Carceri, la tentazione di (ri)chiudere tutto dove servono risorse, idee e non repressione di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 4 luglio 2023 “La folle scelta della vigilanza dinamica”, questa, secondo il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria del Lazio, la causa principale della maxi- rissa tra detenuti scoppiata qualche giorno fa a Regina Coeli. Non, dunque, il precario - per usare un eufemismo - stato strutturale dell’istituto, non il sovraffollamento, non le condizioni ambientali e la carenza di risorse umane e materiali che rendono sempre più complicata non soltanto per i detenuti, ma anche per gli operatori - la possibilità di una vita dignitosa all’interno di un istituto di pena concepito la bellezza di un secolo e mezzo fa: la causa di tutti i mali sarebbe la sorveglianza dinamica, ossia il regime introdotto dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria nel 2013, che consiste nell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno otto ore al giorno e fino a un massimo di quattordici, con la conseguente possibilità dei detenuti stessi di muoversi all’interno della propria sezione, e auspicabilmente anche al di fuori di essa. Chi frequenta le carceri sa bene che questa modalità di esecuzione della pena non equivale certo a un “liberi tutti”, ma risponde all’assai più modesto e ragionevole intento di rendere la permanenza negli istituti penitenziari più umana e dignitosa: laddove sarebbe obiettivamente impensabile, nel 2023, immaginare che la generalità delle popolazione carceraria “ordinaria” possa essere costretta a vivere chiusa nella propria cella per tutto il giorno e per tutta la notte, con la sola eccezione delle attività trattamentali e delle ore riservate al “passeggio” negli spesso asfittici, e senz’altro asfittici a Regina Coeli - spazi esterni degli istituti. Eppure, a quanto pare, la tendenza è proprio questa: se è vero, com’è vero, che già l’anno scorso una circolare del Dap invitava a limitare “la libertà di movimento e di stazionamento delle persone ristrette all’interno della sezione”, e che oggi il sindacato di polizia penitenziaria arriva a chiedere esplicitamente che la sorveglianza dinamica e il regime delle celle aperte vengano abbandonati. Badate: qua non si tratta semplicemente di discutere - o meglio, di ridiscutere, visto che siamo di fronte a un’inversione di marcia bella e buona - la condizione materiale in cui versano le persone - cosa che già di per sé sarebbe tutt’altro che inutile - ma di ragionare su quale concetto di “sorveglianza”, nel 2023, si ritiene non soltanto umanamente accettabile, ma anche - e soprattutto - razionale ed efficace. Questa, in effetti, era la finalità che si perseguiva con l’innovazione sancita dal Dap dieci anni fa: sostituire progressivamente a un paradigma di controllo “statico”, basato sul mero contenimento fisico, un modello fondato sull’osservazione e sulla conoscenza delle persone, cosa che implica necessariamente un potenziamento dell’offerta trattamentale e un efficace flusso informativo tra le diverse figure professionali che operano nelle carceri. Ossia, in una parola, una detenzione più umana, più utile, più sensata, finalizzata al conseguimento della tanto spesso citata - quanto altrettanto spesso irrealizzata - finalità “rieducativa” sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Tutto questo, naturalmente, diventa concretamente possibile qualora si decida di investire nel carcere risorse economiche e umane: aumentando il personale e qualificandone le competenze, adeguando le strutture agli standard minimi richiesti per un loro efficace funzionamento, impiegando tempo e attenzione all’elaborazione di percorsi trattamentali efficaci che possano riempire di senso la permanenza in carcere anziché svuotarla, come oggi avviene fin troppo spesso, di qualsiasi costrutto. Capisco che, specie per chi è costretto a lavorare in condizioni complicatissime e nell’indifferenza pressoché totale delle istituzioni, sia difficile ammettere che sia proprio questo vuoto di senso la causa principale non soltanto dei disordini che di quando in quando si verificano un po’ in tutto il Paese, ma anche dei suicidi, degli atti di autolesionismo, delle aggressioni e più in generale dello stato di tensione continuo che chiunque sia stato in carcere conosce fin troppo bene: e dunque che la tentazione immediata sia quella di tornare indietro, di chiudere, di costringere, di blindare. Ma a cosa potrebbero condurre questi giri di vite, se non a ulteriori tensioni, ad altri disordini, a nuove situazioni di emergenza? Come potremo immaginare di affrontare tutto ciò, quando avremo già chiuso tutto il possibile e non saranno rimasti altri spazi da ridurre? Dove ci può portare questa deriva, se non al compimento di un disastro annunciato? *Segretario di Radicali Roma Rita Bernardini, l'abbraccio con i detenuti lungo una vita di Don David Maria Riboldi* Il Riformista, 4 luglio 2023 “Lo sguardo del Garante nazionale è certamente uno sguardo intrusivo, deve penetrare al di là della superficie e porre cautele, formulare Raccomandazioni, per evitare più livelli di rischio. In primo luogo, il rischio d'indebolimento della tutela dei diritti delle persone meno visibili, ma anche l'abbassamento della consapevolezza collettiva. Infine, il rischio dell'esposizione del Paese a possibili censure in ambito internazionale”. Così Mauro Palma lo scorso 15 giugno nell'ultima relazione al Parlamento, quale Presidente del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Il suo mandato, prorogato nel tempo della pandemia oltre i cinque anni previsti, è giunto al termine e ci si chiede ora a chi sarà affidato dall'attuale governo quello `sguardo intrusivo' che dal 2016 è operativo a garanzia di controllo del funzionamento delle nostre istituzioni democratiche. Il percorso della creazione di questa figura nasce nel 1997, ma il suo lungo iter trova una celere determinazione nel 2013, in seguito alla sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea condannò l'Italia per le condizioni inumane e degradanti dei propri penitenziari. Torreggiani era recluso nel carcere di Busto Arsizio, dove ad oggi ci sono ristrette 420 persone, rispetto ai 240 posti ufficiali. Non abbiamo imparato molto da allora. A Mauro Palma, nel mandato fondativo di questa figura è toccato organizzarne il lavoro, identificando le aree dove non far mancare quello `sguardo intrusivo', specie laddove le telecamere non entrano o, meglio, da dove non escono riprese. Quando sono uscite, come da S. Maria Capua Vetere, la coscienza collettiva ne è stata profondamente lesionata. Gli interventi del garante riguardano le raccomandazioni alle pubbliche amministrazioni, i pareri al legislatore, i rapporti delle singole ispezioni. Una volta all'anno, la relazione al Parlamento. Di Rita Bernardini si sono dette e scritte molte cose. Marco Perduca il 23 giugno scrive sull'Huffington Post che è “antiproibizionista, certo è anti-clericale, certo è antifascista quanto anticomunista”. Credo però che tutto questo bisogno di etichettare non le renda ragione. Fu lei a chiamarmi, la scorsa estate, dopo aver intercettato un video, in cui imploravo l'allora Ministra Cartabia di mettere i telefoni nelle celle per arginare l'ecatombe in corso: 85 persone, nelle 2022, hanno preferito la morte al carcere. Insieme abbiamo battagliato, con successo, perché le videochiamate - introdotte ad experimentum durante il covid - potessero diventare modalità ordinaria per effettuare i colloqui coi familiari. L'ho poi vista all'opera, lo scorso 6 gennaio, in visita al carcere di Busto Arsizio, di cui sono il cappellano. Perché Rita in carcere ci va. Da una vita. Con una predilezione per i giorni di festa, come il 15 agosto o il primo dell'anno, senza negarsi un sorriso beffardo agli sguardi del personale, attonito a richieste inconsuete in giorni festivi. Nel solo 2023 sono già 70 le visite fatte. Diranno che è anti-clericale, ma è presidente dell'associazione dal nome `Nessuno tocchi Caino' e ricorda con piacere il suo passato da catechista in parrocchia, dove ha respirato quel senso evangelico dell'altro, che credo potrebbe fare di lei un'autentica figura di garanzia al rispetto della persona e dei suoi diritti. Chiunque esso sia. Anche il più terribile dei criminali. Se a Mauro Palma si deve il plauso e la gratitudine per aver accolto l'incarico dall'alto, strutturando l'ufficio, serve ora chi possa sentirsi investito di un mandato dal basso. Il Garante non può che avere un respiro corale: deve essere sentito raggiungibile, avvicinabile, capace di parlare al Parlamento come nella sezione di un carcere. Non basta dire che deve sapere di carcere: deve averne l'odore. Così Papa Francesco dice dei pastori: devono avere l'odore delle pecore. Quando leggo le lettere che le donne detenute a Torino scrivono a Rita, chiosandole con un ‘abbraccio prigioniero', credo davvero siamo sulla strada giusta. Serve poi una capacità di fare rete con i Garanti territoriali. Regioni e comuni hanno, infatti, facoltà di creare e regolamentare una figura di garanzia sul territorio. Ma per generare un raccordo ci vuole chi giri l'Italia da anni, come Rita: nota alle camere penali dell'intero stivale e stimata come interlocutrice affidabile. La giovinezza istituzionale della figura del garante chiede chi possa ispessirne il ruolo con un reale mandato dal basso, che faccia sentire più vicine le Istituzioni. Ne guadagnerebbe il governo stesso. Tante battaglie di Rita Bernardini non saranno mai mie. Ma quando ho sentito che il Ministro Nordio l'aveva chiamata personalmente per un'audizione, quale possibile candidata a Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, ho sentito fosse la giusta direzione. Speriamo che logiche di spartizione di cariche non inquinino la strada intrapresa, annichilendo il tanto già fatto e incenerendo il tanto da fare. *Cappellano Casa Circondariale Busto Arsizio (VA) Strutture fatiscenti, carenze sanitarie e diritto di difesa annullato: ecco i Cpr di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2023 Bagni fatiscenti, trascurati e sporchi, dormitori senza arredi e materassi in pessime condizioni igieniche. L'assistenza sanitaria, soprattutto per la salute mentale, è problematica. Il diritto di difesa è compromesso a causa di regole e prassi problematiche. Queste sono alcune delle problematiche evidenziate nel documento del Garante nazionale delle persone private della libertà sui Centri di permanenza e rimpatri (Cpr), in base alle visite effettuate dai Garanti territoriali tra gennaio e marzo 2023. La privazione della libertà dei migranti nei Cpr è un problema complesso che coinvolge diversi livelli di responsabilità: carenze legislative, mancanza di regolamentazione, criticità strutturali, opacità e inefficienze nella gestione. Il Garante nazionale ha dedicato gran parte delle sue attività alle visite periodiche, alla redazione di rapporti, alla raccolta e diffusione di dati, all'analisi e alla formulazione di pareri sulle strutture di detenzione amministrativa. Durante le visite, sono emerse numerose criticità. In primo luogo, si è constatata la mancanza di una base legale adeguata e delle relative garanzie per il trattamento dei migranti, di fatto detenuti. Attualmente, il quadro normativo offre poche protezioni e lascia ampia discrezionalità ai responsabili dei Cpr. Il Garante ritiene necessario un riesame normativo per garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. Un'altra critica riguarda la carenza di assistenza sanitaria effettiva all'interno dei Cpr. Sebbene la normativa assegni al sistema sanitario pubblico il compito di fornire cure adeguate, si riscontra una situazione di subordinazione nei confronti del Servizio sanitario nazionale. È indispensabile un controllo sistematico sulle condizioni igieniche e sanitarie dei Centri per assicurare il benessere delle persone ospitate. Il modello di gestione dei Cpr, che combina la sicurezza interna e i rimpatri affidati al settore pubblico con la gestione materiale affidata ai privati, si è dimostrato inefficace nel garantire una buona governance. Ci sono costanti conflitti tra le esigenze di sicurezza e la possibilità di svolgere attività durante il periodo di detenzione nei Centri. È necessario introdurre un ruolo di coordinamento e responsabilità che possa conciliare queste diverse esigenze e garantire sicurezza e tutela dei diritti. Un'altra critica riguarda l'opacità del sistema dei Cpr rispetto all'esterno. La mancanza di trasparenza e comunicazione ha minato la legittimità e l'efficacia dei Centri. È fondamentale promuovere una comunicazione interna ed esterna che arricchisca la vita delle persone private della libertà e consenta la partecipazione di attori esterni, come associazioni e il Terzo settore, per migliorare la qualità della vita all'interno dei Cpr. Il documento evidenzia la necessità di un quadro normativo più solido, di un'effettiva tutela sanitaria, di una migliore gestione e di una maggiore trasparenza al fine di garantire i diritti fondamentali delle persone migranti private della libertà e migliorare la qualità della vita all'interno dei Cpr. Strutture fatiscenti e carenza sanitaria - Per quanto riguarda le condizioni all'interno dei Centri, le strutture di pernottamento presentano una mancanza di arredi e una scarsa conservazione e igiene dei materassi e della biancheria. I bagni sono fatiscenti e sporchi, e mancano di porte o tende per separarli dal resto dell'ambiente. Queste condizioni sono considerate inaccettabili in un contesto che dovrebbe garantire la dignità umana, la riservatezza e l'igiene. Anche gli spazi destinati alla socialità, al culto, all'esercizio fisico