatica-Censis sul gioco legale, presentato giorni fa in Senato (dominato da Ignazio La Russa) da Giuseppe de Rita (de Rita!) con un elogio stupefacente: “Nell’ultimo anno, il 37,8% degli italiani ha giocato a uno o più giochi legali tra lotto, lotteria, superenalotto, scommesse sportive, ippiche, Bingo, giochi online, slot machine. Diciannove milioni di persone che nel periodo pandemico hanno giocato legalmente sono la migliore certificazione (sic!) che il gioco è un’attività praticabile in modo responsabile, contenuto e sano”. Tutto nella scia della non meno surreale perizia-invettiva che lo psicologo da salotto tivù Paolo Crepet, scatenò anni fa per Lottomatica contro il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ostile ai problemi sanitari creati dalla schiavitù d’azzardo: “Non si tengono in considerazione alcuni effetti potenzialmente positivi del gioco, quali la socializzazione, il diritto al sogno, la possibilità di alleviare la propria amarezza e la propria tristezza. Non credo che tocchi allo Stato disciplinare anche i sogni e le speranze…”. Non è solo la “nuova” Giorgia Meloni a non dire una parola sulla deriva che causa danni stimati 1.535.790.017 di costi di disoccupazione e mancata produttività, 310.775.688 per suicidi e rotture familiari, 813.483.852 per problemi legali e 68.167.364 sanitari. A parte il direttore di “Vita” Riccardo Bonacina e Avvenire sul peana al gioco d’azzardo il silenzio è stato assordante. Tempi bui… Migranti. Piantedosi annuncia: “Tra un mese primo centro per le espulsioni rapide” di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 luglio 2023 Con la commissaria Johansson visita l’hotspot di Lampedusa. La rappresentante Ue ribadisce: “Tunisi resta un partner fondamentale”. Il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi e la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson hanno visitato ieri l’hotspot di Lampedusa. Nei giorni precedenti la struttura gestita dalla Croce rossa italiana (Cri) era stata debitamente svuotata: centinaia i migranti trasferiti, poco più di 400 quelli rimasti all’interno. Al termine del tour istituzionale si è svolto un punto stampa. Piantedosi ha fatto sapere che in un mesetto sarà pronto il primo centro dedicato alle procedure d’asilo accelerate. Dove il governo, dando seguito a quanto previsto dal “decreto Cutro”, vorrebbe trattenere i richiedenti dei paesi considerati sicuri per espellere più rapidamente quelli a cui non è riconosciuta la protezione. Il ministro non ha chiarito se una struttura di questo tipo nascerà anche a Lampedusa. “Vedremo”, ha detto sottolineando l’importanza della funzione di hotspot dell’isola e dei trasferimenti rapidi in altri luoghi. Di sicuro dalla partita ha deciso di tirarsi fuori la Cri: “non ci sarà un nostro impegno nella gestione di eventuali centri di rimpatrio”, ha detto il presidente dell’organizzazione Rosario Valastro. La commissaria Johansson ha ribadito che per l’Unione europea la Tunisia è un partner fondamentale con cui cooperare. Il prossimo accordo con lo Stato nordafricano verterà su tre punti: lotta contro i trafficanti; miglioramento della capacità di Tunisi di proteggere le sue frontiere; sostegno ai rimpatri dei cittadini di altri paesi che risiedono sul suo territorio. Nessuna menzione, invece, alle recenti violenze xenofobe, ai discorsi d’odio o alle limitazioni democratiche imposte dal presidente Kais Saied, con cui Roma e Bruxelles stanno negoziando. Intanto è diventata definitiva la sentenza con cui la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per le condizioni inumane e degradanti e i respingimenti collettivi nell’hotspot di Lampedusa: lo Stato non ha fatto appello. Francia. Nelle periferie come “indiani” in un mondo di Gary Cooper di Massimo Nava Corriere della Sera, 5 luglio 2023 Le minoranze sono discriminate, alzano la voce e reclamano diritti perché sono costituite da cittadini francesi, giovani di origine straniera, ma