Estate in carcere, Antigone: “Rischio sucidi, ai detenuti servono attività” Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2023 “Mancano ventilatori e acqua anche per bere”. “L’affollamento in carcere in estate ancora più drammatico per i pochi spazi e con una riduzione significativa delle attività organizzate. L’anno scorso in agosto ci sono stati 15 suicidi. Quest’anno da inizio anno ce ne sono stati 39 tra cui uno drammatico avvenuto nel carcere di Pescara, un ragazzo marocchino, testimone delle violenze di Santa Maria Capua Vetere si è dato fuoco”. A lanciare l’allarme sulla difficile estate nelle carceri è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Parlando dalla sede dell’associazione, a Roma, Gonnella sottolinea: “Il caldo non è una calamità naturale è qualcosa che si può prevedere e fronteggiare invece ogni estate mancano ventilatori, mancano sezioni frigo, manca l’acqua per rinfrescarsi e bere a sufficienza, non in tutte le celle c’è la doccia per lavarsi e mantenere le condizioni igieniche”. Il rischio, con gli operatori in ferie, è che “si produca una dispersione di contatti con i detenuti” molti dei quali “dovranno gestire in solitudine la loro disperazione”. Per questo l’appello dell’associazione è chiaro: “Cerchiamo di fare due cose immediatamente per ridurre il rischio suicidio: diamo possibilità ai detenuti di telefonare quotidianamente ai loro cari, tranne nei casi in cui ci siano ragioni di sicurezza ostative, e riempiamo di attività le carceri. Così la persona non sarà chiusa in se stessa e nella cella”. I lanzichenecchi delle procure fanno più paura di quelli dei treni di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 luglio 2023 La Consulta ha stabilito che le conversazioni di Matteo Renzi erano state intercettate illecitamente. Una procura che si muove senza osservare la Costituzione e senza rispettare il Parlamento dovrebbe indurre ora il ministro della Giustizia a intervenire. I lanzichenecchi di Foggia fanno paura, quelli delle procure ancora di più. Sono passati quattro giorni dalla clamorosa sentenza con cui la Corte costituzionale ha dato ragione a Matteo Renzi accogliendo il conflitto di attribuzione proposto dal Senato nei confronti della procura di Firenze. La storia la conoscete. La procura di Firenze considerava legittimo sequestrare delle conversazioni che riguardavano Renzi dallo smartphone di uno degli indagati dell’inchiesta Open. La difesa messa in campo da Renzi considerava l’accaduto inaccettabile. Tesi: i messaggi elettronici sono riconducibili alla nozione di “corrispondenza” e la corrispondenza per i parlamentari viene tutelata in modo particolare dalla Costituzione, con l’obbligo per i pubblici ministeri di chiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza (articolo 68). La Corte costituzionale ha dato ragione a Renzi e lo ha fatto affermando un principio importante. Che dovrebbe essere scontato ma non lo è. “Gli organi investigativi sono abilitati a disporre il sequestro di ‘contenitori’ di dati informatici appartenenti a terzi, come smartphone, computer o tablet, ma quando riscontrano la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, devono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza”. Il dato interessante relativo a questa notizia non è solo ciò che ha stabilito la Corte costituzionale. Ma è anche il modo con cui negli ultimi giorni questa notizia è stata trattata. Boxini a pagina trenta, tagli bassi, colonnini anonimi. La questione, ovviamente, non è interessante per quello che può significare per il futuro Renzi. È interessante per qualcosa di più importante. Per tutto quello che può significare sul terreno del rispetto del Parlamento. Per tutto quello che può significare sul tema del giusto equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario. Per tutto quello che riguarda una questione tabù, che prima o poi meriterebbe di essere denunciata. Ovverosia: la presenza di una magistratura inquirente che in teoria dovrebbe garantire il rispetto della legalità ma che nella realtà si sente così spesso sopra le parti da sentirsi autorizzata a violare le regole per affermare i propri pieni poteri. E la realtà di questa storia, della storia di Renzi, evidenzia un tema enorme: il tentativo da parte di un magistrato di violare la Costituzione per poter utilizzare conversazioni private di un senatore della Repubblica senza passare prima dal Parlamento. Verrebbe da chiedersi dunque: ma dove sono i difensori della Costituzione? Dove sono i difensori della democrazia? Dove sono i difensori del Parlamento? Dove sono gli antipopulisti che alzano il sopracciglio ogni volta che il primato della politica viene messo sotto scacco? La storia delle conversazioni di Renzi intercettate illecitamente ha anche una implicazione ulteriore. Un corno che riguarda un fatto denunciato dall’ex presidente del Consiglio in Parlamento. Era il 1° dicembre e Renzi disse: “C’è stata un’ordinanza della Corte di cassazione che ha ordinato di annullare senza rinvio il sequestro e di restituire il materiale sequestrato senza mantenimento degli atti sequestrati nei confronti di un indagato (Carrai). Ebbene - ha detto Renzi - il pubblico ministero ha scelto di prendere il materiale e di mandarlo al Copasir. La domanda è se è a conoscenza di questo fatto e che provvedimenti intende prendere. Questo atto o è eversivo o è anarchico o è un atto di cialtronaggine da parte del pm. Quest’ultima ipotesi la escludo, sulle altre due aspetto la sua risposta”. Una procura che si muove senza osservare la Costituzione, senza ascoltare la Cassazione, senza rispettare il Parlamento dovrebbe indurre un ministro della Giustizia con la testa sulle spalle a intervenire e non restare con le mani in tasca. I lanzichenecchi di Foggia fanno paura, quelli delle procure ancora di più. Suggeriamo ad Alain Elkann un giro dalle parti di Firenze. Giustizia, così lo Stato sottrae 300 milioni all’antimafia di Gian Carlo Caselli La Stampa, 31 luglio 2023 Ci abbiamo messo tempo, sacrifici e lutti per conquistare l’antimafia sociale o dei diritti, che deve viaggiare di pari passo con l’antimafia della cultura e della repressione, altrimenti il sistema zoppica. Un nostro “fiore all’occhiello”, grazie al quale possiamo rivendicare con orgoglio che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche il Paese dell’antimafia. Un’antimafia che non agisce solo secondo uno schema di “guardie e ladri”, ma coinvolge la società civile e offre opportunità di lavoro che creano cittadini titolari di diritti, non più sudditi. Un’antimafia che riesce a restituire alla collettività, perché possa trarne profitto, una parte del “bottino” che la mafia le ha rapinato. Un’antimafia che parla di dignità e libertà, un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi. Ebbene questa antimafia (fondata sulla confisca dei beni illecitamente accumulati dai mafiosi e sulla loro destinazione a finalità socialmente o istituzionalmente utili) rischia ora di essere fortemente indebolita. Minata alle fondamenta da un tratto di penna governativo che ha stralciato dal Pnrr 300 milioni di euro previsti appunto per la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. Così riportando l’orologio della legalità indietro di una trentina d’anni. La storia dovrebbe essere a tutti nota ma evidentemente a qualcuno va rinfrescata la memoria. Il metodo più efficace per indebolire la mafia è metterle le mani in tasca. Andare in galera è un male, ma si sopporta. Intollerabile invece è che si tocchino i piccioli. Perché cummannari è meglio ca f…. (grazie al grande Andrea Camilleri non serve completare). Detto oggi sembra un’elementare analisi della mentalità mafiosa. Eppure fu ignorata per decenni. Il primo a farsene carico fu Pio La Torre, palermitano, parlamentare del Pci, autore di un progetto di legge che prevedeva (oltre al reato di associazione mafiosa) misure patrimoniali contro le ricchezze mafiose accumulate illecitamente. Un pericolo micidiale per la mafia che Pio La Torre paga con la vita il 30 aprile 1982. Ma il nostro è il paese in cui la legislazione antimafia è spesso quella del “giorno dopo”. Così, per approvare il progetto di La Torre bisognerà aspettare la morte anche del generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso a Palermo la sera del 3 settembre 1982. Appena tre giorni dopo, il 7 settembre 1982, ottiene il primo voto favorevole dalla Camera la legge Rognoni-La Torre, intitolata appunto al suo ideatore e all’allora ministro degli interni. Ed è così che l’Italia - finalmente - si dota di uno strumento (l’articolo 416 bis, l’associazione di stampo mafioso) senza il quale, ebbe a dire Giovanni Falcone, è come pretendere di affrontare un carro armato a colpi di cerbottana. E quanto ai piccioli, introduce la novità dirompente dell’inversione dell’onere della prova: il condannato per associazione mafiosa deve dimostrare la provenienza lecita dei propri beni, altrimenti scatta automatica la confisca. Mancava qualcosa però. I beni sequestrati alla mafia restavano inutilizzati. A coprirsi di ragnatele e polvere. E il mafioso aveva buon gioco a dire: vedete, quando questo bene era mio, ci guadagnavo io, ok, ma qualcosa c’era anche per voi; adesso invece più niente per nessuno. La confisca ridotta a boomerang. Ed è qui che entra in gioco l’antimafia sociale e dei diritti. Qualcosa non va nei Centri per uomini autori di violenza: già 4 donne assassinate dopo i percorsi di Nadia Somma* Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2023 La superficialità con la quale nel nostro Paese si affronta il tema della violenza maschile contro le donne è disarmante e ostacola qualunque procedura, protocollo, intervento a tutela delle vittime. Il 20 luglio scorso, Maurizio Impellizzeri ha assassinato Mariella Marino. Le ha sparato in strada. Aveva ottenuto la sospensione della pena dopo aver accettato di intraprendere un percorso in un Cuav - Centro per uomini autori di violenza. Il 9 novembre del 2021, a Reggio Emilia, Mirko Genco uccise Juana Cecilia Hazana Loazya: era stato in percorso in un Cuav. L’8 giugno 2022, a Vicenza, Zlatan Vasiljevic, dopo aver fatto un percorso in un Cuav, uccise Lidia Miljkovic e Gabriella Serrano. Finì suicida sulla Valdastico dopo aver lanciato due granate che per fortuna non fecero altre vittime. Sono almeno quattro, fino ad oggi, le donne assassinate da uomini che avevano intrapreso un percorso in un Cuav. È evidente che la frequentazione di un Centro per uomini autori di violenza non previene automaticamente un innalzamento del livello di pericolosità degli autori di stalking o maltrattamenti e tantomeno può tutelare, automaticamente, la vita delle donne. Eppure i Cuav sono diventati la panacea di tutti i mali. La realtà è molto meno idilliaca. Una delle criticità riguarda le metodologie di intervento e gli approcci al problema della violenza che sono diverse tra i Cuav fino al punto che, alcuni lungi dall’essere luoghi di assunzione di responsabilità per le violenze commesse, sono diventati luoghi di sostegno per autori di violenza. Ci sono Cuav che rilasciano relazioni positive sulle capacità genitoriali di uomini maltrattanti e altri che si prodigano affinché gli uomini in percorso possano vedere i figli anche se le ex sono in protezione in una Casa Rifugio. È venuto il momento di rivedere questi percorsi. Ci sono donne che raccontano di continuare a subire vessazioni dagli ex, soprattutto di tipo psicologico e manipolativo, anche dopo la conclusione del percorso. Le prevaricazioni in alcuni casi (e sarebbe il caso di raccogliere dati e fare monitoraggi post percorso, a lungo termine) sono attuate col patentino della redenzione, soprattutto quando ci sono cause in corso per l’affidamento dei figli. Vediamo ancora che cosa non funziona. I requisiti dei Cuav sono stati definiti, nel settembre del 2022, nel documento dell’Intesa Stato Regioni, anche se le associazi0ni dove gli autori di violenza possono fare percorsi finalizzati a interrompere comportamenti violenti esistono da almeno una quindicina di anni (sono nati come Cam - Centro Ascolto Uomini Maltrattanti). Oggi ve ne sono di pubblici e privati. Un’inchiesta approfondita sui limiti dell’Intesa è stata realizzata da Maddalena Robustelli, nell’articolo Dubbi sulla normativa prevista per i centri riabilitativi degli uomini maltrattanti pubblicato nel settembre del 2022 su Noi Donne. L’associazione D.i.Re mette in evidenza da anni i limiti e le criticità dei Cam-Cuav, ma le critiche sono rimaste inascoltate dalle istituzioni. Il 21 luglio la rete nazionale dei Centri antiviolenza ha stigmatizzato quanto avvenuto a Enna col femminicidio di Mariella Marino, una morte che avrebbe potuto essere evitata qualora si fossero seguite le indicazioni della Convenzione di Istanbul e le raccomandazioni del Grevio. Anche la Cooperativa sociale Be Free, il 22 luglio, ha denunciato sulla sua pagina Facebook i rischi della sopravvalutazione dei percorsi nei Cuav. *Attivista presso il Centro antiviolenza Demetra Dubbi sulla normativa prevista per i centri riabilitativi degli uomini maltrattanti di Maddalena Robustelli noidonne.org, 31 luglio 2023 La recente intesa Stato-Regioni sulle caratteristiche previste per i centri riabilitativi degli uomini maltrattanti è stata criticata dalle associazioni di donne, che si occupano del contrasto alla violenza di genere. Nello scorso novembre fu reso pubblico il nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-23, presentato dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti e passato in Conferenza unificata Stato-Regioni. Tale Piano si confermò quale rispettoso del precedente piano triennale, ma nel contempo ne migliorò alcuni aspetti. Difatti ne preservò i quattro assi fondamentali antecedenti, ossia la prevenzione, la protezione e il sostegno delle vittime, la punizione dei colpevoli e l’assistenza e la promozione, introducendo però alcune specifiche linee di intervento. Come, ad esempio, il contrasto alla violenza economica con la previsione di corsi di alfabetizzazione finanziaria, tirocini retribuiti e norme per favorirne l’inserimento lavorativo, perseguendo l’obiettivo finale di realizzare l’empowerment delle donne vittime di violenza di genere. Lo scorso 14 settembre, nel solco del suddetto Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-23, si è avuta la approvazione da parte della Conferenza unificata di “criteri omogenei a livello nazionale mediante l’individuazione di requisiti minimi dei centri per uomini maltrattanti”. Tali criteri necessitavano, visto che le Regioni, nonché la Province autonome di Trento e Bolzano avevano già predisposto autonomamente interventi volti a “favorire il recupero degli uomini autori di violenza domestica e di genere”. Tale intesa tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome prevede, peraltro, anche il riparto delle risorse per l’istituzione e potenziamento dei correlati centri di riabilitazione. Presupposto normativo alla legittimazione della nascita di tali centri è stata in Italia la legge definita Codice rosso, ossia la n. 69/2019, che all’art.6 recita: “Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”. Anche la “Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere”, approvata il 25 maggio 2018 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ha previsto che: “Coloro che agiscono violenza contro le donne tendono ad atti aggressivi sempre più gravi e, in assenza di un intervento, recidivano nell’85 percento dei casi; di conseguenza, coloro che riescono a ritrovare autonomamente senza aiuti un equilibrio dopo un primo episodio di violenza sono una minoranza esigua.[…]Per raggiungere l’obiettivo di interrompere i comportamenti violenti, i servizi resi dai Centri per gli uomini autori di violenza devono rappresentare, nel quadro di un sistema di intervento basato su strategie di lavoro di rete, un valore aggiunto a disposizione dell’approccio integrato alla violenza maschile contro donne”. Nell’immediatezza dell’approvazione della suindicata intesa istituzionale si sono mosse varie realtà associative, che operano da decenni nel contrasto alla violenza di genere, per richiedere un tavolo di revisione volto a modificare l’intesa sui requisiti minimi previsti per i C.U.A.V (Centri per Uomini Autori o potenziali autori di Violenza di genere), come sono ora definiti. Si sono attivate al proposito la Fondazione Pangea Onlus, l’Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa, l’UDI - Unione Donne in Italia, Reama - Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto, l’Associazione Nosostras e la UIL - Unione Italiana del Lavoro. Tali associazioni rimarcano che “Sono molte le perplessità e i punti critici di cui chiediamo la modifica: mancato rispetto di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul in termini di protezione della donna e dei minori rispetto al percorso di autonomia dal maltrattante, sbilanciamento tra Cav e C.U.A.V nell’erogazione dei finanziamenti in relazione all’impegno richiesto di tempo e al numero degli accessi effettivi avuti solo per dirne alcuni. Denunciamo il rischio della mediazione familiare, fatta passare all’art. 6 come “Sicurezza della vittima” a protezione per le donne ma che in realtà lascia aperto uno spiraglio di “contatto con il partner” maltrattante che non può sussistere nei casi di violenza come richiesto dalla Convenzione di Istanbul”. Anche la rete D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, ha immediatamente espresso preoccupazioni soprattutto, su “i requisiti minimi dei Centri per Uomini Autori di Violenza, che conferiranno legittimità di azione a realtà che nel territorio nazionale operano ancora in maniera limitata e sul cui lavoro non esistono ancora ricerche e dati strutturali relativi alla loro efficacia. La maggiore criticità su cui i Centri antiviolenza non sono stati ascoltati riguarda il contatto diretto dei C.U.A.V. con le donne vittime di violenza, nel tentativo che finisce, di fatto, per mettere in atto quella mediazione vietata dalla Convenzione di Istanbul”. Comune a tutte queste associazioni è la richiesta di effettive responsabilità dei C.U.A.V al riguardo dei percorsi che svolgono con gli uomini maltrattanti, di modo che ne rispondano rispetto alla loro reale efficacia, sia per numero di accessi che per i risultati raggiunti sul lungo periodo. “Per questo chiediamo subito di essere convocate intorno a un tavolo di revisione dei criteri per evitare l’approvazione di un documento che minerebbe l’autonomia del percorso di uscita della violenza delle donne e il lavoro dei Centri Antiviolenza”. Il dott. Fabio Roia, Presidente Vicario del Tribunale di Milano, relativamente ai corsi per uomini maltrattanti così come sono tenuti in Italia, ha citato il caso di Juana Cecilia Hazana Loayza uccisa nel novembre 2021 dal suo compagno maltrattante, peraltro già condannato per atti persecutori nei confronti della donna. A lui la pena era stata ridotta a due anni con la condizionale, perché aveva accettato di frequentare gli incontri di un centro di recupero per uomini maltrattanti. Le idee del magistrato su questi corsi sono molto chiare: gli uomini violenti non devono essere mandati nei centri “in maniera convenzionale e solo per ottenere benefici sul piano giudiziario ma ci vogliono sentinelle di controllo da parte degli operatori per far sì che i soggetti prendano consapevolezza che la violenza contro le donne è una stortura del comportamento. Solo quando si acquisisce questa consapevolezza- ha spiegato il magistrato- diminuisce il rischio di recidiva”. Nello scorso mese di giugno abbiamo assistito al rimpallo di responsabilità al proposito di un duplice femminicidio avvenuto a Vicenza per mano di un uomo, che non si trovava in carcere per i suoi crimini perché aveva frequentato un corso riabilitativo. La contesa era tra i magistrati vicentini, coinvolti nella decisione di lasciare libero il femminicida, ed il centro Ares, il Centro per l’ascolto e il cambiamento di uomini autori di violenza, che lo aveva preso in carico. Qui l’uomo tenne 20 colloqui della durata di 50 minuti, in ottemperanza da quanto disposto dal Codice rosso, la legge che dal 2019 ha modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, ottenendo la sospensione condizionale della pena. Proprio tale vicenda appalesa la necessità che per i corsi di recupero per uomini maltrattanti siano adottate linee guida a carattere scientifico meno dubbie per evitare che essi possano tradursi in “scorciatoie” atte a scongiurare di pagare per le proprie colpe. Linee guida che non facciano essere tali corsi quali dei contatori di incontri basati su non meglio definiti protocolli europei, in modo che specifici criteri oggettivi consentano di leggere meglio le indoli degli autori di violenza di genere, prima di certificarli come svolti “con puntualità e sincero coinvolgimento”, come è successo per il femminicida in questione. Di suddetti criteri oggettivi nella recente Intesa Stato-Regioni sui C.U.A.V. pare che non vi sia ombra, si scrive invece dei loro specifici obiettivi, dei requisiti strutturali ed organizzativi, delle qualifiche del personale, delle prestazioni minime garantite, ma come recita il testo dell’intesa “Il CUAV può attestare che l’utente ha intrapreso ovvero concluso un programma. Tale attestazione non ha valore di valutazione del programma e/o del cambiamento effettivo dell’autore della violenza (art. 5, 1 punto b)”. C’è un particolare, però, degno di nota, quale quello per il quale in base alla frequentazione di tale corso il violento possa vedersi comminata la sospensione della pena, così da ritornare libero. Se il C.U.A.V. non valuta il suo effettivo cambiamento, la vittima dei suoi soprusi rischia grosso, fino alla perdita della vita. Senza requisiti tecnico-scientifici che attestino “il cambiamento effettivo dell’autore di violenza”, tanto vale destinare i 9 milioni di euro, previsti per il finanziamento di tali centri, all’acquisto di braccialetti elettronici, almeno questi presidi di sicurezza avvisano le forze dell’ordine della vicinanza del violento alla sua perseguitata. L’appalto per fornire nel triennio 2018/21 circa 1000 braccialetti al mese, per una cifra complessiva di quasi 23 milioni di euro, fu vinto da Fastweb. Con lo stanziamento previsto per finanziare i C.U.A.V. se ne potrebbero acquistare 390 al mese, da utilizzare anche per il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, come da Codice rosso. In Europa l’uso di tali presidi appare particolarmente efficace perché consente alla donna di disporre di un’applicazione sul cellulare, che la avvisa quando la persona denunciata le si avvicina. Sarebbe conseguentemente opportuno da parte dei magistrati valutare un maggiore utilizzo dei braccialetti elettronici, congruamente finanziati, piuttosto che erogare fondi pubblici a C.U.A.V. “sul cui lavoro non esistono ancora ricerche e dati strutturali relativi alla loro efficacia”, come sostiene la rete D.i.Re, Donne in rete contro la violenza. Modena. “Rivolta al carcere Sant’Anna, fatti da chiarire” di Giorgia De Cupertinis Il Resto del Carlino, 31 luglio 2023 La Corte Europea ha ritenuto ammissibile il ricorso dei familiari di un detenuto morto durante la rivolta nel carcere Sant’Anna. Il Governo è chiamato a rispondere alle presunte violazioni della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Mancata protezione dei soggetti fragili da parte dello Stato e mancanza di indagini difensive. Ma anche rimedi interni che non sarebbero stati efficaci e assenza di comunicazione relativamente alla pandemia. E ancora: violazione del divieto di effettuare trattamenti inumani e degradanti. La Corte Europea ha ritenuto ammissibile il ricorso presentato dai familiari, ovvero il padre ed il fratello di uno dei nove detenuti deceduti durante la maxi rivolta nel carcere Sant’Anna dello scorso 8 marzo 2020. I parenti della vittima hanno infatti presentato ricorso attraverso i propri legali, l’avvocato del foro di Milano Barbara Randazzo e dall’avvocato Luca Sebastiani, membro dell’osservatorio carcere della camera penale di Bologna. Ora il Governo è chiamato a rispondere ai quesiti posti dalla Corte Europea relativamente alle presunte doglianze relative a diversi articoli della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Del ricorso, così come della strage avvenuta durante la rivolta ma anche della condizione delle carceri italiane si è parlato la settimana scorsa alla festa dell’Unità di Bosco Albergati, alla presenza degli avvocati, di Giuditta Pini della direzione nazionale del Pd e del consigliere regionale Federico Amico. “Il giudizio interno si è aperto e concluso nell’ambito di neppure di un grado di giudizio, essendoci stata un’archiviazione per i nove decessi dei detenuti - spiega Barbara Randazzo - con questa archiviazione è stata chiusa definitivamente una vicenda senza che fosse stata fatta chiarezza sulle dinamiche che hanno dato luogo ai fatti”. Bergamo. Carcere di via Gleno: “Nelle celle vivono ammassati” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 31 luglio 2023 Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, ha descritto la vita in cella dei detenuti, costretti a vivere in spazi troppo piccoli a causa del sovraffollamento. “Chiunque lavori nel campo del diritto penale, che siano magistrati o avvocati, dovrebbe almeno una volta fare una visita all’interno di un carcere, non fermarsi alla sala colloqui o all’aula degli interrogatori. Solo così si capisce davvero cosa vuole dire dovere vivere in carcere”. L’avvocato Barbara Bruni, segretaria della Camera penale di Bergamo, esprime un unico concetto, ma chiarissimo, dopo la visita con Nessuno tocchi Caino. E poco dopo è il segretario dell’associazione Sergio D’Elia a spalancare, in un certo modo, la porta delle celle, che descrive così: “Il pavimento è in cemento, misurano 4 metri e mezzo per 2, i bagni 4 metri e mezzo per un metro. Ma ci sono i letti, le suppellettili, quella non è superficie calpestabile. Abbiamo letti a castello e accampamenti di abiti e oggetti”. In celle da 2 si sta in 3, in altre da 4 in 6, 7 persone. In alcune sezioni mancano le docce o funzionano solo in parte. “Secondo la convenzione europea sotto i tre metri e mezzo non sono garantiti i diritti fondamentali dell’uomo”, denuncia D’Elia, che ha anche visitato una sezione in cui si concentrano detenuti psichiatrici: “Uno di loro, forse come gesto dimostrativo, aveva appeso un cappio e continuava a ripetermi che se non avesse ottenuto la libertà, quella sarebbe stata la sua unica possibilità. Il manicomio che abbiamo abolito, l’abbiamo solo spostato in carcere”. A dispetto dell’aumento registrato a livello nazionale, nel 2022 non ci sono stati suicidi in via Gleno. Si sono verificate, però, 3 morti “accidentali” per overdose