Il carcere, lo specchio dell’anima di una società di Marco Guida* ledicoladelsud.it, 3 luglio 2023 Nell’infinito pendolo tra giustizialismo e garantismo che connota da almeno trent’anni le scelte politiche in tema di giustizia, l’argomento carcere resta sempre sullo sfondo, un po’ l’ospite indesiderato a cui prima o poi (ma meglio mai) devi prestare attenzione. Le scelte urbanistiche, del resto, sono chiarissime e consolidano questa realtà, atteso che le carceri vengono costruite in periferia, lontano dagli occhi e dalle coscienze. E quando, invece, sono situate in zone non periferiche sono vecchi edifici, situati in periferia all’epoca della loro costruzione e poi raggiunti dallo sviluppo urbano. Il carcere è lo specchio dell’anima di una società: se vi sono molti detenuti, se vi sono tante persone che delinquono, forse non è mera sfortuna o colpa del destino cinico e baro, ma potrebbe sorgere il dubbio che questo possa anche essere l’effetto distorto di errate scelte economiche, politiche o culturali. E se il carcere è lo specchio dell’anima della società e io società sono consapevole di questo, perché mi debbo continuare a rispecchiare nel mio errore? Meglio nasconderlo, meglio favorire la narrazione degli eterni cattivi, da punire e da isolare dal resto della società, quella sana, per cui è inutile fare investimenti: sarebbe solo denaro perso. E quel famoso pendolo contraddistingue anche gli interventi nell’edilizia carceraria. In questi anni sono entrato in carcere decine di volte: la prima porta che si apre, la gabbiola delle guardie, i documenti da esibire, la seconda porta che si apre; il corridoio ampio, vetusto ma pulito; l’incontro casuale con qualche detenuto addetto a qualche sporadico servizio, la pulizia dei corridoi, la consegna di pacchi; il loro sguardo sempre a testa bassa, il passo silenzioso; la terza porta blindata, l’accesso alla sala riservata per gli interrogatori; il tragitto inverso, sempre eguale. Circa dodici anni fa, però, grazie alla sensibilità del direttore del carcere e dei tanti agenti di polizia penitenziaria che ci accompagnarono, con l’Anm organizzammo una visita all’interno di un carcere ed entrammo in contatto con il mondo profondo della detenzione carceraria, i suoi abissi. La sezione femminile, la più umana, poche detenute, diversi spazi comuni, alcune utili attività: ma le celle, un tuffo doloroso nel passato, un terribile film in bianco e nero: spazi angusti, muri vecchi e decrepiti, bagni inenarrabili. Un carcere vecchio, pochi spazi comuni sia al chiuso sia all’aperto, gestiti al meglio e grazie al prezioso e inesauribile aiuto delle associazioni di volontariato. I detenuti costretti a rimanere in cella 20 ore al giorno. E poi, infine, il girone infernale: le due celle di passaggio, nel senso di mero appoggio per i nuovi arrivi in attesa di essere smistati nelle varie sezioni, attesa che poteva anche durare tre mesi; due stanzoni di metri 4×4, con letti a castello a quattro piani, una capienza di sedici - sedici! - detenuti tutti insieme, un solo bagno, spazi inesistenti. Ogni volta che ci penso vedo quegli occhi e sento quell’odore, terribile, infiltrante, invadente, eccessivo. Per fortuna in questi anni quel carcere è stato profondamente modificato, eliminate quelle celle, chiusa la sezione femminile, aperto invece un centro clinico di eccellenza. Resta il sovraffollamento, resta quella sconcertante sensazione di elusione dell’articolo 27 della Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Eppure tanti studi evidenziano che solo un trattamento penitenziario volto alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato è in grado di prevenire il rischio di recidiva, quell’entrare ed uscire dal carcere che, purtroppo, segna il destino di molti. *Presidente di Sezione del Tribunale di Bari Carceri sovraffollate e senza personale. “Situazione drammatica” di Davide Impicciatore ledicoladelsud.it, 3 luglio 2023 “La situazione delle carceri italiane è drammatica”. A dirlo è Noemi Cionfoli, avvocata penalista e attivista dell’associazione Antigone. In che condizioni vivono i detenuti? “Precarie, spesso estreme. L’assenza di spazi, ad esempio, è una costante: solo nel 2022 lo Stato ha pagato oltre 27 milioni di euro di risarcimenti, in favore dei detenuti, per trattamenti inumani e degradanti, dovuti soprattutto al mancato rispetto della soglia minima dei 3 metri quadri di cui ciascuna persona deve poter fruire nella propria cella. La carenza di spazi vitali è un dato che Antigone ha concretamente riscontrato nel 35% degli istituti visitati”. Il problema del sovraffollamento è sottovalutato? “Di sicuro non è adeguatamente affrontato. L’Italia ha un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. Guardando ai singoli istituti, il valore effettivo più alto, pari al 190%, si registra a Lucca, carcere in cui le condizioni di vita e di lavoro dei ristretti sono infatti estremamente complicate. Non a caso il numero dei suicidi continua a salire. Il 2022 è stato l’anno con più suicidi di sempre: in dodici mesi 85 persone si sono tolte la vita in carcere. Una ogni quattro giorni. Il numero più alto si è registrato nella casa circondariale di Foggia. E nel 2023 le cose non sembrano migliorare: sono già 33 le persone che hanno deciso di porre fine alla loro condizione di sofferenza all’interno di un istituto penitenziario”. Quali sono gli altri problemi? “Uno dei più rilevanti è certamente la tutela della salute. Le patologie psichiche tra la popolazione detenuta sembrano essere in continuo aumento, mentre le risorse messe in campo sono sempre più scarse. Moltissime persone ristrette assumono farmaci antipsicotici e antidepressivi, o addirittura sedativi e ipnotici. Il lavoro di psicologi e psichiatri non è sufficiente, a causa del ridotto numero di ore settimanali di presenza negli istituti. Anche la salute delle donne è a rischio”. Che altro? “La quasi totalità delle carceri presenta molte altre criticità: mancano il lavoro, soprattutto qualificato, e la formazione professionale, due strumenti essenziali per concedere una concreta alternativa di vita alle persone ristrette. E poi è grave la carenza di educatori rispetto alle previsioni di pianta organica. Anche sotto questo profilo ci sono situazioni limite: nel carcere romano di Regina Coeli, dove sarebbero previsti 11 educatori, ce ne sono solo 3, a fronte di circa mille detenuti. L’idea che ogni educatore debba occuparsi di circa 330 persone vanifica, in concreto, la prospettiva costituzionale di rieducazione dei condannati”. Quali potrebbero essere le soluzioni? “Lo stanziamento di risorse è certo fondamentale, così come l’attenzione al tema, istituzionale e mediatica. Tuttavia, mi sembra altrettanto necessario uno sforzo collettivo a comprendere le complessità della questione sociale e antropologica che il carcere porta con sé. Ogni detenuto ha una storia personale di emarginazione, delusione, fallimento e desiderio di rinascita. Allo stesso modo direttori, educatori e operatori non sono solo numeri in pianta organica, ma custodi delle aspettative e delle potenzialità di chi affronta il difficile cammino verso la libertà. Un percorso che ciascuno di noi, idealmente o nel concreto, non può che sostenere. Perché l’idea populista di “buttare la chiave” non è la soluzione, ma una enorme parte del problema”. Commissione europea: ecco come ridurre l’arretrato giudiziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2023 Il Consiglio d’Europa ha inviato un documento agli Stati membri, tra i quali l’Italia, per garantire processi equi e tempestivi. Quattro i passaggi consigliati a partire dall’istituzione di un organismo di controllo. L’articolo 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo afferma che “ogni individuo ha diritto a un processo equo e pubblico entro un termine ragionevole”. Un diritto che è violato in diversi Paesi d’Europa, tra i quali non manca il nostro Paese. Per questo motivo, la Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ) ha recentemente adottato un nuovo strumento per aiutare i Paesi a ridurre l’arretrato giudiziario Il concetto di “arretrato” si riferisce alle cause pendenti presso il tribunale interessato che non sono state risolte entro un termine stabilito. L’accumulo di cause pendenti deriva da varie questioni, come un quadro giuridico inadeguato, risorse insufficienti del tribunale per gestire i casi in arrivo, carenze nelle pratiche di gestione delle cause, ecc. Questa situazione è problematica perché comporta notevoli ritardi nei processi, aumenta i costi dei procedimenti legali, contribuisce all’incertezza giuridica e ha un impatto negativo sulla percezione e sulla fiducia del pubblico nei sistemi giudiziari. Il documento elaborato dalla CEPEJ è destinato alle autorità statali e giudiziarie e ai tribunali come strumento per ridurre gli arretrati