Garante nazionale, la nuova triade ignora detenuti e tortura di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 30 luglio 2023 Nordio propone Felice D’Ettore come presidente dell’Autorità, Carmine Esposito e Mario Serio. Metodo: il manuale Cencelli. L’articolo 18 del Trattato Onu prevede che chi riveste tale funzione “debba avere le capacità e le conoscenze professionali richieste”. Inoltre va garantito l’equilibrio di genere. Nei giorni scorsi abbiamo finalmente conosciuto i nomi di coloro che dovrebbero sostituire Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela De Robert nel difficile e strategico ruolo di Garanti delle persone private della libertà personale. È stata avviata dal ministro della Giustizia la procedura che dovrebbe portare, dopo un passaggio nelle apposite commissioni parlamentari e la ratifica del Capo dello Stato, alla nomina di Felice Maurizio D’Ettore a presidente del Collegio di Garanzia, e Carmine Antonio Esposito e Mario Serio a componenti dell’Autorità. Le loro biografie, o almeno quelle di un paio di loro (D’Ettore e Serio), pare non abbiano evidenti punti di contatto con i temi della privazione della libertà e dei diritti umani. Sono infatti docenti universitari di materie privatistiche e quindi non proprio noti per essere esperti dei delicati temi inerenti i diritti delle persone detenute, il monitoraggio dei luoghi di detenzione, le condizioni dei migranti chiusi nei centri detentivi in attesa di rimpatrio o degli anziani nelle Rsa. Il terzo componente sarebbe Carmine Antonio Esposito: in passato è stato giudice di sorveglianza e dunque ha una esperienza specifica. È però in pensione da una decina di anni. In qualche modo li accomuna un’appartenenza politica ai partiti della maggioranza. La legge istitutiva del Garante (d.l. n.146 del 2013) prevede che i tre membri siano “scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari”. Il diritto è un contenitore enorme, dentro il quale navigano studiosi di discipline molto lontane tra loro. E il diritto privato non è proprio l’area di afferenza per chi deve occuparsi ad esempio di carcere. Infatti, il legislatore del 2013 richiedeva, oltre che indipendenza, anche competenza nelle discipline afferenti i diritti umani (qualità che era ben presente nei tre componenti scelti nel 2016). La scelta del Governo pare indirizzata verso una valorizzazione delle appartenenze politiche, visto che tutte e tre le persone designate hanno una qualche affinità o legame con i partiti della maggioranza (in particolare Fd’I per due di loro, e Forza Italia per il prof. Serio). Se c’è un campo dove indipendenza, esperienza specifica e competenza sono essenziali per poter svolgere efficacemente il proprio lavoro di garanti, è proprio quello della prevenzione della tortura e della tutela dei diritti fondamentali di chi è nelle mani dello Stato. Va ricordato che il Garante delle persone private della libertà riveste per legge anche il ruolo di Meccanismo Nazionale di Prevenzione della Tortura, ai sensi di quanto previsto dal diritto internazionale, e nello specifico dal protocollo Onu del 2003 in materia di lotta alla tortura. L’articolo 18 del Trattato Onu prevede che chi riveste tale funzione dotata di poteri ispettivi incisivi, oltre che indipendente, “debba avere le capacità e le conoscenze professionali richieste”. Inoltre deve essere garantito un equilibrio di genere. Le brevi biografie dei tre nuovi membri del Collegio proposti dal Governo Meloni sembrerebbero non evidenziare specifiche competenze sul terreno della lotta alla tortura. Inoltre salta all’occhio la predisposizione di una terna di soli uomini. I sette anni di lavoro del Collegio guidato da Mauro Palma hanno conferito a tale giovane organismo autorevolezza e prestigio, mostrando anche nelle situazioni più difficili capacità di impatto e trasparenza. L’ultima cosa che deve accadere in materia di autorità che si occupano di diritti umani è finire dentro le logiche perdenti e grigie del manuale Cencelli. Sarà compito delle Commissioni parlamentari e del Presidente della Repubblica verificare se quei tre nomi hanno le caratteristiche formali presenti nella legge e nella Convenzione dell’Onu, nonché dare indicazioni per assicurare un equilibrio di genere, al momento del tutto assente. Una società democratica e aperta deve frammentare il potere. Va ceduta sovranità nel nome dei diritti umani. Il nostro articolato sistema di garanzia delle persone private della libertà (che comprende anche i tanti garanti che operano a livello territoriale) va rafforzato, non indebolito. Era il 1997 quando Antigone organizzò un convegno a Padova per lanciare in solitudine la campagna per istituire un ombudsman (difensore civico) dei luoghi di privazione della libertà. Nel 1998 scrivemmo il primo disegno di legge per l’istituzione di quello che poi divenne il Garante nazionale delle persone private della libertà. A Roma nel 2002 contribuimmo a dare vita al primo garante territoriale. Sin dall’inizio di questo percorso abbiamo ammonito contro le derive dell’occupazione partitica delle figure di difesa civica, che fa male a tutti, maggioranza compresa. Chi è in maggioranza oggi, domani potrebbe essere minoranza e rimpiangerà la propria cecità istituzionale. *Presidente di Antigone Debacle Giustizia: nel dossier del ministro Nordio gli ostacoli del Pnrr e le richieste all’Ue di Francesco Grignetti La Stampa, 30 luglio 2023 Fondi per gli edifici non usati, più arretrati e personale che si licenzia. Nel rapporto del governo sullo stato di avanzamento del Pnrr, è desolante il quadro del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Altro che riduzione dell’arretrato, che sarebbe dovuto scendere del 65% nel 2024. Le cose invece vanno all’opposto. “Quarantacinque tribunali su 140 hanno registrato un aumento dell’arretrato”. La ragione della debacle sarebbe dovuta “all’onda dei ricorsi in materia di protezione internazionale del 2019”. Peccato che la riduzione dell’arretrato fosse uno degli impegni presi da Bruxelles e che a questo punto va necessariamente ridiscusso. Fitto e Nordio propongono alla Commissione una “riformulazione”. Due le ipotesi: o una mera rideterminazione quantitativa, oppure la previsione di target differenziati che tengano conto delle differenze oggettive tra Uffici giudiziari. E comunque Nordio si augura che in autunno i dati siano meno catastrofici, considerando che sono appena entrate in vigore le riforme del penale e del civile. Se si va a guardare il capitolo sull’edilizia giudiziaria, il ministero della Giustizia aveva ottenuto ben 411 milioni di euro per “costruzione di edifici, riqualificazione e rafforzamento del patrimonio immobiliare”. In particolare era stato concordato dal governo Draghi, ossia dalla ex ministra Marta Cartabia, che entro il 2026 ci sarebbero state alcune grandi ristrutturazioni e la costruzione di cittadelle giudiziarie con “efficientamento energetico degli edifici giudiziari”. E però il bilancio del ministero retto da Carlo Nordio, a luglio 2023, quando mancano solo due anni e mezzo alla scadenza finale, è preoccupante: a fronte dei 411 milioni di euro stanziati, non è stato speso un solo euro. C’è di che preoccuparsi. Al ministero però minimizzano: a Bruxelles si chiederà “più flessibilità” nel raggiungimento degli obiettivi lamentando un dato oggettivo che vale per tutto il Pnrr italiano. Gli effetti degli aumenti dei costi nelle materie prime al momento hanno rallentato tutto il mondo dell’edilizia, non solo le opere della Giustizia. Fermo restando però che la tagliola del 2026 non è negoziabile e s’è visto con i Comuni che hanno perso d’un colpo diversi miliardi perché non erano in grado di garantire la fine dei lavori nel tempo prefissato. Infine le persone. Per arrivare all’ambizioso risultato di tagliare l’arretrato (addirittura del 90% entro il 2026) e di velocizzare i processi, si contava di gettare in prima linea nei tribunali un grande numero di giovani neolaureati che avrebbero animato il cosiddetto Ufficio per il processo. Sarebbero stati loro, con l’entusiasmo della gioventù, freschi di studi, a rovesciare la situazione. E anche se erano assunzioni a termine, soltanto per 3 anni, con stipendi medi da 1700 euro, il ministero contava su di loro. Anche perché la via dei concorsi regolari, per amministrativi o per giudici, è lenta e complicata. Il risultato però non è conforme alle attese. E infatti, come s’è visto, i mirabolanti risultati che ci si attendeva non sono arrivati. Succede infatti che molti giovani neoassunti già fuggono: al 31 dicembre dell’anno scorso risultavano assunti 11.017 nuovi dipendenti per l’Ufficio del processo, ma in 2.286 hanno presentato le dimissioni. Molti si sono scoraggiati di fronte ai carichi di lavoro. Altri sono sul piede di guerra perché non vogliono farsi trovare impreparati alla fine del contratto ed è già iniziata la guerra sindacale. Alla fine, insomma, gli addetti dell’ufficio per il processo in servizio sono appena 9. 165. Non bastano per le esigenze. Il ministero fa quindi ammenda con Bruxelles e cerca di correre ai ripari: “Offerte di lavoro a tempo determinato di durata inferiore a tre anni, quali quelle previste per le assunzioni degli addetti UPP, non sono considerate adeguate dai soggetti interessati e hanno condotto a un progressivo abbandono anticipato dell’incarico”. Le cose vanno peggio al Nord, dove il costo della vita è più alto e per i giovani laureati del Sud è improponibile trasferirsi. E quindi: “Sono state riscontrate difficoltà nella copertura delle posizioni messe a bando, sia per gli addetti UPP che per i profili tecnici, soprattutto al Nord”. L’idea di Nordio è convincere Bruxelles che una parte dei fondi sia dirottata alla stabilizzazione di questi precari. “L’opportunità del mantenimento in servizio di risorse umane già formate è stabilito dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”. Si vedrà. Il nodo Giustizia: Parlamento e Ministro tornino a fare il loro mestiere di Riccardo Rossotto lincontro.news, 30 luglio 2023 Ripartiamo da Montesquieu: dai fondamentali delle democrazie moderne. La separazione dei poteri è il mantra dei nostri Stati di Diritto: la base di una governance istituzionale fondata su sistemi operativi e di controllo, ben bilanciati e connessi tra di loro. Il Parlamento fa le leggi; il Governo… governa in base all’impianto normativo varato, appunto, dal Parlamento; la Magistratura controlla la correttezza delle condotte dei cittadini dello Stato rispetto alla normativa vigente. Perché ripartire da qui? Perché se no, non si riesce a capire cosa stia succedendo in Italia quando si parla di Giustizia, con la G maiuscola. Avremmo dovuto uscire, con la scomparsa di Silvio Berlusconi, da quella gabbia, divenuta quasi antropologica, che ci ha impedito di parlare di una necessaria riforma della Giustizia, proprio perché ogni volta che qualcuno ci ha provato, è stato subito additato come un supporter del Cavaliere o come un suo accusatore: senza vie di mezzo. Per trent’anni non si è potuto affrontare un discorso serio, costruttivo pur nella comprensibile diversità delle opinioni a confronto; un discorso che aprisse un cantiere di lavoro efficiente ed efficace per mettere mano a un sistema giudiziario che non funziona e non dà luogo ad una Giustizia… giusta! Il teatrino a cui stiamo assistendo ormai da settimane, sia in Parlamento sia nel dibattito politico tra maggioranza e opposizione, ci dimostra come non siamo ancora riusciti ad uscire dal clima degli scontri “pregiudiziali” che hanno caratterizzato il periodo politico berlusconiano. Ogni volta che si parla, in maniera più o meno corretta o più o meno condivisibile, di mettere mano ad una riforma della Giustizia scattano reazioni, più emotive che tecniche, che fanno pensare quasi ad una “lesa maestà” quando si tocca la magistratura. Oppure si ritorna a ragionamenti o dichiarazione mediatiche, alternativamente basate sul giustizialismo o sul garantismo, molte volte, come detto, soprattutto su pregiudizi ormai incrostati nella cultura della nostra classe dirigente politica. Non è strano, in linea di principio, che esistano due indirizzi di pensiero, diversi e a volte contrapposti come quelli che caratterizzano i giustizialisti e i garantisti: è strano che i due filoni non riescano a trovare una sintesi di pensiero e di azione, corretta e conforme agli indirizzi della maggioranza parlamentare di quel certo contesto storico e politico, ovviamente nel perimetro della Costituzione. Non bisognerebbe diventare improvvisamente giustizialisti quando, sulle prime pagine della cronaca giudiziaria, appare il nome di un avversario politico; né, improvvisamente garantisti, quando i titoli dei giornali parlano di una imputazione giudiziaria ad un membro del proprio partito. Bisognerebbe declinare questi due tipi di approccio, tenendo conto dei valori che si portano dietro e che devono ogni volta essere mediati e virtuosamente bilanciati in sintesi normative o giudiziarie che rendano la Giustizia davvero Giusta. Ritornando, quindi, a Montesquieu, non dimentichiamoci mai che è il Parlamento che deve occuparsi dell’eventuale riforma della Giustizia, adottando con le maggioranze richieste dal sistema, quelle misure ritenute opportune dalla maggioranza politica di quel certo contesto storico. Il Ministro di Grazia e Giustizia deve occuparsi, invece, di un’altra attività, anch’essa fondamentale perché la Giustizia sia gestita in modo moderno, equo ed efficiente: il buon funzionamento, cioè, di tutti gli organi preposti alla gestione della giustizia penale, civile, amministrativa, fiscale e, perché no, militare. Il Governo ha tutti i diritti di proporre al Parlamento la promulgazione di leggi che si occupino della macchina giudiziaria ma deve essere il Parlamento, proprio nell’ambito della sua indipendenza