e alle attività formative e culturali sono insufficienti e poco curati. L'assistenza sanitaria all'interno dei Cpr rappresenta un'altra problematica rilevante. Sebbene il Servizio sanitario nazionale sia responsabile dell'accertamento preliminare delle condizioni di salute dei cittadini stranieri prima del loro ingresso nei Centri, l'assistenza sanitaria all'interno dei Cpr è affidata all'ente gestore anziché al Servizio sanitario nazionale. Durante le visite, è emerso che gli accertamenti sanitari si limitano alla verifica dell'assenza di malattie infettive, trascurando disturbi psichiatrici e altre patologie. Questo approccio limitato compromette il diritto alla salute delle persone straniere, specialmente per coloro che presentano disagio mentale o particolari vulnerabilità. Inoltre, il coordinamento tra i servizi sanitari dei Cpr e il Servizio sanitario nazionale è carente, il che influisce negativamente sull'assistenza alle persone detenute, soprattutto per quanto riguarda la salute mentale e le prestazioni specialistiche. La mancanza di un adeguato scambio di informazioni comporta la mancata trasmissione della documentazione sanitaria delle persone trattenute e l'insufficiente presa in carico di specifiche condizioni mediche. Inoltre, sono state riscontrate difficoltà nella prescrizione e somministrazione di farmaci, con alcuni farmaci prescritti da medici esterni in modo inadeguato. Le raccomandazioni del Garante nazionale includono la necessità di affidare l'attestazione medica di idoneità all'ingresso e alla permanenza nei Cpr a medici del Servizio sanitario nazionale, basandosi su informazioni accurate sulla persona e sulla struttura di destinazione. È altrettanto importante migliorare il coordinamento tra i servizi sanitari interni ai Cpr e la rete dei servizi sanitari, specialmente per le persone vulnerabili. Si sottolinea inoltre l'importanza di una corretta trasmissione della documentazione sanitaria e di una adeguata presa in carico delle condizioni mediche. Il ruolo fondamentale degli avvocati - Oltre alle condizioni materiali e sanitarie, il diritto di difesa rappresenta un elemento cruciale nelle procedure di rimpatrio. Secondo l'Agenzia dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, l'accesso effettivo a un'assistenza legale competente è una salvaguardia fondamentale per consentire alle persone coinvolte di esercitare il loro diritto a un rimedio giudiziario efficace, come stabilito dall'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue, nonché per accedere alla giustizia in generale. Inoltre, promuove l'applicazione legittima delle procedure di rimpatrio. Eppure l'effettivo riconoscimento di tale diritto è compromesso da regole e prassi problematiche. Una delle criticità riguarda la disciplina della difesa d'ufficio, che il Garante nazionale sta affrontando attraverso una costruttiva interlocuzione con il Consiglio nazionale forense. Si richiamano i principi di immutabilità del difensore e di continuità dell'assistenza tecnico- giuridica, che devono essere attuati per proteggere tutte le persone private della libertà in ogni fase dell'applicazione della misura restrittiva. Un altro aspetto preoccupante riguarda l'acquisizione non immediata o tempestiva della nomina di un avvocato di fiducia da parte dei cittadini stranieri trattenuti. Nonostante il regolamento dei Centri di permanenza e rimpatri preveda la registrazione tempestiva della nomina, anche se fatta verbalmente, ci sono segnalazioni che indicano che questa disposizione non viene sempre applicata correttamente. Di conseguenza, nonostante la nomina esplicita di un avvocato di fiducia, i cittadini stranieri si trovano difesi in udienza da un avvocato d'ufficio. Il Garante raccomanda che sia sempre garantita tempestivamente l'acquisizione della nomina di un difensore di fiducia, anche se resa verbalmente come previsto dal regolamento, e che siano adottate rapidamente le comunicazioni necessarie per formalizzare l'incarico e svolgere l'attività difensiva. Questo contribuirà a garantire che le persone coinvolte abbiano accesso effettivo a una difesa legale competente e che il loro diritto di difesa sia rispettato in ogni fase delle procedure di rimpatrio. Il documento di sintesi sui Cpr mette in luce una serie di criticità che riguardano le condizioni materiali e sanitarie, nonché il diritto di difesa delle persone migranti private della libertà. Diverse sono le osservazioni che una politica lungimirante dovrebbe recepire. Nel frattempo ci si augura che il prossimo Garante nazionale, prosegua il lavoro ben fatto da Mauro Palma, Daniela de Robert e Emilia Rossi. Droni per la sicurezza delle carceri, intesa Dap-Enac ansa.it, 4 luglio 2023 Sorveglianza aerea del perimetro degli istituti e monitoraggio. Alzare il livello di sicurezza degli istituti penitenziari attraverso processi di ammodernamento e di innovazione tecnologica delle strutture esistenti e, insieme, creare appositi percorsi di formazione specializzata per il personale di polizia penitenziaria. Con questi obiettivi il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, e il direttore generale dell'Ente nazionale per l'aviazione civile, Alessio Quaranta, hanno sottoscritto oggi un protocollo d'intesa che getta le basi per la sorveglianza degli istituti penitenziari per mezzo di sistemi di aeromobili a pilotaggio remoto (Unmanned aerial systems - Uas), cosiddetti droni. Presenti al momento della firma dell'accordo il presidente di Enac, Pierluigi Di Palma, e i responsabili del corpo di polizia penitenziaria della sezione Impianti di sicurezza e sistemi antidrone del Dap, il dirigente Antimo Cicala e l'ispettore Ferdinando Vertucci. L'intesa servirà a disciplinare la cooperazione e lo scambio di informazioni fra Dap ed Enac e a stabilire principi e modalità di utilizzo degli Uas dell'Amministrazione penitenziaria. In particolare, sarà innalzato il grado di vigilanza grazie alla sorveglianza aerea del perimetro esterno e interno degli istituti e sarà più agevole svolgere attività di monitoraggio in caso di rivolte interne da parte dei detenuti o di manifestazioni di protesta all'esterno delle mura di cinta da parte di gruppi organizzati. L'uso di droni permetterà inoltre di rendere più efficaci le operazioni di ricerca di detenuti evasi e più incisiva la caccia ad altri droni utilizzati per introdurre oggetti illeciti nelle carceri. Infine, sarà più semplice monitorare dall'alto lo stato delle strutture penitenziarie, degli impianti di sicurezza e degli interventi di edilizia. "Per noi si tratta di un accordo importantissimo - ha spiegato il capo del Dap, Russo - per controllare lo spazio aereo sopra gli istituti e soprattutto per contrastare l'introduzione illecita di telefoni, droga e a volte anche armi che vengono recapitati attraverso l'uso di droni. D'altronde, quando si aprono questi nuovi scenari tecnologici bisogna anche riflettere sul fatto che la criminalità, specialmente quella organizzata, cerchi subito di infiltrarcisi. Pertanto è necessario adottare contromisure idonee a prevenire e contrastare queste minacce". "È il primo accordo di ampio respiro con una forza di polizia - ha sottolineato il direttore generale di Enac, Quaranta - poiché gli altri che abbiamo sottoscritto sono più che altro di natura tecnico-operativa. Proprio la sua ampiezza consentirà tutta una serie di spin-off per il futuro, con i quali sarà possibile ampliare e migliorare la collaborazione con l'Amministrazione penitenziaria". Ma io sono con Nordio di Antonio Monda La Repubblica, 4 luglio 2023 Anche negli Stati Uniti, dove vivo da trenta anni, esistono conflitti tra potere politico e ordine giudiziario, che hanno trovato il momento di massima crisi quando, in pieno Watergate, Nixon ha chiesto al ministro della giustizia Richardson di licenziare il procuratore Cox che indagava su di lui. Richardson presentò le proprie dimissioni, seguito dal vice Ruckelshaus. Soltanto Robert Bork, terzo in ordine di autorità, eseguì l’ordine, e non meno grave fu il conflitto con il giudice Sirica, che ordinò a Nixon di consegnare le registrazioni segrete effettuate alla Casa Bianca: momenti di massima tensione istituzionale, riguardo ai quali è bene ricordare che negli Usa il procuratore viene nominato dagli elettori o dal ministro della giustizia e che sui giudici inquirenti c’è un atteggiamento laico. Renata Adler, incaricata dal New Yorker di scrivere un ritratto di Sirica scoprì numerosi episodi di incompetenza e corruzione di “Maximum John,” chiamato così per l’abitudine di chiedere sempre il massimo della pena: per citare Brecht “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Nonostante questi momenti di crisi, le istituzioni hanno continuato a funzionare, garantendo una dialettica che ha avuto altri passaggi critici, ma che è rimasta nell’alveo della normalità. Non mi sembra che si possa dire lo stesso per l’Italia, dove lo scontro continuo tra potere politico e ordine giudiziario rappresenta un male gravissimo, e dove, a mio parere, è il secondo appare molto più potente. Ritengo che sia ineludibile un’importante riforma, e leggo che il tentativo del ministro Nordio ha scatenato una durissima reazione da parte della magistratura e della stampa. A mio avviso il ministro ha ricordato un principio cardine: la magistratura deve applicare le leggi promulgate dal potere legislativo senza diritto di influenzarlo, e il tentativo di omologare la riforma a progetti di governi del passato non inficia la sostanza delle cose. La tutela delle dignità delle persone deve essere a cuore a chiunque, nessuno escluso, e tale battaglia non diventa più o meno nobile se sposata da una parte o dall’altra. Non conosco ancora tutti i dettagli della riforma, ma personalmente ne condivido le linee ispiratrici, iniziando dalle intercettazioni. Nessuno ne mette in discussione l’utilità, e per tornare negli Usa, la telefonata con cui Trump ha chiesto al segretario di stato della Georgia Raffensperger di “trovargli 11.780 voti” per ribaltare il risultato di quello stato contiene una gravissima notizia criminis, ma quante volte abbiamo letto conversazioni che non avevano nulla a che fare con le indagini in corso, e hanno umiliato e a volte distrutto la dignità delle persone? Non vi sembra aberrante la possibilità di intercettare le conversazioni tra l’imputato e il proprio avvocato? Ritengo poi che non si possa procrastinare la regolamentazione delle intercettazioni “a strascico”, e che il diritto della stampa di informare, fondamentale in una democrazia compiuta, non possa prescindere l’onorabilità della persona indagata: anche il più utile e informativo degli articoli non vale il rischio di ledere la dignità di un essere umano, e chiunque scrive su un giornale sa quanto sia diversa l’enfasi con cui si viene buttati in pasto ai lettori rispetto alla “riabilitazione” con articoli di impatto estremamente inferiore. Dopo la riforma Orlando, già restrittiva, sono uscite ad esempio intercettazioni penalmente irrilevanti del governatore Zaia che parlava del professor Crisanti: sinceramente, parlare di bavaglio mi sembra il tentativo di eludere il problema con uno slogan. Sono influenzato dall’esperienza americana, ma un appello dopo un’assoluzione mi sembra una persecuzione, e per quanto riguarda la separazione delle carriere credo sia il momento di adeguarsi a quanto avviene in gran parte dei paesi democratici del mondo. Gli esperti ci dicono che interrogare l’indagato prima che la misura di arresto venga emessa rischia di mandare in tilt molti tribunali, ma sono rimasto inorridito dal leggere che un dirigente di nome Silvio Scaglia, non interrogato, è stato tenuto agli arresti per quasi un anno e quindi assolto. La terzietà non è una forma di civiltà? Ci sarà certamente chi si avvantaggerà di tali riforme, ma tra una persona che commette un crimine che ha qualche agio in più per farla franca e un innocente che ha più garanzie scelgo il secondo: garantismo non deve significare in alcun modo impunità, ma la dignità di un cittadino è un valore superiore a ogni rischio. Ritengo che la nostra democrazia, in crisi da più di trenta anni, potrà ritrovare la propria strada solo quando verrà riequilibrato il bilanciamento tra potere legislativo e giudiziario, ed è una battaglia di civiltà sulla quale si mostra la capacità di superare le proprie ideologie determinando la propria statura. La giustizia (effimera) delle aule dei tribunali di Giuseppe Maria Berruti Il Messaggero, 4 luglio 2023 Da che ho memoria, assisto allo scontro tra pezzi della politica e della giustizia. Cambiano alcuni temi della controversia. Ma in genere la forza politica che costituisce la maggioranza é critica o addirittura ostile al mondo della giustizia. Quella che costituisce l’opposizione, è schierata a difendere l’esistente. Nel nostro sistema costituzionale i magistrati rispondono solo alla legge. Il che, in alcuni casi, si riduce nel fatto che non rispondono a nessuno. Giacché la legge comunque deve essere impersonata per poter funzionare. Tuttavia il dato formale è questo. I giudici rispondono alla legge, dunque non possono essere rimproverati per il merito della loro decisione, ma per il modo nel quale l’hanno presa. C’è poi la giustizia civile. Che è l’attuazione della legge nella convivenza degli interessi. Lo strumento giudiziario è quello della lite. Nella quale si controverte per interessi specifici, ai quali bisogna dare una veste giuridica. Insomma i litiganti sostengono una lettura della legge conforme al loro comportamento. Ciascuno di essi porta l’argomento che ritiene e, nei modi che la legge ha stabilito, debbono consentire al giudice di capire, e dire quale dei due comportamenti è effettivamente conforme a