e prevenire la loro ricomparsa. Esso illustra una metodologia passo dopo passo per lo sviluppo di strategie volte alla riduzione degli arretrati. Identificando le aree in cui si accumulano gli arretrati, comprensione delle cause sottostanti e proponendo misure per affrontare gli arretrati nei diversi livelli dei sistemi giudiziari, questo strumento offre approcci adattabili alle specifiche circostanze di un sistema giudiziario, anziché un insieme fisso di soluzioni. Per garantire l’efficace attuazione di questo strumento, si consiglia di avvalersi della competenza della CEPEJ e dei suoi esperti al fine di apportare gli aggiustamenti necessari e creare soluzioni concrete su misura per le specifiche esigenze di un sistema giudiziario. La sua attuazione richiederà anche una stretta collaborazione con i tribunali e le istituzioni giudiziarie per generare, testare e applicare soluzioni ai problemi identificati sia a livello di sistema che locale. Infine, nel documento viene sottolineato che tale strumento è destinato a evolversi sulla base delle esperienze acquisite dalla sua attuazione pratica, rendendolo una risorsa dinamica che sarà aggiornata di conseguenza. L’esistenza di un arretrato indica di solito che i tribunali affrontano sfide legate alla loro efficienza e che il diritto a un processo equo entro un termine ragionevole potrebbe essere compromesso. Per questo motivo, si esorta le autorità a affrontare l’arretrato esistente e prevenire l’ulteriore accumulo di casi di lunga durata. Tuttavia, è importante sottolineare che combattere l’arretrato non dovrebbe comportare una diminuzione della qualità delle decisioni giudiziarie e dei servizi offerti agli utenti dei tribunali. Nel documento vengono evidenziati due prerequisiti fondamentali per raggiungere una riduzione e prevenzione efficace degli arretrati. In primo luogo, è necessario riconoscere che esiste un problema che richiede attenzione. In secondo luogo, le autorità devono giungere a un accordo completo per risolvere la questione dell’arretrato, dimostrando il loro impegno a livello più alto. A queste condizioni dovrebbe seguire lo sviluppo graduale di una strategia che guidi l’intero processo. È indispensabile allocare risorse sufficienti e concedere il tempo necessario per ottenere il coinvolgimento di tutte le parti interessate. Secondo la Commissione europea il processo dovrebbe includere la designazione di un’istituzione di riferimento responsabile delle attività legate alla riduzione dell’arretrato. Questa istituzione può essere un organismo esistente, come il Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Suprema o il ministero di Giustizia, oppure un organismo di riduzione degli arretrati appositamente creato, come un gruppo di lavoro ad hoc o un comitato di riduzione degli arretrati. L’istituzione designata dovrebbe sovrintendere l’intero processo, a partire dall’analisi e dall’individuazione dell’ambito del problema, passando per la definizione degli obiettivi e delle misure per ridurre l’arretrato, fino alla creazione di meccanismi di monitoraggio e al garantire la sostenibilità per prevenire futuri accumuli di arretrato. Inoltre, dovrebbe essere responsabile del coordinamento, dell’attuazione e del monitoraggio delle attività di riduzione dell’arretrato a livello centrale, oltre a facilitare una comunicazione efficace con gli utenti dei tribunali e il pubblico. Questa istituzione potrebbe essere affiancata da squadre di riduzione dell’arretrato composte da giudici, dirigenti dei tribunali e/ o personale dei tribunali non giudicante istituite a livello locale. La Commissione consiglia un primo step. Identificare l’entità degli arretrati tramite una raccolta e analisi di dati statistici specifici e indicatori nella diagnosi della situazione. È importante però condurre un’analisi parallela del funzionamento dei sistemi giudiziari. L’analisi legale e operativa aiuta a identificare le carenze sistemiche. Pertanto, si consiglia di combinare metodologie per l’identificazione dei potenziali problemi legati agli arretrati utilizzando una metodologia basata sui dati (basata esclusivamente sulla ricerca e l’analisi dei dati statistici) con il Metodo Delphi (noto anche come metodo del ‘Pannello di Esperti’). Questa combinazione assicurerebbe una comprensione completa e accurata della situazione. Mentre la metodologia basata sui dati fornisce informazioni oggettive, il ‘ Metodo Delphi’ fornisce una visione più soggettiva e basata sull’esperienza delle prestazioni giornaliere del tribunale e delle eventuali potenziali debolezze. Dopo aver identificato gli arretrati e analizzato le cause, il secondo passo prevede lo sviluppo di una strategia per affrontare efficacemente gli arretrati. Il documento fa esempi attraverso delle tabelle. Quando tutti i passaggi indicati sono stati compiuti (identificazione del problema, elaborazione della strategia e monitoraggio della sua implementazione), l’ente responsabile dovrebbe condurre l’analisi finale dei risultati ottenuti al termine del periodo di implementazione della strategia. Se persiste un significativo numero di casi in arretrato, l’ente responsabile dovrebbe effettuare un’analisi dei problemi e elaborare una nuova strategia, ripetendo quindi la metodologia passo dopo passo (analisi - misure monitoraggio). Ricordiamo che lo scopo principale del documento elaborato dalla CEPEJ è fornire indicazioni generali su come identificare il problema in un determinato sistema giudiziario e fornire esempi che possano ispirare azioni volte a risolvere gli arretrati e a prevenire i ritardi procedurali negli Stati membri. Sulla base delle esperienze acquisite con la sua applicazione pratica, questo strumento è destinato a evolversi, trasformandosi in una risorsa dinamica che verrà aggiornata di conseguenza. Storia del giudice Antonio Padalino: l’inquisitore stritolato dall’inquisizione di Tiziana Maiolo L’Unità, 3 luglio 2023 Indagato per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio dai colleghi di Torino, poi da quelli di Milano. E poi assolto. Ma la sua carriera è distrutta. Sembra una storia di ordinaria cattiva amministrazione della giustizia. Invece è un po’ diversa, perché la vittima, Andrea Padalino, è un magistrato. Indagato per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio dai colleghi di Torino, poi da quelli di Milano, poi assolto in primo grado. E i pm di Milano, Laura Pedio e Eugenio Fusco che avevano chiesto per lui una condanna a tre anni di carcere, fanno ricorso in appello ma solo per l’abuso, senza degnarsi di spiegare il perché. Ma arrivano in appello e si ripete la sorpresa del processo Eni. Solo che qui, a rinunciare all’appello e a rendere definitiva la sentenza di assoluzione, non c’è la pg Celestina Gravina, ma la collega Gemma Gualdi. Storia finita? E no, perché Andrea Padalino adesso denuncia tutti alla procura di Brescia per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Proprio ora, quando quei reati stanno per essere abrogati. Non ci credeva, davvero non ci credeva. “Prima, sottovalutavo il danno enorme che si può fare a una persona svolgendo male il nostro lavoro. Quando si vuole dimostrare a tutti i costi la responsabilità di qualcuno che si vuole colpire”. Non è uno qualsiasi di noi garantisti, a pronunciare queste parole, e non svolge una qualunque professione, il dottor Andrea Paladino, oggi giudice al tribunale civile di Vercelli, ma ieri gip a Milano nell’ultimo squarcio delle inchieste di Mani Pulite, poi pm in Calabria e infine a Torino. E Torino gli fu fatale. Indagato dal procuratore capo di allora Armando Spataro per abuso d’ufficio e corruzione in atti giudiziari, come dicevamo, il fascicolo fu poi trasmesso, non si sa con quanta celerità, per competenza alla procura di Milano. Poi cinque lunghi anni di attesa, anni che non passavano mai e i giornali che imperversavano, perché ogni volta in cui in un’intercettazione qualcuno faceva il nome di Andrea Padalino, la solita manina riversava la notizia direttamente in edicola e nelle tv. Anche prima che fosse indagato. Una vita distrutta. Oggi il dottor Padalino ha sessantun anni, quando ci fu l’inizio della fine era in corsa per diventare procuratore capo di Alessandria. Domanda ritirata, e carriera finita per un processo dal quale è uscito assolto. Ma qualche superiore ha voluto punirlo facendogli negare la progressione, non per la sua capacità e la sua preparazione, che vengono sempre giudicate eccellenti, ma perché lo scontro con altri magistrati, quelli che lo hanno inquisito, avrebbe arrecato danni alla sua capacità di “equilibrio, indipendenza e imparzialità”. Prima ti bastono e poi ti licenzio perché hai i lividi, insomma. Ora il giudice Padalino non solo ha denunciato tutti, un bel gruppo di pm, o ex, di Torino e Milano per omissione e abuso di atti d’ufficio alla procura della repubblica