ed autonomia, ad affrontare il dibattito su tali proposte, invitando le Camere a pronunciarsi in merito. Il Ministro si dovrebbe occupare dell’organizzazione della Giustizia, concentrandosi su un programma di interventi (con, sempre, l’individuazione delle risorse economiche necessarie!) che permetta il raggiungimento di obiettivi quali, ad esempio, i minori tempi dei processi, l’efficienza degli uffici giudiziari, l’osservanza del segreto istruttorio, il rispetto del principio posto a fondamento della separazione delle carriere dei magistrati. Non ci sembra che la realtà che abbiamo di fronte agli occhi rispetti questa diversificazione dei compiti. Il disegno di legge governativo - Il recente provvedimento del Governo ha come oggetto la modifica di alcune disposizioni del Codice di Procedura Penale e dell’Ordinamento giuridico e si propone le seguenti misure: (i) l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio; (ii) la riformulazione di quello di traffico di influenze illecite; (iii) la riduzione delle possibilità di appellare da parte del Pubblico Ministero; (iv) limitazione per i giornali di pubblicare le intercettazioni; (v) l’istituzione di un Collegio di tre giudici per decidere sull’applicazione della custodia cautelare in carcere; (vi) l’obbligo di descrivere sommariamente il fatto nelle informazioni di garanzia; (vii) nell’ottica di evitare che delle sentenze possano essere travolte da nullità, è stabilito il limite di 65 anni per i giudici popolari soltanto per la loro nomina, in modo tale che nulla rileva se detto requisito dovesse avvenire durante il mandato. Si tratta di un lungo elenco di tematiche importanti che stanno infiammando un dibattito parlamentare ma anche mediatico purtroppo molto confuso e di difficile comprensione. I sondaggi dimostrano che gli italiani, salvo gli addetti ai lavori, non stanno seguendo con grande attenzione il confronto. Sembrerebbe che tre italiani su quattro non vogliano modifiche dell’illecito sul concorso esterno in associazione mafiosa; che una risicata maggioranza non sarebbe d’accordo sull’abrogazione del reato di abuso di ufficio: quello che è sconfortante è che l’80% dei nostri concittadini intervistati ritiene, con rassegnazione, che la criminalità organizzata stia crescendo sia in termini di potere sia di dimensioni del suo fatturato, a prescindere da questa ipotesi di riforma della Giustizia. La lungaggine dei processi - Il prof. Vladimiro Zagrebelsky ritiene che un punto fondamentale da cui partire è quello di accorciare la durata dei processi: un aspetto intollerabile nel funzionamento del nostro sistema giudiziario. L’Italia è ancora al penultimo posto in Europa (davanti alla Grecia) per la durata dei processi civili, come risulta dallo studio della Banca d’Italia del 2022. Secondo il Consiglio d’Europa, i nostri giudizi d’appello penali durano 1167 giorni, quasi dieci volte di più della media europea. Siamo sempre stati convinti che una delle cause di tale vergognosa inefficienza sia causata da un deficit di risorse professionali e soprattutto economiche dedicate all’azienda Giustizia. Eppure i dati non dimostrano tale assunto: l’Italia spenderebbe per la Giustizia una percentuale del Pil in media con il resto dell’Europa; gli stipendi dei magistrati sono migliori; sono stati stanziati recentemente, proprio all’interno del PNRR, fondi rilevanti che hanno portato all’assunzione fino allo scorso mese di aprile di 8200 funzionari e di 3250 profili tecnici. Ma allora come rimediare a questo scenario da “paese sottosviluppato”? Diversi autorevoli esperti di economia aziendale sostengono che il vulnus risieda proprio nella mancanza di managerialità nell’amministrazione del sistema, con l’assenza di criteri di premialità e riconoscimento del merito per il personale. Insomma, si torna a quelle carenze, anche culturali, che abbiamo già analizzato nei precedenti contributi sulla mission impossibile di riformare la nostra P.A. Un rimedio potrebbe essere proprio costituito dall’affidare la gestione dei tribunali non a dei magistrati, ma a dei direttori generali che applichino sistemi gestionali e che possano premiare in modo adeguato il personale che opera sotto la loro direzione. Oggi le carriere degli uffici giudiziari sono basate sugli scatti di anzianità: bisognerebbe rivisitarle con nuovi criteri di meritocrazia e di produttività. Un equilibrio difficile - Come ha sottolineato di recente l’ex magistrato Edmondo Bruti Liberati, la soluzione di questi problemi apparentemente irrisolvibili, risiede nell’individuare una corretta sintesi “nel delicato equilibrio tra produttività e celerità da un lato e dall’altro rispetto delle garanzie dei giudicabili, prima fra tutte quella del ‘giudice naturale precostituito’ (Art. 25 Costituzione) attraverso il sistema delle ‘tabelle di composizione degli uffici’”. L’unico vero rimedio, secondo l’editorialista del Correre della Sera, Gerardo Villanacci, è quello di ritornare ai principi della nostra Costituzione: “Quindi ad una corretta interpretazione delle disposizioni che definiscono il potere giudiziario, preservandone l’autonomia, l’indipendenza e la pari dignità rispetto a quello legislativo ed esecutivo, regolamentando al contempo e correttamente la funzione giurisdizionale nella consapevolezza che, a proposito di separazione delle carriere tra giudici e PM, il principio secondo il quale i magistrati si distinguono solo per la diversità di funzioni, non ha trovato una giusta attuazione neanche da parte dell’Organo di autogoverno della magistratura, che troppo spesso ha dato prevalenza a criteri formalistici, rinunciando di assegnare le funzioni a coloro che oggettivamente avevano maggiori capacità e attitudini”. Noi crediamo, in definitiva, che nella reale e oggettiva complessità di questa materia, finalmente liberati dal “tappo berlusconiano”, dovremmo ritornare al “prato verde”, ai principi fondamentali del nostro ordinamento: il Parlamento si occupi delle possibili riforme della Giustizia attraverso un confronto in aula che determini i provvedimenti da adottare, certo “figli” di quella maggioranza parlamentare, ma auspicabilmente di una maggioranza più larga rispetto a quella governativa. Il Ministro di Grazia e Giustizia, da parte sua, si concentri sulla ristrutturazione della “macchina giudiziaria”, del funzionamento dei tribunali: invece di continuare a proporre nuove e divisive grandi riforme normative, pretenda dal Governo i mezzi economici e professionali per far sì che le sedi giudiziarie in tutto il Paese funzionino meglio, garantendo ai cittadini, in tempi ragionevolmente brevi, una Giustizia… giusta senza eccessi di misure cautelari preventive. Chi paga se è il giudice a sbagliare di Francesco Fimmanò L’Espresso, 30 luglio 2023 La Corte dei Conti ha condannato un ex Pubblico Ministero a risarcire l’erario. Un caso che può aprire una nuova prospettiva sulla questione della responsabilità dei magistrati. Come ormai avviene ciclicamente da anni sono nuovamente esplose le polemiche sulla giustizia: dai cortocircuiti con la politica alle relazioni pericolose con la stampa, dalle disfunzioni del Csm alla invocata separazione delle carriere dei Pm. In realtà il problema vero resta quello del rapporto tra potere dei magistrati e responsabilità, per cui in un Paese democratico ciascuno deve rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Quel che è certo è che l’appartenenza del Pm all’ordine giudiziario e l’obbligatorietà dell’azione penale sono capisaldi dello Stato liberale. Troppo comodo sarebbe per alcuni Pm non dover cercare la verità, liberandosi così degli obblighi di sacrale rispetto delle regole del processo e delle garanzie della difesa. La strada è invece quella della responsabilità, che purtroppo raramente trova risposta nelle sedi disciplinari, ove vengono puniti i magistrati per reati comuni (e ci mancherebbe altro) e raramente per gli abusi. Si stanno allora facendo strada altre prospettive e innanzitutto quelle aperte dalla riforma Renzi del 2015 sulla responsabilità civile diretta (seppure a mezzo rivalsa dello Stato) che infatti secondo i malpensanti avrebbe prodotto all’autore un po’ di grane. La recente sentenza della Corte dei Conti della Puglia di condanna dell’ex Pm di Taranto Matteo Di Giorgio a risarcire l’erario (a seguito della citazione a giudizio proposta nel gennaio del 2022 dal procuratore regionale Manfredi Selvaggi) fa emergere una ulteriore prospettiva, sottovalutata dalla stessa magistratura contabile. Il punto nodale è, in questo caso, quello della compatibilità della responsabilità con le peculiarità della funzione giurisdizionale, della tensione tra il confine dell’attività giudiziaria, il cui contenuto sia censurabile (per i Pm in particolare per aver ignorato fatti risultanti dagli atti del procedimento o affermato fatti esclusi dagli stessi atti) e di quella amministrativa. Ne deriva che non sono valutabili le condotte espressive di un potere discrezionale, che hanno come parametro regole di opportunità, ma rilevano solo quelle violative di norme espresse. Il danno all’erario consiste nella grave lesione della dignità, del prestigio e dell’autorevolezza della Amministrazione della giustizia, determinata da una condotta che abbia inciso su valori primari che ricevono protezione dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario contabile. In realtà, nel leggere gli atti a monte della sentenza, ci si accorge che si tratta di una delle più clamorose vicende italiane di malagiustizia. Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta e per tre volte senatore nelle file del Pci-Pds-Ds, venne arrestato i14 giugno del 2001, su richiesta dell’allora Pm di Potenza Woodcock, con l’accusa di calunnia ai danni del Pm querelante Di Giorgio (concittadino del sindaco). La grave colpa di Loreto, tale da determinarne l’arresto senza neanche interrogarlo, sarebbe stata quella di aver presentato un esposto al ministero della Giustizia, al Csm e alla procura generale della Cassazione in cui criticava l’operato del Di Giorgio per aver abusato della funzione. L’arresto avvenne casualmente il primo giorno utile dopo l’insediamento delle nuove Camere, quando Loreto non godeva più delle prerogative di parlamentare. Sempre casualmente, l’arresto fu ripreso da un fotografo appostato nel palazzo di fronte, alle 7 del mattino, con il sindaco stretto fra sette carabinieri. Il processo è durato 16 anni e Loreto pur di avere giustizia ha rinunciato alla prescrizione dei reati contestati. La vicenda gli è costata 15 giorni di custodia cautelare e la fine della carriera politica, nonostante la piena assoluzione intervenuta molti anni dopo. Ma non è finita. Il pm Di Giorgio, invece, dopo essere stato condannato a 15 anni in primo grado, poi ridotti a 12 anni e mezzo in appello, subiva dalla Cassazione la condanna definitiva a 8 anni di reclusione (per la prescrizione di alcuni capi d’accusa) e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, per aver abusato della toga per interferire nella vita politica di Castellaneta. La sezione disciplinare del Csm stavolta non ha potuto chiudere gli occhi e ne ha disposto nel 2018 (a 17 anni dal fatto) la rimozione dall’ordine giudiziario, nel silenzio dell’Anm sul caso. E alla fine è giunta qualche settimana fa la citata sentenza della Corte dei Conti. Ma in tutto questo bailamme è caduto nel dimenticatoio ciò che era realmente accaduto nel 2001, quasi che a perseguire Loreto nonni fosse stato nessuno o che si fosse auto-arrestato. Intanto lo Stato è stato condannato due anni fa dalla Corte di Appello di Potenza a risarcirlo (magra consolazione per lui ed ennesimo costo per i contribuenti). La Corte Costituzionale dal canto suo, nell’autunno del 2022, ha di fatto introdotto nell’ordinamento il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili dell’uomo anche diversi dalla libertà personale. L’allargamento dell’ambito della risarcibilità va ad aggiungersi quindi per il futuro alla già enorme quantità di indennizzi a favore delle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari, che negli ultimi trenta anni sono state oltre 30.000, per un valore complessivo che ha sfondato il muro del miliardo di euro! La quasi totalità di questi importi grava sulle casse dello Stato e quindi sui contribuenti, visto che le azioni di rivalsa sono ancora ben poca cosa e che la giustizia contabile pochissimo ha fatto negli anni prima di questa sentenza. I casi sono tanti e purtroppo solo quelli famosi divengono noti alle cronache, a cominciare da quelli di Vittorio Emanuele di Savoia e dell’ex Sindaco di Campione d’Italia, che qualche anno fa sono stati risarciti per l’ingiusta detenzione cui erano stati sottoposti nel 2006 nell’ambito di un’inchiesta sempre dell’allora Pm di Potenza Henry John Woodcock. Quale responsabilità per danno erariale dei giudici? di Paolo Pandolfini Il Riformista, 30 luglio 2023 Un aspetto poco dibattuto è la responsabilità per danno erariale da parte dei giudici. Il tema è stato affrontato dal professore Francesco Fimmanò, in un articolo questa settimana sull’Espresso. Inoltre, nelle scorse settimane è arrivata all’ex pm Di Giorgio la condanna da parte della Corte dei Conti della Puglia a risarcire 150mila euro. Ma cosa succede se un magistrato “sbaglia”? Tralasciando le conseguenze penali e disciplinari, la responsabilità civile delle toghe è oggi regolamentata dalla legge Vassalli del 1988, poi in parte modificata dalla legge numero 18 del 2015. I magistrati in particolare rispondono dei propri errori, se pur in via “indiretta”, nei casi in cui sussiste una violazione manifesta della legge, anche europea, o per travisamento di fatti o prove. Vi è colpa grave, ad esempio, ogni qualvolta viene emesso un provvedimento cautelare personale o reale senza motivazione o fuori dai casi previsti