diritto. Tutto questo comporta tempi ritmati dalle esigenze tecniche di accertamento e di prova. Va da sé, che in un Paese nel quale il senso dello Stato é una mera espressione culturale, non ci si acquieta ai primi gradi. Si va fino in Cassazione. La giustizia perciò è assediata dalla domanda di giustizia. Il tema che tuttavia unifica nella considerazione politica generale la giustizia tutta intera, senza distinzione tra civile e penale, è dato dal fatto che la legge non chiede “per favore” a nessuno. Impone. Esercitando direttamente, o mettendo nelle mani del privato che ha vinto, la sua propria forza. Imponendo sacrifici, talvolta sofferenze. Questo dato è comune al funzionamento della giustizia intesa negli Stati di diritto. Vi sono diversi modo di intendere la nozione di Stato di diritto. Quella che connota la convivenza degli italiani, è caratterizzata, anzitutto, da una estesa forma di garanzia di fronte al pericolo dell’abuso del potere giudiziario. Proprio perché si è detto, la giustizia comporta la possibile coattività dei comportamenti. Né confligge con la naturale spinta alla libertà. Poi ci sono i magistrati. La magistratura non è un abito che si cuce sulla pelle per tutta la vita. Essa è legata ad uno stato di servizio. Cessato il quale non si è più magistrati. Tuttavia è chiarissimo che il mio modo di ragionare è fortemente influenzato dal fatto di essere stato magistrato. Allora che fare di fronte alla ricorrente banalizzazione dei problemi legati all’esercizio della giurisdizione? Io credo che si possa ragionare da parte di magistrati, avvocati, notai, professori di diritto (ai quali compete la funzione altissima di illuminare la strada dei pratici) tenendo a mente che non esistono principi che la legge non può cambiare. Che men che mai esistono principi immutabili nella giurisprudenza. La quale è un modo di governare la convivenza, che deve rispondere alle regole che la fondano. A quelle costituzionali ed a quelle che la cultura giuridica mette a punto. Non esiste la realtà di una giustizia perfetta, capace di non sbagliare. La giustizia porta il proprio percorso su un terreno che è culturale, benché ad essa non spetti di fare cultura, e fà la Storia benché ai giudici non competa la scelta storico politica. E se le giurisprudenze sbagliate si pagano care, quelle corrette durano fin quando il principio che le ha ispirate viene riconosciuto. Sempre prevarrà una tesi su un’altra. Riconoscere la caducità dei traguardi che si raggiungono può essere un utile esercizio di umiltà. Riecco la prescrizione, vero test di garantismo per i partiti di governo di Valentina Stella Il Dubbio, 4 luglio 2023 Oggi le ultime audizioni in commissione alla Camera, poi il testo base col ritorno alla “Orlando”: i giornali giustizialisti già parlano di porcata. Si concludono oggi in commissione Giustizia alla Camera le audizioni informali, in videoconferenza, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge Enrico Costa (Azione), Pietro Pittalis (Forza Italia) e Ciro Maschio (Fratelli d’Italia), su “Modifica al codice penale in materia di prescrizione del reato”. In particolare saranno ascoltati Luigi Salvato, procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Danilo Ceccarelli, vic capo della Procura europea (Eppo), Francesca Nanni, pg presso la Procura di Milano, Antonio Gialanella, avvocato generale presso la Corte d’appello di Napoli, Maurizio De Lucia, capo dei pm di Palermo. Sarà invece assente, seppur “invitato”, Giorgio Lattanzi, già presidente della Corte costituzionale e della Commissione Cartabia per la revisione del processo penale. Chiamato dal Pd, Lattanzi avrebbe declinato l’invito perché quello che aveva da dire lo aveva già espresso nella sua Relazione, proponendo due soluzioni: “Una prima (“ipotesi A”) che, prevedendo un meccanismo di sospensione nei giudizi di impugnazione, si muove nel solco delle riforme del 2017 e del 2019, come anche del cosiddetto lodo Conte; una seconda (“ipotesi B”) che, invece, implica una radicale, diversa, scelta di fondo: l’interruzione definitiva del corso della prescrizione con l’esercizio dell’azione penale e, da quel momento, la previsione di termini di fase - per ciascun grado del giudizio - il cui superamento comporta l’improcedibilità dell’azione penale”. La prossima settimana dovrebbe essere pronto un testo base e i relatori dovranno confrontarsi anche con il governo. Sono molte le incognite che accompagnano questa riforma. Da un lato bisognerà capire che intenzioni abbia il guardasigilli Carlo Nordio: a febbraio, in un videomessaggio inviato all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione Camere penali, il ministro aveva detto: “Modificheremo la legge sulla prescrizione che ha introdotto l’improcedibilità”. In linea teorica, via Arenula potrebbe chiedere di fermare i lavori parlamentari in attesa del ddl Nordio, anziché proseguite in modo da fare da apripista alla proposta governativa. Nella prima ipotesi si creerebbe, da quanto suggeriscono fonti parlamentari, un certo malcontento, per diversi motivi. Primo: come raccontato già, Nazario Pagano, deputato di Forza Italia e presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, pare stia subendo pressioni, da lui comunque smentite, per non mandare avanti il lavoro sulla separazione delle carriere, in attesa che sia il governo a decidere quando aprire ufficialmente il dossier, particolarmente inviso alla magistratura. Secondo: la commissione Giustizia della Camera aveva già svolto un ciclo di audizioni sull’abuso di ufficio, ma ora sembrerebbe confermato che il ddl Nordio, contenente, tra le varie proposte di modifica, l’abolizione dell’articolo 323 cp, partirà dal Senato, su richiesta della presidente della commissione Giusrtizia, e responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. Questi due scenari dovrebbero suggerire, secondo qualcuno, che i presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia - rispettivamente Pagano di Forza Italia e Maschio di Fratelli d’Italia, entrambi dunque della maggioranza - si imponessero sul governo affinché il lavoro svolto non vada sprecato. E che pertanto, in questo particolare caso, Maschio pretendesse di arrivare fino alla votazione del testo base per poi andare in Aula. Ma prima ancora forser c’è da porsi la seguente domanda: avrà la maggioranza la capacità di tenere duro rispetto agli attacchi che verranno soprattutto sul piano mediatico? Basti guardare l’articolo pubblicato sabato scorso dal Fatto Quotidiano dal titolo “Prescrizione: la nuova porcata di Nordio”. Questo sarà davvero il primo banco di prova del garantismo sul piano processuale della maggioranza, che può contare anche sull’appoggio del Terzo polo. Al ripristino della prescrizione sostanziale, Fratelli d’Italia crede molto. Il sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove ha detto più volte che “bisogna intervenire sulla prescrizione: siamo l’unico Paese al mondo che ha una prescrizione sostanziale che si interrompe dopo il primo grado di giudizio e una prescrizione processuale che scatta dall’appello. Dopo l’infausta parentesi bonafediana sarà necessario ripristinare la prescrizione come diritto sostanziale a tutela del cittadino”. Aggiungendo, in particolare in un’intervista al Dubbio: “Non posso creare un universo concentrazionario di imputati a vita”. La Lega ancora studia le proposte ma, dopo il pentimento per aver detto sì alla spazzacorrotti insieme al M5S, non dovrebbe mostrare tentennamenti nell’allinearsi con gli alleati di governo, a maggior ragione per aver votato, a dicembre, favorevolmente ad un odg presentato da Costa che chiedeva di ripristinare la “disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio”. Data per sicura la strenua opposizione dei pentastellati, che non vorranno vedere cancellare la riforma del loro ex ministro Alfonso Bonafede, resta l’incognita del Partito democratico. Chiamando in audizione i professori GianLuigi Gatta (“abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del Pnrr, sarebbe un suicidio”, ha detto ai deputati) e Mitja Gialuz, la linea dei dem dovrebbe essere quella di mantenere lo status quo. Come detto al Dubbio qualche tempo fa dal senatore Walter Verini, “la riforma del penale è stata un punto di sintesi certamente migliorabile, ma il tema, adesso, non è quello di demolire queste riforme, ma di applicarle. Una volta applicate e sperimentate, governo e Parlamento dovranno e potranno decidere ' tagliandi' e cambiamenti che si rendessero necessari”, aveva sottolineato. Se sembra paradossale che il Pd non voglia ripristinare una legge che porta il nome di un loro esponente di spicco, bisogna in verità capire cosa voglia fare proprio Andrea Orlando che, sempre fonti parlamentari, dicono desideri aprire un dialogo, di cui non si conoscono però ancora i termini. Insomma, la matassa è abbastanza ingarbugliata, e i prossimi giorni saranno decisivi per verificare soprattutto la forza della maggioranza. L'odissea della giustizia infinita: in 8 anni nemmeno un'udienza di Francesco Specchia Libero, 4 luglio 2023 Non c’è nulla più della giustizia italiana che determini il concetto proustiano di dilatazione del tempo e di ambizione all’eternità. In Italia servono circa 400 giorni per concludere il primo grado di un processo civile, quasi mille giorni per il secondo grado e circa millecinquecento per il terzo. E c’è un giudice non a Berlino, ma a Roma, il dottore Mario Tanferna della Seconda Sezione Civile del Tribunale Ordinario, che pare intendere questo tripudio di ritardi come una cifra stilistica. Accade che un signore (che intende restare anonimo per ovvi motivi, dato la pochade giudiziaria ancora in corso) sia in ballo con una causa iscritta a ruolo nel 2015 del valore di 5 milioni di euro contro il Cotral, Compagnia Trasporti Laziali, un ente pubblico. Da allora, per la tempistica del procedimento giudiziario, è entrato in scena Proust, a braccetto con Ionesco. Scrive nella pubblica, disperata istanza indirizzata al Tribunale Civile di Roma ai sensi dell’art 174 codice procedura penale, l’avvocato del disperato anonimo, Eugenio Tamborlini: “Nel giudizio con n.r.g. 63280/2015, assegnato al dottor Tanferna, la fase istruttoria si è conclusa all’udienza del 22 marzo 2018. “per ferie”. Da quella data, si sono susseguiti ben sette rinvii d’ufficio, che si allegano, sempre per la precisazione delle conclusioni e con le motivazioni più disparate: “per ferie del Magistrato”, “per ragioni di carico del ruolo”, “per esigenze di organizzazione”. Sette rinvii in quasi nove anni non si sono mai visti. Continua il legale: “L’ultimo rinvio ha fissato l’udienza al 16 novembre 2023. Quindi, ben cinque anni e 8 mesi di rinvii per la precisazione delle conclusioni, dopo tre anni di fase istruttoria consistita peraltro nel solo scambio delle memorie previste dall’art. 183 c.p.c.: otto anni e mezzo di causa senza prove orali o consulenza tecnica d’ufficio, con ancora le conclusioni da precisare e le memorie conclusionali da depositare”. Un’inerzia assoluta, quasi artistica. Tra l’altro, riguarda una sezione del Tribunale, la 2°, d’estrema importanza perché tratta le cause in cui la Pubblica amministrazione agisce da privato. “A quanto consta, vi sono oltre 200 giudizi da tempo assegnati al giudice Tanferna e per i quali non è ancora stata fissata l’udienza di prima comparizione. Dai provvedimenti di rinvio d’ufficio allegati, è inoltre agevole constatare la pendenza di ulteriori giudizi assegnati al medesimo Giudice anch’essi interessati da continui rinvii d’ufficio, la cui iscrizione a ruolo risale ormai a diversi anni fa (2015, 2016, 2017, 2018)”, prosegue nell’istanza l’avvocato. Il quale ha richiesto la sostituzione del giudice resosi in pratica irreperibile dal 2018. Qui o si tratta di pigrizia letteraria, alla Oblomov. Qualcuno avanza il sospetto che il dottor Tanferna sia deceduto tra gli archivi, o rapito da un’entità aliena resasi tanto abile da non lasciare tracce nel porto delle nebbie delle aule romane. Ma l’avvocato Tamborlini, per evitare che l’azienda del cliente fallisca, si è intignato nel richiedere la sostituzione di un “altro giudice della medesima sezione”. Prima si è rivolto ai presidenti delle singole sezioni, che l’hanno rimbalzato al Presidente stesso del Tribunale; il quale, pur avvolto nella contrizione, ha respinto la richiesta di cambio del magistrato. Probabilmente - credo - riferendosi a un precedente delle Sezioni Unite della Cassazione - sentenza 27/01/2014 n° 1516- in cui si assolvevano dei magistrati cui era stato addebitato di avere dilazionato “la decisione di numerose cause mediante rinvii a distanza anche di 4/7 anni, benché sarebbe stata possibile la definizione in termini più brevi in relazione ai carichi di lavoro. E questo mentre altri magistrati avevano invece deciso oltre cento cause per anno negli anni immediatamente successivi al 2010”. E, oltre a manciate di sentenze europee sull’ingiusta durata dei processi, assistiamo in questi casi a una spudorata violazione della legge Pinto 2018 legge Pinto, tra l’altro resa di fatto inapplicabile perché si dovrebbero allegare tutti gli atti del giudizio in marca da bollo; e la spesa sarebbe milionaria. Ma tant’è. Evidentemente alcuni giudici lavorano, altri macinano inefficienza e pigrizia leggendarie. Leggendarie, ma non sanzionabili. Ma anche se per una grazia del Fato il nostro disperato anonimo dovesse vincer la causa sorgerebbe un altro problema. “Gli interessi legali sono ridicoli, ma gli interessi legati allo spread nelle cause fra aziende molto alti, chiosa Tamborlini. “Provi a calcolare il danno erariale causato dagli interessi moratori al 7-8% per 8 annidi causa su 5 milioni...”