di Brescia, competente territoriale, ma si anche appellato al ministro della giustizia Nordio e al procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato perché intraprendano l’azione disciplinare al Csm per i magistrati in carica. Non è il caso di Armando Spataro, ormai in pensione, che era pm a Milano negli anni in cui Padalino era gip, ma che poi si ritroverà a essere il suo capo a Torino e che sarà quello che promuoverà per primo l’azione penale nei suoi confronti. Né di colei che gli succedette alla guida della procura di Torino, Annamaria Loreto, che ha terminato la carriera proprio in questi giorni. Di che cosa era sospettato il magistrato? Di aver brigato, con la complicità di un ufficiale di polizia giudiziaria suo collaboratore, per far assegnare a sé alcuni fascicoli di indagine che riguardavano persone da cui avrebbe poi avuto vantaggi. L’elenco potremmo anche citarlo a memoria, tanto sono sempre uguali ed enfatiche le descrizioni che certi giornali danno a queste “utilità”: cene, viaggi, alberghi, ristoranti eccetera. Singolare però in questo caso è la tipologia del presunto “scambio”, che consisterebbe solo nel farsi assegnare il fascicolo e non nell’aver compiuto qualche attività contraria al dovere d’ufficio. Per quel che riguarda l’inchiesta, sarà proprio indispensabile elencare tutti i ritardi, le anomalie e i trucchetti che tante volte abbiamo denunciato e che il dottor Padalino non aveva visto prima? Sulla violazione di due articoli del codice di procedura penale si basa l’esposto denuncia presentato, con l’assistenza dell’avvocato Massimo Dinoia (che ha definito “calvario processuale” quello subito dal suo assistito) alla procura di Brescia per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Le accuse sono pesanti. Per quel che riguarda i magistrati di Torino, insieme ai due ex procuratori Spataro e Loreto c’è un gruppo nutrito di pubblici ministeri: Livia Locci, Francesco Pelosi, Paolo Toso, Gianfranco Colace. Avrebbero violato l’articolo 11 del codice di procedure, continuando a indagare su un collega dell’ufficio pur non potendolo fare, per tassativo divieto di legge. Il solo Spataro avrebbe però, secondo la denuncia, violato un’altra importante norma, quell’articolo 358 che impone al pubblico ministero l’obbligo di ricercare anche le prove a favore dell’indagato. Una regola violata sempre e pressoché da tutti, in realtà. Ne abbiamo avuto un recente esempio durante il processo Eni-Nigeria con le famose dichiarazioni del faccendiere avvocato Pietro Amara. Nel caso del dottor Spataro c’è una questione spinosa che riguarda proprio l’assegnazione dei fascicoli. Perché due suoi aggiunti (Borgna e Caputo) gli avevano inviato due distinte relazioni per affermare che nella gestione delle assegnazioni delle cause tutto si era sempre svolto regolarmente e che nessuna responsabilità aveva il sostituto Padalino. Sarebbero bastate queste testimonianze per sgonfiare l’inchiesta prima ancora che questa fosse trasferita a Milano. Ma deve esser prevalsa, come troppo spesso capita, l’affezione di chi indaga, per la propria ipotesi accusatoria. Fatto sta che le due relazioni vengono tenute dal procuratore capo in un protocollo riservato e non inviate a Milano nonostante le ripetute sollecitazioni e proteste della difesa del dottor Padalino. E solo l’ultimo giorno prima del pensionamento il procuratore Spataro le consegnerà ai colleghi dell’ufficio di Torino. Sarà in seguito proprio il dottor Borgna, uno dei due estensori della relazione, quando gli verrà affidato il ruolo di facente funzioni al vertice della procura, a rispettare la legge, molto stupito del fatto che quei due documenti fossero ancora a Torino e non davanti al giudice naturale, cioè Milano. Cui finalmente, con ritardo, le carte verranno inviate. Ma, se Torino piange, Milano non ride. A leggere nella denuncia di Andrea Padalino la parola “inerzia” vengono in mente altre storie, altri personaggi, ancora la deposizione di Amara per la cui divulgazione l’ex pm Piercamillo Davigo è stato condannato a Brescia. E rispunta un altro nome, quello dell’aggiunta Laura Pedio, che insieme al collega Eugenio Fusco era titolare dell’inchiesta su Andrea Padalino ed è oggi accusata da lui di non aver svolto indagini alcuna per mesi e mesi e di essere rimasta “inerte” e passiva, lasciando svolgere l’attività investigativa dal nucleo di polizia giudiziaria che lavorava per la procura di Torino. La verità è, accusa di nuovo l’ex pm, che il procuratore Spataro e i suoi sostituti non si sono mai di fatto spogliati delle indagini su di me. Hanno continuato a condurle e a riversare poi le notizie nel contenitore milanese. Ma non c’è mai stato un vero scambio collaborativo tra i due uffici, conclude la denuncia, ma solo un flusso da un’unica direzione. In violazione dell’articolo 11 del codice di procedura penale. Anche perché, sostiene ancora, anche i due pm milanesi (che nel frattempo sono diventati aggiunti, osserva con una goccia di veleno) Fusco e Pedio sono stati complici dei colleghi torinesi, nella violazione delle regole sulle competenze che riguardano cause in cui siano coinvolti magistrati. Ma anche per aver ritardato di mesi l’iscrizione nel registro degli indagati di Andrea Padalino. Si sono poi smascherati quando, dopo aver chiesto nel processo di primo grado tre anni di carcere anche per corruzione in atti giudiziari, nei motivi d’appello hanno ripiegato sul solo abuso d’ufficio. Ma, come ha detto l’avvocato Dinoia, è bastato arrivare davanti a un giudice, perché cambiasse tutto. Ma non è ancora finita. Traffico d’influenze illecite, la svolta decisiva che tutti sottovalutano di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 3 luglio 2023 Aumentano le pene previste che vanno da un anno e 6 mesi a 4 anni e 6 mesi. Per il reato così modificato si propone di introdurre una causa di non punibilità se l’autore collabora con la giustizia. È prossima ad approdare in Parlamento la riforma penale del ministro Carlo Nordio. Tante le novità, da tempo annunciate, alle quali il guardasigilli si è dedicato sin dall’insediamento dell’esecutivo, che - sommariamente - concernono la cancellazione dell’abuso d’ufficio, modifiche al traffico di influenze illecite, fortemente ridimensionato, stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni a tutela dei terzi non coinvolti nelle indagini e sulla custodia cautelare, limiti alla possibilità per i pm di ricorrere in appello. Riforme, dichiaratamente finalizzate al ripristino (ovvero alla sua introduzione, più probabilmente) di un diritto penale realmente liberale e ispirato ai principi cardine del sistema accusatorio. In particolare, tra queste riforme, non ha trovato finora particolare risalto quella in materia di traffico di influenze illecite, reato che aveva assorbito il millantato credito, che viene meglio definito e tipizzato e “limitato a condotte particolarmente gravi”. Aumentano le pene previste che vanno da un anno e 6 mesi a 4 anni e 6 mesi. Per il reato così modificato si propone di introdurre una causa di non punibilità se l’autore collabora con la giustizia. Si tratta, dunque, di una rivisitazione della fattispecie che ben si insinua nelle linee di fondo di riforma dei delitti contro la Pa, tra cui, oltre a quello in esame, quello sull’abuso d’ufficio. Linee di fondo che tentano di dare ampio respiro alle istanze degli amministratori locali i quali troppo spesso lamentano le difficoltà di svolgere in serenità il proprio lavoro per il rischio di apertura di procedimenti penali a loro carico, con unica conseguenza quella di creare una “Amministrazione difensiva” che non fa bene al Paese, alla sua economia e all’immagine che si vuole dare all’estero. Non è un caso se gli investitori stranieri - pur apprezzando le infinite bellezze del Paese - si dimostrano assai restii ad investirci: di tutto questo, la macchina della pubblica amministrazione è la principale osteggiatrice. Maggiore chiarezza, dunque, ma - anche - in ossequio ad un principio di offensività, limitazione alle condotte più gravi e più aggressive del c.d. munus pubblico. In quest’ottica, così come positivamente avvenuto in altri settori dell’ordinamento, si deve leggere l’introduzione di una causa di non punibilità per chi, autore di condotte “minori”, sia in grado di rappresentare all’Autorità giudiziaria entro quale sistema ad ampio raggio si sia inserita la condotta illecita. Una proposta di riforma, avversata dalla maggior parte dell’opposizione, che si auspica possa trovare il definitivo approdo in sede di approvazione parlamentare. *Avvocato, direttore Ispeg La revoca della custodia cautelare non fa venir meno l’interesse a impugnare la misura custodiale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2023 Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28280 depositata venerdì, con riguardo alla riparazione per ingiusta detenzione. “Nell’ipotesi in cui, nelle more del giudizio di rinvio a seguito di annullamento di un’ordinanza del tribunale del riesame in materia di custodia cautelare, sia intervenuta la revoca della suddetta misura, non viene meno l’interesse ad ottenere la decisione da parte del Tribunale della libertà, quando l’indagato intenda ottenere una pronuncia sull’eventuale insussistenza degli indizi al fine della riparazione per ingiusta detenzione ovvero per escludere la possibile reiterazione della misura cautelare per lo stesso fatto”. