C’è un garante per gli ultimi. Ma fino a quando? di Franco Corleone L’Espresso, 2 luglio 2023 Il 15 giugno Mauro Palma ha presentato alla Camera la settima relazione del Collegio del garante dei diritti delle persone private della libertà. Il titolo: “Sguardi che dialogano”. Una lezione di politica alta, un richiamo alla Costituzione, un auspicio di incontro tra istituzioni e società civile. Un discorso che si lega a quello del presidente Sergio Mattarella per l’anniversario della Liberazione, due testi che dovrebbero essere letti nelle scuole e nelle università. È stata l’ultima relazione di fine mandato, ma non si è trattato di un addio formale, piuttosto di una puntualizzazione sulle questioni aperte, rivendicando la linea seguita e ammonendo sull’obbligo della continuità. Palma ha espresso stupore e dissenso verso proposte tese a diminuire la portata del principio della Carta costituzionale rivolto alla reintegrazione sociale del reo. Per essere espliciti: si sta parlando della proposta di modifica dell’art. 27 della Costituzione sulla concezione delle pene e la salvaguardia dei diritti in carcere, primo fra tutti il diritto alla speranza. Nella scorsa legislatura era stata Giorgia Meloni a presentare una secca proposta (la n. 3154, con seconda firma di Andrea Delmastro Delle Vedove, attuale sottosegretario alla Giustizia), che aggiungeva al terzo comma una frase ammonitrice: “La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. In pratica una cancellazione delle misure alternative. In questa legislatura l’onorevole Edmondo Cirielli è tornato sul tema con la proposta n. 285, riscrivendo nell’anno del 75° anniversario della Costituzione il terzo comma dell’art. 75 così: “La pena (al singolare, ndr), che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, assicura la giusta punizione del reo per il fatto commesso e la prevenzione generale e speciale del reato e deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione. Sono stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale”. Questo obbrobrio forse rimarrà nei cassetti, ma va denunciato come tale. Palma sottolinea anche l’alto numero di persone in carcere per pene brevi sotto un anno e ripropone l’ipotesi prospettata da Alessandro Margara di istituire piccole strutture con una gestione dei comuni per realizzare una giustizia di comunità effettiva, al di là dei proclami. Si tratta di ben settemila soggetti: se potessero usufruire di misure sul territorio, si abbatterebbe il sovraffollamento delle carceri e si favorirebbe la reintegrazione sociale. Infine, Palma ha denunciato la nostalgia del manicomio giudiziario e la responsabilità dei magistrati per la bulimia delle misure di sicurezza detentive, conseguenti agli eccessivi proscioglimenti per incapacità di intendere e volere: mettendo così fine all’assurda lamentela sul numero insufficiente di Rems. È la premessa per una svolta: la Società della Ragione ha elaborato una proposta (la n. 1119 dell’on. Riccardo Magi) contro il “doppio binario” del Codice Rocco. Si dice che il ministro Carlo Nordio sia impegnato a individuare il nuovo garante attraverso mediocri lottizzazioni. Per fortuna la responsabilità della nomina è nelle mani del presidente Mattarella. Rivolte e aggressioni, le carceri sono una polveriera di Fulvio Fulvi Avvenire, 2 luglio 2023 Dietro le sbarre ancora violenze, risse, tentate rivolte e aggressioni. La carenza di personale e il caldo dei giorni scorsi hanno fatto salire la tensione nelle carceri italiane, soprattutto in quelle più sovraffollate. È allarme sicurezza: gli agenti di polizia penitenziaria sono sempre più spesso vittime di vessazioni e atti di sopraffazione, tra i reclusi crescono intemperanze, gesti di ribellione e suicidi, arrivati a 34 dall’inizio dell’anno. A Regina Coeli, il principale istituto di pena romano, il clima è diventato incandescente: dopo la mega zuffa di domenica che ha coinvolto una cinquantina di detenuti, molti dei quali armati di bastoni e spranghe, ieri mattina diversi carcerati hanno scavalcato il cortile passeggi per entrare nello spazio limitrofo e prendere a botte i compagni della VII sezione durante l’ora d’aria. Nel frattempo altri detenuti hanno gettato stracci incendiati sull’immondizia e su materassi abbandonati in un magazzino provocando un incendio che si è propagato fino alle lavanderie. Sono dovuti intervenire i vigili del fuoco. “È stata una giornata di follia e la situazione degenera di giorno in giorno”, commenta il segretario del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) del Lazio, Maurizio Somma, il quale ha denunciato anche due gravi aggressioni contro agenti, sempre ieri nel penitenziario trasteverino dove il tasso di sovraffollamento supera il 150%. “Un detenuto, dopo aver discusso animatamente conta moglie ai colloqui, una volta uscito dalla saletta nervoso e agitato - racconta il sindacalista - senza alcuna ragione ha colpito con un pugno al volto un assistente di polizia penitenziaria che si trovava nel corridoio provocandogli la frattura della mandibola e 30 giorni di prognosi”. Poche ore dopo un altro agente è stato assalito da un detenuto armato di un coltello rudimentale senza riuscire, però, per fortuna, a ferirlo. Nella Casa circondariale di Cassino, in provincia di Frosinone, invece, un detenuto di nazionalità egiziana, in uno scatto d’ira si è scagliato contro un sovrintendente prendendolo ripetutamente a schiaffi e causandogli lesioni al viso. Il recluso si era fermato davanti al cancello del suo reparto rifiutandosi di rientrare in cella, il sottufficiale ha cercato di convincerlo ed è stato aggredito. Un fatto simile era avvenuto, nella casa di reclusione di Cassino, appena 20 giorni fa. Al “Lorusso e Cutugno” di Torino un recluso italiano ha dato fuoco alla sua cella e tre agenti intervenuti per mettere in salvo i detenuti della sezione sono rimasti intossicati e trasportati in ospedale. E, ancora, venerdì sera un detenuto del carcere di Arghillà, a Reggio Calabria, ha tentato di impiccarsi con il filo della televisione ma è stato salvato grazie al tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Sull’emergenza carceri, il primo presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, intervenendo a un convegno a Firenze, ha sottolineato che “la restrizione della libertà personale mediante la custodia in carcere deve costituire l’extrema ratio” e “che sono possibili nuove e diverse forme di collaborazione tra autorità giudiziaria, istituzioni penitenziarie, servizi sociali per avviare percorsi rieducativi e di effettivo reinserimento sociale, e che ogni persona ha diritto alla speranza”. Salvati dal lavoro dai detenuti di “Costituzione Viva” La Stampa, 2 luglio 2023 Anche nel 2022 i detenuti lavoratori sono stati circa un terzo del totale dei presenti negli istituti penitenziari, chiarendo subito che si sta quasi sempre parlando di lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (i cosiddetti “lavoranti”), per poche ore al mese e con turnazioni che limitano le prestazioni a pochi mesi, con remunerazioni pari ai due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Il lavoro carcerario, quindi, è poco e per pochi, benché l’Ordinamento penitenziario (Op) lo ponga alla base del “trattamento”, cioè dell’insieme di attività che dovrebbero realizzare il principio rieducativo fissato nell’articolo 27 comma 2 della Costituzione. L’articolo 15 Op stabilisce che ai fini del trattamento, “salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro”. E l’articolo 20 Op, poi, precisa che “devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale”, con la fondamentale specificazione che il lavoro penitenziario deve avere forme organizzative e metodi tali da “riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”. Si tratta di norme però lontanissime dalla realtà, nella quale due detenuti su tre non svolgono alcun lavoro e solo in minima percentuale hanno la fortuna di essere impegnati in prestazioni veramente professionalizzanti e con la realistica prospettiva di un lavoro da liberi. Non sottovalutiamo l’importanza che in carcere hanno i cosiddetti “lavoretti” per conto dell’Amministrazione, in genere a prevalente impronta assistenzialistica: quando si vive una dimensione sovraccarica degli infiniti bisogni della marginalità ed afflitta da cronica mancanza di risorse, anche qualche ora sottratta all’ozio forzato e una limitata remunerazione possono fare la differenza. È altro, però, ciò che chiede l’ordinamento. Il lavoro carcerario, per corrispondere alle finalità trattamentali che gli sono assegnate, deve