dalla legge. Un aspetto poco dibattuto riguarda, invece, la responsabilità per danno erariale. Il tema è stato affrontato dal professore Francesco Fimmanò, ordinario di diritto commerciale e direttore scientifico università delle Camere di Commercio “Mercatorum”, in un articolo questa settimana sull’Espresso. “Il danno consiste nella grave lesione della dignità e del prestigio e dell’autorevolezza dell’Amministrazione della giustizia, determinata da una condotta che abbia inciso su valori primari che ricevono protezione dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario e contabile”, afferma Fimmanò. Al momento l’unico magistrato condannato dalla Corte dei Conti è l’ex pm tarantino Matteo Di Giorgio. La vicenda di Di Giorgio si interseca con quella di Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta e per tre volte senatore del Pci-Pds-Ds. Loreto era stato arrestato a giugno del 2001 dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock con l’accusa di calunnia nei confronti proprio di Di Giorgio. Il parlamentare aveva presentato un esposto al Csm, al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Cassazione in cui criticava l’operato di Di Giorgio, all’epoca dei fatti in servizio presso la Procura di Taranto. Gli atti - per ragioni di competenza funzionale - vennero trasmessi alla Procura di Potenza che non ritenne credibile quanto era stato rappresentato da Loreto, incriminandolo per calunnia e violenza privata, e ottenendo così dal gip il suo arresto. Dopo aver trascorso due settimane in carcere, Loreto venne rimesso in libertà in quanto non vi erano prove nei suoi confronti e quindi assolto da tutte le accuse solamente nel 2017. Di Giorgio invece venne condannato a 15 anni (poi ridotti ad 8) per aver interferito nell’amministrazione di Castellaneta, arrivando a provocare lo scioglimento del Consiglio comunale per delle sue mire politiche. Nel 2008 il magistrato si era anche messo in aspettativa per candidarsi al Parlamento e nel 2009 per candidarsi alla provincia di Taranto, non avendo più Loreto come competitor. Fra le tante accuse a suo carico, quella di aver intimorito un imprenditore, al quale fu sequestrato un villaggio turistico, e di aver indotto un’altra persona a non denunciare - per usura - un suo parente. Per tali fatti Di Giorgio era stato arrestato a novembre del 2010. Il Csm nel 2018 aveva disposto la sua rimozione dall’ordine giudiziario. Nelle scorse settimane è arrivata a Di Giorgio anche la condanna da parte della Corte dei Conti della Puglia a risarcire 150mila euro. Un precedente significativo che va ad aggiungersi all’elenco dei risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari che negli ultimi trent’anni ha raggiunto l’incredibile cifra di un miliardo di euro. “La quasi totalità di questi importi, vorrei sottolinearlo, grava sulle casse dello Stato dal momento che le azioni di rivalsa sono ben poca cosa e la giustizia contabile pochissimo ha fatto prima della sentenza a carico di Di Giorgio”, puntualizza Fimmanò. Vale la pena di ricordare, infine, che la Corte Costituzionale lo scorso anno ha introdotto nell’ordinamento il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili dell’uomo anche diversi dalla libertà personale. Vedremo se ci saranno conseguenze per i magistrati che “sbagliano”. Carceri affollate, il primato della Lombardia di Luca Bonzanni Avvenire, 30 luglio 2023 Nelle celle 2.163 detenuti in più del previsto. E tra i primi dieci istituti italiani con troppi “ospiti” otto sono in regione. A Lodi il tasso di sovraffollamento è del 182%, a Brescia del 181. È come se, in metafora, all’interno di un’automobile da cinque posti ci fossero sette persone. Sarebbe un viaggio scomodo e pericoloso, stretto e angusto. La calda estate delle carceri lombarde è questa: 8.320 detenuti presenti a fronte di 6.157 posti regolamentari, 2.163 in più di quanti ce ne dovrebbero essere (+358 in un anno), e un tasso di affollamento del 135%. La fotografia che il ministero della Giustizia scatta periodicamente, ora aggiornata al 30 giugno, consegna un bilancio irto di criticità per la Lombardia. Tutti e 18 i penitenziari lombardi accolgono più detenuti di quanti ne preveda la capienza; nelle prime dieci carceri italiane per tasso di affollamento (cioè il rapporto tra i detenuti presenti e la capienza regolamentare), ben otto istituti sono lombardi: Lodi è quello più critico in assoluto in Italia (82 detenuti per 45 posti, affollamento del 182%), poi Brescia-Canton Mombello (affollamento del 181%) e Como (affollamento del 178%) completano il podio italiano, Varese è 4° (177%), Brescia-Verzano 6° (170%), Busto Arsizio 7° (170%), Bergamo 8° (167%), Monza 10° (165%). Anche per questo “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione radicale impegnata su giustizia e carceri, sta compiendo proprio in questi giorni un viaggio negli istituti lombardi, insieme agli avvocati delle Camere penali. Venerdì erano in visita a Brescia, ieri a Bergamo, da lunedì si riprenderà con Monza, Lecco e San Vittore: “A ogni convegno - rileva Rita Bernardini, presidente dell’associazione, al termine della visita nella casa circondariale di Bergamo -, la politica afferma che il carcere deve essere l’extrema ratio e che occorre dare maggiori possibilità d’accesso alle misure alternative. Poi ci confrontiamo con i numeri e vediamo invece che in carcere si entra come opzione privilegiata, anche per chi deve scontare pene brevi”. Più della metà dei condannati definitivi in Lombardia ha infatti pene residue inferiori ai 4 anni: teoricamente potrebbero andare in misura alternativa, ma non accade. “C’è un intasamento burocratico per le misure alternative”, segnala Stefania Amato, vicepresidente della Camera penale della Lombardia orientale. L’ultima fotografia del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riporta che il 43,8% dei reclusi in Lombardia ha un problema di tossicodipendenza. Senza contare, i problemi di salute mentale che si acuiscono in situazioni di difficoltà. Eppure, anche nelle situazioni più critiche c’è lo sforzo delle direzioni, del volontariato, della polizia penitenziaria. Elementi messi in rilievo anche ieri a Bergamo, dove la direttrice Teresa Mazzotta ha accompagnato la delegazione dell’associazione e degli avvocati, insieme alla garante dei detenuti Valentina Lanfranchi: “La direttrice - segnala Bernardini - ha mostrato un grande impegno, alcune aree sono state recentemente ritinteggiate col lavoro retribuito dei detenuti, un segnale molto importante”. Alla visita ha partecipato anche Marina Cavalleri, giudice del Riesame di Brescia: “È stata un’esperienza preziosa - rimarca il magistrato - sarebbe utile rendere obbligatorio per tutti gli operatori di giustizia una visita periodica nelle carceri per constatare direttamente la situazione”. Uno dei problemi, riconosce la giudice, “è il bassissimo accesso alle misure alternative. Le tempistiche lunghe non aiutano, queste misure sarebbero da incentivare ma c’è un oggettivo carico burocratico. A ciò si aggiunge una questione sociale, legata alle difficoltà di molti detenuti che non hanno casa o lavoro e non riescono ad accedere alle misure alternative benché ne abbiano i requisiti”. Così, il carcere diventa l’unico rifugio, sempre più intasato e sempre più critico. Marche. L’allarme del Garante: “In aumento gli adolescenti con problemi psichiatrici” Corriere Adriatico, 30 luglio 2023 La carenza del personale nelle carceri marchigiane, i nodi della residenza per le misure di sicurezza e dei minori con problemi psichici e psichiatrici in carico ai servizi sociali o alla giustizia penale minorile. Sono questi gli argomenti trattati dal Garante Giancarlo Giulianelli in Commissione sanità della Regione, che in questi giorni sta effettuando numerosi incontri per l’esame del nuovo Piano Sociosanitario 2023- 2025. In primo luogo Giulianelli ha posto l’attenzione sulla questione carceraria con l’ormai cronica carenza di personale che investe l’intero settore. “Senza dubbio - precisa Giulianelli - andrebbe rivisto il decreto regionale del 2015, che ha preso le mosse dall’accordo Stato - Regioni. In otto anni la sanità negli istituti penitenziaria ha assunto caratteristiche diverse e, quindi, gli interventi vanno ricalibrati. La Regione potrebbe farsi portavoce presso il Ministero affinché siano rivisti gli standard complessivi”. Ma il Garante, come più volte dichiarato, è anche convinto che in base all’esperienza degli ultimi anni sarebbe opportuno il ritorno al vecchio sistema, che poneva la sanità carceraria in capo al Ministero e non alle Regioni. Seconda questione quella relativa alle Rems (Residenza per le misure di sicurezza). Nelle Marche ne esistente una soltanto, ubicata a Macerata Feltria, con 21 posti disponibili, 24 ospiti presenti (tre provenienti da altre regioni) e 5 in attesa di entrare. Il tempo medio di permanenza è di 586 giorni. “Quando la Rems - precisa Giulianelli - non è in grado di assorbire tutte le richieste, abbiamo uno smistamento, seppur temporaneo, in istituti penitenziari che hanno apposite sezioni o nei reparti psichiatrici degli ospedali. La situazione non è certo delle migliori tenendo conto che si tratta di persone dichiarate incapaci di intendere e di volere e socialmente pericolose. Ecco, allora, la necessità di aumentare in modo adeguato la capienza della Rems”. Ultima questione, ma non per importanza, affrontata dal Garante nel corso dell’audizione quella relativa a minori e adolescenti con problematiche di tipo psichico e psichiatrico, sia che siano in carico ai servizi sociali o alla giustizia penale minorile. “Anche in questa circostanza - sostiene Giulianelli - si evidenzia un aumento dei casi, soprattutto nell’ultimo periodo. L’esigenza avvertita è la messa in essere nelle Marche delle cosiddette Comunità di tipo sociosanitario ad elevata intensità sanitaria per l’inserimento di minori e giovani adulti con disagio psichico e psichiatrico. È un problema che non va sottovalutato e che richiede interventi celeri e coordinati”. Toscana. L’allarme degli infermieri: “Nelle carceri condizioni di lavoro difficili” agenziaimpress.it, 30 luglio 2023 Condizioni di lavoro difficili per gli infermieri nelle carceri, con un elevato rischio di aggressioni da parte dei detenuti, ma anche con tecnologie quasi assenti, documentazione ancora cartacea e software datati. È quanto sottolinea l’Ordine delle professioni infermieristiche interprovinciale Firenze-Pistoia dopo aver ricevuto numerose segnalazioni da parte dei colleghi. “Ci segnalano che le attività sanitarie sono condizionate dalla disponibilità del personale di polizia penitenziaria e dalla sua organizzazione lavorativa - commenta il presidente dell’Ordine, David Nucci -. Un modo di procedere inaccettabile per la nostra categoria professionale”. A Firenze, Sollicciano fa da capofila, spiega una nota, per una situazione che secondo Opi Firenze-Pistoia sarebbe quanto prima da rimodulare. I numeri qui parlano di circa 500 detenuti, oltre 40 infermieri a lavoro, locali per attività sanitarie non sufficienti come dimensioni e spesso a uso promiscuo, fatiscenti e con infiltrazioni di acqua, climatizzazione carente (sia in estate che in inverno), montacarichi cronicamente difettosi, che comportano da parte degli infermieri il trasporto a braccia dei carrelli per la somministrazione della terapia. E, non ultima, la carenza di personale di polizia penitenziaria, che costringe quello sanitario a rimodulare gli assetti organizzativi in base alle disponibilità. “Questo vuol dire che, per carenza o anche solo per disorganizzazione, i nostri infermieri in alcune occasioni non vengono accompagnati nelle attività, non avendo garantita la sicurezza - spiegano dall’Ordine -. Gli infermieri a lavoro nelle carceri hanno il diritto a condizioni di lavoro rispettose delle normative in materia, non possono operare costantemente sotto stress. Oggi invece sono spesso costretti ad abbandonate un setting lavorativo anche interessante e gratificante sotto alcuni aspetti per motivazioni di contesto”. Problematiche non troppo diverse al Gozzini, con 100 detenuti circa, tre infermieri e nessun locale dedicato a spogliatoio del personale sanitario. Problemi di climatizzazione vengono riscontrati al Meucci, dove si trovano 10 detenuti minori e tre infermieri. Non va meglio nella casa circondariale di Pistoia, con circa 50 detenuti e cinque infermieri. Brescia. “Canton Mombello da brividi: è il peggior carcere di tutto il Nordest” di Mario Pari bresciaoggi.it, 30 luglio 2023 Nell’istituto di pena bresciano la visita di avvocati, politici e rappresentanti di “Nessuno tocchi Caino”. Per il Nordest è da primato. Ma si tratta di un primato assolutamente negativo. È quello che detiene Canton Mombello, oggi “Nerio Fischione”. È stato ribadito ieri, dopo la visita mattutina all’istituto di pena a ridosso del centro di Brescia, nel corso della conferenza organizzata dalla Camera penale della Lombardia orientale “Giuseppe Frigo”, dall’Ordine degli avvocati di Brescia e da “Nessuno tocchi Caino” Una posizione sgradita soprattutto, è stato spiegato, alla polizia penitenziaria e ai detenuti. Ma la sensazione di impotenza di fronte al degrado di una struttura che dovrebbe soprattutto riabilitare, è emerso nel corso di diversi interventi, alla conferenza che si è tenuta al Mo.Ca. di via Moretto. L’incontro è stato moderato dall’avvocato Stefania Amato, vicepresidente Camera Penale della Lombardia Orientale. Quindi i saluti di Roberto Rossini, presidente del consiglio comunale di Brescia: “Sono entrato oggi per la prima volta al “Nerio Fischione” e uscito con la consapevolezza che qualcosa bisogna fare. Mi sembra però di cogliere una mentalità avanzante in cui il tema della colpa e della pena tende a emarginare la popolazione carceraria”. Andrea Aletto, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Brescia ha sottolineato “l’importanza della tutela dei diritti”. Il magistrato Monica Lazzaroni, magistrato di sorveglianza ha spiegato che “ogni giudice, soprattutto quando adotta provvedimenti che privano della libertà, dovrebbe conoscere questi luoghi”. Sulle nuove emergenze: “Negli ultimi anni sono aumentati i giovanissimi: hanno 20-21 anni, magari entrano per spaccio e vivono con soggetti che devono scontare 20-30 anni. C’è gente che è in carcere perché è povera. Due terzi della popolazione carceraria è gravata dal problema della tossicodipendenza. Bisogna fare rete”. “Questo penitenziario - ha rimarcato il senatore Alfredo Bazoli - è una vergogna per la nostra città. Da tanti anni cerchiamo di smuovere le acque a Roma per le risorse idonee, ma è come lottare con i mulini a vento. Servirebbero altri 35 milioni”. Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino” non ha avuto mezzi termini: “Non ci siamo: bisogna dare speranza che il carcere deve essere l’estrema ratio, serve il ricorso massiccio a misure alternative. I dati dimostrano che il carcere porta alla recidiva”. E di nuovo il giudice Monica Lazzaroni: “Brescia è un territorio che risponde moltissimo. Il Primo cittadino deve sapere quanti detenuti ci sono in carcere”. Ma veramente impressionanti sono stati i dati forniti dall’équipe carcere del Ser.T. di Brescia: “Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento: sono calati gli eroinomani, attualmente una sessantina, sono saliti i cocainomani passati a 230 e sono 130 quelli che hanno dichiarato di far uso di cannabinoidi. Stesso numero per l’alcol”. Per Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino”: “Abbiamo superato tutto ciò che c’è di inumano”. E per Luisa Ravagnani, garante dei detenuti del Comune di Brescia: “Servono misure e prevenzione”. Infine Roberto Rampi, consiglio direttivo di “Nessuno tocchi Caino” ha sostenuto: “Il carcere aggrava, quello di stamattina è il peggiore mai visto” e l’avvocato Lorenzo Cinquepalmi, della medesima associazione: “La pena non può essere solo afflizione, in questo caso genera altri reati” Bergamo. “Detenuti in condizioni disumane. E servono misure alternative” bergamonews.it, 30 luglio 2023 I rappresentanti dell’associazione Nessuno Tocchi Caino in visita al carcere di via Gleno: “Oltre 300 tossicodipendenti, il 60% ha problemi psichiatrici”. Un suicidio nel 2023. L’avvocato Pelillo: “Mancanza di funzione rieducativa”. Le condizioni dei carcerati, il sovraffollamento, la salute mentale. Nella mattinata di sabato (29 luglio) l’associazione Nessuno Tocchi Caino, insieme ad una delegazione della Camera Penale Lombardia Orientale, ha visitato la struttura detentiva di Bergamo, parte di un tour iniziato da Bolzano e che terminerà a San Vittore dopo aver toccato gran parte del nordest. Un viaggio che “non è solo opera di misericordia, ma soprattutto di ascolto e attenzione”. Il responso dopo il passaggio in via Gleno, esposto in una conferenza stampa che si è tenuta nel pomeriggio, è chiaro e presenta svariate criticità, strutturali e di gestione: “Lo stato di abbandono è la cifra della considerazione che le istituzioni hanno di quel luogo: non ci credono più”. La delegazione prevedeva, per l’associazione Nessuno Tocchi Caino, la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia e la tesoriera Elisabetta Zamparutti. Per la CPLO Enrico Pelillo, presidente della sezione di Bergamo, Barbara Bruni, segretaria della sezione di Bergamo, Stefania Amato, vicepresidente, Federico Merelli, referente dell’osservatorio carcere del sezione di Bergamo, Marialaura Andreucci, tesoriere, Antonio Giangregorio e Alice Zonca, membro direttivo sezione di Bergamo. In più Marina Cavalleri, Giudice del tribunale di Brescia, e Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti del Comune di Bergamo. Ad accompagnarli la direttrice del carcere Teresa Mazzotta, più comandante e una giovane educatrice. “I disservizi del sistema provocano una mancanza della funzione rieducativa” apre Enrico Pelillo, “ieri l’associazione era a Brescia e il sentore comune tra queste due città è lo stato di degrado in cui si trovano queste due carceri”. “Tutto lo staff dirigenziale è di altissimo livello, ma non si possono fare le nozze coi fichi secchi” prosegue Rita Bernardini: “Questo istituto può accogliere 317 detenuti, oggi ne abbiamo trovati 523. Un sovraffollamento del 164% quando la media nazionale è del 122%. Siamo tornati qui dopo due anni e il numero di detenuti è salito ancora. Alla direttrice ho chiesto la prima cosa che volesse modificare: mi ha risposto che è il numero di detenuti. Sono troppi. Si dice sempre che bisogna fare in modo che il carcere sia l’estrema ratio e servono misure alternative, ma poi i numeri dicono che il carcere emerge come soluzione primaria”. Sono 409 i detenuti definitivi all’interno della struttura: per 74 la fine pena è entro un anno, per 85 entro i 2 anni, per 79 entro i 3 anni e per altri 58 entro i 4 anni. Un totale di 296 detenuti con una pena entro i 4 anni, “vale a dire il termine minimo per valutare misure alternative”, spiega. A questi si aggiungono i detenuti in custodia cautelare: 48 in attesa di primo giudizio, 14 appellanti. “Nonostante offerte di volontariato e di associazioni, questa cifra è significativa: il carcere non è l’estrema ratio. E c’è carenza di agenti di polizia penitenziaria: sono 132 su 243 posti”. “Il manicomio che abbiamo abolito, in realtà non l’abbiamo abolito: è in carcere. 180 detenuti anche con patologia mentale. Il carcere di Via Gleno è parte della città ed è un guaio se viene considerato nascosto o clandestino. Perché le persone escano con tranquillità, devono esser trattate bene” sostiene Sergio D’Elia, “In una sezione in cui erano rinchiusi i detenuti con gravi problemi di salute mentale, uno aveva appeso un cappio. ‘Se continuerò a stare in questa situazione, la soluzione è quella’, ci ha detto, indicandolo. Abbiamo avvisato gli agenti”. Un suicidio all’interno della struttura si è verificato proprio nel 2023, di una persona che era di passaggio: “Doveva essere trasferito in una sezione protetta” spiega Rita Bernardini. “Lo psicologo non aveva rilevato problemi. Alla prima carcerazione va concessa una grande attenzione”. Si stima che siano circa 300 i detenuti tossicodipendenti: il 60% di questi ha problematiche psichiatriche. “in determinate sezioni si ha quasi la sensazione di entrare in un manicomio”, afferma d’Elia. I farmaci e le droghe circolano con regolarità in ogni struttura, spiega la presidente dell’associazione. A ciò si sommano i problemi strutturali riscontrati: l’assenza o il malfunzionamento delle docce in diverse sezioni, lo stato di degrado delle strutture. La carenza del lato rieducativo: le professioni che si possono svolgere dentro il carcere son per circa 70-80 detenuti, con le lavorazioni non si arriva oltre le 40. In più ci sono gli spazi sempre più ristretti: “Celle di 4,5 metri di lunghezza per 2 di larghezza, con il bagno con la stessa lunghezza ma larghezza dimezzata. Molti metri quadri sono occupati da letti, armadi, frigo, accampamenti di vestiti. Non è spazio calpestabile” spiega il segretario D’Elia, “non sono rispettate le regole minime di decenza di spazio vitale. Siamo già fuori norma: al di sotto dei 3 metri quadri a testa è un trattamento inumano che viola la condizione europea”. “Si trattta di una situazione da risolvere a livello legislativo e a livello territoriale con la magistratura, con l’applicazione di misure cautelari diverse e la concessione di misure alternative” sottolinea Stefania Amato, “ogni magistrato di sorveglianza ha più di 500 casi, più quelli sospesi in attesa di esecuzione: questo comporta una dilatazione dei tempi sotto ogni punto di vista. Una prospettiva in cui crediamo molto è l’accesso alla giustizia riparativa. Qui a Bergamo un detenuto ci ha raccontato di aver iniziato i colloqui con un mediatore qualificato e uno in tirocinio: incontrerà la vittima del suo reato. È una cosa che consentirà ai detenuti un lavoro di riflessione su sé stessi”. “L’auspicio è che si possa lavorare su un filone diverso, un lavoro onesto sull’inutilità di alcune pene e frammenti di pena, uno sfoltimento ragionato. Mi rincuora il modo in cui i detenuti vedono il rapporto con la polizia penitenziaria - evidenzia invece Francesco Merelli - mi è sembrato disteso, cosa che non sempre accade”. Bologna. Carcere Dozza e affollamento, +Europa: “Intervenire subito” Il Resto del Carlino, 30 luglio 2023 +Europa denuncia le inumane condizioni del carcere della Dozza, dove 800 detenuti sono ospitati in una struttura con capienza per 500, senza acqua fresca, ventilatori e con promiscuità e sovraffollamento che favoriscono malattie infettive. Chiede intervento urgente. “Intervento con urgenza nel carcere della Dozza”. Lo chiede +Europa che dichiara di “apprendera da una nota dell’osservatorio della Camera Penale di Bologna della recente visita di rappresentanti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati presso le carceri della Dozza, che ne hanno delineato un quadro sconcertante e disumano”, denuncia Alessio Zini, portavoce del partito fondato da Emma Bonino. “Rispetto a una capienza di circa 500 detenuti, ne sono oggi accolti 800, tre per stanza al posto di due, situazione resa ancora più insopportabile dalla calura estiva - fa notare Zini -. I detenuti non hanno disponibilità di acqua fresca e non ci sono ventilatori, posizionati unicamente nelle sale comuni. Le condizioni igieniche sono insufficienti e sono state rilevate anche sezioni infestate da scarafaggi. Promiscuità e sovraffollamento, inoltre, favoriscono diffusione di malattie infettive come scabbia e tubercolosi, senza possibilità di isolamento per i malati”. Un quadro inaccettabile per +Europa: “Non possiamo accettare questa situazione disumana e di violazione sistematica dei diritti umani, le carceri dovrebbero essere luoghi di privazione solo della libertà, non certo del diritto alla salute e alla dignità. Ci uniamo pertanto alla denuncia dell’Ordine degli Avvocati e chiediamo all’amministrazione di Bologna di fornire con massima urgenza ventilatori, refrigeratori e disponibilità di bevande fresche per attutire almeno nel breve termine questa grave violazione”, chiede Zini. Verbania. Il Garante dei detenuti promuove il carcere: “Avvicina al mondo del lavoro” di Cristina Pastore La Stampa, 30 luglio 2023 La visita di Bruno Mellano alla casa circondariale: “Ma anche qui il problema affollamento”. Nel suo piccolo il carcere di Verbania è un esempio virtuoso di capacità d’inserimento nel mondo del lavoro, che si traduce in un importane abbattimento del rischio di tornare a delinquere. Lo sostiene il garante dei detenuti per il Piemonte, Bruno Mellano, che è stato a Verbania giovedì sera per il giuramento di 260 neo agenti di polizia penitenziaria formati nella scuola di piazza Giovanni XXIII. Il giorno successivo Mellano ha visitato la casa circondariale, sempre a Pallanza, dove tra custodia cautelare ed espiazione della pena quel giorno erano presenti 59 detenuti. La settimana precedente erano 72. La media degli stranieri negli ultimi due anni è stata di una dozzina mentre la capienza regolamentare della struttura è per 53. Il sovraffollamento - sebbene contenuto rispetto alla maggioranza degli istituti penitenziari d’Italia - è mitigato dall’elevata percentuale di inserimento in attività esterne. Sono 23, oltre un terzo, i detenuti a Verbania che hanno un’occupazione che li porta a trascorrere parecchie ore fuori dal carcere. Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori nei giorni scorsi ha richiamato l’attenzione sulle attuali condizioni del carcere della sua città, dove su 521 detenuti (a fronte di una dotazione di 319 posti) solo 36 sono inseriti in percorsi lavorativi esterni. Forse un caso limite, intanto a Verbania le proporzioni sono diverse e l’esperienza è consolidata: nacque con proposte come quelle della Banda Biscotti, tra i primi esempi di economia carceraria con persone che mentre pagano il loro debito con la giustizia imparano a sfornare dolcezze. Altri si stanno addestrando nel settore ristorativo alla mensa sociale di villa Olimpia e alla caffetteria di Casa Ceretti a Intra, con l’accompagnamento degli educatori della cooperativa Il Sogno. Qualcuno è anche impiegato in imprese del territorio. Risulta così che le opportunità di lavoro finalizzate all’inclusione a fine pena a Verbania sono più numerose rispetto ai detenuti che possono seguire questo percorso. Necessaria la buona condotta - “Requisiti indispensabili sono aver scontato almeno metà della condanna e la buona condotta” riporta Mellano. È la spiegazione per cui il numero a cui può essere applicata la semi libertà necessaria per svolgere mansioni fuori dal carcere è limitata e la direzione del carcere ha avanzato al provveditorato regionale una proposta per vagliare la disponibilità di trasferimenti da altri istituti penitenziari per occupare alcune posizioni lavorative scoperte. “In Piemonte succede anche a Biella, dove esiste una sartoria per 120 inserimenti, e ci sono 40 posti vuoti” informa il garante. Nella sua ultima relazione al Consiglio regionale ha sollevato la questione dell’esigenza di un potenziamento dell’assistenza sanitaria in carcere, in difficoltà come tutti i settori del sistema sanitario pubblico. L’emergenza riguarda soprattutto il disagio mentale. Ne soffre il 30% delle persone sottoposte a restrizioni della libertà. “Anche in questo ambito - riferisce Mellano - la situazione a Verbania è migliore che altrove. Ho incontrato il responsabile, il medico Antonio Rodari, e il collega referente Federico Gozzi, che si sono fatti carico del problema di salute segnalatomi da un detenuto”. La biblioteca e la palestra - Gli