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28280 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso di un uomo che era finito in carcere perché accusato di rapina. Il Tribunale del Riesame di Firenze, giudicando in sede di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Cassazione, aveva dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse l’appello proposto nell’interesse dell’imputato avverso l’ordinanza del Gip di Pisa che aveva respinto l’istanza di revoca della misura della custodia cautelare in carcere in relazione al reato di rapina aggravata in concorso. Proposto ricorso, il difensore ha lamentato che il collegio cautelare aveva ritenuto la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione a seguito dell’assoluzione e della conseguente scarcerazione, senza considerare il perdurante interesse del ricorrente a una verifica circa i presupposti della gravità indiziaria ai fini della riparazione per ingiusta detenzione. E la II Sezione civile gli ha dato ragione. “Nella specie - si legge nella decisione -, al cospetto di un’inammissibilità non originaria ma sopravvenuta e strettamente correlata al merito dell’impugnazione giacché la revoca della misura cautelare è conseguita all’assoluzione del ricorrente..., si imponeva la previa instaurazione del contraddittorio, stante la necessità di verificare in concreto il persistente interesse all’impugnazione del prevenuto”. Inoltre, prosegue la decisione, se è vero in tema di ricorso avverso il provvedimento di una misura cautelare custodiale nelle more revocata o divenuta inefficace, è necessario che la circostanza formi oggetto di specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dal mancato conseguimento della stessa, nel caso specifico, la prima sede in cui l’imputato avrebbe potuto esprimere le proprie determinazioni in ordine al persistente interesse ad impugnare era il giudizio di rinvio. Sicché la procedura de plano ha compromesso il diritto al contraddittorio e le prerogative difensive dell’imputato, imponendo di conseguenza l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e la trasmissione degli atti al Tribunale di Firenze per l’ulteriore corso. Campania. In Regione 21 madri detenute con 23 figli nei 4 Icam cinquerighe.it, 3 luglio 2023 La proposta di legge alle Camere “Modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e alla Legge 21 aprile 2011, n. 62 in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, approvata all’unanimità dal Consiglio regionale della Campania, può “fare scuola” in Italia affinché non ci siano mai più bambini in carcere”. È quanto ha affermato nella sala “Caduti di Nassiriya” della sede del Consiglio Regionale della Campania, il Presidente Gennaro Oliviero, nella conferenza stampa tenuta insieme con il Garante regionale delle persone sottoposte a detenzione, Samuele Ciambriello. “Ringrazio tutte le forze politiche per aver approvato con voto unanime una legge di grande civiltà che mi appresto a trasmettere ai Presidenti dei Consigli delle altre Regioni italiane - ha detto Oliviero - perché essa sancisce un principio fondamentale ovvero che i bambini non devono varcare la soglia del carcere e vanno protetti dall’esperienza detentiva che, per loro, è estremamente dannosa. La nostra proposta di Legge - ha continuato Oliviero - che prende spunto dalla proposta di Legge Siani, approvata nella precedente Legislatura alla Camera con un’ampia maggioranza ma non al Senato, stabilisce il ricorso alle case-famiglia quando la detenzione riguardi donne con prole non superiore a sei anni”. “In Italia, attualmente, ci sono 21 detenute madri con 23 figli al seguito, nelle Icam di Milano, Torino, Venezia e Lauro, in quest’ultimo ce ne sono dieci, ma le Icam sono strutture detentive e somigliano alle carceri e, quindi, non sono la soluzione adatta per i bambini” - ha detto Ciambriello - che ha aggiunto: “sarebbe incostituzionale sostenere che una madre che delinque ha, per legge, un’impunità precostituita, ma occorre trovare alternative al carcere per le detenute madri per evitare che i loro bambini debbano vivere questa traumatica esperienza e - ha proseguito - questa proposta di legge alle Camere va in questa direzione perché esclude totalmente la custodia cautelare in carcere per le mamme con figli fino a sei anni e prevede il ricorso all’Icam solo nel caso sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, per il resto la scelta preferenziale è quella delle case-famiglia”. Il carcere: e quando esco che faccio? A Torino uno sportello per aiutare chi torna in libertà di Chiara Daina Corriere della Sera, 3 luglio 2023 Si chiama “Sportello dimittendi” il nuovo servizio entrato in vigore a Torino per il sostegno dei detenuti negli ultimi due anni di pena prima del ritorno in libertà: rinnovo-richiesta di documenti d’identità, ricerca di un domicilio, di un lavoro. Con l’aiuto (anche) di sport di squadra come il rugby. Si chiama “Sportello dimittendi” ed è il servizio del Comune di Torino rivolto ai residenti che stanno scontando gli ultimi due anni di pena detentiva nella casa circondariale “Lorusso e Cotugno” con l’obiettivo di accompagnarli alla vita oltre le sbarre favorendo il reinserimento nella comunità e nel mondo del lavoro. In particolare lo sportello, inaugurato alla fine di aprile, che vede la collaborazione dell’Università di Torino, il Terzo settore e la Regione Piemonte, si occupa del rinnovo e della richiesta dei documenti d’identità, della ricerca di un domicilio per i permessi di uscita dal carcere e per il dopo pena e del percorso di formazione e inserimento professionale. A chi ne ha bisogno viene erogata una dote individuale con un importo medio di 1800 euro da utilizzare per l’acquisto di beni e servizi. E per rafforzare le capacità relazionali e il rispetto delle regole all’interno del carcere è prevista la partecipazione a un’attività sportiva di squadra, come il rugby. Il detenuto, a 24 mesi dalla fine della pena, dovrà sostenere un colloquio e compilare una scheda dei bisogni che serviranno per attivare i servizi di cui ha esigenza. Ferrara. Arrivano nuovi agenti all’Arginone, ma non c’è il Garante dei detenuti di Daniele Predieri La Nuova Ferrara, 3 luglio 2023 L’annuncio del senatore Balboni (FdI), da 5 mesi si attende la nomina della figura. “Il garante dei detenuti ha avuto un impatto significativo sulla cultura della giustizia in Italia: ha segnato una svolta sulla qualità della detenzione e dell’esecuzione delle pene, andando oltre tribunali e corti fino a toccare il cuore delle strutture penitenziarie. Perché il grado di civiltà di un paese si misura anche dalle condizioni delle sue carceri”: parole chiare e dirette, scandite durante la presentazione della relazione al Parlamento del Garante dei detenuti nazionale. Che dovrebbero riecheggiare anche a Ferrara, dove invece dal febbraio scorso il garante dei detenuti non c’è: deve essere ancora nominato il sostituto dello scomparso Francesco Cacciola, deve deciderlo il Comune, ma non sembra una priorità, nonostante l’eco di queste parole. Nemmeno la sollecitazione della Camera penale di Ferrara, giorni fa, ha avuto risposte dal Comune per la nomina del garante del carcere Arginone/Satta. Ed era stato anche il Garante regionale, Roberto Cavalieri, a ricordarne l’importanza poiché, spiegava “in occasione del nuovo coordinamento dei garanti in regione ho invitato gli enti che non lo hanno ancora nominato a provvedere”. In Comune, come riferiscono, è in corso da parte degli uffici l’adozione degli atti per individuare i candidati: la macchina burocratica è in moto, e i tempi? Non ci sono termini, si dovrà attendere la “gara”, poi la lista candidati e quindi la selezione e decisione. E anche se la Giunta fa melina, le opposizioni in consiglio non sono da meno, visto il loro silenzio. Il senatore Alberto Balboni, invece, interpellato sui problemi del carcere, sul garante detenuti a Ferrara ha idee chiare: pur non avendo poteri decisionali spiega che “la pratica è già all’attenzione degli uffici comunali, perché non si può restare senza garante: ma posso tranquillizzare la Camera penale che arriverà presto la nomina”. Va oltre, poi, Balboni, da tempo interessato dei problemi del carcere cittadino incontrando sindacati, agenti, detenuti e