avere i tratti essenziali del lavoro posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica democratica. Tratti che si ritrovano nell’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono “la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (articolo 3); nel riconoscimento a tutti i cittadini del “diritto al lavoro” (articolo 4); nelle tutele che al lavoro sono garantite “in tutte le sue forme ed applicazioni” (articolo 35); nel diritto a una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza dignitosa” (articolo 36). È con queste lenti che si deve guardare, in campo penale, al lavoro che, in quanto perno del principio rieducativo, contribuisce a definire il “volto costituzionale della pena”. Si potrebbe allora parlare di “volto costituzionale del lavoro”, quale istanza di inclusione sociale, promozione di cittadinanza, contrasto effettivo e credibile dell’illegalità e della recidiva. Un unico e articolato sistema di garanzie e tutele poste a difesa della dignità assoluta delle persone. Certo, nello specifico penale il lavoro non può di per sé garantire, sempre e comunque, esiti positivi; ma è indubbio - e le statistiche lo confermano - che con il lavoro si riducono le derive criminali e la recidiva, i cui numeri impietosi testimoniano tutti i limiti dei nostri sistemi punitivi. Si pongono in questa prospettiva, ci pare, diverse sentenze di giudici del lavoro che da qualche anno riconoscono il diritto al trattamento di disoccupazione (NaspI) da parte di ex-detenuti che abbiano svolto attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Il disconoscimento di questo diritto - si legge in queste sentenze - sarebbe una palese violazione della Costituzione, un comportamento illegittimo e discriminatorio. Negare la prestazione assicurativa contro la disoccupazione involontaria significherebbe impedire al lavoro penitenziario di realizzare la finalità rieducativa che ne è l’essenza, privando il detenuto di questa risorsa proprio nel momento più delicato del progetto di reinserimento sociale. Decisioni così fanno sentire più vicina ed effettiva la dimensione della dignità del lavoro su cui stiamo riflettendo da tempo. Una riflessione fortemente stimolata dalle parole di Papa Francesco (Ilva di Genova, 2017): “Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale”. Parole di grandissima carica ideale e civile che non si lasciano ridurre ad astratte enunciazioni, lontane dalla realtà. Il lavoro come priorità umana è tema di drammatica concretezza che investe anche lo spazio delle carceri e delle pene. Tanti studi e ricerche, con il rigore delle analisi quantitative, mettono in evidenza, per esempio, come l’abbassamento dei tassi di recidiva, anche soltanto di pochi punti percentuali, comporta per il sistema complessivo “dividendi” umani, sociali, economici così consistenti da giustificare ampiamente ogni investimento in formazione professionale e lavoro. Addirittura, considerati gli altissimi costi del crimine, nel rapporto di uno a cinque. Scelte razionali, quindi: calcoli costi-benefici, impatti socio-economici misurabili, investimenti che producono valore e sicurezza. Niente di più lontano da vuote astrazioni o miti buonismi. Pura mitologia, piuttosto, sembra quella di chi parla di lotta all’illegalità, contrasto della recidiva, percorsi di reinserimento senza la più profonda e prioritaria promozione del lavoro, della sua “unzione” di dignità, del suo volto costituzionale. Dentro e fuori dal carcere. L’idea riparativa per un umanesimo penale di Massimo Donini L’Unità, 2 luglio 2023 La pena non solo più come dolore inflitto, il giudice non più solo come dispensatore di mali. Basta con lo stigma nei confronti del reo. È la più grande novità politica degli ultimi venti anni, ma non è la porta per l’ingresso del paradigma vittimario nel processo. La più grande novità politica, non teorica, degli ultimi vent’anni, nel campo della giustizia penale, è l’idea che chi viene punito ha una possibilità straordinaria di riconciliarsi con la società, con la vittima, con lo Stato, mediante condotte attive di tipo riparatorio, o anche risarcitorio, che si sostituiscono in parte alla pena subìta, perché sono una pena agìta. La pena, dunque, non è solo un dolore inflitto, una perdita di diritti. Anche il giudice non è più un semplice distributore di mali aggiunti, quando condanna. Suo compito non è mai di condannare semplicemente (la pena “espressiva-simmetrica”), per quanto la comunicazione pubblica si concentri da sempre su questo limitato e simbolico atto: egli offre un ventaglio di possibilità per risolvere il conflitto sorto dall’illecito, e lo fa, da ora, già nell’atto di pronunciare la sentenza. La persona accusata non deve guardare al magistrato penale con paura o sgomento, espressione di un potere violento che lo vuole estromettere con stigma e biasimo dal contesto civile. E il magistrato che abbia pulsioni punitiviste-giustizialiste non dovrebbe svolgere questo compito giudicante, se non dopo aver conosciuto la realtà del carcere, delle pene alternative, della restorative justice, delle decine di forme di giustizia riparativa, delle sanzioni davvero ripristinatorie-restitutorie- risarcitorie di tipo non penale offerte dal sistema. Egli dovrebbe essere partecipe, invece, della gioia e della responsabilità di restituire alla persona offesa e alla società in tutto o in parte il bene che le è stato tolto o sacrificato o leso, insieme con nuove chances di recupero, di risocializzazione, di riammissione nel contesto sociale per l’autore del reato. Certo non ogni delitto è riparabile pienamente, ma sono possibili condotte sostitutive e alternative a risarcimento e riparazione dell’offesa o riconciliazione con la vittima. C’è un ventaglio di “prestazioni” di “attività di formazione e lavoro”, di progettualità (la “pena-progetto”) che entrano in una declinazione più ampia dei meccanismi che orientano chi ha commesso un reato, se si rende partecipe di tali programmi, alla riconciliazione con i precetti (la “revisione critica”), con la società e con la persona offesa. È una dimensione che obbliga a rivedere la realtà, l’organizzazione e l’idea classica del carcere, che nella sua dimensione “chiusa” e segregatrice è destinato piuttosto alle categorie circoscritte di persone ancora bisognose di neutralizzazione e controllo stretto della pericolosità. Uno degli aspetti più odiosi della c.d. giustizia penale della tradizione è di essere escludente, stigmatizzante e violenta contro il “reo” (brutto termine tecnico che nel codice penale canonico è usato come sinonimo di imputato, e in quello penale statale come sinonimo di responsabile), e non solo contro il delitto, per cui chi ha avuto la colpa o la cattiva sorte di delinquere, o anche solo di infrangere una regola penale, sa che avrà dalla sua parte il difensore, talvolta qualche familiare e amico, ma contro di sé la società e i media. Biasimo, rimprovero e condanna morali lo circondano come un nemico, perché è la sua punizione sacrificale a risolvere il problema sociale del delitto. “Uccidere il capro espiatorio” basterà. Soltanto la Chiesa, per chi crede, nata da un capro espiatorio, è luogo dove trovare conforto umano e perdono, ma anche accoglimento, sia pure di fronte a una resipiscenza declinata come pentimento. La società, invece, esclude e bandisce la persona senza nulla sapere dei suoi moventi, della sua anima, che non interessa il diritto (non esiste più, tecnicamente, l’anima per il diritto) nel momento del giudizio, perché laicamente si giudica il fatto, al quale si collega un soggetto che lo abbia commesso con un “dolo” o con una “colpa” ai quali è estraneo, come componente concettuale di essenza tecnico-giuridica, il profilo della motivazione, dove risiede invece tutta l’umanità di quello che si è commesso. I “motivi a delinquere”, altra espressione quasi sanitaria del codice, appartengono alla dimensione delle circostanze, degli aggravamenti sanzionatori, della gravità del reato, delle prognosi su capacità a delinquere e pericolosità, non al reato in sé e alla sua ordinaria umanità. Nell’universo dell’idea riparativa, invece, spetta al giudicante un compito positivo, non un atto puramente afflittivo-vendicativo. La macchina processuale si può orientare così, da strumento di guerra contro il crimine, a istituzione socialmente utile in senso personalistico. La dimensione retrospettiva e retributiva, in tale orizzonte, conserva peraltro una funzione di limite necessario: è limite perché non si può punire oltre il fatto commesso e la sua gravità; è limite perché non si può