o inalazione di gas. Un caso di suicidio si è registrato quest’anno, un uomo alla sua prima carcerazione. Tutti i relatori evidenziano come si tratti di problematiche comuni al resto d’Italia: “Lo staff dirigenziale di qualsiasi sezione è sembrato anzi di altissimo livello”, precisa la presidente di Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini. “Il carcere di via Gleno - conclude D’Elia - è parte della città. Entro 4 anni più della metà di quei detenuti uscirà ed è bene che lo facciano da persone diverse”. Bergamo: “Carcere per tanti unico rifugio, basso accesso alle misure alternative a causa dei tempi lunghi” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 31 luglio 2023 Accoglie 523 detenuti a fronte di una capienza di 317 posti. “Per tanti unico rifugio, basso accesso alle misure alternative: tempi lunghi”. Il paradosso del carcere sta forse in un dato più degli altri. Dei 409 detenuti definitivi della casa circondariale di Bergamo, ben 296 hanno un residuo di pena inferiore ai 4 anni: potrebbero accedere a misure alternative, invece sono ancora lì. È un limbo invisibile dove burocrazia e marginalità s’intrecciano, strette nell’enorme mole di lavoro della magistratura di sorveglianza e nella fragilità di chi non ha una casa e un lavoro, e che dunque nel carcere ha l’unico rifugio. Ma è un rifugio affollato, precario, aspro. Lo dicono i numeri, lo raccontano le vite e le impressioni. In totale via Gleno accoglie 523 detenuti (oltre ai 409 “definitivi” ce ne sono oltre un centinaio in attesa dei diversi gradi di giudizio), a fronte di una capienza di 317 posti, ed è l’ottavo carcere italiano per affollamento; i reclusi con problemi di tossicodipendenza sono circa 300, e il 60% di questi (cioè 180) ha problemi di tipo psichiatrico. La visita in carcere di “Nessuno Tocchi Caino” - Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale che della giustizia ha fatto la propria bandiera, ha avviato così “un viaggio della speranza”, come lo definisce il segretario Sergio D’Elia, visitando in questi giorni le strutture del Nord accanto agli avvocati: ieri erano a Bergamo, quattro ore di “ispezione” accompagnati dalla direttrice di via Gleno, Teresa Mazzotta, dalla polizia penitenziaria e dalla garante dei detenuti Valentina Lanfranchi; venerdì erano a Brescia, da domani saranno tra Monza, Lecco e San Vittore. “Il sentore - racconta Enrico Pelillo, presidente della sezione bergamasca delle Camera penale della Lombardia orientale - è che Bergamo e Brescia siano accomunate anche dallo stato di degrado delle carceri, disservizi che portano un nocumento in quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa della pena”. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, snocciola cifre, critica il sistema più che la struttura: “Lo staff dirigenziale del carcere è di altissimo livello. Alcune aree sono state recentemente ritinteggiate col lavoro retribuito dei detenuti, un’azione importante della direttrice, ma il primo dato che si riscontra in tutte le carceri è il sovraffollamento”. “È il problema essenziale - lo definisce Stefania Amato, vicepresidente delle Camera penale della Lombardia orientale -. Servono interventi legislativi, ce li chiedevano anche i detenuti. A livello territoriale c’è il ruolo della magistratura di sorveglianza, ma ogni giudice ha più di 500 fascicoli da gestire: ne consegue una dilatazione dei tempi, le difficoltà nell’accedere a misure alternative. Nella prospettiva della giustizia riparativa crediamo molto”. Le carenze toccano anche la polizia penitenziaria, con 132 agenti “impiegabili” contro i 243 “previsti”. Per Barbara Bruni, segretaria della Camera penale di Bergamo, “chiunque lavori in questo campo dovrebbe far visita all’interno del carcere”. Dell’importanza dello studio ha parlato Francesco Morelli, professore di Diritto processuale penale all’Università di Bergamo: “L’impegno dell’ateneo è forte, sia sui corsi sia sulla giustizia riparativa”. Disagio e autolesionismo - Lo studio è l’evasione culturale da spazi sempre angusti. Sergio D’Elia li ha misurati, usando i passi come unità di misura e solcando il perimetro delle celle: “4,5 metri di lunghezza per 2 di larghezza, più un bagno da 4,5 metri per uno: ma sono in gran parte occupati da letto, armadi, frigoriferi, cumuli di vestiti. Secondo noi non sono rispettate le regole minime di decenza, in alcune celle non funzionano le docce”. Quando la delegazione è entrata nella “sezione protetti”, D’Elia ha visto “un detenuto che aveva appeso una sorta di cappio. Ripeteva: se rimarrò in isolamento, quella è la soluzione”. Sono stati avvisati gli agenti, che hanno rimosso l’oggetto. Un suicidio s’è verificato a marzo: “Era alla prima carcerazione - racconta Bernardini -, il momento più delicato”. Nelle carceri dilagano poi farmaci e psicofarmaci: “Detenuti che devono ricevere dei farmaci - è il meccanismo spiegato da Bernardini - non li assumono e li cedono invece a chi ha bisogno di stordirsi, in cambio di qualcosa. Così funziona ovunque”. Una giudice nella delegazione - Il dialogo è stato il filo di quest’esperienza. Nella delegazione era presente anche Marina Cavalleri, giudice del Riesame di Brescia: “È stata un’esperienza preziosa - rimarca il magistrato - sarebbe utile rendere obbligatorio per tutti gli operatori di giustizia una visita periodica nelle carceri per constatare direttamente la situazione”. Uno dei problemi, rileva la giudice, “è il bassissimo accesso alle misure alternative. Le tempistiche lunghe non aiutano, queste misure sarebbero da incentivare ma c’è un oggettivo carico burocratico. A ciò si aggiunge una questione sociale, le difficoltà di molti detenuti che non hanno casa o lavoro e non riescono ad accedere alle misure alternative benché ne abbiano i requisiti”. Ne ha parlato anche il sindaco Giorgio Gori in una lettera pubblicata ieri da “La Stampa”: “La situazione delle carceri italiane è allarmante. Anche quella degli istituti penitenziari gestiti con impegno e competenza, come il carcere di Bergamo”. Firenze. In carcere con la tubercolosi. “Caldo e condizioni inadeguate, così mio marito non può guarire” di Carlo Baroni La Nazione, 31 luglio 2023 Lo sfogo della moglie: “Temo che la sua salute peggiori. Ho scritto anche al Garante dei detenuti”. La malattia e il carcere. “Mio marito non può stare in carcere, con 40 gradi, circondato di cemento rischierà di arrendersi in quanto la terapia che deve affrontare è molto forte e le condizioni in cui si trova non gli permetteranno di guarire”. Sono le parole della moglie che si è rivolta al nostro giornale e ci racconta la storia del quarantaduenne, albanese, residente a Empoli “che ha contratto la tubercolosi dopo poco essere entrato in carcere”, spiega la donna. A livello giudiziario la posizione dell’uomo è ancora pendente per Cassazione: il processo davanti agli ermellini, dov’è stata impugnata la sentenza della corte d’appello, è fissato per ottobre. Ma torniamo indietro. Il detenuto si trova nel carcere di Sollicciano dal 28 aprile 2021 “e già da quell’anno lui si è infettato da tubercolosi in carcere - racconta la donna -. Poi la malattia ha continuato a svilupparsi sempre di più, finché il 10 maggio scorso è stato ricoverato d’urgenza in ospedale nel reparto malattie infettive in quanto non riusciva a respirare e aveva una tosse persistente. I medici gli hanno diagnosticato così la tubercolosi in fase attiva”. Inizia un ricovero lungo e in isolamento per un totale di due mesi e 10 giorni. Il 20 luglio è stato dimesso perché non più infettivo e quindi è stato ritenuto nelle condizioni di lasciare l’ospedale e proseguire con le terapie del caso. “Anche la Corte d’appello aveva detto che l’unico luogo in cui lui può guarire e salvaguardare la sua salute è l’ospedale”, ripete la moglie. Intanto il difensore del 42enne, avvocato Costanza Malerba, ha fatto una nuova istanza alla corte, stavolta per chiedere che la corte verifichi, anche all’esito delle dimissioni dell’ospedale, se “l’attuale quadro clinico dell’uomo è compatibile con la detenzione carceraria”. Perché, una volta dimesso dall’ospedale, è stato appunto riportato in carcere. “Avevamo anche chiesto che gli concedessero gli arresti domiciliari, ma la casa a Empoli non è stata ritenuta idonea perché c’ero io, ed è andato male anche il secondo tentativo quando avevo concesso tutta l’abitazione a uso esclusivo di mio marito - prosegue lo sfogo della moglie - La nostra istanza è stata rigettata nuovamente mandandolo in carcere”. La corte, ora, si apprende, potrebbe pronunciarsi a giorni. “Si tratta di una malattia infettiva e prevede una cura che può arrivare anche a 9 mesi - conclude la moglie -, ma soprattutto con le condizioni igieniche del carcere e il regime alimentare scarso, mio marito rischia di non affrontare adeguatamente la terapia e di conseguenza c’è il rischio che la sua salute peggiori. Ho avvisato anche il garante dei detenuti della regione Toscana. Non mi arrenderò mai”. Lecce. “La regina resta”: la compagnia dei detenuti nella rassegna teatrale del Comune lecceprima.it, 31 luglio 2023 La Casa Circondariale di Lecce e l’Accademia Mediterranea dell’Attore informano gli organi di stampa e i media che la compagnia Papillon Teatro della Casa Circondariale di Lecce parteciperà alla rassegna Lecce in scena promossa dal Comune di Lecce con lo spettacolo “La regina resta” lunedì 31 luglio alle ore 21 presso il Chiostro dei Teatini. La compagnia Papillon Teatro è composta dai detenuti che hanno seguito il corso biennale di formazione per allievi attori tenuto presso la Casa Circondariale di Lecce dalle attrici e dagli attori di AMA-Accademia Mediterranea dell’Attore (Carmen Ines Tarantino, Benedetta Pati, Veronica Mele, Lorenzo Paladini). “Come è noto - afferma la direttrice dell’istituto, Maria Teresa Susca - non è semplice organizzare eventi di questo tipo e portare i detenuti fuori dalle mura carcerarie ma l’impegno e il desiderio di riscatto dimostrato dai detenuti attori sono stati più forti di ogni difficoltà. Abbiamo acquisito tutte le autorizzazioni necessarie e per questo desidero ringraziare i magistrati di sorveglianza, il Comandante e tutta la polizia penitenziaria, il personale educativo della nostra Casa Circondariale che condivide un progetto teso a migliorare le condizioni di vita dei nostri detenuti”. “Quest’anno per noi è stato un anno cruciale - afferma il direttore dell’Accademia Mediterranea, Franco Ungaro- perché con la rassegna ‘Dentro, il teatro’ siamo riusciti a portare i cittadini dentro la sala teatro del carcere per vedere gli spettacoli teatrali insieme ai detenuti. Ora si riesce a portare i detenuti fuori dal carcere, anche soltanto per una sera, per restituire e donare ai cittadini sprazzi di bellezza e di creatività che sono patrimonio di ciascuna persona e su cui il teatro costruisce orizzonti possibili di una nuova e diversa cittadinanza e comunità”. Tutti i magistrati del caso Tortora fecero carriera. Tranne il giudice che lo assolse di Stefano Bargellini Il Dubbio, 31 luglio 2023 L’articolo che segue, a firma di Stefano Bargellini, fa da prologo alla ripubblicazione, che il Dubbio offrirà nel mese di agosto, di “Lettere a Francesca”, il volume con gli scritti inviati da Enzo Tortora alla compagna Francesca Scopelliti. Sono trascorsi quarant’anni dal 17 giugno 1983 quando, alle quattro di notte, i Carabinieri bussarono alla porta della stanza dell’hotel Plaza in cui Enzo Tortora stava dormendo, ignaro della sporcizia che stava per sommergerlo. Lo scorso 17 giugno, nell’anniversario, utilizzando i documenti originali, Aurelio Aversa ha raccontato su Radio Radicale la tragedia di un uomo onesto incarcerato senza aver fatto nulla di male. Il pubblico ministero: “Il signor Enzo Tortora è un camorrista… Ma lo sapete voi signori che l’ultima persona che i giudici napoletani volevano portare in questa vicenda era Enzo Tortora? Sapete voi perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza, più uscivano le prove della sua colpevolezza!”. Il presidente del Tribunale che consente la prosecuzione del confronto fra Tortora e Melluso “tanto per non dire che io non do spazio alla difesa”. Il coraggio dell’imputato prima della camera di consiglio in appello: “Io sono innocente, io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Ascoltare l’accusa, rivivere la condizione d’impotenza di una persona irreprensibile costretta a difendersi da imputazioni più assurde che infondate, lascia un senso di vertigine. Se Vent’anni dopo è l’ottimo seguito di un magnifico romanzo, Quarant’anni dopo potrebbe essere il titolo dell’attuale replica di una tragedia. Il caso Tortora non è un caso ma il frutto di un sistema. Quello che ha colpito e poi contribuito a uccidere Tortora non è un errore giudiziario ma un abominio che avrebbe dovuto spingere, anzi costringere, la magistratura a profonde trasformazioni. Viceversa, i colleghi penalisti denunciano che orrori simili continuano a verificarsi nell’indifferenza di chi li crea o li consente. Qualche considerazione. 1. I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora fecero tutti carriera. Nessuno subì un qualsiasi provvedimento disciplinare o vide rallentata la normale progressione professionale. 2. Uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora venne eletto al Csm. Cioè i magistrati italiani scelsero uno degli inquisitori di Tortora quale rappresentante nel loro organo di autogoverno. Circostanza che conferma quale insegnamento la magistratura abbia tratto dal sacrificio dell’imputato. 