direzione nei mesi scorsi e facendosi portavoce dei problemi col ministro Nordio e il ministero di giustizia. “Dopo la mia interrogazione e del collega Malaguti, per vie informali abbiamo saputo che nelle previsioni di ulteriori rinforzi vi saranno nuove assunzioni per il carcere di Ferrara alla luce dell’organico sottodimensionato: per questo dobbiamo ringraziare gli agenti, per il lavoro che fanno sono eroi con altissimo senso delle istituzioni e del dovere. Purtroppo le risorse sono quelle che sono, il governo ha stanziato molto per dare dignità ad organici e trattamento economico”. Balboni è perentorio: “vi sono problemi ereditati e per questo mi permetto di segnalare che di recente il governo ha concluso accordi per far scontare le pene nei loro Paesi ai detenuti stranieri in Italia. L’accordo c’è già con Romania e Albania, è in corso con altri”. Una piccola rivoluzione perché per trasferire un detenuto straniero nel proprio Paese occorre vi sia il proprio consenso: “Oggi - spiega Balboni - grazie ad accordi bilaterali con gli Stati di provenienza, si può trasferire il detenuto senza il consenso”. E ancora: “Si sappia che i detenuti nelle carceri italiane sono al 40% stranieri, già trasferirli in parte risolverebbe il sovraffollamento. E ancora, si sappia anche che un detenuto costa 250 euro al giorno allo Stato: e sono soldi che andrebbero per il personale”. Ivrea (To). I Radicali portano i cittadini dentro il carcere eporediese quotidianocanavese.it, 3 luglio 2023 Iniziativa promossa dall’Associazione radicale Adelaide Aglietta e da Radicali Italiani. Sabato e domenica delegazioni di una decina di persone hanno varcato le porte delle carceri di Biella e Ivrea. Gli ingressi autorizzati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono stati organizzati dall’Associazione radicale Adelaide Aglietta e da Radicali Italiani. Insieme al Presidente di Radicali Italiani Igor Boni, ai coordinatori dell’Associazione Aglietta, Andrea Turi, Lorenzo Cabulliese e Giorgio Maracich, hanno varcato i cancelli per la visita alle strutture altre 15 persone che per la prima volta sono entrate in carcere a fare una visita. “La carenza inaccettabile di educatori e di personale, anche di quello amministrativo, e la mancanza di stabilità nella direzione delle strutture rischia di vanificare i miglioramenti che abbiamo riscontrato - dice in merito Igor Boni - dopo vicende molto gravi sulle quali la magistratura sta indagando in queste due strutture si vede un cambio di passo. Il Magistrato di sorveglianza, a detta di tutti, risponde tardivamente alle tante domande dei detenuti, spesso - troppo spesso - con risposte negative. Eppure proprio uno smaltimento nei tempi delle domande potrebbe favorire una decongestione delle stesse strutture carcerarie che vivono in un equilibrio precario. E’ probabile che lo stesso magistrato di sorveglianza viva una carenza di personale”. “Ma la domanda è semplice e la faccio a questo Governo che vede nella carcerizzazione la risposta a tutto: invece di fare propaganda sulla pelle di chi vede i propri diritti negati, detenuti e agenti, sarebbe ora di investire risorse per consentire di riempire gli organici e inserire tutti gli educatori previsti. Basta con i proclami. Non serve essere un esperto per comprendere che queste strutture sono divenute sempre più discariche di marginalità che la nostra società non vuole vedere. Per questo portiamo e porteremo cittadini all’interno. Perché vedere è l’unico modo per capire e parlare di carcere a ragion veduta. Le carceri italiane nulla hanno a che vedere con la funzione rieducative della pena”. Spoleto (Pg). Il carcere diventa un palcoscenico incantato ansa.it, 3 luglio 2023 Detenuti fra il pubblico e in scena a rivisitare Shakespeare. Il teatro ha una sua magia capace di trasformare le cose, anche il carcere Maiano di Spoleto che per due giorni, durante il festival dei Due Mondi, si trasforma in un luogo incantato, palcoscenico di uno spettacolo a cui ogni sera assisteranno 1.200 spettatori ‘da fuori’ e 300 ospiti del carcere. I detenuti non saranno solo fra il pubblico, ma anche e soprattutto in scena per “Sogni di una notte di mezza estate”. Sogni e non sogno perché questo è il risultato di un lavoro che iniziato a settembre sulla commedia di William Shakespeare mischiando le vicende dello spiritello Puck e della regina delle fate Titania con i loro sogni “che sono sogni di libertà” ha spiegato Giorgio Flamini, della compagnia SIneNOmine, che da dieci anni lavora in carcere. Il carcere è sotto incantesimo, mentre gli spettatori aspettano di entrare le lancette di un enorme orologio iniziano a girare al contrario, arrivano fate e folletti e la porta della casa di reclusione si apre per farli entrare in una nuova dimensione. Il progetto pensato da Flamini è a dir poco ambizioso e coinvolge praticamente tutto il Maiano dove sono detenute 445 persone. Sono 120 gli artisti coinvolti fra detenuti e non (attori, coristi danzatori). Le scene sono state realizzate dai detenuti del percorso di secondo livello artistico della scuola del carcere, la costruzione dell’allestimento itinerante e lo sviluppo del palcoscenico sono stati realizzati da detenuti e agenti Mof (quelli cioè che si occupano della manutenzione ordinaria) della falegnameria e dell’officina della Casa di Reclusione. Sempre agenti e detenuti sono gli elettricisti. Facile immaginare perché i 1.200 biglietti del debutto il 5 luglio siano già sold out, mentre non molti restano per il giorno successivo. “È importante che il pubblico del festival entri, attraversi le mura e veda le celle” ha spiegato Flamini parlando anche di Je est un autre #2, mostra fotografica sulle prove dello spettacolo diffusa nei luoghi di mobilità alternativa della cittadina (come ascensori, scale mobili e tapis roulant). Lo spettacolo ha già avuto una anteprima parziale al Salone del Mobile di Torino, mentre ieri nel carcere sono entrati alcuni dei protagonisti della serie Mare Fuori che hanno poi partecipato a un incontro che rientra nel progetto Rai ‘La cultura rompe le sbarre’. “Il teatro ci rende liberi anche se siamo qua” ha spiegato uno dei detenuti alla TgR, liberi almeno sul palcoscenico, nei Sogni di una notte di mezza estate. Il lavoro povero, piaga trascurata di Marianna Filandri La Stampa, 3 luglio 2023 L’occupazione è cresciuta. A maggio 2023 sono circa 23,5 milioni gli occupati nel nostro paese con un aumento di 21 mila lavoratrici e lavoratori. La premier Meloni ha commentato questo dato come incoraggiante, risultato del lavoro del governo. Effettivamente è un dato positivo: il lavoro è un diritto fondamentale e un bene per l’individuo. Viene considerato un bisogno primario che soddisfa non solo la necessita di reddito e sicurezza economica, ma concerne anche più complessi bisogni di tipo personale, sociale e simbolico. Inoltre, l’occupazione contribuisce in molti modi al benessere collettivo. Le implicazioni economiche e morali che la questione del lavoro comporta nella vita sociale hanno portato a definire la disoccupazione come una calamità sociale, soprattutto per i più giovani. Dunque, tutti contenti. In realtà sarebbe opportuna una certa cautela per almeno due ragioni. La prima è che l’aumento degli occupati non significa che il problema della mancanza di lavoro sia stato superato. Secondo Istat, sempre nel mese maggio ci sono stati oltre 1,9 milioni di individui che pur cercando lavoro non lo hanno trovano. A questi si affiancano 12,5 milioni di inattivi, con un dato particolarmente drammatico per i giovani che rappresentano la fascia di età con maggiore probabilità di non essere occupata. La seconda è che l’occupazione non può essere analizzata solo in termini quantitativi. Più lavoro sì, ma di qualità. Non tutti i lavori infatti sono buoni. Quali non lo sono? Certamente quelli che non consentono di pagare ciò che è indispensabile per vivere. Anche senza entrare nel merito dei contenuti e della modalità di svolgimento dell’occupazione ma limitandoci alla dimensione materiale, ci sono lavori per i quali il salario, l’orario e il contratto non consentono di uscire da una condizione di indigenza. Si è occupati ma si è poveri. Il fenomeno della povertà da lavoro è molto diffuso in Italia e riguarda un lavoratore ogni otto, i cosiddetti working poor. Le cause di questa condizione sono diverse e tutte rilevanti. Nel dibattito attuale ha però un peso cruciale il basso salario. Una gran parte degli occupati poveri è infatti poco retribuito. Come è definito il basso salario? In vari modi. I due principali considerano i salari sotto a una soglia - solitamente il 60% della media - della retribuzione annua o del salario orario. Secondo l’ultimo rapporto Istat all’inizio dello scorso anno, nel primo caso si contavano circa 4 milioni di occupati a basso salario annuo con una retribuzione inferiore