estendere nel futuro una sanzione sproporzionata rispetto a quel fatto; è limite perché non si sostituisce l’autore (un giudizio sull’autore, sul tipo di autore) al fatto; è limite, perché nessuna persona è fotografata per sempre, nel suo valore, attraverso il disvalore dell’immagine di un singolo atto o fatto commesso: tutti valgono assai più di quegli atti. È limite, infine, perché è solo quell’atto che costituisce l’oggetto del giudizio nella ricostruzione della c.d. colpevolezza, di quel dolo o di quella colpa che risultano privi di scusanti. Tuttavia, ed è questa un’altra grande novità dell’idea riparativa, ciò che la persona abbia positivamente attuato dopo il fatto, cioè la condotta successiva, il postfatto, cambia la pena e anzi la può in parte sostituire e assorbire. Chi ha riparato e risarcito, del resto, ha sempre avuto un trattamento diverso dalla giustizia penale. Senza doversi dichiarare colpevole. Ma questo faceva parte e fa parte della riparazione “prestazionale” (utilitaristica), a favore della vittima, che lo Stato ora assume come progetto sanzionatorio ordinario da perseguire, da sollecitare, favorire, con tanti istituti (restituzioni e risarcimenti, messa alla prova, condoni e sanatorie, riduzione delle conseguenze dell’offesa, collaborazioni processuali alla ricostruzione dei fatti, forme riparatorie economiche o lavorative, oblazioni allargate nei reati di impresa, etc.). C’è peraltro anche una riparazione di tipo più “interpersonale” o riconciliativa (idealistica) tra autore e vittima, o tra autore e società, che riguarda i rapporti tra le persone e la relazione dell’autore con la violazione dei precetti e dei valori. È il terreno della restorative justice, della mediazione penale. La riforma Cartabia ha disciplinato in realtà, come compito organizzato dallo Stato, e non semplice opportunità dei privati, solo questo tipo di riparazione, sollecitando le preoccupazioni degli avvocati difensori che hanno interesse a salvaguardare la presunzione di innocenza dei loro assistiti, e a non cedere a un clima che li spinga, se non a “confessare”, comunque a gesti o atti che li rivelino colpevoli o remissivi di fronte all’accusa. Nella mediazione penale l’avvocato e il giudice sono estromessi: tutto avviene fuori dal processo davanti a un “mediatore” professionale che, aiutando autore e vittima nell’incontro conciliativo, realizza obiettivi di superamento esistenziale dei conflitti. Se peraltro tutto ha un esito positivo, una breve relazione del mediatore potrà confluire negli atti del processo, con varie conseguenze, di attenuazione e talora anche di esclusione della pena. Sennonché le forme di riparazione sono sempre duplici e quella interpersonale si deve risolvere in qualche prestazione oggettiva se vuole ottenere benefici processuali. Non basterà una dichiarazione positiva del mediatore. Gli avvocati hanno nel processo una permanente debolezza di fronte all’autorità a volte violenta della magistratura. È comprensibile che si possano sentire estromessi da meccanismi che volessero sollecitare atteggiamenti processuali “remissivi”. Li devono contrastare se tutelano posizioni di non responsabilità. La mediazione penale è fatta per situazioni tipiche di giudizi abbreviati, patteggiati, per reati colposi o dove sono in gioco questioni processuali, o di qualificazione giuridica etc., oppure per l’esecuzione penale, dove è ormai esaurito il giudizio sul fatto. L’idea riparativa non è e non deve diventare la porta per l’ingresso del paradigma vittimario nel processo: la vittima non è protagonista, ma testimone, oppure parte cha aziona interessi civili. Se dunque appare del tutto esagerata l’aspettativa che la restorative justice (riparazione interpersonale) risolva i problemi della giustizia penale, considerati i limiti oggettivi e costituzionali del suo impiego di fronte alla presunzione di innocenza dell’imputato, che la azionerà nel processo solo quando abbia interesse, tuttavia l’idea riparativa nel suo complesso (prestazionale e interpersonale) rimane una novità assoluta di cui tutti, avvocati e magistrati, ma anche consociati, dovrebbero rallegrarsi. È la cultura del punire, nel suo complesso, che può cambiare in senso umanistico, ma anche con esiti positivi e concreti per l’eliminazione o la riduzione delle conseguenze dei reati. Ulpiano (170 circa-228 d.C.), all’inizio delle Regulae (I,1-2) definisce “perfetta” la legge che vieta che qualcosa sia fatto e, se viene fatto, lo annulla; “imperfetta” la legge che non applica né una sanzione né un effetto di annullamento per un atto ad essa contrario; “meno che perfetta” la legge che, vietando qualcosa, sanziona il comportamento che la trasgredisce, ma non annulla gli effetti dell’illecito. Adottando questa classificazione è ovvio che il diritto penale appartiene al novero delle leggi meno che perfette. Sua caratteristica essenziale sinora, infatti, è stata quella di aggiungere un male al male commesso come conseguenza certa o principale, lasciando che la riparazione della ferita, della lesione, dell’offesa prodotta dal delitto o rimanga irrisolta perché sarebbe impossibile un suo annullamento, o resti affidata alla buona volontà o all’iniziativa dei privati, perché scopo o interesse principale dello Stato non era che alla fine del suo intervento risulti necessariamente un saldo positivo, un risarcimento, una riparazione, un ripristino, come accade per es. in diritto civile e in parte in quello amministrativo: questa eventualità promossa e sperata non elimina il raddoppio o comunque un aumento del male che è l’unica conseguenza certa dell’intervento penale, posto che nessuno può sapere - e semmai si può spesso ipotizzare il contrario - se la pena avrà effetti di emenda, rieducazione o risocializzazione. La risposta penale-criminale è sempre un quid pluris rispetto a un contenuto risarcitorio o riparatorio ritenuto insufficiente. Orbene, l’idea riparativa, oggi, rappresenta esattamente la sottrazione al momento simmetrico-retributivo classico di una parte di “pena” che, offerta al responsabile, indagato, imputato o condannato, si inserisce nel rapporto tra autore, vittima e società definendo in modo libero e non coartato una soluzione che riguarda una vicenda non solo “privata”, ma lo stesso riconoscimento del precetto e dei valori, offrendo anche prestazioni concrete, dove possibile, alle persone offese o per la riduzione dei pericoli o dei danni da reato. Il penale non è più solo un male aggiunto, ma una istituzione socialmente utile nel suo essere distinta da rimprovero, condanna, esclusione e segregazione. Queste dimensioni punitiviste resteranno, antropologicamente e giuridicamente, al suo interno, ma non potranno più occupare l’immagine unitaria e disumana delle pene e delle condanne. Chi scommette sulla riparazione, oggi, ha davanti a sé una società punitiva diversa e capace davvero di includere in modo utile, concreto e umano. Chi la contrasta rimarrà nell’orizzonte di quella legge non solo meno che perfetta, dove lo Stato non si assume i compiti di restaurare nulla con le pene, limitandosi a una relazione autoritaria non dialogica, ma afflittiva tra Stato e “reo”: una logica che, peraltro, è attualmente superata tecnicamente da ormai troppe regole del diritto positivo, sostanziale e processuale, nazionale e internazionale, che offrono un riscatto diverso dalla pena simmetrica. Rifare il processo se il giudice va via, l’Anm ci prova: “Rinviamo tutto” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 luglio 2023 La novità, prevista dalla Cartabia, è in vigore da ieri ma gli uffici, secondo le toghe, non sono pronti. Articolo 495, comma 4-ter del codice di procedura penale: “Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze”. È questa novità della riforma Cartabia in vigore da ieri il nuovo pomo della discordia tra Anm e ministero della Giustizia. Secondo la giunta esecutiva centrale del sindacato delle toghe, la nuova norma “avrebbe imposto la tempestiva adozione di soluzioni tecnologiche adeguate” che al momento non sono disponibili. Facciamo un passo indietro: fino al 2019 l’avvocato poteva chiedere la rinnovazione dell’esame testimoniale dinanzi al nuovo giudice, il quale era obbligato a disporla. Questo perché era ritenuto fondamentale consentire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, emersi durante l’esame e il controesame. Invece a seguito della sentenza Bajrami (41736/19) delle Sezioni Unite della Cassazione, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avrebbe dovuto essere disposta caso per caso dal giudice sulla base di