. Tra conclusionali, repliche, controrepliche, sentenze perdute, l’idea di una giustizia in mani di giudici proustiani, rende il ministro Nordio con la sua idea di rivoluzione, quasi un eroe. Nello Rossi: “Troppe falle nella legge Cartabia. Revisione inevitabile” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 luglio 2023 L'ex magistrato e direttore di "Questione Giustizia" al Dubbio: “L'addizione tra la prescrizione sostanziale in primo grado e la prescrizione processuale nei giudizi d'impugnazione può generare effetti paradossali”. La prescrizione torna centrale nel dibattito politico. Ne parliamo con l’ex magistrato e direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi. Si torna a parlare di prescrizione. Secondo lei è necessario o un mutamento andrebbe a stressare il sistema? Fabbrica di San Pietro? Tela di Penelope? Fatica di Sisifo? Per descrivere la vicenda legislativa della prescrizione si deve ormai ricorrere alle metafore “stanche” che designano l’eterno lavorio, il rifacimento dell’appena fatto, la riscrittura del già deciso. In una materia come quella della prescrizione, che avrebbe bisogno della massima certezza e stabilità, si sono succedute dal 2017 al 2021 ben tre riforme - la Orlando, la Bonafede e la Cartabia - terremotando il sistema. È perciò comprensibile e fortissima la tentazione di dire “fermiamoci e valutiamo gli effetti dell’ultima legge, la n. 134 del 2021, prima di mettere di nuovo mano alla normativa sulla prescrizione”. Temo però che questa scelta, di apparente buon senso, non sia la migliore possibile. Perché dice questo? Perché ritengo che siano troppe, e troppo vistose, le falle del faticoso compromesso raggiunto nella legge Cartabia che ha mantenuto in primo grado la prescrizione sostanziale mentre ha introdotto l’improcedibilità dell’azione per superamento dei termini di durata massima dei processi di appello e Cassazione previsti nell’articolo 344 bis del codice di rito. È una soluzione che produrrà disuguaglianze, contraddizioni e irragionevoli disparità di trattamento tra i cittadini sottoposti a processo, dando molto lavoro alla Corte costituzionale. Può chiarire meglio le ragioni del suo pessimismo? Vi saranno processi rapidamente definiti in primo grado che potranno estinguersi per il mancato rispetto dei termini per la celebrazione dei giudizi di impugnazione (in particolare di appello) quando sarà ancora lontano il termine della prescrizione sostanziale. Così come vi saranno processi che si concludono in primo grado a ridosso della scadenza del termine di prescrizione sostanziale e che verranno prolungati, oltre il termine dell’oblio sociale da questa regolato, a causa dell’entrata in funzione degli ulteriori termini procedurali previsti per i giudizi di appello e di Cassazione, assistiti dalla sanzione dell’improcedibilità. In sostanza l’addizione di “prescrizione sostanziale” in primo grado e “prescrizione processuale” nei giudizi di impugnazione può dar vita ad effetti iniqui e paradossali. Per non parlare dei dubbi di costituzionalità del farraginoso regime delle proroghe della improcedibilità e dell’inedito potere attribuito al giudice di prolungare la durata dei giudizi di impugnazione più complessi. Un potere, questo, foriero di incertezze sui tempi dei processi e, in determinati contesti sociali, anche di gravi rischi per i magistrati. Allo studio della Camera ci sono tre proposte di legge. Quelle di Costa e Maschio prevedono di lasciar correre i due orologi: quello della prescrizione e quello dell'improcedibilità. Che ne pensa? Si è di fronte a proposte interessanti anche perché provengono da deputati di forze politiche diverse e potrebbero stimolare una soluzione condivisa, e perciò durevole, in tema di prescrizione. Positive nella parte in cui propongono di far rivivere la riforma Orlando, queste proposte divengono però contraddittorie quando non contemplano l’abrogazione dell’articolo 344 bis del codice di rito e prefigurano la “coesistenza” tra il meccanismo della riforma Orlando (temporanea sospensione della prescrizione nei giudizi di impugnazione) e il congegno estintivo dell’improcedibilità dell’azione introdotto dalla riforma Cartabia. Pare di capire che tra i due orologi finirebbe con il prevalere quello che segna per primo la fine del processo. Ma è un ibrido insostenibile tanto per le “ulteriori” contraddizioni di natura sistematica che introdurrebbe nella disciplina della prescrizione quanto per gli effetti, imprevedibili, che la descritta “coabitazione” produrrebbe a contatto con la multiforme realtà dei giudizi e delle loro vicende temporali. Nel regime della prescrizione c’è bisogno di soluzioni semplici e lineari e non di nuove complicazioni. La proposta Pittalis invece propone di tornare al regime anteriore a quello “Orlando” con l'abrogazione dell'improcedibilità. Che valutazione dà? La relazione alla proposta di legge Pittalis mi sembra molto avvertita sul piano teorico e, tra l’altro, rievoca lucidamente le ragioni, del tutto contingenti, che nel 2021 hanno costretto ad affiancare alla “prescrizione sostanziale” la novità assoluta dell’improcedibilità dell’azione operante nei giudizi di impugnazione: l’ostinata volontà dell’allora partito di maggioranza relativa di proteggere “almeno sul piano linguistico la cosiddetta riforma Bonafede, opponendosi a qualsiasi istituto che contenesse la parola prescrizione”. Ma la proposta Pittalis non sembra farsi carico di un problema reale: garantire lo spazio temporale per l’effettivo svolgimento dei giudizi di impugnazione, responsabilizzando fortemente i giudici delle impugnazioni e stimolando la celerità di tali giudizi. Secondo lei quale sarebbe la migliore via da percorrere consapevoli comunque che sia la maggioranza che il Terzo polo che lo stesso ministro Nordio sono decisi a cambiare l'attuale sistema? Dopo che tante intelligenze si sono a lungo esercitate nella ricerca di un adeguato regime della prescrizione nessuno - e tanto meno io - può pretendere di avere in tasca la soluzione migliore, perfettamente risolutiva di così annosi contrasti. È preferibile perciò orientarsi verso la scelta che ha le maggiori chance di essere ampiamente condivisa e che presenta le minori controindicazioni. E quale sarebbe? Le rispondo con due considerazioni ispirate al più assoluto pragmatismo. Da un lato le proposte di legge Costa e Maschio hanno come opzione principale il ritorno alla disciplina della prescrizione contenuta nella legge Orlando (e, in vista del raggiungimento di questo obiettivo centrale, i proponenti potrebbero rinunciare a mantenere in vita l’istituto della improcedibilità dell’azione). Dall’altro lato il Partito democratico non dovrebbe avere difficoltà a convergere su di una normativa, in sé ragionevole, che reca la firma di un suo autorevole esponente. La via più lineare ed agevole sembrerebbe dunque quella di rimettere indietro le lancette dell’orologio al 2017 ed alla riforma Orlando - la legge numero 103 del 2017 puntando ad ottenere un consenso più ampio dell’attuale maggioranza. Una strada praticabile anche perché la cosiddetta prescrizione processuale è lungi dall’essere entrata nella fase dell’applicazione sistematica e generalizzata. Raggiungere oggi una scelta largamente condivisa consentirebbe, tra l’altro, di imporre una lunga moratoria a nuovi esperimenti “riformatori” e favorirebbe il recupero della stabilità e della certezza smarrite da tempo. E ciò in sintonia con la fondamentale aspirazione di chi opera ogni giorno sul campo: che la normativa in tema di prescrizione cessi di essere terreno di scontri pregiudiziali delle forze politiche e recuperi la sua razionalità. Caso Cospito, l’archiviazione di Delmastro può attendere di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 luglio 2023 È appeso alle riserve del Gup di Roma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio. La vicenda è quella della (triste) polemica parlamentare nata quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli lesse in aula passaggi riservati di conversazioni avvenute tra detenuti al 41bis con l’obiettivo di attaccare la delegazione del Pd che si era recata al carcere di Sassari per incontrare, tra gli altri, l’anarchico Alfredo Cospito, che in quel periodo era in sciopero della fame. Quei passaggi riservati Donzelli li aveva ricevuti dal suo coinquilino, cioè Delmastro. La procura di Roma ha chiesto per lui l’archiviazione, pur riconoscendo “l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo”, dunque la richiesta sarebbe esclusivamente “fondata sull’assenza dell’elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extra penale”. Ieri mattina, in tribunale, il Gup ha ascoltato sia la procura sia l’avvocato di Donzelli, Giuseppe Valentino. E al termine dell’udienza si è riservato di decidere se archiviare o meno la posizione del sottosegretario. Il pronunciamento è atteso per i prossimi giorni. Venezia. Lanciò dei petardi contro le forze dell’ordine: arrestato, muore per un infarto di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 4 luglio 2023 Stava per presentarsi davanti al giudice. È il terzo decesso in carcere nell’ultimo mese. Doveva comparire davanti al giudice ieri mattina per l’udienza di convalida dell’arresto, ma in tribunale a Venezia, Alexandre Santos De Freitas, non è mai arrivato. Origini brasiliane, 52 anni di Montebelluna (in provincia di Treviso), Santos è l’uomo che i carabinieri di Tessera hanno arrestato sabato pomeriggio all’aeroporto “Marco Polo” di Venezia: aveva lanciato dei petardi con chiodi contro poliziotti e militari “opponendosi con resistenza e violenza” alle forze di polizia. Ieri alle 9.20, durante il trasferimento dal carcere di Santa Maria Maggiore al tribunale, Santos si è sentito male. Ha iniziato ad avvertire dei dolori addominali. “Ho mal di pancia” le sue parole, prima di accasciarsi. I poliziotti sono intervenuti con le prime manovre di soccorso, tentando la rianimazione con un defibrillatore, in attesa dell’intervento degli operatori del Suem. Ma quando i medici del 118 sono arrivati, non hanno potuto fare nulla per salvarlo. Un malore, probabilmente un infarto, la causa della morte. Il sostituto procuratore di Venezia che seguiva il caso, Antonia Sartori, si è recata di persona al penitenziario appena informata dell’accaduto, mentre in tribunale la moglie di Santos - arrivata per l’udienza - è stata messa al corrente del malore mortale del consorte. Sabato, allo scalo di Tessera, tutto era iniziato con una macchina che creava intralcio alla viabilità, e per questo la polizia di frontiera si era messa alla ricerca del proprietario. Nella zona “arrivi”, gli agenti si erano imbattuti proprio in Alexandre Santos che, vedendo avvicinarsi gli agenti, gli si era scagliato contro di loro. Bloccato e arrestato dai carabinieri di Tessera, il brasiliano aveva lanciato contro le forze di polizia dei petardi modificati in modo da inserirvi dei chiodi. Dopo l’identificazione, il 52enne era stato trasferito al penitenziario, dove ha trascorso il weekend in cella in attesa di comparire davanti al giudice, che non ha fatto in tempo a incontrare. Per il carcere di Venezia, la scomparsa di Santos è la terza morte in un mese. Le due precedenti sono completamente diverse perché entrambi i detenuti si sono tolti la vita. Il 6 giugno il tunisino 39enne Bassem Degachi non ha retto alla notizia che, per una misura cautelare arrivata a seguito di reati commessi cinque anni prima, avrebbe perso la semilibertà di cui godeva da un anno. Degachi, dopo alcune chiamate alla moglie Silvia, si è tolto la vita e ora per fare luce su cosa sia accaduto nell’arco temporale trascorso da quando la donna ha dato l’allarme fino al ritrovamento del corpo, un’ora circa, la procura ha aperto un’inchiesta. Il 22 giugno, invece, gli agenti della penitenziaria avevano trovato morto in cella Alexandru Ianosi, 36enne di origini rumene che il 23 settembre 2022 aveva ucciso con più di ottanta coltellate la moglie Lilia Patranjel nella loro casa a Spinea. È stato invece un infarto, in base alle prime ipotesi, a portarsi via ieri Alexandre Santos De Freitas, ex titolare di un piccolo negozio di alimentari a Montebelluna, il “Tropical” di via XXIV Maggio. Negli ultimi anni il brasiliano aveva avuto delle difficoltà di cui i servizi sociali sembra fossero al corrente. Mai violento, aveva manifestato degli episodi di fragilità psicologica. “ Generoso e buono” - così lo ricordano alcuni amici - ultimamente aveva dato in gestione il negozio e si era trasferito nel Veneziano. Sabato, a causa di quei petardi lanciati, ha destato un grosso allarme. I militari, oltre a perquisire la macchina hanno continuato i controlli nella sua abitazione trovando altri botti: una quindicina di petardi, sempre preparati con dei chiodi. Riguardo alla sua improvvisa scomparsa è possibile che vengano disposti approfondimenti. Novara. Detenuto tenta il suicidio in cella con i lacci delle scarpe. È gravissimo di Carlotta Rocci La Repubblica, 4 luglio 2023 Ha tentato di impiccarsi in cella, all’interno del carcere di massima sicurezza di Novara. Il fatto è accaduto ieri pomeriggio. “Il detenuto è in ospedale”, confermano dal penitenziario. Sulla dinamica dei fatti, però, sono in corso accertamenti per chiarire la cosa sia accaduto. Secondo quanto appreso fino ad ora il detenuto, 29 anni, italiano, ha usato i lacci delle scarpe per fabbricare un cappio he ha legato nel bagno della cella. Avrebbe finito di scontare la pena nel febbraio del prossimo anno. L’intervento della polizia penitenziaria ha impedito all’uomo di portare a termine il suo gesto. “Gli agenti hanno iniziato subito le manovre di rianimazione - spiegano dall’Osapp - l’episodio sottolinea ancora una volta la carenza di personale”. I sanitari