spazi nel carcere di Verbania sono limitati, ma di recente sono stati riorganizzati anche per ricavare una biblioteca e una palestra. Un’iniziativa dell’ex direttrice Stefania Mussio (sostituita di recente dal collega Domenico Minervini che si sdoppia con la gestione del carcere di Cuneo) e realizzata grazie al contributo di Fondazione Comunitaria Vco, ordine degli avvocati di Verbania e Rotary, che hanno anche sostenuto il completamento in uno dei cortili della casa circondariale di un campetto per basket, volley e calcetto. Un impianto usato nell’ora d’aria e allestito con il contributo manuale di agenti e detenuti. Bologna. Le riforme della giustizia illustrate in un convegno da Fd’I Il Resto del Carlino, 30 luglio 2023 “Verso una giustizia giusta” è il convegno aperto a tutti organizzato dal coordinamento bolognese di Fratelli d’Italia e cui interverranno il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, il viceministro alle Infrastrutture e Trasporti Galeazzo Bignami, e il senatore capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione affari istituzionali Marco Lisei. L’appuntamento è per domani sera alle 20.30 allo Zanhotel Europa di via Boldrini. L’obiettivo del convengo è quello di illustrare le prime riforme della giustizia messe in campo dal governo Meloni. A partire dal primo decreto legge in assoluto emanato appunto da questo governo, quello sul carcere ostativo, fino alla battaglia a difesa del carcere duro in regime di 41bis. Ma sarà l’occasione anche per fare luce sull’intervento di riforma che sta approdando ora al Senato. Nel menu della serata, i temi della “lotta alle mafie del il governo; la stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni, necessaria per tutelare le indagini, e dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, reato che ingolfava Procure e tribunali, con oltre l’85 per cento dei procedimenti che finiva con un’archiviazione”, illustra il consigliere comunale di Fd’I Francesco Sassone. Abrogazione, questa, che consentirebbe anche di “eliminare la cosiddetta ‘paura della firma’ dei tecnici e degli amministratori locali, dando così nuovo slancio all’azione amministrativa, oltre che a quella economica, specialmente in questa delicata fase di attuazione del Pnrr”, prosegue il consigliere. Si parlerà infine del divieto alle Procure di presentare appello per le sentenze di assoluzione inerenti i reati meno gravi. Tutti interventi “che mirano a che i tribunali abbiano più tempo per occuparsi dei reati più gravi e di maggior allarme sociale - chiude Sassone -. Fratelli d’Italia è garantista nella fase delle indagini, ma giustizialista quando c’è una sentenza di condanna, al contrario della sinistra che è giustizialista nelle indagini e garantista dopo. Per Fratelli d’Italia una ‘giustizia giusta’ è la migliore garanzia per tutti i cittadini: chi sbaglia deve pagare, ma il processo deve essere giusto per tutti”. A moderare l’incontro sarà Sandro Callegaro, responsabile del Coordinamento giustizia Emilia-Romagna. Palermo. “Gap, graffiti art in prison”: l’arte per promuovere l’inclusione dei detenuti palermotoday.it, 30 luglio 2023 Ricerca scientifica e formazione per promuovere inclusione sociale attraverso programmi accademici e artistici multidisciplinari rivolti a dottorandi da tutto il mondo e detenuti delle carceri Pagliarelli, Ucciardone, Malaspina a Palermo e Sollicciano a Firenze. Sono questi gli obiettivi di “Gap - Graffiti Art in Prison”, il progetto dove contesto accademico e società civile si incontrano per sperimentare nuove strategie di collaborazione attraverso le arti contemporanee e la ricerca scientifica. Mercoledì 2 agosto, presso il Complesso Monumentale dello Steri, Gap riunirà i suoi ideatori, promotori e partner per condividere i risultati del programma nato nel 2020 come progetto del Sistema Museale d’Ateneo dell’Università di Palermo, e finanziato dal programma Erasmus+, in partnership con Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max-Planck-Institut, Università di Saragozza, DEMS-Università degli Studi di Palermo, e Abadir - Accademia di Arte e Design di Catania, col patrocinio del Ministero della Giustizia, DAP-Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Cultura, la partecipazione dell’Università di Colonia e la mediapartnership di SkyArte. A partire dalle 18.00 nella Sala Magna si susseguiranno gli interventi dei rappresentanti di Università italiane e internazionali, di uno degli istituti penitenziari coinvolti, di dottorandi e artiste che hanno partecipato al progetto, con la presenza di Roberto Agnello, Direttore Generale, Università degli Studi di Palermo, Paolo Inglese, Delegato per le attività di valorizzazione dei beni culturali, storici, monumentali e del brand di Unipa, Università degli Studi di Palermo e Project leader di GAP, Michelangelo Gruttadauria, Presidente del Sistema Museale di Ateneo, Università degli Studi di Palermo, Costantino Visconti, Direttore DEMS, Università degli Studi di Palermo, Santi Console, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia e per il loro reinserimento sociale, Regione Siciliana, Maurizio Carta, Delegato alle attività di Terza Missione e Cooperazione con il Territorio, nonché Assessore alla rigenerazione urbana, sviluppo urbanistico della città policentrica e mobilità sostenibile del Comune di Palermo, Paola Maggio, Delegata per i rapporti con gli Istituti penitenziari, Università degli Studi di Palermo, Clara Pangaro, Direttrice Istituto Penale per i Minorenni Malaspina di Palermo, Gabriella Cianciolo Cosentino, Ideatrice e Coordinatrice Scientifica di GAP, Laura Barreca, Coordinatrice Artistica di GAP, Chiara Agnello, Regista, Rita Foti, Docente DEMS, Università degli Studi di Palermo, Julia Kristsikokas, Dottoranda Università degli Studi di Palermo, Ronald Jenkins, Visiting Professor, Yale Divinity School, & Professore di Teatro, Università di Wesleyan, che presenterà il concerto “Surviving Troubled Waters: From Prison to Freedom Through Music”, che è gratuito e aperto al pubblico. Saranno presentati al pubblico i risultati raggiunti e le ricadute del progetto Gap nei suoi aspetti scientifici, artistici e sociali, e nella proposizione di un nuovo modo di ripensare l’insegnamento universitario, fondato su forme alternative di conoscenza e studio, attraverso il coinvolgimento di realtà sociali complesse, con l’obiettivo di sollecitare partecipazione e nuove dinamiche inclusive. In un legame ideale tra le Carceri dell’Inquisizione dello Steri di Palermo (1478-1782), uno dei più importanti siti culturali in Sicilia con il suo palinsesto di scritte e disegni dipinti sui muri, con le espressioni artistiche nelle carceri di oggi, GAP nel triennio di attività ha prodotto: 6 settimane di studio con 20 dottorandi provenienti da Stati Uniti, Spagna, Germania, Cipro, Turchia, Canada, Israele, Italia, su diverse tematiche storiche, artistiche, scientifiche, sociali; laboratori con detenute e detenuti con artiste e artisti: Matilde Cassani, Stefania Galegati, Giovanna Silva, David Mesguich, Martha Cooper, Nicolò Degiorgis e Elisa Giardina Papa, della quale saranno presentate le magliette ispirate al suo workshop “U Scantu: A Disorderly Tale” realizzato con Giovanna Fiume, nell’Istituto Penale per i Minorenni Malaspina di Palermo; una pubblicazione scientifica dal titolo Gap- Graffiti Art in Prison che raccoglie contributi della comunità scientifica che ha partecipato ai programmi; il documentario Gap- Graffiti Art in Prison della regista Chiara Agnello che ne ha documentato tutta l’esperienza, realizzato in partnership con Sky Arte. Il progetto Gap si chiuderà alla fine di settembre con una mostra collettiva curata da Laura Barreca e Gabriella Cianciolo Cosentino, attraverso cui sarà “raccontato” il progetto con la partecipazione di artisti italiani e stranieri, e ospitata all’interno del Complesso Monumentale dello Steri. Zagrebelsky: “L’Umanità è seduta su un vulcano, smetta di fabbricare e inviare armi” di Andrea Malaguti La Stampa, 30 luglio 2023 “Da quando ho 80 anni immagino il futuro affidandomi a Camus: guardo le cose vecchie con occhi nuovi. Il modo di concepire il pianeta non è più sostenibile, colpa del dispotico principio di non contraddizione”. “Fuma?”. No. “Peggio per lei”. Gustavo Zagrebelsky è un uomo ruvido con dolcezza. Nel suo appartamento al centro di Torino - pianoforte, chitarra classica, una miriade di volumi schierati sulle librerie di legno - versa nelle tazzine il caffè bollente appena uscito dalla Moka. Dice: “Il mondo è seduto su un vulcano” e abbozza un sorriso lungo e misterioso, come se volesse vedere l’effetto che fa. Ha gli occhi sfavillanti, pieni di sfida, eppure in qualche modo insondabili. L’idea dell’incontro sarebbe quella di parlare dello spirito dei tempi. Meloni, la Carta, Vox, la giustizia. Farlo con un uomo che a 26 anni insegnava all’Università di Sassari e nel 2004 era presidente della Corte Costituzionale darebbe ovviamente preziosi spunti di riflessione. Zagrebelsky però ha in testa altro. Ha in testa di più. E solo un matto proverebbe a dissuaderlo dai suoi propositi. Il giorno del suo ottantesimo compleanno (il primo giugno), il Professore ha inaugurato un’altra fase della vita. Una fase in cui, rileggendo il passato, è pronto a immaginare e a proporre un mondo nuovo. Da costruire appena l’esperienza dolorosa di questa lunga stagione di crisi finirà in macerie. Testualmente: “Cerco di immaginare le cose che potremo fare di fronte alla catastrofe”. Sembra la pietra tombale sulla speranza collettiva, è piuttosto l’annuncio ambizioso di una Rinascita da parte di un intellettuale che trova comunque proficua anche l’ombra del caos e per questo continua a seminare. Professore, a 80 anni è diventato definitivamente saggio? “Non so se saggio. Spero non definitivamente! So che dal primo giugno cerco di cambiare prospettiva”. Vale a dire? “È una data convenzionale. Da due mesi considero ogni giorno in più come un dono. Della provvidenza. Del caso. Della fortuna. Quello che vuole. Il punto è che quando ricevi un dono sei felice”. Lei è felice? “Di certo respingo l’atteggiamento diffuso tra le persone anziane che cominciano a intristirsi perché va tutto male”. Non tutto va male? “Magari non tutto. Ma molto sì”. Mi sfugge: più ottimista o pessimista? “Guardi, se non si è ignavi è inevitabile legare i pensieri a una possibilità di futuro”. Dunque ottimista... “Non corra. Norberto Bobbio diceva che tutti gli sciocchi sono ottimisti, ma non tutti gli ottimisti sono sciocchi. Conviene dunque una certa prudenza per non essere automaticamente annoverati tra gli sciocchi. Quello che appartiene al futuro ci è ignoto, però ci sono circostanze che inclinano, se non al pessimismo, almeno a molta preoccupazione. Ha notato come si sta diffondendo una sensazione apocalittica, intesa come disvelamento di ciò che fino a ora non si vedeva o si cercava di non vedere?”. Ora che lo dice, in effetti lo noto... “Siamo in un mondo dove c’è il “muro di pietra” di cui Dostoevskij scrive: ci si para davanti e ti sputa in faccia. E rompere il muro sarebbe necessario per affrontare temi terrificanti come l’abitabilità del pianeta, le guerre, le centinaia di migliaia di bambini che nascono e muoiono nella prima settimana di vita, mentre noi, osservando le foto di Aylan Kurdi o di Marie, che a sei anni perde la vita nel deserto tunisino accanto alla madre, allarghiamo le braccia. Non solo per assuefazione a queste immagini, ma soprattutto per impotenza di fronte all’orrore”. Sbagliavo, pessimista... “Corre di nuovo. Le grandi questioni e le grandi idee assumono un significato diverso se chi le valuta vive una condizione di privilegio e di benessere oppure non ha nulla, a parte la sofferenza e la paura. Se passi le tue vacanze a Cortina è un conto, se sei una profuga a Sfax, o fuggi dalla Siria, è un altro. Non le pare?”. Domanda retorica... “Il punto teorico al quale tengo molto è questo: da Aristotele a oggi siamo dominati concettualmente dal principio di non contraddizione e da almeno due secoli e mezzo la vita sul pianeta si svolge cercando di eliminare tutto ciò che non è coerente, sterminando le culture particolari e spingendo tutti verso uno stesso modello di vita. Egualizzazione, omologazione. La non contraddizione è un principio dispotico”. I costi dell’Illuminismo e della globalizzazione. Se non conoscessi la sua storia direi che parla come un reazionario... “Ma io sono un reazionario! La questione è: reazione a che cosa?”. Mi spiazza. “L’Illuminismo ha creato società basate sulla linearità (anche dal punto di vista architettonico, urbanistico). Ciò che non sta dentro, che sta ai lati, va estirpato o reso nullo. Il Papa parla con sofferenza di “scarti umani”, un ministro, con cinismo, di “carichi residuali”. Queste affermazioni, a parte la crudeltà del linguaggio, tradiscono un pensiero generale che non funziona più. E allora chiedo io a lei: non pensa che il nostro modo di concepire l’esistenza su questo pianeta abbia mostrato tutti i suoi limiti?”. Teorie care anche alle destre... “Le sembro uno di Vox?”