una valutazione personale. Quest’ultima decisione con la Cartabia viene superata, perché torna il diritto di riottenere l’esame testimoniale se cambia il giudice, a meno che esso non sia stato videoregistrato. Se però il nuovo giudice ritiene necessario, sulla base di specifiche esigenze - ad esempio quella di dover porre lui stesso delle domande al testimone - anche in presenza di videoregistrazione, potrà chiedere di riascoltarlo. Fatta questa premessa di scenario, si legge in una nota della Gec, che “la direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del ministero della Giustizia - Dgsia - si è limitata a comunicare, qualche giorno fa, che nel “breve termine” si dovrà fare ricorso al sistema Teams - i cui limiti sono stati ampiamente sperimentati nel periodo di emergenza sanitaria -, il che costringerà gli operatori del processo ad improbabili acrobazie che, con tutta la buona volontà, non riusciranno ad assicurare un servizio efficiente”. L’Anm quindi denuncia il fatto che “in mancanza di strumentazione idonea e di costante ausilio tecnico nelle aule di udienza, sarà pressoché inevitabile il ricorso alla verbalizzazione tradizionale, con la conseguenza di dover procedere a rinnovazione dell’istruttoria in tutti i casi di mutamento del giudice”. Le toghe sottolineano come sia “quasi superfluo evidenziare l’incongruenza di una simile evenienza con gli sforzi che si stanno compiendo per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, e in specie per la riduzione dei tempi dei processi penali” e chiedono che “si differisca l’entrata in vigore della nuova disposizione codicistica”. Fonti di via Arenula ci fanno sapere che al momento il differimento non è all’ordine del giorno, in quanto “stiamo verificando in concreto la situazione degli uffici”. Secondo Giovanna Ollà, avvocato penalista e segretario del Consiglio nazionale forense, “il problema posto dall’Anm in merito alle problematiche connesse alla carenza degli strumenti di videoregistrazione non riguarda oggi il ministro Nordio, ma deriva dell’accelerazione data dalla riforma Cartabia ai processi di informatizzazione degli uffici giudiziari, probabilmente senza fare i conti con la necessità (preventiva) di implementazione delle strutture informatiche che sarebbero state e sono necessarie anche in vista del raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. Ma questo vale per tutti gli ambiti: basta ricordare la preoccupazione manifestata dal Cnf per i primi approcci al processo penale telematico intervenuti nel periodo della emergenza sanitaria ed in ragione di questa, con enormi difficoltà degli avvocati e non solo, catapultati in una realtà pressoché sconosciuta senza neppure aver avuto il tempo di dotarsi di una adeguata formazione. Quindi la criticità è e resta a monte”. Più critico il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che innanzitutto ci dice “di non conoscere i dettagli dell’incontro avuto tra Anm e ministero della Giustizia su un tema delicatissimo che per la verità meriterebbe di vedere tra gli interlocutori innanzitutto gli avvocati penalisti. Sul tema del mutamento del giudice in corso di processo la riforma Cartabia ha avuto il grande merito di ristabilire almeno i principi fissati dalla Corte costituzionale rispetto alla inaccettabile giurisprudenza delle Sezioni Unite. Qualunque pretesa di interferire anche solo temporaneamente su questo recupero dei principi costituzionali vedrà l’avvocatura penalista scendere in campo con grande determinazione”. Questa modifica operata dalla Cartabia era stata fortemente voluta dall’Ucpi, che avrebbe voluto però anche qualcosa in più, ovvero che la videoregistrazione fosse resa pubblica durante l’udienza con le parti. Non essendo previsto un obbligo nella normativa attuale, non esiste tuttavia la certezza che il giudice guardi la videoregistrazione in camera caritatis. In realtà qualche giurista sostiene che interpretando la norma in un certo modo si possa chiedere la riproduzione della videoregistrazione in aula con le parti presenti. Un’altra proposta avanzata dalle Camere penali era quella di adottare con autonomo provvedimento legislativo, avente il carattere dell’urgenza, interventi modificativi a livello di ordinamento giudiziario che imponessero che il giudice potesse cambiare sede solo quando ha esaurito il ruolo delle cause già iniziate, come già previsto in una circolare del Csm, ma mai applicata sostengono i penalisti. “Sulla riforma avvocatura inascoltata. L’abuso d’ufficio? Impatto modesto” di Emanuele Buzzi Corriere della Sera, 2 luglio 2023 Il segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense di Marco: riaprire un tavolo? è sempre possibile. “La riforma? si tratta di una riforma della riforma. Quindi, delle due l’una: o era sbagliata quella prima o lo è quella attuale”: a parlare è Giampaolo di Marco, segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense. Di Marco sottolinea che “l’impatto delle modifiche al Codice sul contenzioso penale, proposte in tema di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite è davvero molto modesto visto l’ambito di applicazione possibile delle due norme in questione. Le modifiche si applicano in casi del tutto residuali”. Secondo lei che effetto avrà? “L’’effetto reale di questo intervento normativo, lungi dall’essere di pregio sul piano giuridico, è più volto ad incontrare il favore della politica ed in particolare degli amministratori locali degli enti pubblici territoriali, soprattutto in vista dell’intensa azione amministrativa che si apprestano a realizzare in vista della messa a terra del Pnrr”. Cosa manca alla riforma? “Non c’è un disegno generalizzato, anche sulla questione della giustizia di prossimità non c’è un progetto. L’importante è avere come obiettivo la certezza del diritto. Le proposte dell’avvocatura sono rimaste inascoltate”. Crede che sia possibile riaprire un tavolo con il ministro? “Certo. c’è sempre tempo per fare una riforma della riforma della riforma. L’importante è farla nell’interesse dei cittadini”. Il caso Micciché e le riforme inutili: una inaccettabile violazione della vita privata di una persona di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 2 luglio 2023 La divulgazione di intercettazioni telefoniche che mettono brutalmente in piazza la privatissima vita dell’on. Miccichè, sebbene a costui non si contesti alcuna condotta penalmente illecita, almeno ci aiutano a mettere ordine nel surreale dibattito che si è aperto da alcuni mesi sul tema. La premessa è tanto semplice quanto decisiva: le conversazioni di cui stiamo parlando sono riportate nella ordinanza di custodia cautelare eseguita a carico degli indagati, tra i quali un noto ristoratore siciliano che, nella ipotesi accusatoria, spaccerebbe droga, rifornendo, tra gli altri, anche l’on. Miccichè. Si tratta dunque di intercettazioni utilizzate dal giudice perché da questi ritenute rilevanti a sostegno della ipotesi accusatoria. Ed è innegabile che, in una indagine a carico di un presunto spacciatore, le telefonate che intercorrono con i presunti acquirenti costituiscano un elemento indiziario di rilievo decisivo. La conseguenza che dobbiamo trarne è altrettanto agevole: si tratta di intercettazioni utilizzate perché ritenute rilevanti dal Giudice e che pertanto, almeno nel loro sommario contenuto, sono tranquillamente pubblicabili, sia alla luce della normativa vigente, sia alla luce della appena licenziata (dal Governo) riforma Nordio. Chi dovesse ritenere - a ragion veduta, aggiungo io - che questa pubblicazione costituisca una inaccettabile violazione della vita privata di un signore al quale non si addebita alcuna colpa, capirà ora bene che la prospettata riforma non risolve minimamente il problema. Eppure, non sarebbe difficile. Come? Beh, almeno onerando Pm e Gip dell’obbligo (disciplinarmente sanzionato) di “anonimizzare” nella richiesta di misura cautelare e nella ordinanza, la identità di soggetti non indagati e tuttavia necessariamente coinvolti nelle conversazioni ritenute rilevanti ed utilizzabili. Fermo restando, come è ovvio, il successivo dritto delle parti processuali di poter riservatamente identificare quei soggetti indicati con mere sigle, ai propri fini difensivi. Qualunque altra fumisteria sulla tutela della privatezza dei c.d. “soggetti terzi” lascia il tempo che trova. Così pure scorrono come l’acqua sui sassi tutti i possibili nuovi divieti che ci si affanni ad immaginare, se non si mette seriamente mano all’unica cosa che invece nessun riformatore osa nemmeno sfiorare: una efficace sanzione della