del 118 che hanno soccorso il detenuto hanno valutato gravi le sue condizioni e lo hanno trasportato in ospedale con un codice rosso, di massima urgenza. Il ragazzo è stato intubato e trasportato all’ospedale di Novara. Il tentativo di suicidio è il secondo in pochi giorni in Piemonte. Il 29 giugno una donna si è tolta la vita nel carcere di Torino impiccandosi alle sbarre della sua cella a pochi mesi dalla scarcerazione. Avrebbe lasciato la sezione femminile del Lorusso e Cutugno ad agosto. La donna, infatti, aveva quasi finito di scontare la sua pena per aver tentato di strangolare il compagno nell’agosto del 2019. Al suo avvocato Mattia Fiò la donna aveva confidato i suoi timori all’idea di lasciare il penitenziario, la paura del fuori e di incontrare un nuovo fallimento sulla sua strada. Modena. L'8 marzo 2020 era domenica di Daria Bignardi vanityfair.it, 4 luglio 2023 La Procura di Modena ha chiesto l'archiviazione per la seconda inchiesta sulla rivolta nel carcere di Sant'Anna durante il lockdown che causò nove morti. Ma l'avvocato della famiglia di due delle vittime ha detto che si opporrà. In tutte le galere si sta male, ma in certe si sta peggio. E quando in un carcere stanno male i carcerati stanno male anche le guardie”, mi ha detto una volta Pino, uno che ne ha girate parecchie. Nel carcere Sant’Anna di Modena si doveva stare molto male, l’8 marzo del 2020. Fu una giornata difficile per tutti: il primo decreto sul lockdown è del giorno dopo, il clima ce lo ricordiamo. Nelle prigioni fu una giornata folle: molta paura, nessuna informazione, disperazione per i colloqui e i pacchi vietati e i primi contagi. La sensazione era quella dei topi in trappola. Non erano topi, si ribellarono un po’ dovunque. Ma a Modena ci fu una strage: dei 13 morti per le rivolte di quella domenica, nove erano detenuti lì, quattro sono deceduti subito, cinque durante o dopo il trasferimento in altre carceri. Tutti stranieri tranne uno, erano dentro per piccole condanne: sarebbero usciti presto. Alcuni avrebbero già potuto stare agli arresti domiciliari, ma un domicilio non ce l’avevano, il loro domicilio era il carcere. Così le loro brevi pene si sono mutate in ergastoli, “carceri a vita”, come si dice per dire “carceri a morte”. Significa questo: che le galere sono discariche per l’umanità più povera, malata e disgraziata che ci sia. Due anni fa è stata archiviata la prima inchiesta sui decessi, attribuiti a overdosi di metadone espugnato nel parapiglia. Della seconda, a carico di 120 poliziotti penitenziari, basata su denunce di detenuti che hanno - piuttosto coraggiosamente - raccontato di violenze durante gli sfollamenti, è stata chiesta giovedì scorso l’archiviazione da parte della Procura di Modena. L’ho saputo da un post di Alice Miglioli del Comitato Verità e Giustizia per i morti di Modena: “Siamo distrutti, non ce lo aspettavamo”. I quotidiani nazionali hanno relegato la cosa alle cronache locali. Luca Sebastiani - che nel processo archiviato, per il quale ha scritto un ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’uomo insieme al professor Valerio Onida, è l’avvocato della famiglia di due dei ragazzi morti, e nell’ultimo procedimento assiste due detenuti che hanno denunciato torture - ha annunciato che si opporrà alla richiesta di archiviazione. Napoli. Il capo del Dap incontra la delegazione dei garanti dei detenuti di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 4 luglio 2023 Un incontro importante in vista dell'assemblea nazionale che si terra a Napoli il 13 e 14 luglio. Giovanni Russo campano, originario di Marigliano in provincia di Napoli, a capo del Dap dallo scorso gennaio ha incontrato la delegazione dei garanti dei detenuti composta dal portavoce e garante del Lazio Stefano Anastasìa, dai garanti della Campania Samuele Ciambriello, di Roma Capitale Valentina Calderone e di San Gimignano Sofia Ciuffoletti. Sono stati discussi, si legge in una nota dei garanti, i temi più pressanti relativi alla tutela dei diritti e alla condizione di vita all'interno del sistema penitenziario. "L'occasione è stato un primo importante momento di confronto per l'individuazione dei temi più pressanti e urgenti che saranno approfonditi in successive interlocuzioni con il Dipartimento", viene sottolineato. Giovanni Russo originario di Marigliano, Napoli, in magistratura dal 1985, ha iniziato la sua carriera come pretore di Castrovillari, Cosenza, per poi essere nominato sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Dopo esperienze nella sezione dei reati finanziari, il neo designato alla guida del Dap ha lavorato a diverse indagini nella Dda partenopea. Studioso, esperto di informatica, Russo è stato anche consulente della commissione parlamentare antimafia. Magistrato di cassazione, nel 2009 approda come sostituto alla Procura nazionale antimafia dove, dal 2016, assume l’incarico di procuratore aggiunto e quindi reggente pro-tempore. Napoli. “Noi, laureati in carcere, e la vita ritrovata” di Laura Aldorisio Corriere del Mezzogiorno, 4 luglio 2023 Secondigliano, il polo universitario penitenziario Federico II e altri 40 in Italia. “La vittoria c'è già: parlare di esami e di studi, non più solo di condanne, processi e permessi”. Con la sua tesi, dal titolo “Perilla Frutescens: il basilico cinese”, si è laureato nel carcere di Secondigliano dove sta scontando la sua pena. Tutto iniziò per caso: “Volevo chiedere il trasferimento a Rebibbia. Poi ho incontrato la professoressa Marella Santangelo e ho cambiato idea”. Lei è la delegata del polo universitario penitenziario Federico II di Napoli, nato nel 2017 per rispondere a quel diritto allo studio che ovunque ha cittadinanza. Coinvolta per la sua professione d'architetto e la sua attenzione agli spazi della quotidianità in carcere. Da allora i poli in Italia sono cresciuti, da 24 a 41, assieme alla consapevolezza che l'offerta dei percorsi di laurea debba essere ampia. “Da giovane - racconta lui ora - ero iscritto a Giurisprudenza, poi ho abbandonato. Ora, a 58 anni, ci sono riuscito”. Si è laureato in Scienze erboristiche, così come un altro detenuto, più giovane, che ha un desiderio chiaro: produrre olio biologico. Arrestato a 26 anni, ne ha già trascorsi dieci in carcere. “Ho scelto di laurearmi perché credo che il tempo passato qui sia buttato via. So di aver passato qui gli anni migliori. Ma studiare mi fa vedere le cose in modo diverso, è bello chiudere la giornata sapendo di aver imparato qualcosa di nuovo, una nuova direzione”. Il primo racconta una fatica maggiore nel guardare al futuro: “Io ho un prima e un dopo e per me il dopo è piccolissimo”. Restano i dubbi sulla vita fuori, ma anche la certezza di aver guadagnato “la voglia di impegnare il tempo”. Ora li aspetta il test per la magistrale di Scienze della nutrizione umana a settembre. Al momento sono 96 gli studenti e dieci i percorsi attivi che hanno tutte le terminazioni necessarie, come il tirocinio formativo che i due laureati dell'Alta sicurezza di Secondigliano hanno svolto nella farmacia del carcere. “Devo dire - ammette la Santangelo - che è commovente vederli così impegnati, io stessa mi scopro cambiata nel mondo di lavorare e tutti si sono sentiti parte di una novità”. Il momento della laurea davanti al rettore della Federico II, Matteo Lorito, è stato condiviso anche con i familiari dei detenuti. Momento di bilanci, per il più vecchio: “Avessi studiato prima...”. Ma anche di speranze, per il più giovane: “Fra dieci anni mi auguro di essere con mio figlio e di poter dire a me stesso: hai visto che qualcosa sei riuscito a fare?”. Como. Dal carcere alla vita: ripartire si può di Katia Trinca Colonel Provincia di Como, 4 luglio 2023 La storia Angelo, una lunga esperienza di detenzione: poi la libertà ritrovata, anche grazie al lavoro dei volontari. Tra gli istituti in cui è stato detenuto, c’è anche quello di Como. Oggi Angelo svolge tanta attività di volontariato. Dare fantasia ai pensieri e alle realtà più nascoste. Vedere uno spiraglio di luce in una giornata grigia parlando di cose diverse dal tuo reato. Angelo ha alle spalle lunghi anni di carcerazione ed è riuscito a cambiare vita. Lavora stabilmente, ha una compagna, senti dalla sua voce la gioia di poter vivere la libertà, la serenità nel raccontare il suo passato di carcerazione. Tra i molti istituti di pena in cui Angelo è stato detenuto c’è anche la Casa Circondariale di Como, dove ha frequentato corsi di scrittura creativa e di matematica e un laboratorio di lettura di libri classici. Il laboratorio di scrittura in carcere - “Ricordo che i primi anni della mia carcerazione ero disinteressato a tutto, vedevo tutte le attività che ci proponevano come cose superflue, che non mi avrebbero mai dato nulla, vivevo dentro “giornate fotocopia”, una dopo l’altra tutte uguali, ma non potevo continuare a starmene in cella a costruire velieri con gli stuzzicadenti, così ho preso l’attestato di terza media, ho frequentato un corso di informatica e il primo anno di geometra. Non vedevo queste attività come una possibilità per uscire prima, ma come occasioni preziose per accrescere il mio bagaglio di competenze, il mio sapere”. Campobasso. “Liberi di leggere”: le pagine di Novecento nel teatro del carcere molisenetwork.net, 4 luglio 2023 La lettura teatrale del testo di Alessandro Baricco conclude il Laboratorio di lettura condotto da Brunella Santoli che si svolge in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale del capoluogo. La lettura del testo di Alessandro Baricco chiude questa prima parte di un lungo percorso iniziato a gennaio scorso e che ha offerto spunti di riflessione e momenti di confronto in un luogo in cui la lettura rappresenta un’ancora di libertà e di contatto con il mondo esterno. L’appuntamento fa parte di Liberi di Leggere, e rientra nella programmazione di “Ti racconto un libro 2023”, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione promosso e realizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso. Nel corso degli incontri, i detenuti hanno letto e commentato le pagine del romanzo, confrontandosi su temi importanti come quelli dell’immigrazione, ma hanno anche avuto l’opportunità di ascoltare la musica di grandi jazzisti, che hanno un ruolo centrale nella narrazione, e che faranno da colonna sonora alla lettura. Nel corso degli anni, Liberi di leggere ha ospitato alcune delle personalità più prestigiose della narrativa italiana, tra cui Pino Roveredo, Ivan Cotroneo, Antonio Pascale, Eugenio Allegri e Francesco Viviano, dando vita ad una formula innovativa di lettura basata sul confronto e la discussione e che ha di fatto creato le basi per il Laboratorio di lettura, un’esperienza realmente condivisa e che ha riscosso una straordinaria partecipazione. Un luogo in cui la lettura rappresenta un ritaglio di libertà e un modo per mantenere viva l’intelligenza e per elaborare un nuovo senso della vita. L’appuntamento è mercoledì 5 luglio, alle ore 16 nel teatro della sala circondariale di Campobasso. Il lascito di Alexander Langer: bandire ogni forma di violenza di Mao Valpiana* Il Manifesto, 4 luglio 2023 A ventotto anni dalle sue dimissioni estreme e definitive, sentiamo ancora intatta la nostalgia ma anche il vuoto della sua assenza. Non c’è incontro, riunione, convegno, assemblea di movimento dove Alex non venga in qualche modo ricordato, citato, rimpianto. Ci manca, ma lo sentiamo anche fortemente vicino, compresente. Alla domanda ricorrente “perché?” non ci può essere risposta, ma ognuno di noi un senso a quella morte lo vuole dare: forse a schiacciarlo è stato il troppo amore, la troppa compassione, il farsi carico senza limite dei pesi altrui. Come il suo amato San Cristoforo, Alex aveva preso sulle spalle un bambino, un progetto, per portarlo all’altra riva, ma ancor prima della fine della traversata si è accorto che aveva accettato un compito troppo gravoso, doveva mettercela tutta, ci voleva uno sforzo enorme, per arrivare di là. Non ce l’ha fatta, Alex, a concludere la traversata del fiume, stanco e oberato ha religiosamente accettato il suo calvario; ma la preziosa eredità di idee ed azioni che ha lasciato, ora la ritroviamo sparsa ovunque, dall’Enciclica di Papa Francesco “Laudato si’” fino alla Campagna nonviolenta di “Obiezione alla guerra”. La figura di Langer piace molto ai giovani di oggi. Lo sentono attuale, vero, coerente. Offre loro un’idea di politica così diversa e bella rispetto alla decadenza e alle miserie cui assistono nel quotidiano circo trasmesso dai media. Le sue parole hanno la forza della verità. Lo stile di Alex sta nel legame tra mezzi e fini come etica politica. Nel Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, scrive (e sembra davvero rivolto a noi oggi): “Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che - se tollerato - rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza”. Il “convinto e convincente no alla violenza” è per me una definizione essenziale della nonviolenza. Non ha bisogno di specificare “senza se e senza ma”, o “con tanti se e tanti ma”, o di fare distinguo tra violenza dell’aggressore e violenza dell’aggredito. “No alla violenza”, e tutti capiscono cosa significhi. È un no chiaro e deciso, ma deve essere anche “convinto e convincente”. Convinto. Chi rifiuta la violenza deve aver fatto un percorso interiore, deve esserne intimamente persuaso direbbe Capitini, deve rifiutare innanzitutto la propria violenza, quella che viene da dentro di sé, prima di poter ripudiare quella esterna, degli altri. Convincente. Il rifiuto della violenza non può essere uno slogan, una bandiera, un precetto. Diventa un messaggio positivo se chi lo riceve ne vede l’utilità, ne sperimenta l’efficacia, se modifica in meglio