. In effetti no... “Appunto. Sono, o cerco di essere semplicemente realista. E mi pare che il mondo sia ammalato, gravemente”. Siamo senza speranza? “No. Non sono dalla parte di chi, come i “negazionisti” d’ogni genere, sostiene alternativamente che tutto va bene o che tanto non c’è niente da fare. Per dare un significato al tempo residuo a mia disposizione, io mi appoggio a due pilastri. Il primo: lo spirito di chi si sente libero di dire quello che crede senza pensare a chi giova o a chi nuoce. Il secondo è Albert Camus”. Cosa c’entra Camus? “C’è un suo motto a me caro: a una certa età non si ha più tempo ed energia per le nuove imprese - non mi rimetterei a scrivere un trattato di diritto costituzionale - però si hanno il tempo e l’energia per guardare le cose vecchie con occhi nuovi”. Frase magnifica. Ma che cosa significa? “Che posso ripercorrere e riconsiderare le cose che ho conosciuto e che ho studiato in passato, cercando di vederne lati nuovi, immaginando alternative”. Non mi è chiaro... “Veda, io spero di aver fatto del mio meglio per la democrazia”. Innegabile... “La ringrazio. Però, c’è stato un tempo, dopo la seconda guerra mondiale, in cui sembrava che la democrazia fosse l’approdo finale e universale dell’umanità. Ma la democrazia è libertà e differenziazione, difesa delle minoranze, cioè delle differenze. Stili di vita e culture. Se no, c’è asfissia. Ora pare che non ci possa che essere un solo modo uniforme di vivere e se vai ad Hong Kong ti trovi in un luogo che sembra Manhattan. La nostra, sottolineo nostra, democrazia ha prodotto questo risultato?”. Magari succede perché Manhattan è un modello attraente... “Per noi, forse. Ma davvero lo è per tutti? E, comunque, adesso bisogna domandarsi se è un modello sostenibile”. Meglio guardare a Oriente, o magari a Est? “Mai detto questo. E non mi faccia passare per putiniano. La globalizzazione ha definito le nuove regole dell’economia: accumulazione illimitata che chiamiamo sviluppo, dissipazione delle risorse e rottura degli equilibri naturali, impoverimento e sfruttamento di categorie sociali e di popoli interi. E come si cerca di tenere insieme tutto questo? Con la forza e con la sublimazione della forza, cioè le guerre che si fanno fare”. Fanno fare? “Certo, questa è la definizione esatta. Putin o Biden non fanno la guerra, ma la fanno fare a centinaia di migliaia di altri esseri umani che vanno incontro alla morte. Di sicuro non per libera scelta. Perfino la guerra si è disumanizzata (seppure si potesse pensare a una guerra “umana”), trasformandosi al punto da distruggere vite, città e paesi senza che si sentano esplosioni, puzzo di cadaveri o si vedano macerie o nemici negli occhi. I missili e i droni si comandano con precisione millimetrica a migliaia di chilometri di distanza e gli strateghi maneggiano non uomini e vite, ma tecnologie”. Eppure il conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina sembra avere caratteristiche antiche: un’invasione di campo, il controllo del terreno metro dopo metro. “Missili e droni fanno il vuoto, ma poi il terreno si deve occupare. E lì la tecnologia non basta più. Occorrono gli uomini, come sempre. E gli uomini, quando si incontrano sul terreno, si guardano negli occhi. Come si vedono, prima di tutto? Come esseri umani o come animali feroci?”. Guardandosi negli occhi o no, gli uomini fanno la guerra da sempre... “Sì: homo homini lupus. Anzi, la guerra - dicono in molti - è una cosa bella perché prepara una pace migliore. Ma a quale prezzo! Montesquieu, con tanti altri, sosteneva il contrario: che la violenza, l’aggressività e il sopruso non fanno parete della natura umana”. Che cosa se ne deduce? “Questa differente visione dimostra che siamo nel campo delle ideologie. Anzi, la supposta naturale aggressività degli esseri umani in quanto tali, è l’ideologia massima, cioè il più importante intervento di manipolazione delle coscienze. E, se è una ideologia, non la si potrebbe sostituire con quella opposta? Siamo noi, non la “natura”, che ci facciamo amici o nemici l’un l’altro. Dove sta scritto che siamo obbligati a fabbricare, vendere e inviare continuamente armi?”. Istinto difensivo di sopravvivenza? “Lei pensa subito all’Ucraina”. In effetti... “Lo capisco. È automatico. Ma io sto cercando di alzare un poco lo sguardo e insisto a dirle che l’idea secondo la quale gli esseri umani sono per natura nemici e mossi da istinti aggressivi ed espansionistici di sé è un’idea di cui noi stessi siamo autori”. Scusi se tengo ancora lo sguardo basso, ma se vedesse qualcuno aggredire i suoi cari che cosa farebbe? “Gli salterei addosso. Sa, io sono piuttosto iracondo e pronto a litigare anche se qualcuno mi ruba il parcheggio. Ma queste sono reazioni a un sopruso. Qui stiamo ragionando della propensione degli esseri umani a un sopruso specifico che si chiama guerra. Io credo che iniziare la guerra sia una decisione imposta da pochi potenti. Nelle capitali degli Stati non dovrebbe esserci il monumento al milite ignoto, ma alla vittima ignota”. Non ho capito se lei è un visionario o un utopista... “Guardi, la grande sfida del tempo attuale, da cui dipende il futuro, è quella di uscire dai meccanismi immensamente pervasivi dell’ideologia guerresca. Dobbiamo abbassare il livello della violenza - che è grande - nei rapporti individuali, in quelli collettivi e con tutti gli esseri viventi sulla terra. Che è anch’essa un grande essere vivente, “un animale”, dicevano gli antichi”. Sarebbe più facile se non esistesse il male. Ma il male esiste... “Come no. Se c’è il male, non dovremmo reagire con tutti i mezzi, opponendo violenza a violenza? Grande questione filosofica: si può essere tolleranti con gli intolleranti? Io, ancora una volta con Bobbio, dico di no, perché l’intollerante impedisce agli altri di essere tolleranti”. Così non c’è via d’uscita... “C’è. Anche se qui entriamo nel campo delle virtù reciproche, le più difficili da realizzare. Si potrebbe fare ricorso al principio della morale kantiana: trattare gli esseri umani sempre come fini e mai solo come mezzi. Dove la parola “solo”, spesso trascurata, è importantissima”. Come si fa a non trascurarla? “Ricominciamo dai singoli rapporti, andiamo a vedere dove prendono piede la violenza e il sopruso, guardiamo le cause e cerchiamo di disinnescarle, ragioniamo per i nostri figli e i nostri nipoti. Non facciamoci ingannare. Vediamo che la violenza è il prodotto delle prepotenze e dunque combattiamole, a incominciare da quelle piccole e quotidiane, fino a quelle grandi ed epocali. Guardiamo le cose vecchie con occhi nuovi - appunto - e si accorgerà che ripartire non è impossibile. E comunque è necessario”. Addio reddito di cittadinanza per oltre 200 mila famiglie. Fdi: commissione d’inchiesta di Luca Monticelli La Stampa, 30 luglio 2023 L’Inps corregge le stime del governo: “Metà dei nuclei esclusi riceverà sostegno dai Comuni”. Fratelli d’Italia vuole un’indagine sulla gestione del sussidio: “Troppi sprechi e nessuno vigilava”. Dopo il messaggio sul cellulare che ha scatenato le polemiche, l’Inps prova a rassicurare le persone che ad agosto non riceveranno più il reddito di cittadinanza. “Non abbandoniamo nessuno”, spiega l’Istituto di previdenza che annuncia un piano per gestire in sinergia con i centri per l’impiego e i servizi sociali i nuovi strumenti: l’Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione. Il primo sarà un sostegno simile al reddito ma rivolto solo ai nuclei con figli minori, disabili o ultrasessantenni ed entrerà in vigore a gennaio del 2024. Il secondo garantirà agli occupabili un sostegno di 350 euro per un anno. Oltre alle 169 mila famiglie già informate con un sms, da qui alla fine dell’anno arriveranno dall’Inps altri 80 mila avvisi. Le stime del governo ipotizzano che alla fine saranno 213 mila i nuclei che perderanno il vecchio reddito di cittadinanza e non saranno presi in carico dai servizi sociali, dovendo ripiegare a settembre sul sussidio da 350 euro al mese. L’Inps, invece, ha dei numeri diversi e su 250 mila sospensioni conta di recuperarne la metà grazie ai servizi sociali, che però scontano un deficit di personale. La Cgil, infatti, lancia l’allarme “bomba sociale al Sud”. Come stabilito dalla legge di bilancio varata a dicembre dal governo Meloni, i nuclei familiari senza figli minori, disabili o over 60, scaduti i primi sette mesi del 2023, non percepiranno più il reddito di cittadinanza, il cui assegno poteva arrivare al massimo a 780 euro al mese, ma che mediamente si aggirava sui 571 euro. Le 169 mila famiglie che hanno già ricevuto l’sms o l’email che ricorda loro la fine del sussidio a partire da agosto, sperano di essere prese in carico dai servizi sociali. La metà di queste persone, sostiene l’Inps, sono in una situazione di disagio sociale (tossicodipendenti o con problemi abitativi) e potranno essere inserite in un progetto di recupero, perciò manterranno il sussidio. Gli altri, i cosiddetti occupabili, dovranno andare nei centri per l’impiego e firmare il Patto di servizio personalizzato per essere avviati al lavoro. Il percorso prevede poi che il disoccupato si attivi presso le agenzie di recruiting. Chi non trova un’occupazione potrà iscriversi a un percorso formativo e a settembre avrà diritto al sostegno alla formazione che vale 350 euro al mese per un anno. Entro dicembre, però, l’Inps spedirà altre 80 mila comunicazioni ad altrettanti beneficiari per la sospensione del reddito, anche in questo caso la speranza è che circa la metà dei cittadini saranno avviati ai servizi sociali. Le politiche attive sono la grande falla del reddito di cittadinanza, tuttavia anche l’esecutivo di centrodestra non sembra avere un disegno chiaro di come far funzionare la macchina per consentire agli occupabili di trovare un impiego. Le regioni e il nuovo Anpal sono impegnate con il programma europeo Gol (4,4 miliardi del Recovery) per il reinserimento lavorativo, ma il personale dei centri per l’impiego scarseggia. Scaduti i contratti dei 1.500 Navigator, le famose 11.600 assunzioni nei centri non sono state fatte, si sono fermate a poco più della metà. La “sinergia” evocata dall’Inps riguarda l’avvio di una piattaforma digitale pubblico-privata in grado di incrociare i profili dei candidati, i posti vacanti e i dati delle regioni. “Il governo ha deciso di lasciare senza reddito 169 mila famiglie e di scaricare gli effetti di questa scelta sul personale degli enti locali. Nel Meridione si rischia letteralmente l’esplosione di una bomba sociale”, sostiene la Funzione pubblica della Cgil. Secondo i dati del sindacato, mancano “almeno 15 mila assistenti sociali sui 30 mila totali che sarebbero necessari”. Visto lo stallo sul salario minimo è la polemica sul reddito di cittadinanza a riaccendere lo scontro politico. La segretaria del Pd Elly Schlein accusa il governo di voler lasciare in povertà “persone che hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena. Brutale. La risposta della destra a queste persone sostanzialmente è: “fatti vostri”. E noi non ci stiamo”. Fratelli d’Italia replica mettendo sul tavolo l’istituzione di un’altra commissione d’inchiesta (pochi giorni dopo il monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, secondo cui delle commissioni d’inchiesta si sta abusando). “Il reddito di cittadinanza si è rivelato una misura assistenzialista, nata con uno scopo demagogico, scritta male, attuata peggio, il che ha comportato enormi danni all’erario”, spiega il capogruppo di Fdi Tommaso Foti che aggiunge: “Riteniamo necessaria la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta, limitando la responsabilità a Tridico per non avere consapevolmente attivato i controlli per non far perdere consenso elettorale e personale ai suoi mandanti”. Reddito di cittadinanza, ora il governo teme tensioni sociali e che la protesta si allarghi di Mario Sensini Corriere della Sera, 30 luglio 2023 Già da domani il rischio di manifestazioni a Napoli. E la maggioranza contrattacca. Il timore del governo, adesso, è che le proteste di Napoli possano allargarsi, contagiare altre zone del Paese. A ben poco è servito, se non forse a peggiorare la situazione, il “messaggio riparatore” dell’Inps: dopo aver comunicato due giorni fa con un freddissimo messaggino telefonico la revoca del reddito di cittadinanza a quasi 170 mila persone, infatti, ieri l’Istituto - per voce del direttore dell’area di Napoli, Roberto Bafundi - ha tenuto a precisare che “nessuno sarà lasciato indietro”. Ma le polemiche esplose venerdì sono comunque divampate. Creando una forte preoccupazione a Palazzo Chigi. Le polemiche dei sindaci, dell’opposizione e dei sindacati fino all’inizio sono state date per scontate, e quasi declassate a rumore di fondo. Ma ieri, dopo le durissime reazioni dei cittadini colpiti dalla cancellazione del reddito, soprattutto al Sud, fanno molto più paura. I segnali che arrivano al ministero dell’Interno non fanno presagire niente di buono. Il rischio che il disagio sociale si trasformi in manifestazioni e cortei fa presto a diventare una delle priorità da affrontare. I fronti scoperti, sui quali le opposizioni attaccano, sono tanti. C’è lo stop “brutale” al reddito di cittadinanza - per citare la segretaria del Partito democratico Elly Schlein - e la fermissima opposizione all’introduzione del salario minimo, sul quale pure l’opposizione ha ritrovato l’unità dopo mesi di scontri tra gli stessi partiti di minoranza. In più, ecco le critiche che si susseguono sul fisco, sulle modifiche apportate alla delega per la riforma delle imposte in Parlamento, sulle concessioni fatte sul fronte dell’evasione fiscale, che è pure uscita silenziosamente dagli obiettivi del Pnrr, sui possibili nuovi condoni e sanatorie invocate da Matteo Salvini. Dossier che in alcuni casi vedono anche la maggioranza divisa. E per la lettura che ne è stata data al governo nelle ultimissime ore, tutti questi “nodi” - uniti all’inflazione che erode le buste paga dei lavoratori - rischiano di diventare un cocktail esplosivo. Si temono reazioni sociali, manifestazioni e tensioni nelle piazze, a cominciare da domani a Napoli, la città più colpite dalla scure calata sui percettori del reddito di cittadinanza. Per questo la maggioranza ha scelto di passare al contrattacco. Di provare a indicare un responsabile almeno per la voce considerata più a rischio, quella del reddito di cittadinanza. L’obiettivo insomma, neanche troppo celato, è quello di scaricare le responsabilità sui governi precedenti, e in particolar modo sul Movimento Cinque Stelle che del reddito