violazione dei divieti. Che oggi è - anche nella riforma Nordio - di una manciata di euro, cioè nulla. Né occorre immaginare inutili e discutibili sanzioni penali. Basterebbe una seria, robusta sanzione pecuniaria, accompagnata da sanzioni disciplinari incidenti sull’esercizio della professione, come accade in ogni altra professione: ammonizione, diffida, sospensione, radiazione, a seconda della gravita e della recidiva. Ma qui nessuno osa, con questa surreale conclusione: che da un lato si grida, senza un po’ di pudore e di senso del ridicolo, alle “leggi bavaglio” (due o trecento euro di sanzione al massimo); e dall’altra, si annunciano salvifiche quanto immaginarie riforme, finalmente a tutela della privacy e della riservatezza delle conversazioni. Di chi non si sa, ma dell’on. Miccichè no di sicuro. Piemonte. Le 4 inchieste che scuotono il mondo delle carceri di Giuseppe Legato La Stampa, 2 luglio 2023 Tutto è partito da Torino, ma ben presto altre indagini per tortura e violenze hanno travolto le case circondariali di Ivrea e Biella. La strada (giuridica e investigativa) è stata aperta da un giovane - ma già esperto - pm di Torino che nel 2019, ricevendo una dettagliata segnalazione della garante dei detenuti Monica Gallo, decise di andare a fondo su una storia in cui c’erano tutti i presupposti per contestare almeno il reato di tortura, introdotto con la legge 110 del 2017. Il caso esplose nell’estate del 2020 e costò la testa dei vertici del carcere di Torino. Vennero trasferiti, oltre che indagati per favoreggiamento e omessa denuncia di una serie di agenti che al telefono si vantavano delle botte ai detenuti: “L’altra sera dovevi vedere! Sembrava Israele anni Cinquanta”. Cosi un secondino raccontava alla fidanzata le “imprese” che poi erano spedizioni punitive. Secondo le accuse, gli agenti avrebbero umiliato e picchiato con calci e pugni i detenuti reclusi per reati a sfondo sessuale e avrebbero indossato i guanti, in modo da non lasciare tracce. “Preferivano colpire allo stomaco e non alle braccia, dove i lividi sarebbero stati visibili”. In un episodio, poi, avrebbero versato del detersivo per piatti sul letto di un detenuto; in un altro caso, si sarebbero fatti consegnare gli atti del processo, leggendo i capi di imputazione ad alta voce davanti agli altri reclusi. Nei prossimi giorni l’ex direttore dell’istituto di pena Domenico Minervini e l’ex comandante della polizia penitenziaria dell’epoca Giovanni Battista Alberotanza conosceranno l’esito del processo a loro carico. Il pm Francesco Pelosi, in un’articolata requisitoria, ha chiesto rispettivamente un anno e un anno e quattro mesi di carcere. Gli episodi di tortura si sarebbero verificati tra aprile 2017 e ottobre 2019 nel padiglione C del carcere torinese, quello in cui sono ristretti i cosiddetti “Sex offenders”. Gli imputati si sono difesi, respingendo le accuse. Ma quell’inchiesta - per questo motivo antesignana - ha aperto la strada ad altre indagini su diversi penitenziari piemontesi travolti da condotte - in ipotesi d’accusa - violente e degradanti verso i detenuti messe in atto da agenti (una minoranza sul totale, va detto). Le due inchieste sul carcere di Ivrea - Torture, si legge nei titoli di reato contestati. È il caso del penitenziario di Ivrea finito al centro di due diverse inchieste. La prima della procura generale di Torino (che aveva avocato un fascicolo già aperto dalla procura eporediese e destinato all’archiviazione per prossima prescrizione) e che conta 45 indagati. Il Procuratore Generale Francesco Saluzzo e il sostituto pg Giancarlo Avenati Bassi hanno rimesso mano valorizzando prove e testimonianze. Agli atti si legge di “braccia spezzate, detenuti svenuti per il dolore”. Gli indagati avevano refertato cosi: “Caduta accidentale da scivolamento su acqua”. La seconda inchiesta è dei pm di Ivrea guidati dalla procuratrice Gabriella Viglione, conta 45 indagati a vario titolo anche per tortura: Racconta un detenuto agli inquirenti: “C’era un tunisino ristretto in una cella in isolamento. Si feriva i polsi con le lamette. Gli agenti lo guardavano e gli dicevano: “Tagliati, quando poi hai finito ce lo dici”. Le violenze nella casa circondariale di Biella - Stesso copione a Biella dove gli agenti indagati sono 23. Recentemente il Tribunale del Riesame ha riammesso al lavoro praticamente tutti. I giudici parlano di violenze, ma non di torture. Il ragionamento dei togati porta a pensare che si possa parlare di “lesioni gravissime, ma non di altro”. Le procure hanno impugnato le pronunce e si è in attesa di conoscere l’esito in Cassazione. Napoli. Poggioreale, anche 8 in una cella: è emergenza sovraffollamento di Mariella Parmendola La Repubblica, 2 luglio 2023 In sette o otto in una cella per quattro detenuti. Vivendo con il caldo di questi giorni di fine giugno in uno spazio stretto, dove il cucinino per farsi da mangiare e il gabinetto sono a poca distanza l’uno dall’altro. Lo sguardo di Ivan Scalfarotto, in visita ieri al carcere di Poggioreale, cade più volte sui luoghi affollati del penitenziario, quando un ragazzo ferma il parlamentare di Italia Viva e chiede al direttore Carlo Berdini che lo accompagna: “Quando potremo tornare a giocare nel campo di calcio?”. Il senatore è stato per due ore nell’istituto penitenziario più popolato d’Italia. A Napoli l’emergenza sovraffollamento continua. Sono 2040 i detenuti rispetto ai 1600 previsti, 440 in più. “Ed è tutto troppo vecchio, andrebbe programmata una ristrutturazione generale” sottolinea Scalfarotto tracciando un bilancio della sua visita. Una mattinata in cui ha incontrato anche chi si trova nell’ala di massima sicurezza, perché accusato di fare parte della criminalità organizzata. Il parlamentare del partito di Renzi è arrivato intorno alle undici nel carcere napoletano ed è andato via dopo le tredici. Prima di Poggioreale è stato nelle carceri di Torino, Milano e Bologna: “È un mondo invisibile alla maggioranza e invece è la cifra della democrazia. In passato sono stato anche a Roma”. Quindi il raffronto è automatico: “A Napoli come situazioni di degrado siamo nella media degli altri istituti. A rendere tutto più complicato è però la condizione della struttura e gli spazi. Nelle stanze da due vivono in modo estremo. Sono veramente strette”. Eppure nonostante la situazione di emergenza quella richiesta arrivata da un giovane detenuto non lo sorprende. “Per quel ragazzo, da poco arrivato dal carcere minorile, non è facile. Dovrà restare lì molti anni. Perciò la sua maggiore preoccupazione è recuperare un po’ di vita normale. Ha gli stessi desideri di chi è fuori” spiega il senatore. Ma al momento le partite sono annullate, c’è un problema alla pavimentazione del campo e devono essere fatti i lavori. Come sarebbe necessario ovunque. “Quello che colpisce di Poggioreale è la condizione di sovraffollamento e il fatto che si tratta di un edificio troppo vecchio. Pensato senza i criteri della modernità. Le docce ad esempio sono ancora a vista. Nonostante ci sia grande attenzione alle condizioni della vivibilità da parte della direzione”. A risentirne di più sono le attività formative che dovrebbero servire nel post detenzione a chi è stato in cella per trovare un lavoro o il suo posto nella società. “Ho visitato la falegnameria, i laboratori e la tipografia, che ad esempio è molto bella. Ma i detenuti sono troppi. Una piccolissima percentuale riesce ad essere inserito”. “In un laboratorio - spiega - c’erano 25 detenuti che seguivano un corso di formazione per operai. Ma ci si ferma all’uno per cento”. E in questo caso scatta di nuovo il raffronto con le altre realtà nel Nord Italia. Riflette Scalfarotto: “Lì svolgono un ruolo anche gli imprenditori. Si tratta di carceri dove ci sono quasi esclusivamente stranieri e problemi di mediazione culturale. A Napoli mi ha colpito come siano quasi tutti campani, ma le criticità dell’economia esterna si riflettono dentro. A Bologna in carcere ho trovato una fabbrica. A Poggioreale il nulla”. Trapani. Nel carcere di c’è un reparto dove non batte il sole di Sergio D’Elia L’Unità, 2 luglio 2023 È l’isolamento. Si trova nella parte più bassa e buia dell’istituto, le celle misurano 2 metri per 4. Nella cella 7 c’è Domenico che dice: “Mi impicco tutti i giorni”. La sezione porta il nome del colore del mare quando è calmo e del colore del cielo quando è sereno. Ma il blu non si addice proprio alla realtà di un luogo di isolamento dove non splende mai il sole, l’anima è sempre in pena, il contatto umano è ridotto a zero. È una pena dell’anima non solo per l’uomo