3. Non fece carriera il consigliere Michele Morello, estensore della sentenza d’appello che assolse Tortora. Dopo la decisione alcuni colleghi gli tolsero il saluto. A lui andrebbe invece intitolata almeno un’aula della Corte d’appello di Napoli, non solo per l’opera che ha saputo svolgere nella circostanza, ma per l’attitudine a rappresentare i tanti magistrati indipendenti, preparati e schivi ai quali sono affidate le nostre cause. Non sempre, purtroppo. 4. La mancanza di una concreta valutazione dell’attività professionale dei magistrati è probabilmente la causa principale del malfunzionamento della giustizia. Il deputato Enrico Costa ha ricordato che il 99,6% (novantanove virgola sei per cento) dei giudici italiani ottiene una valutazione positiva e che dal 2010 i magistrati condannati in applicazione della legge sulla cosiddetta responsabilità civile sono stati 8 (otto). Più o meno 1 ogni 2 anni. Che la legge sull’asserita responsabilità civile sia stata approvata nel 1988 a seguito del processo Tortora e del successivo referendum abrogativo conferma che quanto accaduto al popolare presentatore costituisce per alcuni più un fastidio da rimuovere che una lezione da tenere a mente. 5. Non essendo generalmente coinvolta la libertà delle persone, nel settore civile parliamo di errori e non di orrori. Anche quando le inadempienze e i ritardi comportano conseguenze gravi. Il discorso resta comunque il medesimo: fino a quando i giudici saranno tutti egualmente eccellenti, tutti maratoneti da due ore e dieci, tutti centometristi da dieci netti, dubito che i cittadini potranno guardare all’amministrazione della giustizia con maggiore fiducia. 6. Nella (irrealistica) attesa che una classe politica impreparata e impaurita riesca a imporre criteri di razionalità, efficienza e uniformità all’organizzazione giudiziaria e nella (impossibile) aspettativa che la magistratura provveda a riformare se stessa, gli avvocati costituiscono l’unico appiglio cui i cittadini possano aggrapparsi. Che, almeno questa, “non sia un’illusione”! (così come è inciso sulla lapide di Enzo Tortora). “Il tempo della giustizia”, oggi presentazione del libro sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 31 luglio 2023 Appuntamento alle 12 in Salaborsa con il direttore Maurizio Molinari: il volume sarà distribuito in omaggio col giornale il giorno dell’anniversario. “Era, ed è, una storia troppo grande, troppo complessa, troppo dolorosa per rimanere solo negli articoli di giornata. Per questo abbiamo deciso di raccogliere i nostri sforzi di giornalisti in un libro”. Con queste parole il direttore Maurizio Molinari introduce il “Il tempo della giustizia”, il libro di Repubblica sul processo e la strage alla stazione che sarà presentato oggi alle 12 in Salaborsa. Con il direttore di Repubblica saranno presenti il sindaco Matteo Lepore, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime Paolo Bolognesi, la storica Cinzia Venturoli, Carlo Bonini e Lirio Abbate di Repubblica. E con la partecipazione dell’attrice Giulia Quadrelli. Il libro, a cura di Valentina Desalvo e Giovanni Egidio, caporedattore di Repubblica Bologna, verrà distribuito nelle edicole in omaggio con il nostro giornale mercoledì 2 agosto, nel giorno del 43° anniversario della strage. Si compone di diciotto capitoli scritti dalle firme di Repubblica di ieri e di oggi, e spazia dall’analisi dell’ultima sentenza al profilo criminale di esecutori e mandanti, passando al contesto storico e politico degli anni che precedettero l’attentato. Nel libro si ripercorre non solo la lunghissima e complessa vicenda giudiziaria, ma anche le storie di tutti i protagonisti. Delle vittime, dei feriti, dei loro familiari, di chi ha lottato al loro fianco per avere giustizia e verità. “Lo abbiamo fatto - scrive Maurizio Molinari - per ricordare identità e dignità di ogni vittima, per rafforzare la memoria collettiva di un’offesa alla democrazia, per rendere omaggio a forze dell’ordine e magistrati protagonisti dell’accertamento dei fatti”. Ora può esplodere la rivolta sociale dei senza reddito di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 31 luglio 2023 Dal Pd al M5s arrivano attacchi alla maggioranza per la sospensione del reddito per 169mila nuclei. In difficoltà i comuni che devono gestire la rabbia. È bastato un sms per scatenare una dura reazione delle opposizioni contro il governo nella calda domenica di ieri. Il messaggio in questione è quello che l’Inps ha inviato a oltre 169mila percettori del reddito di cittadinanza per annunciare la sua sospensione. Poche righe che hanno diffuso il panico in alcuni uffici comunali con persone intente a chiedere spiegazioni per quello che è stato visto come un’annuncio improvviso. Con le nuove modifiche introdotte dal governo Meloni, infatti, chi non ha a suo carico nel nucleo familiare minori, disabili o over 65 non riceverà più - a partire già dal mese di agosto - il sussidio. Una misura che ha scatenato un forte malcontento sociale, soprattutto a Napoli e provincia dove ad ricevuto l’sms sono stati circa 21mila nuclei famigliari. Il direttore dell’area dell’Inps, Roberto Bafundi, è dovuto intervenire nel week end per sedare gli animi dei cittadini e ha detto che “nessuno sarà lasciato indietro”. La rabbia rischia di trasformarsi in manifestazioni di piazza dopo che già sui social è diventato virale in poche ore l’hashtag #ilgovernodellavergogna. Potere al Popolo ha annunciato un presidio in piazza a Napoli per la giornata di oggi. “Il governo Meloni fa la guerra ai poveri, ma intanto propone la pace fiscale per gli evasori e per le grandi imprese, che macinano profitti su profitti. È un Robin Hood al contrario: toglie ai poveri e dà ai ricchi”, ha detto Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al Popolo e membro del coordinamento nazionale di Unione Popolare. A fare le spese del malcontento sociale sono i sindaci dei comuni più piccoli lasciati soli dal governo. Il Viminale è in allerta in attesa di eventuali disordini nei prossimi giorni. La Cgil ha lanciato l’allarme sui centri per l’impiego che rischiano di esplodere in un momento in cui il personale è ridotto per via delle ferie estive e ha anche per questo ha chiesto la proroga della sospensione. Per il momento, però, il governo non intende fare dietrofront anche perché l’eliminazione del reddito di cittadinanza è stata uno dei punti principali della campagna elettorale di Giorgia Meloni. Se il salvataggio della ministra del Turismo Daniela Santanchè dalla mozione di sfiducia presentata dal Movimento Cinque stelle ha compattato la maggioranza, la sospensione del reddito di cittadinanza e i condoni fiscali per gli evasori rischia di generare lo stesso effetto nelle opposizioni. “Hanno trattato 169mila persone come se fossero una rubrica telefonica. Non capiscono che dietro ci sono famiglie, problemi, ansie, preoccupazioni, pericoli perla tenuta sociale. Hanno tirato una linea... Si comportano come le multinazionali che senza umanità licenziano via Whatsapp”, ha detto Francesco Boccia, capogruppo Pd al Senato in un’intervista al Corriere della Sera. La stessa reazione di indignazione è arrivata da esponenti di Sinistra Italiana e del Movimento. Anche Beppe Grillo è intervenuto sul caso con un tweet: “Ormai è chiaro: il focus di questo governo è la lotta ai poveri e l’annientamento della dignità dei lavoratori. Il salario minimo si potrebbe già approvare ad agosto ma le vacanze estive non possono attendere”. Dura la risposta contro Pd e M5s da parte della capogruppo di Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli: “La Schlein attacca la revisione del reddito di cittadinanza, parlando di “scelta brutale”, quando tutti sanno da otto mesi che l’assegno per gli occupabili sarebbe cessato ad agosto. Evidentemente, come chi ha percepito il reddito di cittadinanza senza mai alzarsi dal divano, le opposizioni hanno dormito fino a ieri e adesso si svegliano, cominciando a menare pugni nell’aria”. Lo scontro su Tridico - A infiammare il clima già teso è un’intervista rilasciata al quotidiano Libero da parte del capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, che ha chiesto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per indagare sulle frodi al reddito di cittadinanza, ma limitando la responsabilità all’ex presidente dell’Inps voluto dai grillini Pasquale Tridico. Gli fa eco il collega di maggioranza di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che ieri ha chiesto un’indagine conoscitiva in Commissione lavoro: “È assolutamente necessaria una verifica in sede parlamentare sull’operato di Tridico”, ha detto. Il M5s fa scudo intorno al suo uomo che controbatte agli attacchi della destra in un’intervista rilasciata a La Stampa. Secondo Tridico, i controlli dell’Inps hanno evitato truffe ai danni dello stato per 11 miliardi di euro. Riccardo Magi di +Europa ha accusato la maggioranza di usare le commissioni parlamentari d’inchiesta “come clava politica contro gli avversari”. Si prospetta un’estate calda per il governo. La sinistra non può ignorare la battaglia universale per un mondo senza fame di Gabriele Segre Il Domani, 31 luglio 2023 Il cibo è il bene più “comunista” che esista, e potrebbe essere disponibile per tutti. È battendosi per la sua equa distribuzione che la sinistra potrebbe ritrovare il suo ruolo internazionale. Battersi per un mondo a “Fame Zero” entro il 2030 è una delle imprese più nobili del nostro tempo, e infonde un certo ottimismo vedere i 160 paesi presenti al recente vertice Fao impegnati per tale obbiettivo. Contrastare le disuguaglianze alimentari in un pianeta in rapido cambiamento non è certo impresa facile: ce lo ricorda da ultimo il blocco russo all’accordo sull’esportazione del grano. Tuttavia, per quanto le proposte interessanti non manchino, appare chiaro che da Roma non sia partito un progetto veramente capace di aggregare stati e istituzioni al fine di realizzare i buoni propositi descritti dal titolo. Mani tese ai paesi in via di sviluppo, sicurezza alimentare e dieta mediterranea potrebbero non bastare. Eppure “Fame Zero” sarebbe la campagna ideale per una sinistra che intenda rianimare sia il suo spirito internazionale sia un ruolo attivo su un tema storicamente e culturalmente a lei vicino. Pensateci: il cibo è strettamente connesso al tema della sostenibilità ambientale e sociale ed è, soprattutto, il bene potenzialmente più egualitario che esista. A livello individuale possiamo accumulare solo il quantitativo che riusciamo a conservare ed è l’esatto opposto di un prodotto voluttuario: facoltosi o indigenti, tutti dobbiamo nutrirci e non possiamo farlo oltre la capienza del nostro stomaco. Il cibo è il bene più “comunista” che esita. Per di più è anche un bene universale a disposizioni di tutti. O almeno potrebbe esserlo: in base a numerose ricerche, ogni anno produciamo calorie per sfamare un miliardo di persone in più di quelle che abitano il nostro pianeta. È chiaro che a fare la differenza è l’uso che se ne fa: i rapporti di forza tra le nazioni, le incongruenze di mercati e logistica e i diversi stili di vita segnano logiche distributive che sbilanciano i costi e creano il paradosso dello spreco. Ed è proprio da qui che la sinistra potrebbe avanzare un progetto politico rinnovato: non dalla produzione né dal consumo, bensì dall’intento di destinare il cibo che serve dove serve per un nuovo “comunismo alimentare globale”. In questa accezione “comunismo” assumerebbe un significato del tutto inedito: non più una lotta contro la proprietà privata, ma un progetto radicale di equità umana, incentrato sul più fondamentale e inalienabile dei bisogni. Battersi contro la proprietà esclusiva del cibo significherebbe opporsi all’idea di una sovranità alimentare trasformata in sovranismo, dove il mito del “io mangio ciò che produco” finisce col tradursi in “ciò che produco, lo mangio solo io”, negando in questo modo la possibilità di condividere la risorsa più vitale di cui disponiamo. Non è un caso che un primo comandamento etico-religioso comune all’umanità sia proprio quello di “dar da mangiare agli affamati”. Dare, appunto, non “stare a guardare”, sperando per il meglio. Un precetto che da Montesquieu in poi è diventato un diritto inalienabile garantito dallo stato, non più una concessione di qualche generoso sovrano. Ora è tempo di fare il passo successivo e trasformare questo imperativo politico in un vero progetto, altrettanto politico, ma molto più ampio. È bene infatti ricordare che “dare a ciascuno secondo i suoi bisogni” non è né un pericoloso moto sovversivo né un mero un atto di carità: il saziamento dello stomaco è il passo necessario verso il nutrimento spirituale, quella “fame di sapere” che è precondizione per la realizzazione individuale e la partecipazione sociale di ogni persona. Solo eliminando il bisogno si alimenta anche il sogno: quello di un’esistenza pienamente soddisfatta che vuole saziarsi di qualcosa di più. Forse è anche per questo che è così difficile realizzare questa visione: in un mondo che potrebbe sfamare tutti, qualcuno sa bene che chi non ha da mangiare non ha tempo per pensare. Ed è precisamente per questo motivo che la battaglia universale per un mondo senza fame non può essere ignorata proprio da chi si è