di cittadinanza ha fatto la sua battaglia principale. Ed è così che Tommaso Foti, capogruppo FdI alla Camera, uno che non si sottrae mai quando c’è da colpire duro, ha tirato fuori la commissione di inchiesta. Non sul reddito di cittadinanza in sé, sul quale la maggioranza ha già detto tutto il male possibile, ma sulla sua gestione da parte del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, insediato da Giuseppe Conte. L’accusa è quella di non aver eseguito i controlli necessari sui requisiti che dovevano avere i cittadini per accedere al sostegno, determinando sprechi e truffe miliardarie. E cavalcare così l’ondata di sdegno collettivo che ne è seguita. Migranti. Naufragio di Cutro. “Un elicottero volava sul barcone”: svolta da tre sopravvissuti di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 luglio 2023 Le indagini sul naufragio del 26 febbraio di fronte alla costa calabrese. Per i testimoni il mezzo era come quelli della Guardia costiera. La donna che risponde alle domande è afghana ed è una delle 80 persone sopravvissute alla strage di Cutro. “Ho visto un elicottero bianco”, dice. Sicura che fosse un elicottero?, chiedono gli avvocati che stanno filmando la deposizione per fare indagini difensive. “Ce ne sono molti in Afghanistan, so distinguerlo da un aeroplano”, risponde lei. Che ora era? “Non avevo orologio o telefono, non so l’ora esatta. L’ho visto quando la luce del giorno era ancora lì e non era completamente buio. L’ho visto per 3-5 secondi, poi lo scafista ci ha mandato di sotto”. Poi lo ha visto o sentito di nuovo? “Sì. L’ho visto molto bene, due volte da vicino, la prima che era ancora giorno, la seconda era durante la notte. Era bianco e la sua coda era rossa, c’era qualcosa come una bandiera. Guardavo la facciata bianca ma poi lo scafista ci ha mandato di sotto”. Adesso le mostriamo due foto. Se lei lo ricorda le chiedo: a quale di questi due elicotteri era più simile quello che ha visto? “Questo. L’ho visto passare sopra di noi, fare un giro e andare via”. “Questo” è l’elicottero della Guardia costiera - È un colpo di scena. Questa donna e altri due scampati alla strage di Cutro (una ragazza di 23 anni e un uomo) parlano per la prima volta di un dettaglio finora mai emerso. Lo fanno quasi per caso, raccontando come andò quella notte di mare e di morte. Parlano dello schianto del caicco Summer Love - carico di migranti - contro una secca davanti a Steccato di Cutro (Crotone), e a un certo punto nei loro racconti si fa strada la parola “elicottero”. Gli avvocati torinesi Marco Bona, Enrico Calabrese e Stefano Bertone difendono otto sopravvissuti e i familiari di 47 dei 94 morti recuperati e identificati nel naufragio. E per ricostruire ciò che accadde durante quel viaggio disgraziato sulla rotta Turchia-Calabria, hanno sentito tutti. Gente che al momento si trova sparsa in Nord Europa. L’avvocato Bona è andato in avanscoperta a raccogliere racconti, ed è stato lui a sentire per primo quella parola, elicottero. È proprio sicuro? ha insistito con l’uomo che l’ha pronunciata. Lui quasi se l’è presa: “Noi in Afghanistan avevamo elicotteri sulla testa ogni giorno, so cosa sto dicendo”. Dopo di lui ne ha parlato una donna, appunto, e poi un’altra ancora... L’avvocato ha deciso così di chiamare i colleghi a Torino e farsi mandare le fotografie degli elicotteri di Guardia costiera e Guardia di finanza. Le ha mostrate ai tre testimoni e ha chiesto se riconoscevano il velivolo. Nessuno ha avuto dubbi: “Questo”, cioè Guardia costiera. Così i legali (tutti e tre) a quel punto hanno deciso di formalizzare deposizioni con interprete giurato (in lingua persiana), riconoscimento ufficiale della fotografia e videoregistrazione delle testimonianze. Tutto questo (filmati compresi) è diventato materiale per una istanza depositata nei giorni scorsi in Procura a Crotone, dove il procuratore Giuseppe Capoccia e il pubblico ministero Pasquale Festa si stanno occupando di due inchieste: quella sugli scafisti e l’altra sui mancati soccorsi al caicco Summer Love. La richiesta è chiara: acquisire i registri di volo degli elicotteri della Guardia costiera e verificare quindi i racconti dei tre testimoni. Nessuno dei tre sopravvissuti avrebbe motivo di inventarsi un simile dettaglio, le loro versioni coincidono, gli orari indicati sono gli stessi, la descrizione del velivolo è identica. Dunque: un primo sorvolo sulla barca quando c’era ancora luce (verso le 19) e un secondo più tardi, con il buio (verso le 22). Stiamo parlando della sera del 25 febbraio, quindi quasi quattro ore prima che Frontex segnalasse il Summer Love all’International coordination center di Pratica di Mare e circa 9 ore prima dello schianto contro la secca. Ammesso che si riesca a risalire davvero a un piano di volo che confermi tutto, la domanda è: questo sposterebbe il peso delle responsabilità sull’ipotesi dei mancati soccorsi? Quando Frontex l’ha avvistato il caicco viaggiava a sei nodi ed era a circa 40 miglia al largo delle coste calabresi. Facendo due calcoli, quando il misterioso elicottero li avrebbe avvistati i migranti erano forse a 55-60 miglia. Che scena potrebbe aver visto un elicottero a quel punto della navigazione? E ancora: a quell’ora del pomeriggio e con quella luce è possibile confondere la livrea della Guardia costiera italiana con quella, per esempio, greca? Gli avvocati hanno chiesto a un meteorologo una consulenza proprio su condizioni meteo e luce, anche se i testimoni si dicono certi: “Era bianco, coda rossa”; la seconda volta “partivano flash, come se scattassero delle fotografie”; era un “elicottero italiano; ha fatto una deviazione su di noi, prima alle 19 poi di nuovo alle 22”. L’uomo afghano, che ha perduto moglie e tre figli nel naufragio, chiede: posso aggiungere una cosa? E dice che l’elicottero li ha osservati, sì, ma poi “nessuno è venuto a osservarci, finché la barca non è affondata”. Francia. La polizia mette in ginocchio il ministro dell’Interno di Filippo Ortona Il Manifesto, 30 luglio 2023 Proteste delle forze dell’ordine dopo che i giudici chiedono la detenzione provvisoria per i 4 che hanno massacrato Hedi. Sono bastati appena otto giorni di mobilitazione ai poliziotti francesi per ottenere l’apertura di un tavolo col ministero degli Interni, con conseguenti promesse di radicali riforme del codice penale e civile. Otto giorni di protesta scatenati dalla punizione inflitta a un agente a Marsiglia, nel quadro dell’ennesimo caso di violenze esercitate su di un giovane di origini arabe, ad appena un mese di distanza dalla morte di Nahel, la cui uccisione aveva provocato le più grandi rivolte dei quartieri popolari dal 2005. Durante queste rivolte, nella notte tra l’1 e il 2 luglio, Hedi, un 22enne di Marsiglia, è stato colpito da un proiettile di flashball, trascinato dietro a una macchina e pestato selvaggiamente da un gruppo di poliziotti marsigliesi. “Mi hanno spaccato la mascella”, ha detto Hedi, in un’intervista realizzata dal media Konbini, che ha raccolto più di 25 milioni di visualizzazioni su Twitter. Terminato il calvario, Hedi è stato lasciato esangue sul marciapiede. “Ho provato a toccarmi la testa, ma non c’era più il cranio”, ha detto, davanti alla telecamera di Konbini. A Hedi manca la parte sinistra della testa, che si piega a un grottesco angolo di 45 gradi sopra l’orecchio: per salvargli la vita, i medici hanno dovuto asportargli un pezzo della scatola cranica, danneggiata gravemente dalle violenze dei poliziotti. La violenza subita da Hedi (la cui versione è corroborata dalle immagini di videosorveglianza, secondo le ricostruzioni dei media francesi) ha spinto la magistratura marsigliese ad avviare un’inchiesta e richiedere la detenzione provvisoria per quattro agenti. Richiesta accolta solo in parte dal tribunale, che ha piazzato in detenzione un solo poliziotto, accusato di aver sparato con il flashball. Un fatto del tutto straordinario, che ha scatenato la protesta dei sindacati di categoria. La “detenzione provvisoria del nostro collega a Marsiglia” è un “trattamento degradante e pericoloso per la nostra funzione”, ha scritto in un comunicato Unité SGP Police, uno dei sindacati più importanti della polizia francese, invitando i colleghi a mettersi in ‘562’, il codice interno che stabilisce di garantire il solo servizio minimo di risposta alle emergenze. All’unisono, i sindacati di polizia hanno alimentato la protesta, chiedendo la revisione del codice penale affinché i poliziotti non possano essere messi in detenzione provvisoria, criticando aspramente le decisioni della giustizia tanto nel caso di Hedi quanto in quello di Nahel. Così, di commissariato in commissariato, centinaia di agenti hanno cominciato a dichiararsi in malattia e in ‘562’. Una tale mobilitazione, ad appena un mese dalla morte di Nahel, ha suscitato l’indignazione di chi da anni si batte contro le violenze e il razzismo della polizia francese. “I poliziotti reclamano non tanto il fatto di essere al di sopra della legge e dei corpi degli uomini arabi, neri, poveri, quanto il fatto di restarci, di restare al di sopra di tutto, che il loro mondo continui il suo corso. Le rivolte popolari che hanno fatto seguito all’esecuzione di Nahel gli hanno fatto venire paura, paura che Nahel fosse l’ultimo”, ha twittato la scrittrice Kaoutar Harchi. Tra i comandanti della polizia, tuttavia, la protesta è stata finanche incoraggiata. Domenica scorsa, il capo della polizia francese, Frédéric Veaux, ha rilasciato un’intervista al quotidiano Le Parisien. “Sapere che un poliziotto è in prigione m’impedisce di dormire”, ha detto Veaux, “in generale penso che prima di un eventuale processo, un poliziotto non dovrebbe stare in prigione”. Una presa di posizione senza precedenti, condannata tanto dalla sinistra (“gravissimo: la polizia si mette al di sopra delle leggi”, ha affermato Olivier Faure, il segretario del Partito socialista) quanto dalla magistratura stessa. In un’ancor più rara dichiarazione, il Consiglio Superiore della Magistratura ha ribadito in un comunicato che la giustizia “deve poter compiere le sue missioni al riparo di ogni pressione”. Malgrado ciò, le pressioni dei poliziotti hanno ottenuto un primo risultato: giovedì, il ministro degli Interni Gérald Darmanin ha incontrato i sindacati di polizia ed espresso solidarietà agli agenti. Al termine dell’incontro, i sindacati hanno cantato vittoria: “Il ministro si è detto d’accordo a rivedere il codice penale e inserire una clausola che escluda i poliziotti dalla detenzione provvisoria”, ha detto Fabien Vanhemelryck, il segretario di Alliance Police Nationale, il sindacato maggioritario della professione. “Siamo soddisfatti”, ha aggiunto, citando una serie di promesse fatte dal ministro, tra le quali il divieto di filmare i poliziotti, proposta già bocciata dal Consiglio costituzionale nel 2021. Francia. “La polizia chiede di operare al di sopra della legge: la fine della democrazia” di Filippo Ortona Il Manifesto, 30 luglio 2023 Intervista all’avvocato Arié Alimi: “Avanzano rivendicazioni mentre li si accusa di violenze sempre più gravi. Arié Alimi negli anni è divenuto una delle figure emblematiche della lotta contro le violenze e il razzismo della polizia francese, difendendo in tribunale numerose vittime di violenze. Com’è possibile che ai sindacati della polizia francese siano bastati pochi giorni di protesta per essere ricevuti e ascoltati dal governo Macron? Non è la prima volta che succede, anzi. A colpire è il fatto che ciò avvenga nel quadro di una sequenza giudiziaria, sociale e politica particolare, caratterizzata dalla morte di Nahel, poi dal pestaggio di Hedi e da una serie di violenze poliziesche tra le quali decine di casi di mutilazione. In un momento in cui è la popolazione a essere vittima della violenza della polizia, le loro richieste sono controcorrente rispetto al fenomeno sociale. I poliziotti avanzano delle rivendicazioni, proprio mentre li si accusa di violenze sempre più gravi e frequenti. E tuttavia, il ministero degli interni li segue in tutto e per tutto: segno che il potere politico è tra le mani di un vero e proprio “potere poliziesco”. Cosa intende con “potere poliziesco”? Di fatto, i funzionari di polizia godono in Francia di un privilegio della violenza e dell’impunità. Quello che chiedono i loro sindacati è di consacrare da un punto di vista legislativo questo privilegio. Se questa rivendicazione venisse soddisfatta, assisteremmo all’affermazione definitiva di questo “quarto potere”, esterno ai poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo. Tutto ciò è possibile perché il potere politico è estremamente fragile e necessita di rispondere positivamente alle richieste che provengono dalla polizia. L’istituzione poliziesca ha varcato una soglia e utilizza il potere che detiene sulla politica per ottenere uno status particolare e poter fare quello che vuole. Ovvero, eventualmente, poter uccidere o ferire senza aver paura delle conseguenze giudiziarie. Come interpretare questa evoluzione del potere della polizia in Francia, la cui violenza e impunità non sembrano essere scalfite dai numerosi scandali di questi ultimi anni? Nel mio libro, L’État hors-la-loi (in uscita per La Découverte a settembre 2023), analizzo questa evoluzione, in particolare lo spazio che hanno assunto le violenze della polizia e quelle che io chiamo “illegalità di Stato”. Sono tendenze che si sono manifestate nell’ultimo decennio, soprattutto nei quartieri popolari contro le persone discendenti dall’immigrazione e nell’ordine pubblico contro le persone che manifestano opposizioni politiche. È un processo avvenuto per gradi, sotto l’egida della politica. Dalla destra di Sarkozy ai socialisti con Bernard Cazeneuve (primo ministro di Hollande e autore della legge che ha riformato la legittima difesa nel 2017, ndr), fino a Emmanuel