nati e cresciuti in quel Paese. C’è un concetto tabù in Francia che spiega la questione delle periferie più del fiume di analisi politiche e sociologiche che puntualmente scorre dopo ricorrenti esplosioni di violenza e ribellione. Il concetto è “minoranza” in senso etnico, religioso, culturale, linguistico. Concetto che nella concezione dello Stato e nella tradizione politica e culturale è escluso dal vocabolario. I princìpi fondanti della Republique - l’eguaglianza, la laicità delle istituzioni pubbliche - concorrono ad esaltare un modello di assimilazione che, pur rispettando le differenze in nome della libertà, non le accetta come espressioni pubbliche. Ne è un esempio la legge sulla laicità dello Stato che rispetta le libertà religiose come fatto privato, ma proibisce l’ostentazione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, come il crocefisso nelle scuole o il velo islamico indossato a scuola o all’università. In sintesi, l’approccio francese, che è il prodotto di una visione illuministica e cartesiana della realtà, rileva una buona dose di ipocrisia, dal momento che proprio la realtà è una quotidiana smentita del modello. Le minoranze esistono, sono discriminate, alzano la voce e reclamano diritti con un’arma politica efficace e convincente che altre minoranze nel mondo non hanno: le minoranze in Francia sono minoranze francesi, essendo costituite da cittadini francesi, giovani di origine straniera, ma nati e cresciuti in Francia. Tutto il contrario della concezione anglosassone che tende ad accettare le minoranze anche in senso identitario e a monitorare con leggi e provvedimenti ad hoc il loro trattamento, per arginare e stroncare qualsiasi forma di discriminazione. Naturalmente, anche il modello multietnico e multiculturale mostra i suoi limiti e non è immune da derive razziste e discriminatorie - basti ricordare la questione generale dei ghetti americani e i ricorrenti episodi di violenza da parte della polizia contro cittadini neri - ma l’approccio pragmatico della cultura anglosassone ha dato risultati migliori ed esempi simbolici di grande effetto culturale, quali ad esempio un presidente di colore o un premier di origine indiana. The Obsever nota che la scritta “Liberté, Égalité, Fraternité” (Libertà, Uguaglianza, Fraternità) impresso sul frontone degli edifici pubblici sembra essere “un’illusione e persino una menzogna” agli occhi di molti abitanti delle periferie. Ma essendo la Francia una repubblica fondata sull’uguaglianza, le differenze etniche non hanno posto e non dovrebbero essere ufficialmente riconosciute. “Eppure permetterebbero di affrontare le discriminazioni nelle scuole e nelle aziende. È difficile risolvere un problema quando non si sa esattamente quanto sia grande o diffuso. Dal punto di vista delle periferie, questo “rifiuto di vedere il colore della pelle” non è altro che una politica dello struzzo; un desiderio di rendere invisibili le minoranze visibili”. La tradizione statalista e l’eredità culturale di Voltaire e della Rivoluzione hanno fatto percepire la legge sulla laicità dello Stato come un attacco alle libertà religiose, anche qui in contrasto con il modello anglosassone. D’altra parte, si è perso di vista l’obiettivo primario della legge, ossia difendere le donne e in generale la gioventù da sempre più frequenti episodi d’intolleranza, razzismo, pressione culturale, antisemitismo. Come garantire ad esempio i diritti e la libertà educativa di migliaia di ragazze delle periferie metropolitane, dove il condizionamento delle famiglie, dei padri e dei fratelli maggiori, comporta l’imposizione del velo? La Francia è il Paese con la più forte tradizione laica e agnostica, è il Paese con la più imponente componente musulmana (oltre cinque milioni, il dieci per cento della popolazione) è il Paese con la più importante comunità ebraica d’Europa, oltre seicentomila persone.La pretesa d’ “integrazione” a valori e principi