al valore di 12 mila euro, pari a poco meno del 30% dei dipendenti. Considerando la retribuzione oraria erano invece 1,3 milioni gli occupati, circa il 9,4% con retribuzione inferiore a 8,4 euro l’ora. Questo tema è particolarmente rilevante per la recente proposta di introduzione di una soglia di 9 euro all’ora presentata dalle forze di opposizione. Questa cifra, se fosse approvata, rappresenterebbe il salario minimo legale e riguarderebbe non solo gli occupati senza contratti collettivi di lavoro, ma tutti gli occupati. Soprattutto sancirebbe chiaramente il principio per cui chi lavora ha diritto a una retribuzione decente. Tuttavia, questa proposta è stata prontamente bocciata dalla ministra Calderone. Il governo sembra non interessato alle condizioni di lavoro della fascia più debole della popolazione. Ma se la disoccupazione è una calamità sociale, il lavoro povero non può essere tanto meglio. La “convenienza” ha un costo. Ecco il mondo dei senza diritti di Sara Giudice Il Domani, 3 luglio 2023 Da oltre un mese protestano i lavoratori del brand specializzato nella grande distribuzione di mobili e complementi d’arredo Mondoconvenienza. Denunciano turni massacranti, paghe da fame (6 euro lori all’ora), chiedono l’aiuto di montacarichi e carrelli di sostegno. I lavoratori sono quasi tutti stranieri: tunisini, pakistani, rumeni, moldavi. Molti hanno paura e se la prendono con i colleghi. L’azienda adotta l’esternalizzazione e dunque sono formalmente lavoratori della ditta RL2, 800 sparsi in tutta Italia. Contratti flessibili e precariato. La procura di Bologna ha aperto un’indagine e chiesto il processo per cinque persone, tra cui Mara Cozzolino, presidente del cda della holding Mondo Convenienza. Tra settembre e ottobre il giudice deciderà se andare in tribunale o chiudere la vicenda penale. La RL2 si dice disponibile a venire incontro alle richieste dei lavoratori, ma non a trattare con il sindacato. Scontri durante le proteste. A Rashid sono stati diagnosticati quaranta giorni complessivi di prognosi al pronto soccorso. Porta un collare che dovrà indossare per almeno dieci giorni. Ha due denti che si muovono per colpa delle botte subite, una contusione al gomito e un dolore persistente alla spalla. Lo hanno aggredito a calci, inferti con scarpe antinfortunistiche colpendolo al collo, al torace e al braccio. Non è più un ragazzino Rashid ma un signore pakistano di 46 anni; è tra gli operai più anziani che stanno portando avanti “la lotta”, così questi lavoratori definiscono il loro sciopero, la loro resistenza, in corso da più di trenta giorni davanti agli stabilimenti di Mondo Convenienza. Turni massacranti, paghe da fame per garantire prezzi bassi e mobili alla portata di tutti. Rashid e gli altri hanno deciso di contestare questo modello e di farsi sentire, sono assunti presso una cooperativa che lavora per il colosso del mobilio a basso costo. L’uomo racconta che si trovava davanti al magazzino dell’azienda, dove lavora da ormai sei anni, quando è stato aggredito da uno dei suoi responsabili. Il “caporale”, così lo chiama. Sulla vicenda sono in corso accertamenti per ricostruire quanto accaduto. La lotta di Campi - Rashid, insieme a molti altri suoi colleghi, chiede più diritti, più dignità. Chiede soprattutto di non essere più invisibile. Ora sarà più semplice, con quella fasciatura bianca che gli ricopre interamente il braccio e la spalla. Il suo sguardo è dolorante e rassegnato, ma il suo spirito resiste. Il corpo è provato per i tanti anni di lavoro usurante e ora anche da questa aggressione che proprio non si aspettava. Gli avevano sempre raccontato che in Italia scioperare è un diritto di tutti i lavoratori e che mai sarebbe finito sulla barella di un ospedale. Osserva i suoi colleghi dal pronto soccorso, alcuni di loro lo incoraggiano con striscioni eloquenti: “Forza Rashid! Toccane uno, tocchi tutti!”. A Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, il caldo è torrido, l’afa insopportabile. Ancor di più per chi resiste in piedi tutto il giorno, fuori dalla ditta, con bandiere e striscioni e con la paura di subire altre ritorsioni. Poche settimane fa, un furgone ha quasi investito alcuni operai che stavano picchettando fuori dai cancelli. Il clima è tesissimo, ma la protesta non si ferma. Ogni tanto qualcuno porta da bere e da mangiare in segno di solidarietà umana nei confronti dei lavoratori. “Schiavi mai”, recita una delle tante scritte sui cartelloni sventolati dagli operai durante il sit-in, una protesta che proietta questo luogo fuori dalla solitudine delle zone industriali della provincia italiana, dove tutto era noto, ma nessuno si era mai accorto di niente. Campi Bisenzio è il luogo che rappresenta da tempo ormai un modello italiano di resilienza. Circa quaranta mila abitanti, situato nell’area della città metropolitana di Firenze tra Prato e il capoluogo fiorentino. Campi viene citato anche da Dante nella Divina Commedia al canto XVI del Paradiso, mantiene la piazza del Comune e il teatro intitolati al grande poeta. E sembra quasi un paradosso pensare che oggi, in questa periferia industriale del paese, quel che certamente rimane poetico è la lotta operaia. È di Campi Bisenzio l’esperienza del collettivo di lavoratori della GKN, che nel 2021 protestava contro il licenziamento irregolare di oltre 40 mila persone. La proprietà aveva deciso di chiudere lo stabilimento e mandar via tutti, operai, quadri e dirigenti, per spostare la produzione in est Europa. I lavoratori avevano così occupato l’azienda per diversi mesi e da quell’esperienza di collettivo è nato un vero e proprio laboratorio della nuova identità della sinistra italiana e della rivendicazione operaia. Tessile, pelletteria, logistica, grandi capannoni. Il distretto industriale della zona di Campi Bisenzio è lo specchio dell’attuale modello industriale e produttivo italiano. Ed è proprio da qui che è partita la rivolta degli operai dello stabilimento di Mondo Convenienza, che dal 30 maggio scorso, proseguono senza sosta lo sciopero con presidi permanenti e picchetti, supportati dall’instancabile sindacato dei Si Cobas e repressi da agenti della polizia in tenuta anti sommossa, oltre che dagli stessi responsabili dell’azienda che gestisce in appalto alcuni servizi. La protesta coinvolge soprattutto: facchini, autisti e montatori di mobili. A nulla sono serviti i tentativi dell’azienda di dissuaderli o delle forze dell’ordine di contenere la rivolta. La cameretta a che prezzo? Ma chi sono questi lavoratori invisibili? Sono quelli che, dopo l’acquisto di una cameretta per i nostri figli o di un soggiorno per una casa al mare, attendiamo per un’intera giornata dalla poltrona del nostro appartamento, inondando di telefonate il call center: “A che punto è la consegna?”. Sono quelli che si faranno tutti i piani di scale del nostro palazzo con il divano in saldo sulla schiena mentre noi li guarderemo sbalorditi e ci chiederemo in silenzio: “Ma come fanno a trasportarlo?”. Sono quelli che osserviamo montare a velocità della luce quei mobili, così economici, che ancora non ci sembra vero. “Qual è il trucco?”, ci chiediamo. Una camera da letto ben accessoriata, con una buona promozione, non costa più di 500 euro. Un vero affare: letto, armadio, cassettiera e comodini, il tutto comprensivo di trasporto e montaggio, pagabile anche in comode rate mensili. D’altronde, ce lo ricordano continuamente anche le magliette degli operai che entrano nelle nostre case: “La nostra forza? Il prezzo”. Mondo Convenienza è un’azienda italiana che opera nel settore dell’arredamento, fondata nel 1985, a Civitavecchia, da Giovan Battista Carosi e controllata dalla Mondo Convenienza Holding S.p.A. Il brand è specializzato nella grande distribuzione di mobili e complementi d’arredo, oggi è tra i primi distributori di arredamento per la casa. In Italia, con i suoi 47 punti vendita, ha superato anche Ikea. Sul sito vengono elencati i grandi risultati del gruppo come l’apertura di tre punti in vendita anche all’estero, in Spagna, precisamente tra Madrid e Barcellona, e anche i dati del fatturato, nel 2021 ha superato il miliardo di euro. Il modello produttivo è esplicitato chiaramente nel loro pay-off, diventato ormai famoso e ben riconoscibile: “La nostra forza? Il prezzo, un modo per garantire la possibilità di avere un arredamento alla portata di tutti”, si legge. Gli autocarri partono dai fornitori, per poi stoccare la merce nei quarantuno magazzini presenti sul territorio italiano. Una ricetta perfetta per l’azienda. La produzione viaggia a pieno ritmo e garantisce trasporti sempre rapidi e puntuali. Logistica e trasporti sono perfettamente integrati, lo spazio non viene sprecato ma ottimizzato. I furgoni che arrivano a casa del cliente vengono riempiti su misura del tipo di percorso e ordini da consegnare. Processo alla convenienza - Tutti i montatori, i facchini e gli autisti indossano maglia e pantaloni con stampato il logo “Mondo Convenienza”, anche il camion che trasporta i mobili ha la scritta molto evidente in sovra impressione: furgone blu, scritta bianca su sfondo rosso. Brand riconoscibile, lavoro di squadra. Difficile per l’azienda sostenere che quelli che stanno scioperando non sono dei loro lavoratori diretti. Eppure, formalmente, è così. Non sono dipendenti di Mondo Convenienza, l’azienda adotta un modello molto in voga: l’esternalizzazione. Alcuni servizi, essenziali per il buon funzionamento del business, non vengono cioè gestiti direttamente dal gruppo principale ma sono dati in appalto ad aziende esterne. Il motivo è quasi sempre quello del risparmio sui costi del personale e la possibilità di applicare contratti flessibili, precari in pratica. Dal call center per il servizio clienti alla consegna, montaggio e trasporto dei mobili, tutto è esternalizzato. Per ciò che riguarda questi ultimi, l’appalto di Mondo Convenienza, per la zona di Campi Bisenzio e Bologna è affidato alla ditta RL2, circa 800 dipendenti sparsi per tutta l’Italia. Un meccanismo che ha portato anche all’apertura, per fatti risalenti al 2017-2018, di un’indagine da parte della procura di Bologna che ha chiesto il processo per cinque persone, tra queste anche Mara Cozzolino, presidente del cda della holding Mondo Convenienza, difesa dagli avvocati Pietro Sarrocco e Giulia Bongiorno, e altri quattro rappresentanti e responsabili di società coinvolte nel magazzino di Calderara di Reno. L’accusa è quella di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il cosiddetto “caporalato” per turni senza fine, ricorso a cooperative e lavori massacranti senza supporti meccanici. Tra settembre e ottobre il giudice dovrà decidere se mandarli a processo o chiudere la vicenda penale. Le rivendicazioni dei lavoratori, invece, continuano. Sarah Caudiero è la sindacalista del Si Cobas Prato e Firenze che segue costantemente i lavoratori in sciopero insieme al coordinatore Luca Toscano e alla delegata Francesca Ciuffi. Partecipano ai tavoli della prefettura dove sindacato, Mondo Convenienza, la cooperativa RL2 provano a trovare un’intesa. “L’azienda si è rifiutata anche soltanto di prendere in considerazione le richieste dei lavoratori, c’è stata una chiusura netta, un no secco alle nostre istanze”, dice Caudiero. A Firenze, l’azienda si è incontrata con la regione Toscana, l’interlocuzione continua, ma secondo i lavoratori in protesta non si sono ancora raggiunti risultati accettabili. Le richieste - Lo sciopero attualmente coinvolge le città di Campi Bisenzio, Bologna e Roma con lo stabilimento di Riano. Man mano che passano i giorni sono sempre di più gli operai che protestano, scrivono al sindacato denunciando le medesime condizioni. Così, aumentano i presidi in tutta Italia, sono una trentina gli operai che rappresentano l’avanguardia di questa rivendicazione. Quello che chiedono in primis è l’applicazione del contratto nazionale della logistica che andrebbe a cancellare l’attuale che li vede inquadrati come multiservizi/pulizia. Non è solo una mera questione lessicale ma un cambiamento sostanziale perché comporterebbe il riconoscimento di un salario più alto e di alcune tutele in più. “Gli operai sanno a che ora iniziano a lavorare mai a che ora finiranno, la giornata può essere infinita. Chiediamo che ci sia una regolamentazione degli orari che non sia forfettaria o a discrezione dell’azienda ma regolamentata in qualche modo da un badge o una tabella oraria”, denuncia il sindacato. C’è poi la questione della sicurezza: tutti i mobili sono portati sulle spalle dagli operai, senza montacarichi, senza carrello elettrico e le squadre sono organizzate soltanto con due persone per turno, anche per i carichi più pesanti, non è possibile avere una terza persona a supporto. Nessuno di questi operai riesce a continuare per molti anni di seguito a fare questo lavoro, le loro schiene sono devastate, la loro salute pesantemente compromessa. “Chiediamo per loro l’applicazione del contratto della logistica anche per riconoscergli il diritto ad una paga più dignitosa di quei 1080 euro lordi di base che li costringe, per arrotondare, a straordinari e ritmi ancora più massacranti per conquistarsi 200/300 euro in più ogni mese”, continua il sindacato. La paga oraria prevista dalla multiservizi è di soli 6,80 euro lordi l’ora. Senza straordinari questi lavoratori arrivano ad appena mille euro al mese. Chi protesta? I lavoratori sono quasi tutti stranieri: tunisini, pakistani, rumeni, moldavi. Non tutti sono d’accordo a scioperare, molti hanno paura e se la prendono con i colleghi, anche perché temono di perdere il posto di lavoro. Shaid ha 25 anni, è pakistano, vive in Italia da ormai sei anni e lavora nello stabilimento di Campi Bisenzio. In Italia ci è arrivato a piedi, mettendoci circa sette mesi. È passato per la Turchia, la Grecia, per i boschi della Bosnia, è uno dei tanti giovani sopravvissuti alla rotta balcanica, uno dei tanti passaggi disperati dei migranti in fuga. Ha vissuto sulla pelle la ferocia dei respingimenti, fino a trovare nell’Italia il paese dove cercare una nuova vita e aiutare la sua famiglia rimasta in Pakistan. “Non mi immaginavo di trovare queste condizioni di lavoro ma non ho paura di niente, lo sto dicendo anche ai miei colleghi di non avere paura”, dice. Lavora per Mondo Convenienza da tre anni, ha iniziato come facchino, ora fa l’autista/montatore di mobili, in pratica guida il camion che trasporta tutta la merce e una volta arrivato nelle case si occupa del montaggio dei pezzi, uno ad uno. Per gli operai l’upgrade come autista significa soldi in più e in molti puntano a questa mansione una volta che vengono assunti. “Il capo mi diceva di non prendere le ferie, in questo modo mi avrebbero promosso autista”, ci racconta un altro operaio. “Ma al terzo anno consecutivo senza fermarsi, senza riposare, non puoi farcela”, dice. L’upgrade da montatore semplice ad autista/montatore garantisce 30 euro in più al giorno, la cosiddetta “trasferta”. Ma per guadagnartela devi fare almeno ventitré giorni di fila senza fermarti. La paga diversamente rimane misera, circa 1300 euro lordi. “Entro nel magazzino a caricare la merce alle sette del mattino e finisco tardi la sera. Vado avanti anche per 12/13, a volte 14 ore al giorno, finché non abbiamo finito di trasportare e consegnare tutti i mobili”, aggiunge lo stesso operaio. Turni come questi per sei giorni su sette, no stop. Il raggio di azione in cui a Shaid possono capitare le consegne è di 100 km, ogni tanto deve arrivare anche da Prato fino a Bologna per 10 euro in più al giorno. “Se danneggiamo qualche mobile o il cliente si lamenta ci tolgono i soldi dalla busta paga, decide l’azienda quanto”. Vietato sbagliare. “Esco di casa e vedo i miei figli dormire, rientro e li vedo di nuovo nel letto. Non è vita questa, viviamo solo per lavorare” mi dice Florin, rumeno, 48 anni, da ventitré lavora per Mondo Convenienza. “Ho degli schiacciamenti vertebrali, ma continuo a lavorare. Se provo a dire che non ce la faccio più mi rispondono che il cliente deve essere sempre contento”. Non è solo una questione salariale. Questi lavoratori chiedono che gli venga riconosciuto il tempo della vita, rivendicano il diritto alla felicità e alla salute, il diritto di veder crescere i loro figli. Le risposte dell’azienda - La RL2, che gestisce in appalto i servizi di Mondo Convenienza e che ha la responsabilità diretta dell’assunzione di questi lavoratori, si dice disponibile a venire incontro alle richieste, non riconoscendo però al sindacato Si Cobas il diritto di trattare per conto dei loro dipendenti: “Non ha siglato il contratto nazionale”. Uno dei problemi dunque sarebbero gli interlocutori. “La nostra volontà è quella di parlare direttamente con gli operai e siamo disponibili e aperti ad un confronto”, ci risponde la cooperativa. Su alcuni punti però rimane di fatto ferma sulle sue posizioni, sostenendo l’impossibilità di una gestione diversa del tempo dei lavoratori, che mentre sono in turno potrebbero “fermarsi per una pausa, per mangiare o per qualsiasi altra cosa”. Niente badge dunque né tabella oraria. “Ci sono moltissimi nostri dipendenti che non hanno garantito in questo momento il diritto a lavorare, quelli che protestano sono una netta minoranza, gli altri sono soddisfatti di quanto guadagnano e di come vengono trattati”, ci dice Valentina Ferreri, direttrice HR di RL2. Non ci saranno conseguenze neanche per chi ha picchiato Rashid, il lavoratore pakistano finito in ospedale per le botte subite da uno dei responsabili della RL2. “Non è come sembra, sostiene l’azienda. Il lavoratore d’altronde non ha nemmeno sporto denuncia”. La cooperativa promette di impegnarsi garantendo ai lavoratori “l’introduzione