privato della libertà, ma anche per il suo custode, condannato innocente a un lavoro forzato alla vista quotidiana del degrado umano e ambientale. Non basterebbe la sentenza europea più illuminata e generosa a risarcire il danno che un solo giorno di “vita” nel “reparto blu” del carcere di Trapani provoca al detenuto e al “detenente”. Il prezzo della tortura, del trattamento inumano e degradante inflitto all’uno e all’altro, è impagabile. Il reparto si trova nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Le celle misurano due metri per quattro. La luce filtra a mala pena da una finestrella di 50 centimetri per 40 posta in alto a 25 centimetri dal soffitto. Una fila di sbarre e l’aggiunta di una rete a trama molto fitta impediscono anche all’aria di scorrere libera. Nella stanza, tutto è piantato alla parete o al pavimento di cemento: branda, tavolo, sedile, armadietto, lavabo. Il “cesso” è a vista: a volte si tratta di una tazza, altre volte il water è incastonato in un blocco di cemento, altre ancora il gabinetto è alla turca. L’ora d’aria può avvenire uno alla volta in una vasca di cemento di due metri per nove, con le mura altissime e la rete sopra come quella di un pollaio. In fondo al cortile c’è una piccola tettoia per ripararsi dalla pioggia e una “turca” per i bisogni senza un rubinetto da cui scorra dell’acqua. Nella cella numero 7 è rinchiuso Domenico, che parla in continuazione. È in cura psichiatrica da un anno e mezzo, e attende che si liberi un posto nell’Articolazione Tutela Salute Mentale di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel frattempo continua a compiere atti di autolesionismo. È pieno di cicatrici soprattutto sulle braccia. “Mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni. Sei o sette volte sono riuscito ad andare in ospedale, uscendo da questo inferno”. Due settimane fa ha tentato nuovamente il suicidio. Per questo è sorvegliato a vista. La scena della cella numero 15 è davvero dura da sopportare. L’ambiente è cupo, sporco, maleodorante. Dal nome sulla targhetta, Momodou, si capisce che la persona è arrivata in Italia dopo chissà quali traversie da un paese dell’Africa nera. È da molti mesi in questa cella, quasi sempre appollaiato sull’angolo del tavolo di ferro piantato al muro. È nudo e con una coperta sulle spalle. Non parla, a tratti biascica qualcosa, ha una piccola reazione solo alla pronuncia del suo nome di battesimo. La branda di ferro fissata al pavimento è priva di materasso, lenzuola e cuscino. C’è un water ma Momodou non lo usa. I suoi bisogni li fa per terra, sul tavolo, addosso. Dal cancello esce un rivolo di urina. È un altro evidente caso psichiatrico, anche se una perizia lo ha dichiarato del tutto capace di intendere e volere. In questo “manicomio” c’è anche Gabriele, un ragazzo di 24 anni che però - caso più unico che raro - è capace sia di intendere sia di volere. Nel “reparto blu” non è possibile fare la spesa alimentare; si può acquistare solo acqua, bagnoschiuma, sigarette; pure il caffè, anche se non si può usare il fornellino. Per cui il detenuto usa uno stratagemma riempiendo un pentolino d’olio, dando fuoco a pezzetti di carta e piazzandoci sopra la moka: “e il caffè dopo un po’ se ne esce”. Gabriele è da due anni e mezzo nell’istituto di Trapani e ha una condanna a una pena di 15 anni. Ha già fatto il secondo superiore e intende prendere l’indirizzo alberghiero o per geometri. Si augura sia accolta la sua istanza di trasferimento nelle case di reclusione di Noto o di Brucoli. “Ho bisogno di preparare il mio futuro e sono disposto anche ad andare lontano dalla famiglia in reclusori del Nord per avere maggiori possibilità di studio e di lavoro”. È la seconda volta in quattro mesi che visitiamo il carcere di Trapani e torniamo in questo reparto di isolamento, dove nulla è cambiato, che non può essere riformato, va solo abolito. Il nostro “viaggio della speranza” nei luoghi di privazione della libertà naufraga in questo cimitero dei vivi, degli abbandonati da Dio e dagli uomini. L’opera di misericordia corporale “visitare i carcerati” e il motto “despondere spem, munus nostrum” della polizia penitenziaria, paiono un’impresa vana in questo posto senza pace, senza grazia, senza speranza. Anche se non v’è, all’ingresso della sezione, un avviso come quello sulla porta dell’inferno, la dura realtà balza subito agli occhi appena ne superi la soglia. La scritta terrificante “Lasciate ogni speranza voi che entrate” la vedi sui muri, sui volti, negli occhi degli “internati” nel manicomio che abbiamo abolito fuori mezzo secolo fa e che abbiamo oggi concentrato qui dentro, nel “reparto blu” del carcere di Trapani. Palermo. “La protesta dei boss in carcere? Sovraffollamento e falle creano falsi paladini” di Alessia Candito La Repubblica, 2 luglio 2023 L’ex direttrice dell’Ucciardone e del Pagliarelli, Rita Barbera: “Il problema è sempre come si pone l’amministrazione”. “Noi direttori di carcere sappiamo chi all’interno dell’istituto ha la leadership e sappiamo che non possiamo riconoscerla”. Direttrice dell’Ucciardone e del Pagliarelli fin dagli anni duri del maxiprocesso e quelli bui delle stragi di mafia, fra i primi a portare biblioteche, laboratori e progetti negli istituti che ha diretto, Rita Barbera il mondo del carcere lo conosce bene. “E proprio per questo non mi posso sbilanciare su quello che è successo al Pagliarelli durante il lockdown”. Secondo quanto emerso dall’inchiesta della procura di Palermo sui boss del Villaggio Santa Rosalia, nei mesi più duri della pandemia i boss del quartiere, che all’interno dell’istituto contavano anche su dei detenuti lavoranti, avrebbero organizzato manifestazioni di protesta per ottenere un allentamento delle restrizioni. La questione - si legge nelle carte - sarebbe stata discussa nel corso di un incontro chiesto alla direttrice del carcere e subito ottenuto. Lei cosa avrebbe fatto in questa situazione? “Non si tratta di una dinamica anomala. È una pratica che i detenuti spesso hanno tentato di adottare, soprattutto durante le situazioni di emergenza. Il problema è sempre come si pone l’amministrazione”. Nel caso specifico lo ha fatto in maniera corretta? “Mi mancano troppi elementi per poter giudicare. Bisogna capire quale sia stato l’esito, se questi benefici sono stati ottenuti e da chi. All’epoca ero già in pensione, potevo solo pensare alle difficoltà che stavano attraversando i miei colleghi”. Per sua esperienza, è particolarmente complicato gestire i detenuti di mafia? “La situazione è molto cambiata. Una volta c’erano pressioni psicologiche, minacce più o meno velate. Adesso anche i detenuti di mafia preferiscono vie più formali: istanze dei loro avvocati, ricorsi, domande. Hanno capito che il gioco non vale la candela, che rischierebbero troppo. Chiaramente, questo non vuol dire che meccanismi subdoli, pressioni psicologiche, episodi di corruzione del personale non esistano più”. Come mai non si riescono a scardinare? “Si tratta di meccanismi di subcultura carceraria che di fatto replicano quelli dei quartieri da cui molti dei detenuti provengono. Anche per questo, inizialmente è stata immaginata una separazione fra i detenuti di mafia che stanno in Alta sicurezza e i “comuni”. Ma è sempre relativa”. In che misura? “In Alta sicurezza si va per reati di mafia, ma ci sono boss condannati su contestazioni diverse. In quel caso, la separazione non esiste”. In questi casi, come si proteggono i detenuti comuni da possibili prevaricazioni e angherie? “Tocca all’amministrazione penitenziaria trattare e far sentire tutti come eguali, disconoscere le posizioni di potere”. Nei suoi anni da direttrice lei aveva un “metodo”? “Dare a tutti le medesime possibilità, opportunità e prerogative: un colloquio, un incontro, l’accesso a un laboratorio. Nessuno si doveva sentire privilegiato. Ci perdevo le notti a pianificare tutto in modo che nessuno potesse anche solo percepire di aver avuto qualcosa in più o in meno degli altri. È anche una misura di sicurezza”. Per quale motivo? “Se tutti sanno di avere le stesse possibilità non hanno motivi di prendersela con il personale o con chi ritengono un privilegiato. Di base però molti in carcere non ci dovrebbero neanche entrare”. Cosa intende? “Chi finisce in carcere oggi? Di colletti bianchi ne ho visti pochi e mai in numero sufficiente da cambiare la composizione sociale degli istituti. Poi ci sono i mafiosi, certo. Ma doprattutto tantissimi che si macchiano di reati figli di marginalità, emarginazione sociale, disagio anche psichico. Per loro il carcere dovrebbe essere vietato”. Cosa