costituzionali ha il suo rovescio nel rifiuto dell’assimilazione, con il drammatico fenomeno di comunità etniche aggrappate alla religione come una difesa o una bandiera. A dispetto della tanta conclamata integrazione e dei colossali investimenti pubblici nel corso degli anni, la cosiddetta “frattura sociale” in Francia si è ulteriormente aggravata, con il risultato che l’emarginazione economica e sociale di milioni di individui costituisce il detonatore di auto-emarginazioni religiose e culturali. Per la Francia, la diversità etnica e culturale non è la somma di tante identità ma un progetto di cittadinanza, con uguali diritti e doveri. I dati però dimostrano due categorie di cittadini: i francesi e gli altri. La crisi di un Paese si vede quando s’incrinano i valori di riferimento. La sua grandezza quando si ha il coraggio di adattarli, anche se scritti nella propria storia. L’ex presidente Nicolas Sarkozy, più noto per il pugno di ferro che cercò di adottare nelle periferie, sostenne che fosse necessario rivedere i sacri principi. L’integrazione, secondo Sarkozy, fallisce proprio perché intere comunità rafforzano la loro identità religiosa ed etnica e si separano dai valori repubblicani. Una certa idea della Francia, per l’ex presidente con origini ungheresi, significava “non considerare normale che le nostre élite si assomiglino e che, a parte Zidane e i campioni sportivi, i giovani immigrati non possano identificarsi in magistrati, giornalisti, dirigenti d’impresa, alti funzionari”. Sarkozy propose la “discriminazione positiva”, appunto all’ anglosassone, nell’intento di favorire l’accesso dei più deboli ai posti di lavoro, ma si attirò un altro genere di critica : quella di voler smantellare il sistema francese che, in nome dell’uguaglianza, prevede che non vengano precisate nazionalità e origini etniche. Di fronte ai giovani delle banlieues, statistiche e curriculum sono “ciechi”. Soltanto loro, come nel proverbio dei ghetti americani, sanno di essere “gli indiani in un mondo di Gary Cooper”. Tunisia. Polveriera Sfax, in Tunisia è caccia ai migranti di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 5 luglio 2023 Arresti di massa e deportatzioni. Dopo la morte di un tunisino, case bruciate e pietre contro i subsahariani. Una questione di tempo. Le immagini che arrivano da Sfax non lasciano spazio ad altre interpretazioni. Case incendiate, aggressioni a colpi di pietre e bastoni e un morto. Il bilancio dell’ultima notte nella città che più di tutte in Tunisia rappresenta la precarietà del paese è disastroso. Erano mesi, se non anni, che le tensioni tra la popolazione locale e la comunità subsahariana avevano raggiunto un livello mai visto prima. Ora la morte di un cittadino tunisino di 38 anni rappresenta il superamento di un limite che aumenta ogni giorno. Per tre notti consecutive Sfax, seconda città del piccolo Stato nordafricano e uno dei primi polmoni industriali, ha faticato a dormire. I social network e non solo si sono riempiti di video che testimoniano violenze di ogni tipo: abitazioni date al rogo per la sola presenza di cittadini di origine subsahariana; persone rinchiuse in casa che inquadrano in diretta tentativi di assalto e tentativi spontanei di evacuare un parco dove hanno trovato rifugio quasi 200 cittadini sudanesi a colpi di bastoni e pugni. Il bilancio dei feriti e dei danni non è ancora dato sapersi ma sono decine le segnalazioni da parte di una fetta della popolazione che non riesce più a darsi risposte a quanto sta succedendo, mentre il ministero dell’Interno ha annunciato di avere disposto ulteriori misure di sicurezza nel governatorato di Sfax. All’interno di un contesto estremamente precario e confuso, nella serata di lunedì un cittadino tunisino di 38 anni è morto dopo essere stato accoltellato da una persona di origine subsahariana nella città di Sakiet Eddaïer, alle porte della città, poco lontano dalla spiaggia di Sidi Mansour, uno dei luoghi