la realtà. Se si è convinti si riesce ad essere convincenti. Si è convincenti se si è davvero convinti. La nonviolenza, diceva Gandhi, fa bene a chi la fa e a chi la riceve. Alex era un convinto della nonviolenza, nella parola e nell’azione, e perciò ancor oggi la sua testimonianza è convincente. Qualcuno ha tentato di strumentalizzare il suo lascito nella Bosnia di ieri, per giustificare proprie scelte di campo nell’Ucraina di oggi. Ma “l’uso della forza”, invocato da Langer per fermare i carnefici, non può essere confuso con la partecipazione alla guerra, così come la sua richiesta di “intervento della polizia internazionale” per il ripristino del diritto dei popoli, non può essere spacciata come favorevole all’invio di armi nel teatro bellico. Lasciamolo in pace, senza tirarlo in ballo per fargli dire da che parte sarebbe stato oggi. I suoi insegnamenti sono scritti: dalla parte delle vittime, delle minoranze, della convivenza, della pace con la natura e fra gli umani, degli obiettori di coscienza a tutte le guerre. A noi tocca di continuare in ciò che era giusto. Solo così lo si rispetta. *Presidente del Movimento Nonviolento Generazione della rinuncia, sfiducia e parole non dette di Mauro Magatti Corriere della Sera, 4 luglio 2023 In Francia il disagio si è reso evidente in forma distruttiva. In Italia, con 2 milioni di under 30 che non studiano né lavorano, è meno eclatante, non meno preoccupante. Cosa succede se le nuove generazioni perdono la fiducia nel futuro e nella possibilità di cambiare il mondo? Se il loro desiderio si spegne? In Francia, l’uccisione da parte della polizia del diciassettenne Nahel è stata la miccia che ha acceso la rabbia latente di tanti ragazzi. Combinandosi con il senso di discriminazione razziale e la forte contrarietà già presente verso il decisionismo di Macron, il disagio generazionale si è reso evidente in una forma distruttiva. In Italia (con un tasso di abbandono scolastico del 13% tra i più alti d’Europa e un esercito di 2 milioni di under 30 che non studiano né lavorano), il disagio diffuso delle nuove generazioni si manifesta in una forma meno eclatante, ma non per questo meno preoccupante. Psicologi e servizi sociali segnalano l’aumento di forme gravi di ritiro sociale, e più in generale di uno stato ansiogeno che diventa un vero fattore di blocco per tanti ragazzi. Le dipendenze sono diffuse (alcool, droghe, videogiochi, azzardo), gli episodi di violenza di gruppo ripetuti, le relazioni affettive fragili e ritardate, il lavoro tenuto a distanza. I turni, lo stress, la fatica fisica: le imprese si stanno accorgendo quanto sia complicato trattare con i più giovani che, anche di fronte a una proposta di lavoro, valutano solo i “contro” (che in moltissimi casi superano i “pro”, questo va detto) e declinano. Relegata in una condizione di instabilità cronica, da cui peraltro non ha fretta di uscire, buona parte della coorte giovanile contemporanea si dispone lungo uno spettro che va dal disagio acclarato alla disaffezione nei confronti del mondo circostante. Non protesta, ma ha distacco e disillusione. Una generazione che è nella condizione di poter desiderare, sembra incapace di farlo. E la società degli adulti certo non aiuta. Chi è nato negli anni 2000 è cresciuto in un mondo instabile. Prima la lunga stagione di difficoltà provocata dai dissesti finanziari del 2008; poi la pandemia e ora la guerra in Europa. Per le ultime generazioni, il mondo è pericoloso e il futuro fuori controllo. Mentre gli effetti a medio - lungo termine del cambiamento climatico sono vissuti fatalisticamente: “Saremo noi a pagare il conto di chi ci ha preceduto”. In buona sostanza, i giovani - numericamente pochi - pensano di aver ereditato un “bidone”: un mondo avariato, intrattabile e per di più refrattario al cambiamento. Questa sfiducia di fondo si combina col benessere a cui i giovani, anche quelli delle fasce più marginali, possono in un modo o nell’altro accedere. Livelli di consumo più che soddisfacenti sono garantiti dalla famiglia, dalla possibilità di lavoretti più o meno precari o (specie al sud) da qualche forma di sussidio pubblico. Senza dire che, di norma, i ragazzi arrivano fino ai 20-25 anni senza nessuna esperienza concreta (lavoro, volontariato, responsabilità) dentro la bolla di una scuola (per chi la frequenta) che rimane ingessata e astratta. I social (accusati da Macron di aver fomentato la rivolta) hanno un peso importante, anche perché nessuno ha educato al loro uso. Soprattutto dopo il lockdown, l’abitudine a stabilire rapporti a distanza filtrati dallo schermo fa perdere competenze relazionali essenziali per il saper vivere. Grande è la tentazione di rimanere all’interno di un mondo virtuale fatto a propria immagine e somiglianza, in cui l’incontro con l’altro reale non avviene mai. D’altra parte, in una società come quella italiana, con una mobilità sociale bloccata da anni, in cui le posizioni più interessanti sono stabilmente occupate da generazioni che invecchiano molto più tardi, è difficile per un giovane immaginare di farcela. E d’altra parte, in un mondo in cui è la figura stessa dell’adulto a essere evaporata e/o deludente, non è chiaro per quale ragione si debba desiderare di diventarlo. E in un mondo in cui sia l’esperienza famigliare che quella lavorativa sono del tutto scomposte, non è scontato per i ragazzi avere dei punti di riferimento saldi. Così, le gerarchie sociali sono completamente risegnate: mentre crolla l’autorevolezza dei genitori, degli insegnanti, dei politici, visti come già superati dall’innovazione incalzante, i nuovi riferimenti sono figure mediatiche idealizzate (campioni sportivi, youtuber, influencer, personaggi della moda e dello spettacolo). Di fronte a un mondo che non capiscono e non amano, molti ragazzi si sentono soli. Incapsulati in piccole nicchie di benessere, faticano a capire ciò per cui valga la pena vivere. E temendo la fatica e la frustrazione - a cui nessuno li ha educati - rifuggono il rischio della prova. Per questo, alla fine, si ritraggono. È la generazione della rinuncia. Non tutti sono così. Ci sono giovani meravigliosi che sono molto più avanti dei loro padri. Più intelligenti, più critici, più capaci, più consapevoli delle sfide da affrontare. Ma sono una minoranza. Molti di più sono quelli che si accucciano in una sorta di posizione fetale, che è insieme fuga dal mondo e fuga da sé. Il transito generazionale è a rischio. Anche senza esplodere come in Francia, da noi la questione generazionale è un problema serio e urgente. Quando l’unica legge è quella della giungla di Ray Banhoff L'Espresso, 4 luglio 2023 Il caso di Frederick Akwasi Adofo, il senza tetto pestato a morte a Pomigliano D’Arco, porta a chiedersi ancora una volta dove sia lo Stato. Non si stava meglio quando si stava peggio, il mondo di oggi non è peggio di quello di ieri; una cosa però è certa: ci evolviamo, ma non impariamo dagli errori. Un senzatetto viene massacrato da due ragazzini a Pomigliano D’Arco. Degrado, toni di lutto misti a condanna, ma scrive bene Gianluca Nicoletti su La Stampa: quell’uomo era già stato aggredito e cosa altro sarebbe dovuto succedere lasciandolo ai margini? Raccontare la favoletta del mendicante felice e amato da tutti, quando le istituzioni permettevano che vivesse di stenti in mezzo alla strada, è fargli un altro torto. Non sto parlando dei suoi assassini materiali, ma di tutti quegli osservatori silenziosi che avrebbero potuto far qualcosa per lui e non l’hanno fatta. Servizi sociali, Comune, medici, politici… Dov’è lo Stato? Non ci sono le strutture per ospitare un uomo, non ci sono i fondi per mantenerlo, non c’è niente se non quei due spicci regalati dalla signora che passava di fronte al suo giaciglio? Tanto, fino a che non succede un polverone nazionale, tutto è lecito. Chi è che deve occuparsi di noi mentre cerchiamo di fare le nostre vite ed essere dei buoni cittadini? Lo Stato, considerato da tutti come il grande assente, l’uomo nero che si chiama in causa con i bambini per terrorizzarli: nessuno lo ha mai visto, ma il nome non promette niente di buono. Se parli dello Stato in mezzo a una strada, a un bar, se fai un breve sondaggio tra i tuoi simili, sarà semplice auscultare la pancia del Paese. Le parole chiave del brontolio saranno: tasse, multe, assenza. Esiste uno Stato in kermesse continua, uno Stato di volti seri di presidenti e politici in tv, di servizi al telegiornale, di lanci di notizie. Uno Stato, diciamo, mediatico. Ma per la gente che aspetta mesi per una visita medica, per una sentenza nei palazzi di giustizia, che cosa è lo Stato? Lo Stato incombe su di noi in una forma di iper-oggetto burocratico, un’entità kafkiana talmente ben congegnata da essere indistruttibile. La prova è quando il vigile fa la multa e non la può strappare, perché ormai “è scritta”. I ricchi cercano di pagare professionisti esperti che li salvino dallo Stato il più possibile, i poveri sono vessati come dei bancomat umani per dei servizi scarsi che poi forse otterranno (vedi gli alluvionati, quelli in lista d’attesa per lo psicologo o per un intervento, quelli che non avranno mai la pensione, ecc.). Lo Stato - con tutto il rispetto per i tanti valorosi servitori che pure ha e che lottano anch’essi contro una parte di colleghi e superiori, a favore della decenza - è un sacco di ometti dietro il banco di un ufficio che chiude in pausa pranzo (e tu quando mai dovresti andarci, visto che lavori tutti i giorni per pagare le tasse?) e venerdì e sabato fa festa. I centri commerciali sono aperti anche le domeniche, le cure per mia madre in ospedale no. È strano. Lo Stato sono gli insegnanti che provano a promuovere con nove in condotta studenti che hanno sparato i pallini in faccia alla professoressa (serve l’intervento del ministro dell’Istruzione per fermarli). Perché va bene lo sputtanamento mediatico, ma poi chi li sente i genitori che fanno ricorso, che ci tocca riaprire tutti i verbali dell’anno, magari mettere a nudo le nostre omissioni? Tanta modernità per far vigere poi la legge della giungla, in cui ognuno si salva da solo, pure dallo Stato. “Con il salario minimo ridiamo dignità al lavoro e sfidiamo la destra” di Massimo Franchi Il Manifesto, 4 luglio 2023 La responsabile Lavoro Pd Maria Cecilia Guerra: “Presto il testo in aula, il governo dovrà spiegare perché è contro. I 9 euro sono giusti”. La proposta unitaria dell’opposizione - Italia Viva renziana esclusa - sul salario minimo è certamente una novità politica positiva. E, nel merito, un passo avanti rispetto al testo dell’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando che ne limitava l’applicazione a settori... Sicuramente la proposta riflette una maturazione del dibattito che ha coinvolto il mondo sindacale e anche il mondo delle imprese. È una proposta avanzata perché non è solo sul salario minimo ma è finalizzata a dare un parametro certo per l’applicazione del principio costituzionale della giusta retribuzione, partendo dal lavoro subordinato ma allargandosi a quello parasubordinato e parte dell’autonomo. In qualunque settore operi un lavoratore sa che gli deve essere applicato per legge il contratto di lavoro siglato dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative. E se non c’è un contratto di settore si applicherà quello di settore affine, così come se non contempla la sua mansione si applica una mansione equivalente. Quindi non esiste un lavoratore che non sia tutelato da questo intervento. Il salario minimo in sé è una garanzia ulteriore finalizzata a quei settori dove il tessuto produttivo è più frammentato e c’è più debolezza sindacale: si mette un limite minimo di 9 euro al di sotto del quale non si può andare perché la paga diventa non dignitosa. Un limite che vale anche nei confronti della contrattazione collettiva. Però il punto nodale è fare della contrattazione collettiva la guida. Come opposizione avete il potere di calendarizzare un disegno di legge in parlamento. Lo farete sul salario minimo? Quando? Cosa pensa succederà? Noi siamo intervenuti su un processo che era già in corso sul salario minimo con diverse proposte sulle quali si stava lavorando con le classiche modalità che sono quelle delle audizioni di cui abbiamo anche tenuto conto. Dopo di ché visto che c’è molta consonanza fra le opposizioni siamo riusciti abbastanza agevolmente a trovare un testo comune: si è trattato più che altro di sfoltire le ambizioni dei vari gruppi focalizzandosi proprio sul tema del salario minimo perché il tema è troppo rilevante. La discussione era già calendarizzata per il 27 luglio. Noi ora presentiamo questo disegno di legge e chiediamo che venga adottato come testo base. Poi si arriverà alla fase emendativa, che ora compete solo alla maggioranza, e poi si va in Aula. Può darsi che slitti a settembre. Essendo un tema così rilevante la maggioranza farà fatica a non discuterne come invece ha fatto sulla legge sulle madri in carcere o il voto degli studenti fuori sede. Dovranno dirci perché sono contrari. La Cisl è storicamente contraria sostenendo che la legge non deve intervenire in materie di contrattazione ma le parole di Sbarra si sono subito saldare a quelle della ministra Calderone... Sapevamo della posizione della Cisl però credo che ci sia uno spazio di confronto perché la loro preoccupazione è proprio non comprimere il ruolo del sindacato e noi non lo facciamo perché lasciamo grande centralità e spazio alla contrattazione. Quanto al governo non è ancora una vera posizione perché hanno parlato al buio, non sono entrati nel merito. Meloni sostiene la tesi che non ci vuole il salario minimo ma la riduzione del cuneo fiscale: questi sono due temi che non vanno contrapposti, ci vogliono entrambi. Il