sempre battuto per dare voce agli affamati. Boschi: “La malattia non è una colpa. Ecco perché chiedo l’oblio oncologico” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 31 luglio 2023 Intervista alla deputata di Italia Viva sulla proposta di legge in discussione alla Camera: “Rimuove un’ingiustizia oggi tollerata in Italia. La Gpa? Sono contraria, ma il reato universale è una mossa demagogica”. “Una legge di civiltà”. Così la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi definisce la proposta di legge sull’oblio oncologico, che ha l’obiettivo di contrastare ogni forma di discriminazione nei confronti delle persone che siano guarite dal cancro, cancellando lo stigma della malattia. Dopo il via libera della XII commissione Affari sociali e Salute, questa settimana il testo è approdato alla Camera con un consenso bipartisan. Grazie al quale si potrà correre dritti al traguardo, si augura Boschi. Che su temi etici e diritti non ha dubbi: “Non condivido la Gpa, ma il reato universale è una mossa demagogica: i diritti dei minori vengono prima di tutto. Il fine vita? Il Parlamento legiferi”. Onorevole, partiamo dalla proposta di legge sull’oblio oncologico. Come nasce la sua iniziativa? Ho presentato a ottobre una proposta bipartisan che prendeva spunto da quanto già fatto da altri Paesi europei, come Francia e Portogallo. Si è poi arrivati ad una sintesi delle varie proposte depositate con un testo unificato votato all’unanimità in commissione. Spero avvenga lo stesso in Aula il prima possibile perché è una legge di civiltà. In che consiste la legge? Serve a cancellare una ingiustizia oggi tollerata in Italia ossia che ex pazienti oncologici, pur essendo del tutto guariti, si vedano negare mutui, prestiti, assicurazioni sulla vita, o magari per averli li debbano pagare molto di più delle altre persone solo perché sono stati malati in passato. Come hanno sottolineato non solo le associazioni dei pazienti ma anche i medici, non ci sono ragioni scientifiche alla base di questa vera e propria discriminazione. Con la legge che ho presentato si vieta la possibilità di chiedere questo tipo di informazioni o applicare costi aggiuntivi. Eventuali clausole contrattuali difformi sarebbero nulle. Quali sono i requisiti di tempo previsti? La proposta riprende la tempistica suggerita da una risoluzione del Parlamento Europeo: 10 anni dall’ultimo trattamento attivo che si riducono a 5 laddove ciò avvenga prima dei 21 anni di età. Abbiamo poi previsto che il ministero della salute possa stabilire termini più stretti per alcune neoplasie che hanno tempi di guarigione più rapidi. Dunque, alla guarigione clinica non sempre corrisponde la guarigione “sociale”. Quali difficoltà può incontrare, in particolare, un ex paziente oncologico? Le difficoltà vanno dall’ottenere un prestito per comprarsi l’auto, alla concessione di un mutuo, sino alla impossibilità di adottare un bambino. Tutte le volte dovendo avere lo stigma della malattia, anche se superata, presentando documenti o sottoponendosi a visite mediche. Non è giusto. La legge in discussione alla Camera però va oltre perché prevede una parte molto innovativa sul divieto di discriminazione in sede di concorsi o di valutazione delle carriere, nonché un sostegno per gli ex pazienti oncologici anche attraverso politiche attive del lavoro ad hoc. Passando al tema della gestazione per altri, Lei è stata tra i pochi all’interno del Terzo Polo a votare contro la legge Varchi sul reato universale. Qual è la sua posizione? Che ne pensa della proposta Magi sulla Gpa solidale? Noi abbiamo deciso, dopo un serio confronto nel gruppo, di rispettare la libertà di tutti essendo un tema etico. Ognuno ha votato secondo coscienza e rispetto profondamente i miei colleghi che hanno posizioni diverse dalla mia in un senso o nell’altro. Non ci sono mai risposte definitive, valide per tutti, su questi temi. Io non condivido la Gpa, anche quella solidale che pone ancora molti problemi medici e giuridici, non solo etici. Tuttavia, penso che introdurre il reato universale sia solo una operazione demagogica. Uno spot privo di portata normativa perché sarà di fatto non perseguibile, visto che i paesi in cui è lecita non collaboreranno con le autorità italiane. L’unico vero effetto sarà generare uno stigma verso le sole persone che non hanno potuto scegliere nulla: i figli. Vede il rischio di un arretramento sul piano dei diritti da parte di questo governo? Di sicuro vedo impossibile fare passi avanti. Anche su temi che richiederebbero delle risposte come sulla trascrizione dei figli nati all’estero da Gpa. Ossia una questione che non può essere lasciata alle scelte dei singoli sindaci o tribunali. Per me, i diritti dei minori vengono prima di tutto. A proposito di temi etici, che posizione ha sul fine vita? I tempi sono maturi perché il Parlamento legiferi, accogliendo il monito della Consulta? Il Parlamento dovrebbe farlo. Anzi, avrebbe già dovuto farlo secondo la Consulta. Nella scorsa legislatura la Camera aveva votato un testo equilibrato anche se perfettibile. Poi tutto si è arenato al Senato. Si potrebbe ripartire da lì, magari approfondendo alcuni profili, ma non penso ci siano le condizioni con questa maggioranza. Intanto il Terzo Polo non c’è più. Come vi presenterete alle Europee? Il terzo polo non c’è più per scelta di Calenda e non possiamo che prenderne atto, anche se è un peccato. Noi di Italia Viva stiamo lavorando per una lista riformista ed europeista, forte, dai liberali ai popolari, ai socialisti e Più Europa. Le porte sono aperte per gli amici di Azione ma dipende da cosa deciderà di fare Calenda. C’è da aspettarsi la nascita di “Forza Italia Viva”? Non credo. Noi vogliamo parlare ai riformisti per rappresentare una alternativa a populisti di destra e sinistra. Anche le elezioni in Spagna hanno dimostrato che si vince fuori dagli estremismi. Forza Italia senza Berlusconi mi sembra molto debole e più orientata a sostenere la sovranista Meloni. Migranti. Naufragio di Cutro, la Guardia costiera: “Nessun nostro elicottero in quell’area” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 31 luglio 2023 La replica al racconto di tre testimoni, che dicono di aver visto “un elicottero che sorvolava” il caicco sul quale si trovavano. Sarà la Procura a sciogliere i nodi. “Il pomeriggio e la sera prima del naufragio di Cutro nessun elicottero della Guardia costiera si è alzato in volo dalle nostre basi per sorvolare un’aera compatibile con la possibile posizione del barcone in quelle ore”. Così fonti della Guardia Costiera replicano alla notizia della presenza di un elicottero - raccontata da alcuni sopravvissuti (qui la video testimonianza) - sul caicco poi naufragato a Cutro. O quantomeno: non un nostro elicottero, dicono dalla Guardia Costiera. Dove nelle ultime ore, dopo la diffusione della notizia, hanno controllato i piani di volo dei loro elicotteri in quelle ore e hanno diffuso una nota ufficiale: “Si smentisce - dicono - che ci fossero in volo elicotteri della Guardia Costiera italiana”. Resta in piedi la richiesta di verifica presentata alla procura di Crotone da tre avvocati difensori di otto dei sopravvissuti. E sono proprio tre di quei sopravvissuti ad aver parlato agli avvocati della presenza di un elicottero che poi hanno riconosciuto in fotografia come uguale a quello della Guardia Costiera. Le livree delle Costiere dei vari paesi sono simili. Potrebbero aver confuso il velivolo con la Guardia costiera greca, anche se il colore sulla coda in quel caso non è rosso, come loro indicano. Quando sono stati sentiti, i tre testimoni erano in campi profughi differenti e lontani. È difficile anche solo ipotizzare che si siano messi d’accordo per diffondere un dettaglio non vero di questo genere. Ne hanno parlato spontaneamente agli avvocati che soltanto in un secondo momento hanno mostrato loro le fotografie degli elicotteri chiedendo se li riconoscevano. La memoria di “un elicottero che ha sorvolato la barca” con le caratteristiche descritte nelle video testimonianze diventa un giallo. Del resto i piani di volo della Guardia Costiera sono annotati formalmente. Sarà la Procura a sciogliere i nodi. Salvini interviene a difesa della Guardia Costiera: “Campagna di fango e menzogne: insinuare che qualcuno non sia intervenuto di proposito, pur capendo il potenziale pericolo, è un insulto all’Italia intera”. Il muro dell’Egitto con i genitori di Giulio Regeni: “Non vogliono riceverci” malgrado i solleciti e le pec di Giuliano Foschini La Repubblica Sette lettere nel 2023 all’ambasciata, l’ultima dopo la liberazione di Zaki; le richieste ora che i due Paesi si parlano: “Ma finora nessuna risposta”. “Vogliamo parlare con l’Egitto, ma non si degnano nemmeno di una risposta”. Come se già non fosse abbastanza, Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, hanno chiesto più volte un incontro al nuovo ambasciatore del Cairo in Italia per capire come l’Egitto volesse mettere in pratica la collaborazione annunciata in più occasioni al nostro Governo. Non hanno però mai ottenuto alcuna risposta. La loro legale, Alessandra Ballerini, ha scritto per l’ennesima volta pochi giorni fa, il 27 di luglio a Bassam Rady, l’ambasciatore nominato a maggio del 2022 e arrivato a Roma a marzo di quest’anno. Rady non è un diplomatico qualsiasi ma è l’ex portavoce di Sisi: è uno dei pochi uomini dell’apparato che sa quindi molto, forse tutto, del fascicolo Regeni. Quello che è noto e quello che invece non è mai emerso. Le pec senza risposta - “Faccio seguito, con la presente - scrive l’avvocato Ballerini nell’ultima pec inviata - alle mie missive del 2, 6 e 23 febbraio; del 3 e 16 marzo; e del 12 luglio, tutte rimaste inopinatamente inevase. Alla luce delle rinnovate relazioni tra il nostro Paese e l’Egitto, “nel quadro del rispetto reciproco” da lei invocato nei recenti comunicati, le chiedo di fissare senza ulteriori indugi la data di un incontro con la famiglia Regeni. La sua mancata risposta (dopo mesi di solleciti) non può che essere considerata dall’opinione pubblica un’assoluta mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini italiani e del nostro Paese. Confido che grazie anche all’intermediazione del nostro Ambasciatore e della Farnesina che ci leggono in copia, vorrà rispondermi a breve con la necessaria cortesia”. Appello al governo Meloni - La risposta non è arrivata. E se il silenzio continuasse, i Regeni - ieri ospiti a Gradisca di Isonzo alle Onde Mediterranee Festival che ha dedicato un’intera giornata al giallo, il colore della battaglia per la verità su Giulio - hanno detto chiaramente che non si fermeranno. Non si stancheranno di chiedere giustizia e di pretendere la verità. “Abbiamo scritto nei giorni scorsi anche alla Farnesina, perché sembrava che dovesse venire al Sisi in Italia lo scorso weekend, e invece c’è stato il primo ministro. Eravamo disponibili anche a una video conferenza, e invece niente”. Eppure, fa notare l’avvocato Ballerini, il governo Meloni continua a parlare di “collaborazione” con un paese che non solo sta impedendo che si celebri il processo ai quattro imputati - non comunicando i loro indirizzi - per il sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore italiano. Ma non ha mai nemmeno consegnato, come promesso, gli effetti personali del ragazzo alla famiglia. Paura per Patrick Zaki - Ieri era la prima occasione pubblica a cui i Regeni partecipavano dopo la liberazione di Patrick Zaki. “Patrick - ha spiegato l’avvocato Ballerini, con Paola e Claudio accanto - è stato rapito pochi giorni dopo la nostra audizione alla commissione parlamentare, in cui avevamo denunciato le sparizioni forzate in Egitto. Ed è stato preso come ostaggio, come arma di ricatto. Noi ora abbiamo paura per lui. Lui ha avuto una grazia che non è un’immunità: gli hanno tolto un reato, ma non tutti quelli che una dittatura potrebbe attribuirgli. Se lo leghiamo a noi, alla nostra battaglia, sapendo quanto ci odiano, potrebbero accanirsi su di lui. Per questo non abbiamo parlato mai di lui, seppur aiutandolo dietro le quinte. Poi va detto, e nulla toglie alla felicità che lui sia libero, che Patrick è uno dei 60mila detenuti che oggi sono in carcere in Egitto. La nostra battaglia è e continuerà ad essere per tutti i Giulio del mondo”. I migranti deportati nel deserto, racconti dall’inferno tunisino di Matteo Garavoglia Il Domani, 31 luglio 2023 Viaggio al confine con la Libia dove le autorità di Tunisi non hanno pietà con uomini, donne e bambini. È la realtà che ci fa comodo ignorare, pur di stringere accordi macchiati dal sangue degli innocenti. “Mi hanno deportato nel deserto con l’Algeria il 6 luglio scorso insieme ad altre 200 persone” è il racconto di Daina. Una madre e sua figlia di sei anni morte abbracciate di stenti lungo il confine con la Libia; altri cinque cadaveri trovati in quella zona militarizzata e inaccessibile; donne incinte e neonati abbandonati nel deserto per giorni senza acqua e cibo e centinaia di persone che sono state tratte in salvo dalle cosiddette autorità libiche, famose per essere accusate di ogni tipo di violazione dei diritti umani. Ci sono delle immagini destinate ad andare oltre ogni tipo di analisi e commento. Quelle arrivate in queste settimane dalla Tunisia parlano chiaro. Il senso di quelle istantanee è semplice. Dal 2 luglio scorso le forze di sicurezza tunisine si sono rese protagoniste di vere e proprie