lo impedisce? “Ci vogliono volontà politica e progettualità per creare percorsi alternativi, strutture di cura e accoglienza. Per evitare che i più deboli diventino vittime delle dinamiche del carcere, bisogna evitare che ci entrino”. E i mafiosi? “Per loro il carcere dovrebbe essere ancora più duro di quello che è oggi. In una situazione di sovraffollamento non si riesce veramente ad incidere su personalità così forti, così importanti, come può essere quella di un detenuto per mafia. Sono persone che nelle falle, nelle inadeguatezze, nell’incapacità del sistema trova il modo per ergersi a finti paladini o far valere la pressione psicologica che sono in grado di esercitare. E purtroppo non abbiamo plotoni di psicologi o di educatori in grado di mettere in discussione questa cultura, che è radicata non solo in carcere ma nel nostro territorio”. Verona. Don Vinco: “Le torture in questura? Siamo incapaci di cogliere l’altro” di Angiola Petronio Corriere Veneto, 2 luglio 2023 Il Garante dei detenuti: “Certi atti di violenza vìolano e distruggono la dignità della persona”. “Non dobbiamo nasconderci che c’è una dimensione di violenza gratuita che fa parte della struttura e del sistema”. Lui è don Carlo Vinco. Quel garante dei detenuti della casa circondariale di Montorio il cui compito è “garantire la piena attuazione dei diritti e degli interessi delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale”. Il “ponte” tra chi sta in galera e chi è fuori. Ma anche il “ponte” tra chi la legge la dovrebbe far rispettare e chi la infrange. Confini a volte labili. Tanto da essere travalicati, come è accaduto per i 5 agenti della squadra volanti arrestati (uno, nel frattempo, è poi tornato libero) con l’accusa di torture e ai loro 17 colleghi indagati per averli, in vari modi, coperti in quelle violenze contro stranieri, alcolizzati e senza fissa dimora. Ne ha parlato, don Vinco, in un incontro pubblico organizzato dal Pd che ha riempito la sala in ci si è tenuto. E lui, il garante dei detenuti di Verona, ha scardinato gli alibi. “Credo - ha detto che serpeggi una frustrazione che dipende dal tipo di lavoro e di relazioni, nonché da una preparazione non adeguata”. Don Vinco, quello di agente di polizia non è sicuramente un lavoro facile, ma quanto che è accaduto ha portato alla luce come anche in quell’ambito ci sia chi la divisa, la “giacca blu”, la onora e chi la sporca col proprio comportamento... “La mia esperienza è naturalmente legata al carcere, dove la situazione è sempre molto pesante, difficile. È un lavoro davvero estenuante. C’è qualcuno che chiaramente è negativo nei modi di fare, ma c’è tanta gente che il lavoro lo fa seriamente, in maniera anche costante nel mantenere i compiti che ha. Ed è spesso una situazione non gratificante. Ci sono anche degli eventi, come i suicidi in cella (4 da quando don Vinco è garante, ndr) che suggeriscono come bisognerebbe avere per gli operatori di polizia un sostegno più stabile e più importante dal punto di vista psicologico e motivazionale”. Certo è che quanto accaduto, proprio a fronte di tutti quegli agenti che il loro compito lo svolgono correttamente anche in mancanza di quei sostegni, non è giustificabile... “Assolutamente. Certi atti non sono mai giustificabili. Il problema grosso è proprio la perdita che si crea della dignità della persona. Va fatto un distinguo tra forza e violenza. Ci sono atti di forza che possono non violare la dignità della persona e ci sono atti di violenza che assolutamente la vìolano e distruggono la dignità. non necessariamente sono azioni crudeli. Possono anche essere parole, giudizi...”. Quali possono essere gli anticorpi? “Credo che fondamentale in tutte le attività, non solo in questa, sia una formazione permanente che ci aiuti anche a capire l’evoluzione delle situazioni che abbiamo davanti. Io non parlerei di razzismo, ma di incapacità di cogliere il valore dell’altra cultura e delle altre modalità. Un’incapacità che abbiamo tutti e questo è proprio un fatto culturale importante. Credo che noi vogliamo non essere razzisti nel senso di violazione dell’altro, ma ignorare la differenza, ignorare il valore dell’altra persona proprio nella sua originalità, è un dato culturale veramente pericoloso, che ci avvilisce reciprocamente”. Cosa insegna la storia di Verona? “Credo che sia una storia che purtroppo non è assolutamente unica. Intanto può insegnare a tutti noi un po’ più di attenzione che ci aiuti a pensare a cosa sia lo Stato. Lo Stato di diritto, la sua forza, ma anche la miseria dello Stato”. Da dove, secondo lei, si può ripartire? “Lo si può fare intanto parlandone e facendoci reciprocamente capire le situazioni. Ci sono anche strumenti tecnici - dalle telecamere alle bodycam - che hanno il loro valore e possono servire a far conoscere meglio le situazioni. Poi bisogna uscirne con la testa e con il cuore. C’è in polizia chi è un’ottima persona, di testa e di cuore. E c’è sempre anche lì come dappertutto chi non lo è”. Alessandria. Carcere, idee in fuga che cambiano la vita di Valeria Vantaggi vanityfair.it, 2 luglio 2023 Idee in fuga è una cooperativa sociale nata nel carcere di Alessandria con l’obiettivo di creare lavoro per i detenuti, dentro e fuori le mura. Qui ne parla Fulvio Buoncristiani, che, dopo anni passati dietro le sbarre, ora progetta un nuovo futuro. Il lavoro serve a tutti, ma a loro forse anche di più. Quando si passano anni in galera, uscire è certo una gioia, che, però, fa anche molta paura. Che cosa fare? Come ripresentarsi al mondo? Là fuori è difficile che ti accolgano a braccia aperte, difficile trovare uno spazio, con quel passato che ingombra. È un problema diffuso, che coinvolge tutti gli ex reclusi e “Idee in fuga” è nata per questo: una cooperativa attiva nell’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria, impegnata a creare, appunto, opportunità di lavoro sia mentre i detenuti stanno scontando la loro pena sia, soprattutto, quando escono dal carcere. Il lavoro - lo dicono diversi studi e pubblicazioni scientifiche - è un potente strumento per abbattere la recidiva: una volta usciti di prigione tre detenuti su quattro commettono reati, e ritornano dietro le sbarre. Creare opportunità di formazione professionale è uno dei modi migliori per attivare un vero processo di cambiamento. Se si va da Fuga di Sapori, la bottega in corso Roma 52 ad Alessandria, messa in piedi dalla cooperativa “Idee in fuga”, ben si capiscono tutte le possibilità. Qui carcerati ed ex carcerati mettono in vendita quello che hanno imparato a fare: i taralli Maresciallo, il panettone Maskalzone, le Sbarrette di cioccolato e le tante birre prodotte attraverso la nascita del primo luppoleto di un carcere, 400 metri quadrati e 300 piante, dove ogni anno vengono organizzate meravigliose cene per supportare le attività della cooperativa a favore dei detenuti e delle loro famiglie. Fulvio Buoncristiani, torinese di 42 anni, in quella bottega ci lavora con orgoglio. Dopo quattro anni e mezzo di detenzione non era semplice ricominciare: “Ero verso la fine della pena, quando, grazie all’art. 21, mi è stato concesso un lavoro all’esterno. Ed è stato un passaggio importantissimo per me. Quando si è dentro si diventa molto abitudinari, si fa fatica a socializzare e si finisce per perdere troppi punti di vista: uscire da lì richiede riprendere in mano”. Questo lavoro nella bottega dà a Fulvio una prospettiva di futuro, che lui non aveva mai avuto: “Quando ero ragazzino facevo l’ambulante con i miei genitori, poi ho lavorato nella ristorazione a Roma e in un servizio catering a Pescia, in Toscana, ma le cose non sono andate come avrei voluto. Mi hanno messo dentro per tentata estorsione”. Della sua vita - dice - non cambierebbe nulla: “Fosse andata diversamente non sarei quello che sarei oggi. Per carità, su alcune cose starei più attento, altre le migliorerei, ma anche ciò che di brutto mi è successo mi ha dato insegnamenti importanti. Non voglio tirarmi indietro, ho imparato ad accettare il mio passato, pronto oggi a presentarmi per quello che sono, con tutta la mia storia sulle spalle”. Oggi è un’altra persona, orgoglioso di essere diventato il riferimento per la bottega, di averne le chiavi e gestire la cassa: “Il fatto che mi abbiano dato le chiavi per me è stato importantissimo, una dimostrazione di fiducia che mi ha fatto ripartire. Mi hanno assunto e ho uno stipendio regolare: senza questa opportunità chissà come avrei fatto.... Devo ringraziare anche l’associazione Betel, che, quando sono uscito di prigione, mi ha dato uno spazio abitativo