da dove partono le imbarcazioni in direzione di Lampedusa. Le autorità locali hanno comunicato di avere aperto un’indagine e annunciato l’arresto di tre persone implicate a vario titolo nell’omicidio. I fatti arrivano a margine della manifestazione del 25 giugno scorso per dire basta all’aumento dei subsahariani in città. Una presenza che si sente e si vede anche solo percorrendo di giorno il centro di Sfax e che di notte trova rifugio nei quartieri più popolari, dove la rabbia aumenta con l’aggravarsi delle condizioni economiche e sociali. Da qui si parte per capire cosa sta succedendo in questi giorni in Tunisia. Il deterioramento del potere di acquisto della fascia più popolare della comunità tunisina ha inciso pesantemente sulla percezione degli stranieri presenti nel paese. Il Forum tunisino per i diritti economici e sociali ha stimato in 21mila i subsahariani che a vario titolo sono presenti sul suolo tunisino. Stando solamente alle statistiche sugli arrivi in Italia e sulle intercettazioni da parte della Guardia costiera di Tunisi, si capisce che si tratta di un dato troppo al ribasso: da inizio anno i cittadini di origine straniera sbarcati a Lampedusa sono stati più di 30 mila, quelli intercettati più di 25 mila. Dati che hanno alimentato il senso di insicurezza dei tunisini, su cui hanno inciso alcune fake news come i subsahariani portatori di varie malattie. Archiviato il lato più evidente della precarietà quotidiana, ce n’è un altro che minaccia di essere ancora più duro. Si tratta della ricostruzione da parte della società civile tunisina di alcuni respingimenti forzati verso la Libia, dove tante cose succedono senza che possano essere verificate. La mattina del 2 luglio un gruppo di venti migranti e richiedenti asilo è stato espulso verso il confine a sud della Tunisia da militari e agenti delle forze di sicurezza: 6 donne (di cui due incinta e prossime al parto), una minore di 16 anni e 13 uomini. Numeri che nascondono storie di vario genere ma che non si possono raccontare in quanto i telefoni sono stati sequestrati e rotti. Arrestati l’1 luglio in un’abitazione a 35 chilometri da Sfax insieme ad altre 28 persone, la polizia avrebbe poi diviso il gruppo in due. Una vicenda che richiama da vicino quanto già successo nell’agosto del 2019 con diversi casi di respingimenti collettivi verso l’Algeria e la Libia. C’è di più. Nella giornata di ieri sono aumentate le segnalazioni di altri arresti di massa, almeno 200 persone, in alcune zone di Sfax dopo gli episodi della notte. Fatti salire su alcuni bus in direzione di Ben Gardane, al confine sud, più di cento sarebbero state trattenute in un posto di polizia nella località di Skhira, al centro della Tunisia tra Sfax e Gabes. Il manifesto ha potuto verificare la localizzazione dei fermati e ha parlato con un cittadino di origine ivoriana prima che il suo telefono risultasse irraggiungibile: “Al momento siamo più di 100 persone che sono state trattenute”, è il racconto. “Abitavamo tutte nello stesso stabilimento a Sfax, nella notte alcuni tunisini hanno incendiato le nostre abitazioni e cominciato a lanciare pietre. Abbiamo chiamato la polizia e ci hanno fatto salire su dei bus verso la Libia. Da questa mattina non abbiamo acqua né cibo. Siamo fermi a Skhira sorvegliati dalla polizia. Non ci hanno detto niente. Ci sono anche dei bambini. So che altre 120 persone si trovano a Ben Gardane”. In un momento in cui le trattative tra Unione europea e Tunisia si fanno sempre più fitte per aiutare il piccolo Stato nordafricano ad aumentare il controllo sulle sue frontiere marittime e terrestri, nell’immaginario della società civile tunisina risuonano ancora le parole dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulla Tunisia come paese sicuro, pronunciate nel 2019. Da allora sono passati quattro anni, il piccolo Stato nordafricano sta fallendo economicamente e le violenze aumentano. Resta una domanda che gli attori