deportazioni di massa ai danni della comunità subsahariana presente nel paese. Deportazioni che sono state compiute nella città di Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali di partenza della rotta centrale del Mediterraneo. Sotto gli occhi dell’Europa - Da un mese nel paese si respira un’aria pesante. In quei luoghi dove la convivenza tra popolazione locale e cittadini originari dell’Africa subsahariana e del Sudan si è fatta più difficile anche a causa delle precarie condizioni economiche del paese, la bomba sociale è definitivamente esplosa un mese fa. Da una parte a Sfax una fetta di tunisini, dopo mesi di tensioni e l’omicidio di un connazionale da parte di tre cittadini originari del Camerun, si è riversata contro migranti, richiedenti asilo, donne incinte e lavoratori solo per il colore della pelle. Abitazioni incendiate, caccia all’uomo con pietre, bastoni, machete e accoltellamenti sono gli episodi più crudi di una violenza senza confini. Dall’altro le autorità tunisine sono all’origine dell’istituzionalizzazione di queste violenze. Almeno dal 21 febbraio scorso quando il presidente della Repubblica Kais Saied ha affermato: “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico”. Da allora le violenze non si sono mai fermate e sono diventate di Stato quando sono cominciate le deportazioni. Dal 2 luglio scorso si stima che siano state più di 1200 persone abbandonate lungo il confine con la Libia e l’Algeria senza cibo e acqua, centinaia quelle ancora presenti oggi lungo quelle zone desertiche e inaccessibili salvo per la Croce rossa tunisina. Vivere nel terrore - Jordan ha 25 anni e viene dal Camerun. Dopo avere attraversato a piedi Niger, Nigeria e Algeria è arrivato a Sfax qualche mese fa per cercare di costruirsi un futuro in Europa. “Non riesco neanche più a ricordare quante volte sono partito. Dopo che sono esplose le violenze mi sono chiuso a casa con i miei amici. Nessuno ha più lavorato e non siamo usciti neanche per comprare acqua e cibo per paura di possibili aggressioni. Per fortuna altri tunisini ci hanno aiutato come potevano ma ho vissuto col terrore per giorni. L’altro giorno sono uscito di casa per cercare un lavoro, un poliziotto mi ha fermato per strada e mi ha rubato il telefono. Non si può andare avanti così. Ho degli amici che non sento da settimane dopo che sono stati deportati nel deserto”, è il racconto sospirato che Jordan fa a casa sua in uno dei quartieri più popolari della città: un ingresso, due stanze, una cucina senza frigo e con una bombola a gas per un totale di sei persone. “Ora però il proprietario vuole che ce ne andiamo subito”, conclude il giovane. Pensare che nella regione i casi di deportazioni e le violenze quotidiane siano un’eccezione è sbagliato. In particolare i respingimenti sono una chiara politica utilizzata da alcuni paesi del Nord Africa per gestire il fenomeno migratorio. Se in Tunisia questi episodi hanno assunto evidenza grazie alle denunce di una società civile presente e ancora attiva rispetto a un quadro istituzionale sempre più autoritario dal 25 luglio 2021, momento del colpo di forza del presidente Saied quando ha azzerato il parlamento e sciolto il governo, ci sono alcune zone grigie nel resto del continente dove le deportazioni sono all’ordine del giorno. Come in Algeria dove l’organizzazione Alarm Phone Sahara ha stimato in quasi 20mila le persone che sono state deportate verso il deserto al confine con il Niger: “Questo incremento è molto grave e s’iscrive in un aumento delle persecuzioni contro i migranti subsahariani in tutti i paesi del Maghreb. È stato già raggiunto il totale rispetto a tutto il 2022”, è la denuncia dell’associazione. Il telefono di Daina - Le testimonianze raccolte parlano di persone che vengono prelevate con la forza dalle loro abitazioni, sono numerosi i casi di violenze e furti da parte delle autorità algerine, e gettate al Point-zéro, un lembo di terra letteralmente di nessuno e distante pochi chilometri da Assamaka, la prima città raggiungibile a piedi una volta arrivati in Niger. Sono stati registrati casi di donne incinte, migranti arrivati in stampelle a causa dei pestaggi subiti dalle forze di sicurezza e altri arrivati in condizioni di disidratazione acuta. Una prassi che è stata registrata anche in Marocco e in Libia. Qui l’ultimo caso di deportazione di massa risale a giugno 2023, un mese prima che cominciassero anche in Tunisia. Le forze di sicurezza di Bengasi hanno espulso dal paese 4mila persone (la maggior parte di origine egiziana) verso il confine con l’Egitto. Poco più della metà era in una posizione irregolare. Secondo le autorità de Il Cairo la restante parte aveva tutti i diritti per restare in Libia. È tuttavia in Tunisia che questo tipo di azioni fa più rumore. Se anche negli scorsi anni sono stati registrati casi di respingimenti di massa nei confronti dei migranti provenienti dal confine sud, oggi la situazione è completamente diversa e fa riferimento a deportazioni che con la Libia non c’entrano nulla. A Sfax lo scenario è desolante: a oggi ci sono centinaia di persone costrette a vivere per strada o nei campi di ulivo fuori dalla città dopo aver perso la casa e ogni tipo di speranza. I dati confermano che la Tunisia non può più essere considerata un paese terzo sicuro: le 7.359 partenze della scorsa settimana dal piccolo Stato nordafricano sono il numero più alto di sempre. Cifre registrate dopo la firma il 16 luglio scorso del memorandum d’intesa tra Tunisi e l’Unione europea per un piano di investimenti da più di un miliardo di euro alla presenza della commissaria europea Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Bruxelles non si è mai espressa sulle immagini provenienti dalla Tunisia nonostante le numerose denunce da parte di diverse organizzazioni internazionali e locali. L’obiettivo della visita era di dare un sostegno visibile alla Tunisia per il blocco delle partenze dopo i 40mila arrivi a Lampedusa da inizio anno. Un impegno rafforzato con il processo di Roma iniziato lo scorso 23 luglio che ha visto il presidente della Repubblica Kais Saied come ospite d’onore. Nel frattempo dai luoghi delle deportazioni continuano ad arrivare testimonianze: “Mi hanno deportato nel deserto con l’Algeria il 6 luglio scorso insieme ad altre 200 persone - è il racconto di Daina, originaria del Camerun, a Domani - dopo siamo rimasti in sei, incluso un bambino di tre anni. Abbiamo cominciato a camminare per giorni senza acqua e cibo. Gli altri non mi hanno voluto seguire in Algeria e così mi sono trovata sola e sono riuscita ad arrivare ad Algeri. In questo momento mi trovo a Tebessa in attesa di rientrare in Tunisia ma sono ripresi i respingimenti. Insieme a un gruppo di persone ci stiamo nascondendo dietro le montagne per poi attraversare ma sono senza acqua e soldi. Se riesco richiamo domani per fare sapere se sono riuscita a entrare nel paese. Spero di avere il cellulare ancora carico”. Oggi quel telefono non squilla più. “Sdegno e dolore davanti ai corpi dei migranti nel deserto, ma domani saranno dimenticati” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 31 luglio 2023 Parla padre Camillo Ripamonti: “Diritti umani garantiti? Nulla di più falso. L’Europa non chiede alcuna garanzia, in questi memorandum si parla di intervenire sulle cause dei fenomeni ma in realtà interessa solo bloccare le persone”. Il suo è un j’accuse possente: “Tutti hanno giustamente e prontamente denunciato l’azione della Russia di sottrarsi all’accordo sul grano come mossa “cinica, crudele e disumana”, che avrà come conseguenza il rischio di affamare l’Africa e di far alzare notevolmente i prezzi dei cereali. Eppure la stessa lucidità di giudizio non sembra aver caratterizzato l’UE e l’Italia in occasione della firma del memorandum con la Tunisia, che nella parte che riguarda i migranti di fatto consegna migliaia di uomini, donne e bambini a uno Stato terzo, senza nessuna garanzia sui diritti umani, anzi pur avendo evidenza del loro mancato rispetto all’interno del Paese. Una storia che ormai si ripete: dal memorandum con la Libia all’accordo con la Turchia, hanno avuto come effetto cinico, crudele e disumano di bloccare, rendere più pericolosi e spesso tragici i viaggi di decine di migliaia di persone. Non è vera la giustificazione data per la realizzazione di tali accordi, cioè l’azione dissuasiva e regolatoria dei flussi migratori. È vero invece che quello che vediamo con chiarezza nel comportamento di altri Stati dovrebbe definire anche tali accordi per quello che in realtà sono: interessati, cinici e spesso disumani”. A sostenerlo è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati. Padre Ripamonti le immagini dei civili, donne, uomini, bambini, morti di stenti nel deserto tra la Tunisia e la Libia chiamano in causa le responsabilità dei governi e dell’Europa. L’Unità ne ha fatto una mission editoriale. È meritorio non chiudere gli occhi o relegare ai margini dell’informazione tragedie umanitarie di questa portata e ricorrenza. Di fronte a queste immagini c’è solo sdegno che riguarda anche i governi europei. Non vedo altri termini più idonei nel valutare scelte come quella compiuta dall’Unione Europea di dar vita a un memorandum come quello con la Tunisia, addirittura preso a modello da replicare in altri possibili accordi in Africa. Accordi che non vengono minimamente vincolati al rispetto dei diritti umani. Queste immagini strazianti dimostrano tragicamente che i diritti umani vengono calpestati, negati, e che la centralità della persona non è garantita, anche se a parole si dice che questi diritti sono garantiti. Nulla di più falso. Per tornare a quelle immagini agghiaccianti: si tratta di persone di origine sub-sahariana espulse dalle autorità tunisine. Abbandonati senza acqua, cibo o riparo a temperature che superano i 50 gradi, hanno camminato per chilometri prima di soccombere per lo stremo. Ennesima tragedia dovuta all’accordo di esternalizzazione firmato dall’Unione Europea con la Tunisia. Si susseguono le immagini di uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto. Prima una mamma abbracciata alla figlia di sei anni, poi un padre stretto al figlio. Salvare vite umane è un imperativo inderogabile degli Stati. Le politiche di chiusura dei confini non possono essere considerate politiche di gestione dei flussi migratori perché in questi anni sono state strumenti di morte per troppi esseri umani. Sdegno, dolore e anche un’amara consapevolezza… Quale, padre Ripamonti? Abbiamo già visto in passato che certe immagini colpiscono al momento ma non rimangono indelebili nella nostra memoria e non ci spingono a un cambio di orizzonte e di prospettiva. Anzi, l’Unione Europea facendo i propri interessi cerca di bloccare le persone in Paesi terzi che non rispettano i diritti umani. L’Europa-fortezza, l’Europa che esclude. L’Europa mossa da un’ossessione che si fa politica: esternalizzare le frontiere... La conferenza che c’è stata domenica scorsa a Roma ha messo in evidenza che la questione migratoria è questione molto più complessa. Però poi alla fine quello che risulta essere immediato e necessario, una sorta di imperativo categorico, è bloccare le persone. Al di là di prese di posizione in cui si afferma che i processi sono lunghi, che s’investirà anche sulle cause dei fenomeni, alla fine ci si concentra sull’esternalizzazione dei confini che poi è quello che interessa davvero. Non fare arrivare le persone in Europa. Resta questo il vero obiettivo dell’Unione Europea. Si dice: non farle arrivare in modo illegale affidandole ai trafficanti, ma in realtà quello che s’intende è non farle arrivare comunque, cercando in qualche modo di regolamentare invece i flussi legati al lavoro. Bloccare alcune persone e farne arrivare delle altre, selezionandole. Decine di rapporti Onu e delle più importanti associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani, centinaia di testimonianze di sopravvissuti, non hanno smosso il ministro dell’Interno Piantedosi dalla sua convinzione, ribadita in una recentissima intervista, che la Tunisia rispetta i diritti umani... Alla prova dei fatti abbiamo visto che queste persone muoiono perché respinte ai confini desertici tra Tunisia e Libia. Queste immagini agghiaccianti contraddicono questa assunzione a parole del rispetto dei diritti umani. Ma sapevamo già prima di queste immagini che la Tunisia aveva respinto centinaia se non migliaia di migranti verso la Libia, nel deserto, lasciandoli in balia di se stessi. Lo stesso era successo con la Libia. Si firmano accordi, li si reiterano nel tempo, senza esigere immediatamente garanzie sui diritti, e nei mesi e anni successivi si ha evidenza continua di questo mancato rispetto dei diritti umani. Questo è accaduto con la Libia, questo sta accadendo ora con la Tunisia. Il perseverare è diabolico, verrebbe da dire. Così come è già successo con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie, l’UE, per cercare di contenere gli arrivi sulle coste italiane e d’Europa, finanzia un regime che ha cancellato le garanzie democratiche al proprio interno. E lo fa senza porre alcuna concreta condizionalità sul rispetto dei diritti umani fondamentali, come dimostrano i recenti fatti che hanno visto accadere nel Paese una vera e propria caccia allo straniero nei confronti dei migranti sub-sahariani, e deportare illegalmente ai confini con la Libia e con l’Algeria