nostro slogan è: il lavoro va pagato. L’indicazione dei 9€ l’ora magari un anno fa sarebbe stata avanzata. Ora l’inflazione è alta e erode i salari. In più Potere al popolo raccoglie firme per avere 10€ l’ora con indicizzazione totale. Il tutto mentre in giro per l’Europa il salario minimo è di 12€ in Germania e 11 in Francia... Innanzitutto bisogna dire che il salario minimo è il salario base senza gli scatti di anzianità, benefit: il cosiddetto Trattamento economico minimo (Tem) previsto nella contrattazione. Se guardiamo l’indicazione della Direttiva europea sarebbe di stare fra il 50% del salario medio e fra il 70 e il 60% del salario mediano. Dunque 9€ l’ora attualmente è abbastanza alto. Il problema è che in Italia per decenni c’è stata una compressione dei salari senza puntare su innovazione, tecnologica ed ecologica. Noi prevediamo che l’aggiornamento del salario sia annuale e sia gestito dalle parti sociali. Prevedere l’indicizzazione automatica invece ingesserebbe la contrattazione. Da parte soprattutto della Cgil si chiede di legare la proposta a una legge sulla rappresentanza... Senza fare una legge sulla rappresentanza di fatto otteniamo in via indiretta, cioè tramite l’articolo 36 invece che l’articolo 39 della Costituzione, l’applicazione erga omnes dei contratti delle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Ovvio che poi bisognerà arrivare a una legge sulla rappresentanza vera e propria. Intanto abbiamo cominciato a batterci contro precariato e il part time involontario e i voucher, le collaborazioni, le false partite Iva, le prestazioni occasionali, anche i contratti di lavoro autonomo che però possono essere ricondotti a un salario orario perché la prestazione richiesta può essere collegata al tempo necessario a effettuarla. Proviamo a spiegare come funzionerebbe la legge. Prendiamo a esempio un lavoratore della Vigilanza privata che ha appena visto rinnovare dopo 8 anni il suo contratto ma a 6 euro l’ora. Con la cosiddetta “diffida accertativa” potrà arrivare a 9 euro l’ora? Se un lavoratore è sotto i 9 euro l’ora, anche se ha un contratto nazionale firmato dai sindacati - se la legge passasse - potrà chiamare gli Ispettori del lavoro che, in via amministrativa con un istituto che si chiama “diffida accertativa” che vuol dire semplicemente “ho verificato che tu non sei in regola con la legge sul salario minimo” entro un anno, se non cambieranno il contratto nazionale, imporrano al datore di lavoro di pagarlo 9 euro l’ora. Abbiamo messo anche un minimo di supporto economico pubblico temporaneo per i settori più in difficoltà. Diritti delle donne indeboliti: la legge sull'aborto va rivista di Andrea Pugiotto L'Unità, 4 luglio 2023 Modificare la legge del 1978 è possibile e auspicabile. Occorre un "tagliando" in grado di garantire la piena applicabilità delle norme: se ne parla oggi a Roma in un seminario dell'associazione Luca Coscioni. 1. Si può modificare una legge, approvata da molti anni e quando l'applicazione ne rivela criticità e disfunzioni? Certo che sì. Avremmo altrimenti una disciplina pietrificata e fuori dal tempo. A tale regola, però, si oppone una resiliente eccezione: la legge n. 194 del 1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza. In materia, le lancette dell'orologio sono ferme a 45 anni fa e anche solo l'ipotesi di un suo aggiornamento sembra vietata. Sarebbe salutare una sua discussione pubblica, ma latita. Perché? 2. Giuridicamente, non è una disciplina intangibile. In vigore da quasi mezzo secolo, alcune sue parti sono viziate da anacronismo legislativo. Il doppio no a entrambi i quesiti abrogativi, votati il 17 maggio 1981, non crea alcun vincolo negativo per il legislatore. La sua natura di legge “a contenuto costituzionalmente vincolato” (seni. n. 35/1997 della Consulta) sottrae all'abrogazione, totale o parziale, solo quella minima tutela dei diritti fondamentali in gioco (della donna e dell'embrione) imposta dalla Costituzione: ampi, dunque, sono gli spazi residui per una sua riforma. Del resto, la possibilità di modifiche parziali della legge n. 194 è attestata dai due citati referendum manipolativi, allora promossi da Movimento per la Vita e Partito radicale, giudicati ammissibili (seni. n. 26/1981). Come pure dall'intervenuta abrogazione di alcune sue fattispecie penali (artt. 17 e 18), disposta di recente con decreto legislativo (n. 21 del 2018). 3. Costituzionalmente, ripensare l'attuale disciplina in tema di aborto è possibile. Quel testo nasceva da disegni di legge coevi o successivi alla sent. n. 27/1975, che dichiarò illegittimo il reato di aborto di donna consenziente (art. 546 c.p.) laddove lo puniva anche se giustificato terapeuticamente. In quella storica decisione, la Consulta affermò che il diritto alla vita del concepito e il diritto alla salute della donna, ambedue garantiti in Costituzione, se esposti entrambi a pericolo vanno bilanciati. Il baricentro va trovato nella salvaguardia della vita e della salute della madre, operando in modo da salvare, quando ciò sia possibile, la vita del feto. Recependo tale bilanciamento, la legge n. 194 ha poi regolamentato la procedura abortiva stabilendone i soggetti coinvolti, le scansioni modali e temporali, i divieti penali. Quel bilanciamento ebbe il merito di impone il superamento di una legislazione fascista che puniva l'aborto a prescindere, come reato contro l'integrità della stirpe. Eppure, appare come il frutto di un lunghissimo equivoco: guarda alla donna e all'embrione come a due soggetti “indipendenti e simmetrici” quando, invece, “senza la relazione con il corpo pensante della madre non vi è possibilità di vita, biologica e simbolica” (Maria Luisa Boccia) Altrove, nella giurisprudenza costituzionale, emergono altri principi che andrebbero inclusi nella mappa del conflitto tra diritti, in caso di aborto: l'eguaglianza di genere e il principio di autodeterminazione. Il primo entra qui in gioco perché se e quando procreare è una scelta determinante per la partecipazione effettiva della donna alla vita sociale, economica e politica (art. 3 Cost.). Il secondo incapsula la libertà (anche fisica) della donna di sottrarsi a una gravidanza indesiderata (art. 13 Cost.), e compone con il diritto alla salute (art. 32 Cost.) il principio del consenso informato a trattamenti medici (sent. n. 438/2008). Anche attraverso la lente di questi due principi, quel bilanciamento originario si mostra inadeguato. È come un chiodo che non regge più tutto il peso del quadro (normativo). 4. Dunque, una novella della legge n. 194 più rispettosa della soggettività femminile è questione matura. Se non la si coglie è perché, politicamente, la materia è incandescente. Divide le forze politiche, anche al loro interno. Taglia trasversalmente gli elettori, che su questo tema già in passato hanno deciso in autonomia. Come in surplace, in Parlamento nessuno si muove e a regnare è un dolceamaro accontentarsi. Anche chi, ad ogni inizio legislatura, ripropone il riconoscimento della capacità giuridica al concepito (AS n. 950, Gasparri), si affretta a parlare di mera provocazione individuale. Il rischio concreto è di sfogliare amleticamente, anche negli anni futuri, la solita margherita. A interrompere questo letargo intervengono ora due iniziative politiche. 5. La prima sarà presentata oggi, a Roma, in un seminario convocato - per impulso dell'Associazione Luca Coscioni - dall'Intergruppo Parlamentare sull'interruzione volontaria della gravidanza (27 tra deputati e senatori, appartenenti a tutte le forze di opposizione). Ginecologi, giuriste, bioeticiste, parlamentari, discuteranno della necessità di “un "tagliando" per la legge n 194 del 1978”. I temi affrontati riguarderanno il concetto di salute riproduttiva, le incongruenze mediche e giuridiche della vigente normativa, l'opacità dei dati (mai dati) circa la sua applicazione diffusa sul territorio nazionale. L'obiettivo dichiarato è indicare “alcune modifiche puntuali, ritenute urgenti per porre rimedio alle maggiori criticità” della legge n. 194, in una logica di manutenzione più che di un suo stravolgimento. La seconda si deve, invece, a Radicali italiani. All'interno di un pacchetto di 6 proposte di legge di iniziativa popolare, invitano a sottoscrivere un testo mirante a “superare la legge” n. 194 attraverso una nuova regolazione dell'intera materia. L'articolato normativo proposto è ad ampio spettro: tutela e promozione dei diritti riproduttivi, funzionamento dei consultori, accesso ai servizi abortivi, modalità e tempistiche dell'aborto, sepoltura e smaltimento del materiale biologico residuo, report istituzionali sull'applicazione della legge, aggiornamento del personale sanitario. Convergenti nelle intenzioni, le due iniziative divergono per strategia. L'una prospetta un intervento normativo chirurgico; l'altra un bombardamento a tappeto. L'una si inserisce in quello spazio tra la possibilità e il fallimento parlamentare; l'altra va all'assalto come un miete. L'una, contro il probabile, gioca il possibile; l'altra, per ottenere il possibile, chiede l'improbabile. Ognuno giudichi come vuole. Io sono per la prima strategia, perché credo più nelle battaglie di scopo che in quelle di principio, e considero di gran lunga più utili, delle belle sconfitte, le brutte vittorie. Per quanto condivisibile, un testo (legislativo) che non si cura del contesto (parlamentare), scade a pretesto (politico). La sua approvazione sarebbe un miracolo, ed io ai miracoli non credo. Specialmente su temi come questi, i mezzi vanno commisurati ai fini perché a contare sono i risultati ragionevolmente conseguibili, non le intenzioni. 6. Entrambe le iniziative hanno però il merito di porre all'attenzione generale il tema di fondo: l'habeas corpus, qui declinato al femminile. Ciascuno di noi è una singolarità incarnata. È questo dato esistenziale a collocare le questioni del corpo al centro di tutti i conflitti per le libertà e i diritti, fin dalla Magna Charta del 1215. Regola cruciale, l'habeas corpus, è costruita attorno all'indisponibilità fisica e all'inviolabilità del corpo del cittadino rispetto alla pretesa di controllo del sovrano: incapacitarlo, infatti, significa togliere alla persona, con la libertà di movimento, anche l'autodeterminazione e l'autonomia nell'agire. È, questa, una tentazione sempre presente nei processi riproduttivi. Lo si vede nel revival delle politiche per la natalità, nell'idea balorda e spietata della gpa quale reato universale, nella procreazione assistita legislativamente ostacolata. L'aborto non fa eccezione, in quanto “esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un'esperienza vissuta dall'inizio alla fine attraverso il colpo” (Arnie Ernaux, L'evento, 2019). A questa sorta di neo-sovranismo corporale si deve reagire. Qualcuno, finalmente, inizia a farlo. Intelligenza artificiale: democrazia e trappole della verità di Antonio Preiti Corriere della Sera, 4 luglio 2023 Il rischio di favorire i regimi autoritari, perché nel caos del vero e del falso è minata la fiducia reciproca, presupposto della democrazia. D’altro canto, i sistemi di intelligenza artificiale sono il mezzo più efficace per controllare la società. Dobbiamo aver paura di ChatGPT e dell’intelligenza artificiale? Di nuovi apocalittici non ne abbiamo bisogno, però cerchiamo di capire il suo impatto sulla politica. Dobbiamo occuparcene ora, perché la tecnologia “silenziosa e lieve”, tassello dopo tassello, compone un puzzle che nessuno ha disegnato prima e difficile da cambiare dopo. Quali sono i cambiamenti che ci sono già e quali sono in arrivo? Sul piano operativo l’AI può generare discorsi politici in tempo reale; ottenere una sintesi, per punti, delle opinioni espresse sui social; con l’aiuto di intelligenza umana, può creare un modello previsivo, che la macchina migliora da sé stessa. Può però, in altri modi, cambiare radicalmente la natura della politica. Può portare il dibattito politico su un terreno artificiale, artificioso e manipolatorio. La politica è fatta di conversazioni: una persona esprime qualcosa, e qualcun altro l’approva o la contraddice. Gran parte di queste conversazioni si svolgono sui social media. Significa che la conversazione è mediata dalla macchina: io vedo quello che l’algoritmo pensa che mi piacerebbe vedere. C’è un semaforo invisibile: questo sì, questo no. Quel che vedo non è tutto (sarebbe impossibile), ma una parte, e quella parte è determinata da un volere terzo, il volere dell’algoritmo. Anche nella vita fisica non tutti parlano con tutti: parte delle conversazioni è voluta e parte è casuale: nel mondo reale viviamo tra caso e necessità. Allora guardiamo a qualche vicenda preoccupante. Il Wall Street Journal ha fatto un esperimento sul modo in cui funziona l’algoritmo di TikTok. Dimentichiamo i tag di Amazon o di Netflix (hai visto quello, perciò ti può piacere questo), ma guardiamo alla psiche che si manifesta attraverso un’esitazione a guardare uno strano video. Se, ad esempio, il video sembra avere una connotazione depressiva, ne attiverà una valanga di altri con le stesse caratteristiche. Così l’utente entra in una “tana del coniglio” popolata solo da video depressivi. Difficile uscire da quella tana (meglio leggere l’omonimo, splendido, racconto di Kafka…). Si passa dalla ricerca dell’attenzione alla ricerca di una relazione intima con l’utente. Conquistare il cuore e la mente per vendere un prodotto: questo è oggi l’assunto del marketing, non diversa la conquista dell’elettore. Il presidente filippino Marcos, nelle elezioni del 2022, si è affidato al suo esercito di troll su TikTok per conquistare i voti dei giovani filippini. L’automatizzazione del processo con i bot gli ha consentito di entrare su una