Macron. Con “illegalità di stato”, intendo definire una pratica deliberata dell’illegalità da parte dell’istituzione poliziesca o da parte delle amministrazioni dello Stato. C’è in questi settori una volontà di non rispettare la legge, soggiacente a tutta una serie di fenomeni: penso alle violenze della polizia, che sono uno strumento di controllo sociale sistemico; penso all’utilizzo sproporzionato, dunque illegale, delle armi cosiddette “intermediarie”; penso ai controlli di polizia esercitati su base “etnica” nei quartieri popolari; o ancora ai divieti di manifestare indetti dai prefetti… Tutti esempi di prassi generalizzate, utilizzate correntemente dallo Stato e dagli stessi poliziotti, in maniera deliberata, eppure del tutto illegali. Come possono la società civile e i movimenti francesi affrontare tale evoluzione inquietante del ruolo della polizia? Una soluzione che io e tanti altri abbiamo adottato in questi anni è di intraprendere azioni giudiziarie sistematiche, particolarmente aggressive, tanto nei confronti degli agenti accusati di violenze quanto delle istituzioni che impediscono che gli agenti vengano sanzionati. È un lavoro che coinvolge da anni molti avvocati e militanti, che ha portato risultati notevoli ma che ha anche condotto alla situazione presente di scontro con l’istituzione poliziesca. Oggi assistiamo infatti a un punto di rottura: i poliziotti si rendono conto che possono essere perseguiti, malgrado le promesse fatte dai vari esecutivi in questi anni. I politici hanno promesso molte cose agli agenti, ora questi ultimi si accorgono che il potere giudiziario è indipendente dall’esecutivo e che non tutte queste promesse potranno essere esaudite. Quello che i sindacati di polizia chiedono oggi di poter sfuggire all’autorità giudiziaria, è questo il senso dietro alla rivendicazione di uno statuto giuridico particolare. Qualora lo ottenessero, obiettivamente, si tratterebbe di un’uscita dalla democrazia. Sarebbe l’inaugurazione di uno stato poliziesco che permette ad alcuni di essere formalmente al di sopra della legge, e quindi di tutti gli altri cittadini. Nella Siria in rovina: mentre gli aiuti faticano ad entrare, il popolo vuole rialzare la testa di Francesco Torrigiani* Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2023 Siamo a Deir ez Zor, nel nord-est della Siria, a oltre 500 km da Damasco. Una città che era splendida, ma che dopo 12 anni di guerra, oggi appare in molte zone ancora spettrale: distrutta per il 75%, con buona parte della popolazione colpita da insicurezza alimentare, interi quartieri ridotti a un cumulo di macerie, molte delle infrastrutture essenziali inservibili, a partire da quelle idriche. Solo gli aiuti paracadutati dal cielo, consentirono ai suoi abitanti di sopravvivere ai 3 anni di assedio dell’Isis tra il 2014 e il settembre 2017. Coraggio tra le rovine - Sono qui da pochi giorni per seguire due interventi di Oxfam che hanno l’obiettivo di garantire acqua, cibo e un reddito alle comunità dell’area, ma ho capito subito che è grande da parte di tutti la voglia di mettersi al lavoro, superando quell’angoscia che la distruzione di vite e luoghi inevitabilmente mette in circolo tra menti e strade. Molti giovani colleghi siriani, impegnati a riportare un po’ di normalità in questa terra flagellata, hanno vissuto buona parte della loro vita in guerra, ma non mollano e con coraggio aiutano le persone a rimettersi in piedi, contribuendo alla ricostruzione del Paese, convinti che riuscirà a rialzarsi, che i suoi cittadini riavranno una vita dignitosa. Le botteghe che hanno riaperto tra le rovine di Deir ez Zor offrono lavoro e insegnano un mestiere ai ragazzi, danno speranza e fiducia. La più grave crisi alimentare dall’inizio del conflitto - Dopo il terremoto dello scorso febbraio, la Siria è finita sull’orlo del collasso economico, oltre 15 milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari per sopravvivere e il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tra gli altri effetti: un aumento esponenziale dei prezzi dei beni alimentari, una inarrestabile svalutazione della moneta nazionale, 12 milioni di siriani che soffrono la fame, uno dei dati più alti dall’inizio del conflitto, e circa 6,8 milioni di sfollati interni. L’area di Deir ez Zor in particolare, è desertica, il clima è estremo, e si riesce a coltivare solo nelle zone servite dall’Eufrate o dai pozzi. Anche per questo, oltre che nell’area rurale di Damasco, Oxfam concentra qui i suoi sforzi per riattivare l’agricoltura e ripristinare i canali di irrigazione millenari andati distrutti, sostenendo i coltivatori e la produzione e commercializzazione di beni agricoli come formaggio, frutta e ortaggi, mangimi per animali e cereali. Può apparire come un paradosso, ma il nostro è un obiettivo che ha a che fare con la realtà: sostenere l’agricoltura proprio dov’è nata molto tempo fa, al centro della Mezzaluna fertile. Siamo in un contesto tradizionale, il ruolo della donna è limitato. Molte famiglie, a volte allargate, però sono guidate proprio da loro, rimaste sole a farsene carico. Il nostro progetto darà supporto quindi anche ad associazioni che si battono per i diritti delle donne siriane e per un loro maggiore coinvolgimento nei processi decisionali, aiutandole a trovare spazio nella propria comunità e nella società siriana, non solo nei campi o tra le mura domestiche. La sfida di garantire il pane alla popolazione - Per garantire la sussistenza della popolazione siriana è fondamentale allo stesso tempo garantire la disponibilità di prodotti alimentari di base come il pane a prezzi calmierati. In Siria esiste un sistema organizzato di panifici pubblici, che però a causa della drastica riduzione della produzione interna di grano causata dal conflitto (passata da circa 4 milioni di tonnellate nel 2011/12 a circa 1 milione di tonnellate nel 2022/23), non riesce a garantire la quantità di pane minima giornaliera già oggi, e ancor meno riuscirà a farlo in futuro con il rientro di molti sfollati dopo la fine degli scontri. Qualcosa si può fare con l’aiuto di interventi tecnici, come aggiustare il sistema di raffreddamento delle impastatrici, che migliorano la qualità del pane e delle condizioni di chi lo produce. La comunità internazionale continua a girarsi dall’altra parte - Resta deludente intanto la risposta della comunità internazionale per fronteggiare l’emergenza: gli aiuti anche per il 2023 saranno insufficienti. Nel corso della Conferenza sulla crisi che si è tenuta lo scorso giugno a Bruxelles sono stati annunciati 5,6 miliardi di euro sotto forma di sovvenzioni e 4 miliardi come prestiti per la popolazione siriana all’interno del Paese e nei paesi vicini. Una goccia nel mare, di fronte ai reali bisogni di una popolazione costretta ogni giorno a scelte impossibili per poter sopravvivere: comprare cibo o medicine? Mandare i bambini a scuola o farli lavorare? Nel frattempo nei giorni scorsi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non è riuscito a trovare un accordo per la proroga dell’invio degli aiuti transfrontalieri in ingresso nel Paese. Un passo indietro, che adesso mette ulteriormente a rischio la sopravvivenza di milioni di persone. *Referente per le filiere agricole di Oxfam Italia Dieci anni senza padre Dall’Oglio, il gesuita che si è battuto per una Siria pluralista di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 30 luglio 2023 Il ricordo di Mattarella e Meloni, oggi la messa del cardinale Parolin. In un libro di Riccardo Cristiano la ricostruzione della missione presso i capi dell’Isis e il probabile tentativo di proporre un accordo territoriale da parte dei curdi per evitare la tragedia che si è poi realizzata negli anni successivi. Sono passati 10 anni da quando, il 29 luglio 2013, padre Paolo Dall’Oglio è scomparso a Raqqa, nel quartier generale dell’Isis. Il gesuita romano, che oggi viene ricordato in due messaggi dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e con una messa celebrata dal cardinale Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, si batteva - non senza dissensi anche all’interno delle comunità cristiane - per una Siria libera, democratica e pluralista. Mattarella: “Testimone e costruttore di pace” - “Paolo Dall’Oglio, testimone e costruttore di pace, ha fatto sì che la sua fede religiosa non si sia mai espressa come motivo di contrasto”, scrive il Capo dello Stato in una nota. “La sua vita è sempre stata una spinta incessante a ricercare la condivisione, l’incontro, la giustizia, l’unità, in nome della persona, di ogni persona, della sua integrità, della sua inviolabile dignità. Ha sfidato pregiudizi e regimi, ha vissuto con i più poveri, ha percorso coraggiosamente i deserti e i territori dei conflitti, dell’odio, della sopraffazione, per portare speranza e umanità. Per quanto possano apparire inermi, i testimoni di pace sono protagonisti della storia. La memoria della loro presenza e del loro passaggio va tenuta alta, ancor più in una stagione in cui le ferite della guerra insanguinano il Medio Oriente e la nostra Europa”, conclude Mattarella. “Sono trascorsi dieci anni dal suo rapimento, ma la speranza di poterlo riabbracciare non si è mai spenta. Il governo esprime vicinanza ai famigliari, ai cari e ai confratelli di padre Dall’Oglio e rinnova il massimo impegno dell’Italia per riportarlo a casa”, ha dichiarato da parte sua la premier Meloni. “Siamo al fianco delle comunità cristiane sofferenti a causa dei conflitti e delle persecuzioni e facciamo nostre le preoccupazioni espresse dai vescovi siriani per le grandi difficoltà che quotidianamente affronta il popolo siriano”. Anche il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha ricordato il gesuita in una nota, sottolineando che “ha testimoniato con la sua fede l’importanza dei valori del dialogo, della condivisione e dell’aiuto ai più poveri”. Il cardinale Parolin ha celebrato una messa per Dall’Oglio a Sant’Ignazio, la chiesa dei gesuiti a Roma. La Santa Sede cerca di seguire “tutte le piste che possono aprirsi” per ritrovarlo, ha detto il Segretario di Stato, ricordando che nonostante “tutte le informazioni che sono state date, varie, sulla sua sorte, purtroppo dieci anni dopo non si sa ancora nulla di lui”. Silenzi e depistaggi - Gesuita romano, carattere appassionato, fondatore nel 1991 del monastero di Mar Musa in Siria, comunità monastica impegnata nell’amicizia islamo-cristiana, padre Paolo Dall’Oglio era stato espulso dalla Siria nel 2012 dal regime di Assad per il suo appoggio alle primavere arabe, non di rado in dissenso con esponenti locali della comunità cristiana, ed era già tornato due volte clandestinamente in Siria. La seconda volta, nel 2013, si concluse con la sua scomparsa. Sostenitore del moto rivoluzionario che, come in molti altri paesi del Medio Oriente e del Maghreb, diede vita alle “primavere arabe”, e che in Siria solo in un secondo momento fu monopolizzato dai jihadisti, il gesuita si recò a Raqqa per parlare con i capi dell’Isis. La vicenda è tutt’oggi avvolta da incertezze. Non si sa se il gesuita sia ancora vivo. Sono state fatte diverse ipotesi, sono emerse nel corso del tempo testimonianze difficili da vagliare, in alcuni casi probabilmente depistaggi, ha indagato anche la procura di Roma, senza giungere a conclusioni sicure. Il tentativo di negoziare con l’Isis - In un libro fresco di stampa, “Una mano da sola non applaude” (Ancora editore), il giornalista Riccardo Cristiano, amico di Dall’Oglio, tenta di dare una risposta alla domanda che ritiene più importante: “Perché Paolo è andato dai capi dell’Isis”. Secondo il giornalista, che scarta altre ipotesi circolate in questi anni (ad esempio, il tentativo di far liberare singole persone rapite), Dall’Oglio doveva consegnare un messaggio della leadership del Kurdistan iracheno per i vertici dell’Isis, per cercare di fermare la guerra con l’Isis. Un tentativo estremo di mediazione, che il gesuita - Riccardo Cristiano lo sottolinea ripetutamente sulla scorta dell’ultima mail ricevuta da Dall’Oglio - “accettò” sapendo quanto fosse rischiosa. “La conquista della piana di Ninive, la feroce espulsione dei cristiani da Mosul, il genocidio degli Yazidi avvennero nel 2014, cioè l’anno seguente il suo sequestro. Padre Paolo aveva capito che quella sua missione era l’unica speranza per evitare tutto questo?”, si domanda il giornalista, che sottolinea altresì come il gesuita avesse previsto anzitempo “l’arrivo di milioni di esiliati, deportati dalla Siria, a piedi, o su barche fatiscenti, nuovi Enea con i loro Anchise sulle spalle, alla ricerca di una terra amica dove costruire con noi il nuovo Mediterraneo, in fuga da una terra data letteralmente alle fiamme”. Nel libro, presentato tra gli altri in questi giorni da padre Jacques Mourad, oggi vescovo di Homs, amico di Dall’Oglio che a sua volta è stato sequestrato dall’Isis, Riccardo Cristiano scrive che è dunque plausibile che “padre Paolo, dopo varie insistenze, ha illustrato ai vertici dell’Isis un messaggio in cui la leadership dei curdi iracheni con ogni probabilità ipotizzava un compromesso territoriale. Se c’era una speranza per milioni di esseri umani e lui era considerato l’unico che avrebbe potuto accettare una simile missione, poteva rifiutarsi dicendo: “Ho paura?”. La scomparsa dell’emissario conteneva la risposta segreta dei curdi, che solo loro avrebbero capito: “Non ci sono compromessi”. Padre Dall’Oglio conosceva bene l’area, la politica mediorientale, le sensibilità dei diversi attori in campo, “sapeva che molti vicini, anche ostili al regime, tutto desideravano fuorché una Siria democratica ai propri confini”, nota il giornalista amico del gesuita scomparso: “Ma io penso che in quelle ore di angoscia e solitudine, padre Paolo si sia domandato come non fallire la propria vita, e la propria morte”.