centinaia di persone in transito verso l’Europa, causando la morte di molte di loro, incluse donne e bambini, e violando quel diritto internazionale che lo stesso Memorandum richiama. Resta al fondo l’idea, la visione dei migranti come minaccia e non come ricchezza per le nostre società... Per tanto tempo i migranti sono stati strumentalizzati a fini politici per ottenere dei vantaggi elettorali. In questo momento siamo in una situazione in cui emerge la necessità concreta a livello europeo della presenza di migranti che vadano a rinfoltire le fila per il lavoro. Però non si vuole contraddire quello che si è detto fino a ieri sui migranti. Quindi si crea questo cortocircuito in cui i migranti sarebbero utili a noi però non quelli che arrivano in modo irregolare. Ma sotto sotto si nasconde questa visione del migrante non nella sua dignità, come persona, si può farlo arrivare solo se è simile a noi, se ci può essere utile. Questo uso strumentale delle persone è del tutto inaccettabile. Che fare allora? Bisogna assolutamente uscire da questa prospettiva e considerare i migranti come persone, come risorse per le nostre società, non soltanto in una accezione utilitaristica, per il lavoro che potrebbero svolgere, ma per la ricchezza della loro appartenenza culturale, appartenenza religiosa, che può arricchire le nostre società. Dobbiamo cambiare la prospettiva. Non prendere quelli che vogliamo, come vogliamo, quasi fossimo in una sorta di grande supermercato umano planetario, ma pensare a un futuro condiviso, nel quale queste persone si siedono al tavolo con noi nelle nostre società e immaginano con noi il futuro. In un suo bel libro, lei ha messo un accento allarmato sulla “globalizzazione dell’indifferenza”... Dieci anni fa, in occasione del suo primo viaggio a Lampedusa, papa Francesco usò questa espressione, la “globalizzazione dell’indifferenza”. A distanza di dieci anni, non possiamo che raccogliere i frutti, purtroppo tristi, amari, dolorosi, di questa indifferenza. Siamo ancora a piangere delle persone morte nel deserto, respinte brutalmente, perché non si vuole riconoscerle come esseri umani. Se questa non è “globalizzazione dell’indifferenza”, allora ditemi di cosa si tratta. Si insiste sul concetto di sicurezza, quasi sempre in termini “securitari”, e quasi mai sui concetti di legalità e inclusione. Perché, padre Ripamonti? Credo perché nel corso degli anni abbiamo vincolato il discorso migratorio a un discorso politico funzionale al consenso elettorale. Bisognava identificare un nemico, fomentare nelle persone la paura e l’odio verso questo nemico, il migrante. Un bersaglio di comodo per quella politica che sull’odio e la paura cercava voti. Io identifico chi è il nemico. E il nemico è il migrante, magari islamico e alimento la paura verso questa persona. E così costruisco retoricamente il mio discorso politico per finalità elettorali intorno a questo nemico. Uscire da questo discorso diventa sempre più difficile. Sono più di venti-trent’anni che si alimenta questa narrazione distorta, tanto da essere entrata nell’immaginario collettivo. Bisognerebbe smontare dal punto di vista culturale questa costruzione e riprendere il discorso da una visione del migrante come una persona che viene da un altro luogo e porta delle novità rispetto al contesto nel quale andrà a collocarsi, e questa novità può essere di giovamento anche per le nostre società. La diversità va intesa come ricchezza, come fondamento dell’inclusione. L’umanitarismo è la nostra àncora di salvezza. Golpe in Niger, l’Italia e la doppia valenza della questione africana di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 luglio 2023 Abbiamo molto da offrire, agli alleati della Nato e ai nostri partner europei: una strategia in divenire per il continente più giovane, più povero e più instabile del pianeta, che serva a contenere tanto i cinesi quanto i russi. Il golpe in Niger, subito benedetto da Prigozhin, con tanto di assalto all’ambasciata francese al grido di “viva Putin!” in uno sventolio di bandiere russe, ci svela molto della partita geopolitica nella quale il nostro Paese può essere coinvolto in Africa. L’effetto icastico è rafforzato peraltro da una pura casualità: la coincidenza di tempi tra il pronunciamento militare a Niamey, in quella fragile democrazia tanto strategica per l’Europa, e il viaggio americano di Giorgia Meloni, che ha finito per richiamare oggettivamente, al di là di ogni protocollo o dichiarazione congiunta, la dimensione anche italiana di una scommessa da sostenere in nome e per conto dell’Occidente nei prossimi anni. Se la nostra uscita, sia pure “soft”, dall’infelice memorandum sulla Via della Seta era, probabilmente, il dossier più caro a Joe Biden nell’incontro con la giovane premier di Roma, la questione africana aveva e ha per noi una doppia valenza nel rapporto con gli Stati Uniti. Abbiamo qualcosa da chiedere, certo: l’attenzione al quadrante Sud è venuta meno nel tempo, da Obama a Trump, e gli effetti sono sotto i nostri occhi. Ma abbiamo anche molto da offrire, tanto a Biden e agli alleati della Nato quanto ai nostri partner europei: una strategia in divenire per il continente più giovane, più povero e più instabile del pianeta, che serva a contenere tanto i cinesi quanto - soprattutto - i russi, in una specie di ibrida appendice non dichiarata della guerra in Ucraina. La mossa del cavallo di Giorgia Meloni, per uscire dalla bolla sovranista nella quale la sua stessa propaganda da leader d’opposizione l’aveva imprigionata, è stata del resto la politica estera sin dall’inizio, grazie anche alla scelta di un consigliere diplomatico dal profilo atlantista molto marcato come l’ambasciatore Francesco Maria Talò. Chi, dall’altra parte dell’oceano, temeva di trovarsi davanti una “Bolsonaro in tailleur”, è rimasto spiazzato. E, dopo l’impeccabile tenuta sul sostegno all’Ucraina (quasi un modello, in un’Europa non sempre granitica), adesso è la volta dell’Africa: l’opzione sul tavolo consiste nel presentarsi come partner affidabile per creare un nuovo equilibrio, viste le difficoltà nell’area dei francesi (con cui resta aperta un’alleanza, diciamo così, competitiva) e per arginare l’avanzata delle dittature filorusse. Il contesto, messo a nudo dai giorni drammatici del Niger, è assai difficile e può ancora peggiorare. Dal 2020 la cruciale regione del Sahel sta smottando e ha visto altri cinque colpi di stato: due in Mali, dove i soldati di Macron sono stati espulsi a vantaggio della brigata Wagner, due in Burkina Faso e uno in Ciad. Il Niger era uno degli ultimi due regimi democratici della zona, cerniera essenziale per i flussi migratori e per il contenimento del jihadismo. Come ha notato Michele Farina sul Corriere di sabato, il golpe avviene sotto il naso degli occidentali: gli americani hanno lì 1.100 soldati, i francesi 1.500, noi 300, l’Unione europea ha appena investito trenta milioni di euro nell’addestramento dei militari nigerini, entro fine anno l’Onu avrebbe dovuto spostare a Niamey i tredicimila caschi blu cacciati dal Mali ormai caduto sotto Prigozhin. Il singolare brigante double-face del putinismo continua, com’è evidente, a svolgere in Africa un ruolo attivo coi propri pretoriani, consentendo alla madrepatria il consueto doppio binario: lui applaude la giunta militare del generale Tchiani mentre il ministro degli Esteri di Mosca, Lavrov, si unisce al coro di preoccupata condanna che sale da tutte le cancellerie. E mentre Putin, da un summit tra Russia e Africa in verità non affollatissimo, promette il sostegno militare di Mosca a quaranta Paesi africani ricattandoli al contempo con la stretta sul grano. Questo quadro complesso si integra dentro un contesto in cui, per noi, resta ancora più pressante lo scenario nordafricano, col sostanziale fallimento della Libia e il quasi fallimento della Tunisia che cerchiamo di scongiurare, pur rischiando di dare ossigeno a un nuovo autocrate come il presidente Saied. Ma tutto è collegato. La crisi del Sahel ricade sulla costa mediterranea. Si tratta dunque di contrastare uno slogan diffuso dai regimi revanscisti africani in coro coi russi, “liberiamoci dal colonialismo occidentale”, come se l’espansionismo putiniano fosse mosso da ragioni umanitarie (in Mali la Wagner è implicata nel massacro di Moura: 500 morti). Perciò, contro questa narrazione fasulla, può funzionare l’approccio del “dialogo fra pari”, cui la Francia fatica a ricorrere a causa di un più pesante passato coloniale: ad esso ha fatto invece riferimento esplicito Meloni nella Conferenza di Roma che, pochi giorni prima della missione americana, ha riunito alla Farnesina quasi tutti gli Stati della sponda sud del Mediterraneo allargato, del Medio Oriente e del Golfo, gli Stati europei di primo approdo, alcuni partner del Sahel e del Corno d’Africa, istituzioni europee e internazionali. S’è trattato di un anticipo di quel piano Mattei che, coniugando energia e sicurezza, razionalizzazione di flussi migratori e sviluppo, dovrebbe essere disvelato in autunno, nel prossimo vertice tra Italia e Africa. Alla fine, questo è il piatto forte che Roma può portare in dote agli alleati. Il paragone può far sorridere e perfino scandalizzare, ma in fondo De Gasperi nel 1947 offrì, nel suo primo viaggio americano, la nostra promessa di fedele trincea verso Est. Oggi, al nuovo amico americano Biden, Giorgia Meloni può proporre l’Italia come aspirante baluardo contro il caos che avanza da Sud assieme alle bandiere russe. In cambio, può trarne un ulteriore forte accredito nel concerto europeo. Arrivare a Bruxelles passando da Washington è di sicuro una strada lunga, ma non è detto che sia la meno praticabile. In Africa tra Wagner e propaganda via radio Putin ha battuto l’Occidente di Domenico Quirico La Stampa, 31 luglio 2023 Orrore: a Ouagadougou, Dakar, Bangui, N’Djamena, Bamako, Goma, e adesso anche a Niamey (dove i golpisti si sono impadroniti di un altro Palazzo che credevamo fedelissimo) ci sono folle africane che vanno in piazza con le bandiere russe, inneggiano a Putin, invocano la Wagner e invitano in cartelli di chirologica perentorietà francesi e occidentali ad andarsene a casa. E poi: presidenti e ministri di quell’Africa così obbediente e ossequiosa vanno e vengono da Mosca, capitale dell’anticristo, commettono allegramente peccato mortale con Putin nonostante le esecrazioni e le scomuniche di Biden Macron Von der Leyen. Che succede? Dopo la Françafrique la Russiafrique? L’Indigeno dell’altra sponda delude. avevamo deposto su di lui una pioggia di parole sapienti, di gravi benedizioni, di sentenze giudiziose e lui si fa imbambolare da un autocrate ciarlatano a cui è stato sequestrato il bancomat e che stiamo (senza dubbio!) sconfiggendo da ben un anno e mezzo! Con spensierata miopia la nostra risorsa consolatrice di fronte a questo scandalo è: le plebi africane son pecore ligie le cui convinzioni si comprano, pezzenti che si vendono per quattro rubli distribuiti dalla Wagner, un ibrido di servilità e di codardia ostaggio della propaganda moscovita. Rieccolo! L’indispettito esotismo di bassa lega, le muffe antropologicamente razziste e (post)coloniali alla Rhodes e alla Lyautey: gli africani sono arretrati, un formicolio vibrionico di emozioni elementari e violente, non sono in grado di capire la perfezione delle democrazie occidentali. Gli slogan dell’autocrate russo, e cinese, attecchiscono dunque perché sono all’altezza delle loro rozze abitudini ancestrali. L’africano è tollerato solo a condizione che non ci contraddica, deve indossare la livrea. E può essere solo il sottomesso o il complice. Ben lo sintetizzò lo sciagurato balbettio del lillipuziano ministro degli esteri dell’Unione Joseph Borrell: l’Europa è un giardino, il resto del mondo una giungla. Sorprendersi che gli abitanti della giungla non abbiano per noi una grande passione e che non abbiano dimenticato lo strato dei vizi coloniali sa più di rito espiatorio che di intelligenza. Non tolleriamo che la nostra età dell’oro sia già corrotta e che possano sulla terra esistere altri sfruttatori al di fuori di noi. Insomma. Noi occidentali abbiamo paura della Russia che ha aggredito l’Ucraina. Per questo aiutiamo Kiev. Gli africani no. La guerra in Ucraina non li indigna perché è collegata a valori, la libertà degli Stati, il diritto internazionale che ai loro danni sono stati violati innumerevoli volte e proprio da coloro che oggi dichiarano di difenderli a tutti i costi. Ma in Europa. La Russia non è una minaccia per la maggioranza degli africani, anzi è un utile carta da giocare contro gli occidentali che ogni giorno vogliono infligger loro arroganti lezioni su economia, politica, abitudini, costumi. Siamo sinceri. In Africa il nostro biglietto da visita non è la democrazia, è il capitalismo clientelare a cui abbiamo convertito con grande entusiasmo reciproco le cricche presidenziali e le loro fetide clientele. Così la propaganda russa può dire che la guerra in Ucraina non è che un capitolo della aggressione occidentale che tutto vuole dominare e possedere. E può citare senza arrossire Fanon: mezzo secolo dopo le accuse del profeta dei dannati della terra la lotta post-coloniale è diventata una battaglia globale, Russia e Sud del mondo ancora una volta uniti nella lotta all’esorbitante monopolio dell’Occidente. Dovremmo coltivare un dubbio: negli angoli più sordidi della fabbrica del mondo i nostri perfetti