di moderni carrelli elettrici.” Niente più schiene spezzate, dunque. Mondo Convenienza, contattata da Domani, non ha risposto direttamente alle nostre domande: “La ringrazio per averci contattato e darci la possibilità di replicare. La metto in contatto con RL2 perché le domande attengono alla loro sfera d’azione”. La forza e il coraggio del cardinale Zuppi di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 3 luglio 2023 Il porporato, fra i miei più cari amici, sta davvero facendo l’impossibile per trovare la via della pace. In questi giorni è in Russia, inviato da Papa Francesco. Il gelo di Vladimir Putin non ha certo piegato “Don Matteo”. La vita è bellissima ma può essere crudele e spietata per chiunque pensi soltanto al denaro, all’egoismo e al successo personale. Credo che la ricchezza più vera e autentica siano invece gli incontri, l’amicizia, le emozioni, il rispetto. Ho centinaia di amici che mi hanno donato autentica felicità. Tra questi, uno dei più cari è un porporato, il cardinale Matteo Zuppi, uno dei prelati che salvano davvero la Chiesa di Papa Francesco, di cui - credo di non sbagliare - sarà il possibile successore. Matteo è un mio amico da decenni, e per me è rimasto “Don Matteo”, proprio come il protagonista televisivo. Appartiene al gruppo degli amici più cari della Comunità di Sant’Egidio, di cui mi sento uno dei fondatori, e di lui ho un patrimonio di ricordi e di emozioni favolose. Come quando venne a trovarmi a Bologna, dove avevo parlato ad una conferenza assieme al mio collega Raffaele Fiengo, leader del nostro sindacato dei giornalisti. Chiamai al telefono Matteo Zuppi, che mi chiese subito dove mi trovassi. Spiegai che, dopo la conferenza bolognese, ero a cena al ristorante della Feltrinelli. “Ti raggiungo subito”, fu la sua secca risposta. Serata indimenticabile. Il cardinale arrivò in bicicletta con una giornalista che lo doveva intervistare, si sedette a tavola, dopo avermi imposto di non alzarmi a salutarlo, “perché sono più forte di te e te lo impedisco”. Mangiammo e bevemmo, scambiandoci pareri e confidenze. Il mio collega Fiengo era davvero estasiato. Proprio in questi giorni il cardinale è impegnato in una complessa missione diplomatica per trovare un percorso di pace nella Russia disastrata da Vladimir Putin. Il cardinale è stato a Mosca, ha avuto numerosi incontri, a cominciare da quello con Kirill, patriarca russo della Chiesa ortodossa. L’obiettivo finale era riuscire a incontrare Putin, ma l’obiettivo, per ora, sembra impossibile da realizzare. Zuppi, che ha un carattere forte e deciso, non si è certo perso d’animo. Ha il mandato di Papa Francesco, ed è pronto a volare in Cina e negli Stati Uniti per tessere il possibile e l’impossibile per arrivare alla pace. Quella pace che tutto il mondo attende, dopo la disastrosa e criminale guerra della Federazione Russa all’Ucraina. Sono giorni angoscianti e terribili. Due care amiche che raccontano la guerra in Ucraina, la collega della TV Stefania Battistini e l’inviata del Corriere Marta Serafini sono sempre nei miei pensieri e nel mio cuore. Vorrei proteggerle. Ho seguito e raccontato 10 guerre come inviato speciale del Corriere della Sera, ma questi ultimi sanguinosi conflitti, ammorbati dall’uso spregiudicato dei social, sono i più pericolosi e velenosi. Avrei desiderato andare in Ucraina per sostenere i miei colleghi. Ho detto che nonostante l’anagrafe corro ancora per salire sul tram. La direzione giustamente me lo ha vietato. Ho quasi 78 anni. Nella rivolta dei disperati delle banlieue va in cenere la Francia della “fraternité” di Domenico Quirico La Stampa, 3 luglio 2023 I popoli del Sud globale guardano attoniti la nazione dei diritti umani, l’uguaglianza e lo Stato sociale. Parigi si è trasformata da una meta per il riscatto, a un posto torbido, diviso, che sdegna e isola gli ultimi. Vi sono luoghi che appartengono solo alla geografia, a scoloriti ricordi scolastici, o peggio ai pieghevoli delle agenzie di viaggio. Altri invece sono densi di una perenne valenza simbolica, sono concrete luci nelle tenebre del Tempo, luoghi che immaginiamo abitati da sempre da uomini severi e coraggiosi che ci aiutano a marciare avanti. Luoghi, nazioni che evocano il meglio anche di ognuno di noi, la lotta per il Progresso, la Rivoluzione contro il privilegio, i Diritti come sacra proprietà di ogni singolo uomo, la Cultura come ricchezza comune. Luoghi destinati ad essere una esperienza interiore, qualcosa che accade dentro di noi ogni volta che li si evoca e che abbiamo aggiunto al patrimonio dei miti. Uno di questi luoghi è la Francia. La sua Grandezza, già. Anzi: una certa idea della Francia che, nonostante tutto, resta viva tra i popoli. Certo. Lo so. Tutto questo è innumerevoli volte fallito, come tutto prima o poi sempre fallisce. Ma da questi fallimenti si compone gradualmente la trama di una Storia che sfugge agli sguardi dell’uomo effimero e che dobbiamo tessere e ritessere per procedere avanti. Semplifico: partono le note della Marsigliese che a legger bene le strofe è una forsennata marcia bellicista. Eppure. Si apre una porta. Si avanza a occhi chiusi. Ebbene si guarda la Francia di questi giorni, la Francia della rivolta delle periferie, un Paese torbido e diviso, con i saccheggi e gli incendi, centinaia di arresti, le strade percorse da unità speciali di poliziotti che evocano le strade di autocrazie alle prese con intifade manesche, e quella idea della Francia ci sguscia di mano. Mi chiedo se l’incantesimo non ha perso il suo potere, quello di diventare vivo allo sguardo come un corpo umano. Raccolgo lo sconcerto indispettito di alcuni degli abitanti di quello che oggi definiamo con un certo spaventato fastidio “il sud globale”. Sarebbe questo il Paese della Grande Rivoluzione - mi chiedono - che uccide ai posti di blocco e insegue a randellate i suoi veri proletari, che sono gli ex immigrati diventati cittadini ma ammucchiati nelle banlieue e nelle camere ammobiliate, ignorati e disdegnati come un tempo avveniva per i coloni di Oltremare? Se in politica esistere è agire, allora assistiamo al tramonto di una idea. Attenzione: non è soltanto un problema francese. Con essa declina anche la credibilità dell’Europa intera che di quella storia è filiazione e sviluppo e che appare sempre più concretamente una società avvolta come da una alga di meschine associazioni di interesse. Soprattutto in questi tempi di guerra è qualcosa di cui possono giovarsi solo coloro che si stanno schierando al di là della nuova cortina di ferro. Si svela, ancora volta una Francia di cittadinanze sconnesse e divise, dove la risposta del sussiegoso europeista Macron è militarizzare le città o tirar fuori dal cassetto una pericolosa bugia, l’esser questo subbuglio il frutto delle trame insurrezionale dei forsennati dell’islam estremista che congiurano nelle moschee di banlieue. Che non abbozza neppure un timido mea culpa. Vediamo emergere il lato peggiore della politica francese, voler essere, con un macchiavellismo degli imbecilli, nobili e insieme furbi, restare gli eredi della Luce e insieme agire come i maliziosi figli delle tenebre. Emerge, purtroppo, quella profonda compiacenza, quel gusto che la Francia ha talora di sé medesima, quel rifiuto di modificarsi che diventa irritazione se si sente compromessa. È amaro constatare che i capi della sinistra francese, vera o presunta, ancora una volta hanno in comune solo l’impotenza, ovvero sono tutti egualmente tributari della stessa politica della destra che detestano a parole ma sono costretti a servire. Quante volte abbiamo dovuto rassegnarci, con la Francia, alla ammissione che l’amicizia spesso non sta nelle parole ma nei silenzi: le ipocrisie verso i migranti, ad esempio, la giungla di Calais e la frontiera di Ventimiglia, o le coloniali maniere con cui fino ad oggi si è cercato, con poco esito, di accudire alle sabbie mobili della Françafrique. Le idee sul problema delle periferie e sui loro abitanti sono state logorate dall’uso illecito, svuotate dalle falsità di chi se ne è servito. Le banlieue restano solo un problema, forse insolubile, di ordine pubblico, gente da tenere a bada o popolo ignoto. O peggio: che non interessa, che si allontana sempre più in abitudini e soprattutto in rancori diversi. Persino la estrema sinistra non lo considera interessante come “massa rivoluzionaria”. Accudisce solo le plebi francesi della crisi. Eppure, nella attesa febbrile di una società diversa e più umana era il ruolo storico della Francia, se volete dal 1789. Dove si è persa questo attesa esaltante? Forse nel declino economico e politico, nell’appassirsi di una cultura che era universale e oggi è sociologia claudicante; e nelle rigatterie di una politica di meschino cabotaggio. Ma se la “fraternité” appare a Parigi più chimerica della luna di Ariosto che resta della Francia?