sociali attivi nel paese continuano a farsi: di che paese sicuro si tratta? Hong Kong dà la caccia all’uomo: taglia su 8 attivisti pro- democrazia di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 luglio 2023 Un premio da un milione di dollari a chi individua i dissidenti fuggiti dall’isola nel 2020 Alta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, accusata di accogliere i “ricercati”. Alta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, la ragione ancora una volta riguarda Hong Kong, ex protettorato britannico, e in particolare otto attivisti (Nathan Law, Anna Kwok, Ted Hui, Dennis Kwok, Mung Siu- tat, Elmer Yuen, Finn Law e Kevin Yam) fuggiti dall’isola nel 2020 quando Pechino ha imposto la draconiana legge sulla sicurezza nazionale. Una serie di norme iper- restrittive che di fatto perseguono penalmente chiunque esprima critiche o protesti contro le autorità controllate dai cinesi. Sugli attivisti pro democrazia è stata posta una taglia pari a un milione di dollari di Hong Kong, una cifra talmente alta tale da far gola a chiunque sia intenzionato a trarre profitto dalla eventuale cattura e che mette a rischio la vita di coloro che sono in esilio. Secondo la Cina, la Gran Bretagna ospitando i fuggitivi compie un atto di ingerenza negli affari interni di Hong Kong, Pechino li accusa di collusione con forze straniere, un crimine che può comportare una condanna all’ergastolo proprio in virtù della legislazione introdotta tre anni fa dopo le grandi proteste che hanno scosso l’isola. Il governatore di Hong Kong, John Lee, non ha lasciato molte speranze che si possa arrivare ad una trattativa. Per Lee infatti gli esuli saranno perseguiti a vita. Li ha dunque esortati a consegnarsi, aggiungendo che altrimenti avrebbero trascorso le loro giornate nella paura. Se non bastassero le dichiarazioni minacciose di Lee, ci ha pensato un portavoce dell’ambasciata cinese a Londra a rincarare la dose accusando direttamente i politici britannici e parlando di interferenze grossolane e intollerabili. Londra ha respinto gli attacchi riaffermando di voler proteggere coloro che hanno lottato per la libertà di espressione. Il ministro degli Esteri James Cleverly ha dichiarato: “Chiediamo a Pechino di rimuovere la legge sulla sicurezza nazionale e alle autorità di Hong Kong di porre fine ai loro attacchi contro coloro che si battono per la libertà e la democrazia”. In realtà gli otto nel mirino cinese vivono non solo nel Regno Unito, alcuni si trovano negli Stati Uniti e in Australia, paesi che non hanno comunque trattati di estradizione con la Cina. Una situazione dunque che corre il rischio di allagare lo spettro della crisi in estremo oriente. Lo testimonia l’intervento del ministro degli Esteri australiano Penny Wong che si è detta “profondamente delusa” dall’annuncio cinese e che “rimane profondamente preoccupata per la continua erosione dei diritti, delle libertà e dell’autonomia di Hong Kong”. Una risposta a stretto giro di posta è arrivata anche dal Dipartimento di Stato degli Usa secondo il quale la mossa stabilisce “un pericoloso precedente che minaccia i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone in tutto il mondo”. Il timore dunque si sta spargendo tra gli attivisti fuggiti, due dei più rappresentativi come Nathan Law e Anna Kwok, direttrice esecutiva del Consiglio per la democrazia di Hong Kong, hanno già lanciato l’allarme affermando che d’ora in poi saranno molto cauti nel rivelare dove si trovano attualmente. “Tutte queste cose - ha detto Law - possono mettere la mia vita in situazioni pericolose se non sono abbastanza attento a chi incontro o dove vado. Mi fa vivere una vita più attenta”. Concetto ribadito dalla sua compagna di lotta la quale non ha nascosto lo shock iniziale quando ha appreso della taglia: “Questo è esattamente il genere di cose che il governo di Hong Kong e il Partito comunista cinese fanno, intimidire le persone, mettendole a tacere”.