soci d’affari, cleptocrati padri del popolo in boubou, uniforme e doppiopetto, non hanno per caso deciso di percorrere strade secondarie dell’economia globalizzata? Il governo dei ladri, di cui siamo soci e padrini, vuole fare affari con chi vende, o regala, armi, grano, concimi senza impartire ipocrite lezioni di bon ton democratico e green. Non abbiamo ancora ben compreso la complessità e la efficacia dei maneggi della Wagner, le astuzie volpine del meccanismo messo in piedi dall’ex venditore di hot-dog. La Wagner è molto di più che alcune migliaia di energumeni, peraltro in nulla dissimili dai mercenari della americana Blackwater, e un pugno di geologi e ingegneri specializzati nello spillare concessioni minerarie. La Wagner ha realizzato in Africa una efficace strategia di influenza “low cost”, sfruttando tutte le porcherie, la disperazione e il malaffare che noi abbiamo consentito e talora promosso. L’uditorio da convertire con una spregiudicata propaganda era la gioventù del continente, confusa, povera da sempre ma con la disperante sensazione di esserlo sempre di più, pronta a rischiare la vita sulle strade della migrazione. E a incendiarsi ad ogni voce complottistica, a reagire alle vene di razzismo e xenofobia che percorrono l’Occidente delle città felici impaurite dall’invasione. In questo universo di vittime e di vampiri la propaganda russa ci ha sconfitto proprio sul campo di battaglia in cui pensiamo di esser padroni, la comunicazione. Questo braccio della Wagner sostiene media africani, come la radio “Lengo sogo” in Centrafrica, pubblica manuali scolastici, sponsorizza festival cinematografici e concorsi di bellezza, finanzia giornali e giornalisti che diffondono le parole d’ordine della lotta contro l’imperialismo dei ricchi. Una offensiva a costo basso visto che un articolo è pagato da queste parti 10 mila franchi Cfa, quindici euro. Gli danno volto e notorietà star della società civile e influencer con centinaia di migliaia di follower. Come lo svizzero-camerunense Nathalie Jam detta la “signora di Soci”, perché protagonista al summit russo africano del 2019 che inaugurò la grande offensiva di Putin verso il continente. E poi la Russia, che vanta una innocenza coloniale come la Cina, che al congresso di Berlino dove venne spartito il continente era solo osservatrice, per molti africani si confonde, mirabile cortocircuito, con l’Unione sovietica che fu alleata delle lotte di liberazione, la gloriosa e eterna primavera del kalashnikov arma rivoluzionaria L’onda lunga dell’anti-colonialismo ha spiazzato sia Parigi che Bruxelles di Domenico Quirico La Stampa, 31 luglio 2023 Il problema non sono la Cina, la Russia, i mercenari della Wagner o i califfati redivivi. L’Ue si è illusa di affiancare l’influenza francese senza capire l’ostilità degli africani. Immagini da Niamey, ennesima capitale di un golpe: folla furibonda, stracciata, urlante che marcia e circonda minacciosamente la ambasciata di Francia. I soldati (golpisti) lanciano lacrimogeni, impediscono il peggio. Finisce nella polvere, calpestato da piedi giubilanti, il cartello con i colori della République. E poi il sonoro del tumulto: “Viva Putin”, “Viva la Russia”, “Viva l’esercito” che ha deposto il presidente Bazoum. Mi viene un dubbio di fronte a questa scena, a questo popolo arrabbiato fino alla violenza contro il Paese europeo che si vanta di essere il simbolo dell’idea occidentale della universalità dei diritti. E che da quando a parole ha ammainato la bandiera coloniale, sostiene di essere amico fraterno, stampella e fratello del Niger e degli altri ex sudditi. Allora rispondo. L’Africa noi europei dobbiamo ancora scoprirla. In tutto il continente, ma soprattutto qui dove Parigi fa e disfa come se il tempo si fosse fermato, il problema più grande per gli europei sono proprio gli africani. Insisto: non la Cina che si insinua e compra, non la Russia che brandeggia la Wagner dei mercenari, non i califfati dello Stato islamico del grande Sahara che sorgono ovunque e dilagano sempre più a Sud verso il golfo di Guinea. Il vero problema non sono neppure i golpisti pittoreschi del Mali, del Burkina Faso e ora del Niger. Sono gli africani, i maliani i nigerini i saheliani nella loro condizione umana, nel mistero (per noi) della loro identità di cittadini marginali del ventunesimo secolo neocapitalista. Ne abbiamo smarrito la latitudine e la longitudine. A Parigi, a Bruxelles, a Roma dove si spediscono soldati nel lato meridionale dell’Europa, facendo passare qui in Niger il citatissimo “confine meridionale d’Europa” che è stato fissato proprio da queste parti, perché Agadez, all’imbocco del deserto, è la Lampedusa del mare di sabbia, primo balzo dei fuggiaschi. Al colonialismo francese, sclerotico, con poche palanche, ma non meno arrogante e deciso a resistere, zitto zitto, accordo dopo accordo, si sta affiancando, non sostituendo, un nuovo imperialismo con la bandiera europea. Quanti dei politici di destra e di gauche, a Bruxelles, a Roma, in Europa sanno chi sono gli uomini che vivono in questa parte disperata del mondo, quali sono i loro bisogni, le loro accanite speranze, di come vogliono liberarsi della vecchia pelle? Sanno che il Niger è un Paese dove non ci sono migranti ma solo perché sono troppo poveri perfino per partire? Che su venti milioni di abitanti cinque almeno vivono incastrati sulla pericolosa soglia della fame? Che i migranti sono in Niger un businness a cui partecipano, scopertamente, anche sotto il democratico e occidentalizzante Barzoum, i politici, i gendarmi, la polizia, l’esercito, le clientele del potere che si riempiono le saccocce? In questi giorni del golpe, oltre agli slogan sulla restaurazione della “democrazia”, sarebbe stato importante sentire qualcuno, nelle cancellerie che contano, chiedersi se questi scalmanati che ieri sono andati a far chiasso davanti alla ambasciata francese avevano davvero, come bisogno primario, di aiuti europei per portare il loro esercito nel 2025 a 50 mila uomini e a centomila nel 2030? Se ai poveracci che vivono nelle baracche e nelle capanne senza luce e senza acqua possa bastare il nostro striminzito catechismo che prevede per loro di farli diventare la plebe di una gigantesca caserma-luna park popolata di rambo europei, a cui forniremo la inevitabile “intelligence” e gli effetti speciali di droni e aerei da caccia. Alla loro miseria in cui in sessanta anni di indipendenze non abbiamo in alcun modo posto rimedio, per merito del fedelissimo presidente Bazoum, facciamo dono di questa modernità bellicosa. Se si cercasse di capire impulsi, passioni, lavoro, amore, demoni, sì anche i demoni, di questa gente sorgerebbe qualche dubbio sulla intelligenza di rispondere ai fatti di Niamey, come ha fatto Macron, con la minaccia di “risposte immediate e irremovibili” in caso di “attacco contro la Francia e i suoi interessi”. Di chi è la colpa se il Niger, uno dei maggiori produttori di uranio, il salvadanaio di Areva ora Orano, con riserve di petrolio stimate di miliardi di barili, attraverso cui si sta completando l’oleodotto più grande dell’Africa, è uno dei Paesi più poveri del mondo? Chi ha rubato i soldi, dall’epoca della indipendenza, gli aiuti internazionali, l’aiuto al fantomatico Sviluppo? Certo i soldi non li hanno rubati i cinesi o Putin e gli avvoltoi della Wagner (che qui non hanno ancora messo piede) e neppure i jihadisti, troppo impegnati a purificare il Sahel dai cattivi musulmani. Ecco allora che veniamo ai macroniani e intoccabili “interessi francesi”: li hanno ben tutelati sotto i presidenti e i golpisti che la Francia ha tenuto in piedi in Niger fino all’altro ieri. Eccoli i ladri. E negli interessi francesi c’è anche lui, Barzoum, perché pronto a dir sì a ogni richiesta, e che fino a qualche settimana fa negava che nel suo Paese stesse montando un sentimento antifrancese. La Francia, e il modernismo nelle chiacchiere da esibire nei convegni internazionali, era la sua rendita politica. Calcolo sbagliato. Non si è accorto che in tutto il Sahel, e non solo, sta montando un nuovo anti-colonialismo, una nuova Africa furibonda a cui l’irrompere della Cina e la tragedia del jihadismo ha offerto spunti di riflessione e rabbia. Che si riflette anche nel moltiplicarsi delle “giunte militari patriottiche” e nella rivolta delle società civili che non vogliono più essere vittime inermi della violenza jihadista e della contro violenza della lotta al terrorismo occidentale. A costo di trattare con i fanatici e di farli entrare nel gioco politico. A costo di accettare i Colonnelli e i loro oscuri accidenti. La Francia sta cercando di insabbiare l’Europa nella sua guerra africana per dividere i costi, la retorica e le colpe. Incassando i profitti. L’Europa, e l’Italia in cui ormai si parla di “quarte sponde” da presidiare, appare molto disposta a farsi ingannare. Attenzione a non diventare parte dell’odio che finora era dedicato alla potenza coloniale in servizio permanete effettivo. C’è, ad esempio, un contingente italiano parte di questa missione in Niger che “addestra” i militari locali. Il risultato, alla luce del golpe, non mi sembra esaltante. Nelle carceri del Congo si muore anche di fame di Luigi Mazzufferi L’Unità, 31 luglio 2023 Due morti di fame in due giorni nelle carceri del Congo. Detenuti mai processati, i cosiddetti “dimenticati dalla giustizia”. Sempre assenti dalla stampa italiana le notizie relative alle carceri del Congo. Fino a che non ne ha scritto Padre Giovanni Pross, domenica 25 giugno, sulla pagina dell’Unità curata da Nessuno tocchi Caino. Che mi ha portato a raccogliere qualcosa, tra le poche notizie disponibili, per tentare di completare il quadro di una situazione ancor più disperata delle carceri in un paese di per sé già disperato. Qualche mese fa, nella prospettiva della visita di Papa Francesco in Congo, abbiamo visto con una certa evidenza quanto diffuso dalla Fondazione Bill Clinton per la Pace. Dati che riferiscono di almeno 70 morti, in tre mesi, nelle prigioni di Makala, cioè nel più importante penitenziario di Kinshasa, la capitale. Qui esiste da sempre un sovraffollamento cronico. È un carcere costruito ai tempi della dominazione belga, con capacità di accoglienza dichiarata di 1.500 detenuti. Oggi ve ne sono oltre 8000! Qui “i dimenticati della giustizia” evidenziano macroscopiche responsabilità dei magistrati, ai quali mai, neppur timidamente, si accenna. Del tutto similare è la situazione a Goma, nel nord Kivu, una città con oltre due milioni di abitanti. Un carcere, con oltre 2000 detenuti, ristretti in una struttura che avrebbe potuto ospitarne 150 persone. Notizie più frammentarie, sempre molto imprecise, ma terrificanti, giungono da Matadi, il “porto” per antonomasia che si trova a circa 150 chilometri dalla foce del fiume Congo. Anche da Tshela, nella Provincia del Congo Centrale, dove la situazione è riconducibile a quella di un altro carcere che si trova nel Kasai, a Kananga, sul fiume Lulua. Anche questa una città di oltre un milione di abitanti. Qui addirittura un funzionario della “divisione provinciale di giustizia” ha denunciato che il denaro necessario per l’acquisto del cibo non arriva più da almeno tre mesi. Ecco che pertanto diviene determinante l’aiuto in generi alimentari, fornito da non pochi missionari. Sappiamo, anche per esperienza personale, che costoro hanno assicurato l’impossibile, dai tempi passati fino ad oggi. Radio Okapi (rete radiofonica che opera da oltre 20 anni nella Repubblica Democratica del Congo) ci consente di recuperare altre notizie sulle carceri: così sappiamo che a Walikale, nel nord del Kiwu, altra città che sfiora il milione di abitanti, due detenuti sono morti di fame. Morti che si sommano ancora alla pietosa lista di 16 decessi qui registrati dal 31 marzo scorso. Tutto questo in una prigione, dove - come espressamente ammesso da un “funzionario” - la carcerazione preventiva può durare ben due anni prima che il soggetto arrestato compaia di fronte ai giudici. Del tutto similare sembra sia anche la situazione nelle carceri militari. Per queste, più volte, è stata segnalata la enorme difficoltà di far comparire, di fronte ai tribunali competenti, gli accusati. Ciò si verifica, in particolare, quando il giudizio comporta il trasferimento dell’imputato in altre città, o addirittura in altre regioni. Infine aggiungo se ci siamo mai chiesti cosa abbia significato il clamore mediatico per l’arresto dei cinque congolesi, accusati dell’imboscata e dell’omicidio dell’Ambasciatore Attanasio, della guardia del corpo e dell’autista. Questo evento, molto inusuale per un sistema giudiziario africano, avrà giovato o meno ad assicurare un regolare giudizio agli imputati? Per quel poco che abbiamo visto questo processo è risultato certo più veloce e formale rispetto ai tanti altri riservati ai loro concittadini. Però la spettacolarizzazione, in questi ambienti, non è purtroppo garanzia di maggior equità. Ho visto e vissuto di persona, ne conservo tutt’oggi indelebile memoria, alcuni fatti accaduti in Congo molto tempo fa. L’occasione, quasi banale, della cattura di un ladruncolo che suscita furor di popolo e stravolge ogni pur minima garanzia. Nei fatti in questi eventi si è sempre ad un passo dal linciaggio per il presunto colpevole. È triste che non sia possibile dar conto di qual è la situazione della giustizia in questo immenso, meraviglioso, ma comunque terribile paese.