piattaforma social che già funziona con un algoritmo guidato dall’AI. Entrare nella mente dei giovani non è facile, ma TikTok ci riesce. A modo suo. Chi padroneggia il linguaggio (i sistemi tipo ChatGPT sono nati per questo), padroneggia le armi della persuasione. L’umano è fondato sul linguaggio: esprimiamo amore e odio con le parole; esprimiamo sensazioni e pensieri; impariamo e lavoriamo con le parole. D’altro canto “in principio era il Verbo...”, dice la Bibbia. E Wittgenstein aggiunge “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, insomma siamo linguaggio. Discorsi astratti? lontani? inattuali? Tutt’altro. All’Università di Stanford hanno usato ChatGPT per generare opinioni su questioni politiche controverse da contrapporre a opinioni scritte da esseri umani. Lo studio ha dimostrato che quelle generate dall’intelligenza artificiale sono più persuasive. Immaginate questa capacità di persuasione sommata alle fake news? Avremmo perciò conversazioni artificiali come trappole (assomigliano al gioco delle tre carte, dove un crocicchio di finti giocatori è intento a recitare la parte in attesa di qualcuno da derubare), insomma tutti i bot dialogano per attirare esseri umani (elettori) nella conversazione; avremmo una capacità persuasiva sul terreno dove l’elettore è più indifeso: quello psicologico. Questo scenario (se non avesse prontamente una risposta regolativa) finirebbe con il favorire i regimi autoritari, perché nel caos del vero e del falso è minata la fiducia reciproca, presupposto della democrazia. D’altro canto, i sistemi di intelligenza artificiale sono il mezzo più efficace per controllare la società: il “social ranking” cinese è un governo molecolare di massa attraverso la tecnologia. E così il cerchio si chiude: la tecnologia atomizza la società e una società atomizzata è gestibile solo con la tecnologia. Però ci siamo proposti di non essere apocalittici. È uno scenario (ancora) largamente scongiurabile. Ancora. Il George Floyd della Francia che la rende simile agli Usa di Nadia Urbinati* Il Domani, 4 luglio 2023 Unite nell’utopia rivoluzionaria, Francia e Stati Uniti sono state tradizionalmente distanti nella concezione della cittadinanza: una religione civile di assoluta eguaglianza nel primo caso; una religione civile di attenzione alle differenze nel secondo. La triade “libertà, eguaglianza, fraternità” respinge politiche di “azione affermativa” verso etnie svantaggiate. Molto diversa la logica dei liberal americani, ben rappresentata dal presidente Lindon B. Johnson (e ora da Joe Biden): “Non si può prendere una persona che, per anni, è stata bloccata da catene, liberarla, portarla sulla linea di partenza di una gara e poi dirle: “Sei libero di competere con tutti gli altri”, e credere ancora giustamente di essere stati completamente corretti”. A questa idea gli Stati Uniti hanno ancorato per decenni la teoria della giustizia e le politiche federali. Ma le cose stanno cambiando e la distanza tra le due repubbliche si accorcia. La Francia ha il suo George Floyd (il ragazzo nero ucciso dalla polizia di Minneapolis due anni fa senza un motivo evidente), e i giudici statunitensi propongono il modello francese di cittadinanza senza colore (color blind) nella recente decisione della Corte Suprema di cancellare la legittimità dell’affermative action nell’ammissione degli studenti alle università. I giudici ripetono quel che le autorità francesi dicono giustificando l’uccisione di Nahel Merzouk, francese di origini nord africane: la legge è uguale per tutti, senza pregiudizio. In entrambe le repubbliche i cittadini che fanno parte di minoranze razziali sono e si sentono discriminati. Ma il problema viene negato; non può esistere, perché la legge dice che non deve esistere. Molti afro-americani e molti francesi nordafricani hanno negli anni lottato per trovare “silenziosamente” il loro posto nelle rispettive società. E la “promessa repubblicana" di integrazione ha funzionato fino a quando l’affermative action” (USA) e le politiche sociali (Francia) sono state capaci di far ottenere a molti un'istruzione superiore e un lavoro migliore. Politiche attente, a modo loro, alle condizioni ambientali. Ma l’ideologia del “merito cieco” erode alla radice questi programmi di integrazione. Le differenze razziali non contano, ha dichiarato il responsabile della polizia francese rispondendo alle critiche; le condizioni di vita degli afro-americani non devono contare nell’ammissione all’università, ha decretato la Corte Suprema. Il fatto è che la “legge uguale per tutti”, ha scritto la giudice di minoranza nella decisione della Corte, è “una regola superficiale di daltonismo in una società endemicamente segregata dove la razza ha sempre contato e continua a contare”. L’imparzialità per legge è una pellicola troppo sottile per neutralizzare le diseguaglianze sociali; alimenta semmai rabbia razziale e odio di classe. *Politologa Egitto. Quattro storie per un decennio di repressione di Riccardo Noury* Il Manifesto, 4 luglio 2023 I diritti negati di Ahmed Douma, Alaa Abd el-Fattah, Shaimaa al-Sabbagh, Sara Hegazi. Oltre 60mila detenuti politici, stragi efferate (come la “Tienanmen del Cairo”, neanche un mese e mezzo dopo il colpo di stato: fino a un migliaio di manifestanti uccisi nello sgombero di due sit-in in altrettante piazze della capitale), la tortura e le sparizioni come parti integranti dell’azione giudiziaria, la normalizzazione dello stato d’emergenza con l’incorporamento di norme “straordinarie” nel codice penale. E ancora, soppressione degli spazi di libertà, processi ai dissidenti, terribili condizioni carcerarie, caccia ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani, congelamenti dei beni e divieti di viaggio. E infine, il sistema delle “porte girevoli”, che fa rientrare in cella persone appena scarcerate o in procinto di esserlo, iscrivendole pretestuosamente a una nuova inchiesta. L’Egitto, per le organizzazioni locali e internazionali che si occupano di diritti umani, è questo e tanto altro ancora. Per la comunità internazionale è invece un partner prezioso da trattare con indulgenza se non con vera e propria riconoscenza. Petrolio in cambio di armi: un paradigma di cui l’Italia è stata nel 2013 apripista e a seguire protagonista. Per elencare le vittime della repressione di stato negli ultimi 10 anni della storia egiziana occorrerebbe un’edizione speciale di questo quotidiano. Allora, vorrei provare a raccontare cosa ha significato questo decennio per i diritti umani con quattro storie. Quella di Ahmed Douma percorre esattamente quegli anni. Douma ha contribuito alla fondazione dei più importanti movimenti di protesta egiziani dell’inizio del secolo, come Kefaya e la Coalizione dei giovani rivoluzionari. Sta scontando il decimo di 15 anni di carcere. Arrestato nel dicembre 2013 per la sua asserita presenza a una manifestazione contro la legge che impediva le proteste, era stato condannato a tre anni. Nel febbraio 2015, a pena quasi terminata, è stato iscritto a una nuova indagine per “i fatti del Consiglio dei ministri” del dicembre 2011 (lo sgombero violentissimo di un sit-in in corso da tre settimane di fronte alla sede del governo) e condannato all’ergastolo, con commutazione della pena a 15 anni. Le sue condizioni di salute sono molto preoccupanti. In carcere, ha scritto un libro di poesie, Curly, di cui le autorità egiziane hanno vietato stampa e distribuzione. Di poesia parla, con Douma, Alaa Abd el-Fattah nel suo Non siete stati ancora sconfitti, pubblicato in Italia da hopefulmonster. Figura tra le più iconiche del movimento egiziano per i diritti umani, ha trascorso buona parte degli ultimi 10 anni in carcere. Arrestato l’ultima volta nel settembre 2019, alla fine del 2021 è stato condannato a cinque anni per “diffusione di notizie false” (il reato “orwelliano” che colpisce chi dice la verità), insieme al suo avvocato Mohamed Baker, che di anni ne ha ricevuti quattro. Da aprile a novembre del 2022, Alaa ha intrapreso uno sciopero della fame e poi della sete per protestare contro l’ingiusta condanna, le inumane condizioni detentive e il rifiuto, da parte della direzione delle carceri, di garantirgli i diritti consolari di cittadino con passaporto britannico. Il 24 gennaio 2015 Shaimaa al-Sabbagh si accingeva a prendere parte a una commemorazione, indetta da un partito di sinistra, delle vittime della rivoluzione del 25 gennaio che nel 2011 aveva spodestato Hosni Mubarak. Erano 30 persone, camminavano sul marciapiede per non ostruire la circolazione stradale, dirette a piazza Tahrir: alcune reggevano lo striscione del partito, altre avevano in mano cartelloni e fiori. Le forze di sicurezza, senza preavviso, iniziarono a lanciare lacrimogeni e a sparare coi fucili da caccia. Shaimaa fu colpita a morte alla schiena e alla testa, da una distanza di otto metri. Ma la storia più dolorosa è quella di Sara Hegazi, che il 14 giugno 2020 si è tolta la vita a Toronto, nell’esilio canadese in cui si era rifugiata sperando di lasciarsi la tortura alle spalle. Il 22 settembre 2017, durante il concerto della band Mashrou’ Leila al Cairo, Sara e altri spettatori danzarono sventolando gioiosamente la bandiera arcobaleno. Per quella gioia, una settimana dopo l’arrestarono. In una stazione di polizia le chiesero se fosse vergine e perché non portasse il velo. Poi gli agenti annunciarono “è arrivata una lesbica” e iniziò il massacro, cui presero parte poliziotti e anche donne in stato d’arresto per reati comuni: insulti, violenza sessuale, pestaggi. Sara fu posta sotto inchiesta per “promozione della devianza sessuale” e “depravazione”. Trascorse tre mesi in carcere: i primi nove giorni in isolamento (fu nuovamente stuprata e torturata), il resto del tempo in una cella con due detenute cui era stato detto di non rivolgerle mai la parola. Non le fu mai permesso di unirsi ad altre detenute durante l’ora d’aria. Poi il rilascio su cauzione, in attesa del processo. E infine, la richiesta d’asilo al Canada. Dove, poco più di tre anni fa, si è accomiatata dalla vita denunciando “la violenza che mi è stata fatta dallo stato, con la benedizione di una società religiosa per sua stessa natura”. *Portavoce di Amnesty International Italia Palestina. Raid dell’esercito israeliano a Jenin, otto palestinesi uccisi di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 luglio 2023 Lanciati diversi attacchi con droni ed elicotteri. Le ruspe stanno distruggendo le strade che portano al camp profughi. In un video le immagini del blitz. Starebbero cercando di isolare il campo profughi dal resto della città i reparti militari israeliani che la scorsa notte hanno cominciato l’offensiva contro Jenin, nel nord della Cisgiordania sotto occupazione dal 1967, annunciata nelle scorse settimane dai media locali e invocata con forza dalla destra estrema al governo. Il ministero della difesa israeliano e lo Shin Bet (intelligence) parlano di “operazione limitata” e non di una rioccupazione a lungo termine di Jenin. L’obiettivo sarebbe quello di catturare - più probabilmente di eliminare - i leader dei combattenti delle varie fazioni armate palestinesi protagoniste degli attacchi avvenuti negli ultimi mesi contro soldati e coloni. Nelle ultime ore dozzine di persone sono state arrestate e decine di case perquisite. Tiratori scelti sono stati disposti sui tetti di decine di case. Sono stati inoltre lanciati almeno 15 attacchi con droni ed elicotteri contro edifici che Israele descrive come “centri di comando dei gruppi armati”, depositi di armi e di esplosivi. Le ruspe militari inoltre stanno distruggendo le strade che portano al campo profughi ostacolando l’arrivo dei mezzi di soccorso. Gran parte del campo profughi è senza corrente elettrica. I combattenti palestinesi rispondono con il fuoco di armi automatiche e hanno fatto esplodere un ordigno sotto un bulldozer provocando però solo danni. I palestinesi uccisi sono almeno otto: Samih Abu al-Wafa, Hussam Abu Dhiba, Aws al-Hanoun, Nour al-Din Marshoud, di tre non si conosce ancora l’identità. Una trentina i feriti, di cui sette in condizioni critiche. Non ci sarebbero vittime tra i militari israeliani. Un altro palestinese è stato ucciso la scorsa notte ad Al Bireh (Ramallah) durante le proteste iniziate in vari centri abitati dopo l’avvio dell’offensiva contro Jenin. Dall’inizio dell’anno in Cisgiordania sono stati uccisi circa 130 palestinesi, non pochi dei quali civili, e oltre venti soldati e coloni israeliani. L’attacco è scattato poco dopo la mezzanotte dal posto di blocco di Al-Jalama. Droni ed elicotteri hanno iniziato a effettuare raid aerei mentre dozzine di veicoli sono entrati a Jenin. Ron Ben Yishai, il commentatore militare del quotidiano Yedioth Ahronoth, ha riferito che l’attacco alla città palestinese era stato pianificato un anno fa. I combattenti di Jenin, ha aggiunto, si sono preparati per l’arrivo di forze corazzate israeliane ma sono stati sorpresi dai raid aerei. I gruppi armati da parte loro fanno sapere che “resisteranno all’aggressione israeliana”. Hamas e il Jihad Islami hanno esortato a respingere l’attacco. Resta aperta la possibilità che dalla Striscia di Gaza vengano lanciati razzi verso Israele se l’operazione militare non cesserà in tempi brevi. Una condanna dell’offensiva israeliana è giunta da Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, che ha parlato di “crimine contro Jenin commesso dalle forze di occupazione”. Abu Rudeineh ha invitato la comunità internazionale a “rompere il suo vergognoso silenzio e intraprendere azioni serie per costringere Israele a fermare la sua aggressione contro il popolo palestinese”. Le forze militari dell’Anp però restano nelle loro basi e non stanno intervendo nei combattimenti.