a spese zero. Per me è stata una mano santa. Ora riesco a pagarmi un affitto e riesco a condurre una vita normale, ma non è immediato e se non avessi ricevuto un aiuto, non so dove sarei finito. Avere un lavoro ti aiuta a non perderti, a non cadere là dove eri già caduto, serve a stancarsi durante il giorno e a dormire di sera”. Fulvio si dice appagato: “Vorrei che le persone potessero vedermi come esempio: se ci si impegna con i giusti modi, se ne può uscire, superando quello che sembra insormontabile”. Anche se qualche amarezza c’è e Fulvio qualche sassolino vuole toglierselo: “Io ce l’ho molto con lo Stato. C’è una giustizia troppo tardiva: se hai sbagliato è assolutamente giusto che paghi per quello che hai fatto, però la pena non può avvenire con troppi anni di distanza. Se un reato l’ho fatto quando avevo 20 anni e mi condanni che ne ho più di 30, nel frattempo potrei essere diventato un’altra persona”. E tra i desideri che Fulvio ha oggi c’è quello di incontrare suo figlio, che non vede da anni: “Mi emoziono solo all’idea. Mi sto facendo accompagnare da uno psicologo, non voglio sbagliare, non voglio dare problemi né a lui, né alla sua mamma. Intrufolarsi in una vita dopo così tanti anni di assenza è tosta: non lo vedo da quando aveva un anno e oggi ne ha 17. Vorrei che lui sapesse che se un giorno vorrà vedermi, io ci sarò, pronto ad abbracciarlo. Non ho niente da nascondere, non voglio tenere segreti. Con il tempo ho imparato a stare in ginocchio, a capire il valore dell’umiltà. So che cosa vuol dire cadere e so quanto sia importante saper dare una mano: l’hanno fatto con me e io ora voglio farlo con gli altri”. E se dovesse dire un grazie, lo direbbe ai suoi titolari: “Sono eccezionali, più educatori che datori di lavoro. Mi hanno permesso di ricominciare a vivere”. Spoleto (Pg). “La cultura rompe le sbarre: incontro tra finzione e realtà” rai.it, 2 luglio 2023 Un progetto per il Festival dei Due Mondi. “La cultura rompe le sbarre: incontro tra finzione e realtà” è il progetto con cui Rai Per la Sostenibilità-ESG sarà presente a Spoleto al Festival dei Due Mondi 2023 sabato 1° luglio. L’iniziativa è nata lo scorso anno sia per promuovere e sostenere le attività culturali all’interno degli Istituti penitenziari - con particolare riguardo al teatro - sia per sottolineare il racconto che la Rai offre su questa difficile realtà sociale, non solo attraverso l’informazione giornalistica, ma anche con strumenti artistici come le fiction. L’incontro tra finzione e realtà sarà infatti il filo conduttore della giornata, organizzata in collaborazione con Rai Fiction sull’onda del grande successo di “Mare fuori” (una coproduzione Rai Fiction e Picomedia). Si parte dall’incontro presso il carcere di Maiano tra alcuni attori del cast e gli attori detenuti della Compagnia #SIne Nomine, impegnati nella realizzazione dello spettacolo teatrale “Sogni di una notte di mezza estate”. L’incontro sarà documentato dalla Tgr Umbria. Si prosegue presso la Rocca Albornoziana con un fitto pomeriggio a tema che si apre con l’anteprima dello spettacolo “Sogni di una notte di mezza estate”. A seguire l’inizio di un panel che prenderà le mosse dal racconto dell’incontro della mattina tra i detenuti per fiction e i detenuti reali, per proseguire con i contributi degli sceneggiatori di “Mare fuori” e di vari rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria. Infine, la presentazione del catalogo fotografico della mostra sul teatro in carcere “Je est un autre”, realizzato da Giorgio Flamini che firma anche la regia dello spettacolo della Compagnia #SIne Nomine. Perché sui social non si riesce a parlare di povertà di Ray Banhoff L’Espresso, 2 luglio 2023 Clima e diritti civili funzionano e, almeno per brevi periodi, “bucano” l’attenzione. Le difficoltà economiche no. Perché l’imperativo sulle piattaforme è essere (o sembrare) i più fighi. Serve ancora a qualcosa manifestare in piazza? Fino a qualche decennio fa il mondo conosceva delle manifestazioni in grado di attirare l’attenzione dei governi e di influenzarne le scelte, oggi il tempo di vita di una notizia è molto più breve. Le piazze sono il luogo d’incontro di ambientalisti e cause civili. Ma precari, gente con stipendi troppo bassi, partite Iva, gente che non riesce a pagare le bollette… perché loro non manifestano? O meglio, perché le loro manifestazioni sono così meno rilevanti nel dibattito pubblico? Avete presente i ragazzi nelle tende di cui L’Espresso è stato tra i primi a parlare, alzando la voce contro il caro affitti? Sono già spariti dai radar dei media, nonostante le loro ragioni fossero più che legittime. Il motivo è sempre il solito: le notizie hanno una vita sempre più breve. Ma c’è anche altro, a mio avviso. Attivisti del clima, sostenitori delle cause Lgbt+, dov’è che tutte queste persone che non si conoscono si incontrano e che queste cause diventano globali? Sui social network. Sui social tutto quello che ruota attorno alle lotte civili è trending topic (un argomento di tendenza visualizzato e condiviso da milioni di persone), ovvero funziona. Anche perché sulle piattaforme esprimere un’opinione sul cambiamento climatico o sui diritti civili è molto utile per dare agli altri una visione di noi, un posizionamento. La bandierina arcobaleno nella foto del profilo ci dice subito chi abbiamo davanti, ci fa capire in che cosa crede. Guardiamo altre cause per cui potremmo strigliare i potenti o richiamare l’attenzione: la benzina troppo cara, le bollette troppo care, gli affitti troppo cari, gli stipendi troppo bassi, il precariato, la sanità che funziona male, la giustizia che è un casino. Certo, sono anche questi temi che interessano milioni di persone, ma non ce la vedo proprio la gente sui social a parlare di quanto è inguaiata e di come fa a campare finendo lo stipendio troppo in anticipo solo per pagare l’asilo dei figli e le bollette. Non è cool. C’è uno stigma rispetto alla povertà, che è la criptonite sociale per eccellenza. La ricchezza è un top trend, non la povertà. Lo è almeno sulle maggiori piattaforme, dove vige un imperativo: essere i più fighi del mondo. C’è chi mostra le sue vacanze in barca, chi si licenzia dal lavoro castrante, c’è gente che fa yoga, ci sono motivatori, c’è cibo raffinato in posti esclusivi, ma non ci sono indebitati che sventolano ai quattro venti i loro guai. Ecco, mi immagino quanto repellente per le persone sarebbe vedere un loro amico che si dichiara povero, depresso perché non arriva alla fine del mese. Santo cielo, come quelle pubblicità di donazioni ai bambini poveri mandate strategicamente in onda all’ora di cena. Che cosa dovrebbero fare le persone, inviarti dei soldi? Invece, così come si fa outing sull’omosessualità o su qualche forma di intolleranza subita, dovremmo farlo anche sulla povertà. Internet è la più grande invenzione del secolo scorso e, a oggi, è quasi interamente rimpinzata di stupida pornografia. Miliardi di terabyte di donnine nude, uno spreco enorme. I social network potevano essere la più grande piattaforma rivoluzionaria di sempre, al momento sono un palco per milioni di persone focalizzate solo su un obiettivo: diventare esse stesse un brand. Come direbbe Christian De Sica: “Ma che è ‘sta cafonata?”. Quelle periferie abbandonate tra droghe, esclusione e violenza di Francesca Fagnani La Stampa, 2 luglio 2023 La politica deve intervenire prima che il disagio esploda in modo così drammatico. La premier passi dalla retorica dell’underdog ai fatti, e anche la leader Pd dia risposte. Michelle e il suo carnefice sono entrambi figli di un dio minore, figli di una periferia da intendersi come luogo di esclusione e di distanza non solo geografica, ma soprattutto sociale e culturale, dove se nasci sfavorito resti tale e non c’è nemmeno nulla di eroico a cui appigliarsi, perché diciamolo nella vita ti deve dire fortuna anche a nascere underdog: esserlo troppo o alla latitudine sbagliata non funziona. Michelle Maria Causo per esempio era nata nella periferia ovest di Roma, nelle case popolari di proprietà dell’Ater a Torrevecchia, meglio conosciute come il bronx di Primavalle; il perché vengano chiamate così è molto chiaro per chi ci vive, ma il concetto viene ribadito anche con lo spray sui muri dei diversi lotti, dove compaiono le scritte “108 bronx” o “6 bronx”, accanto a quelle inneggianti il duce, alle croci celtiche e al grido di esultanza “alalà”. Casermoni grigi e comunicanti, divisi l’uno dall’altro da pennellate verdi, azzurre e gialle e al centro quattro torri di 15 piani, alcune senza citofoni, perché li hanno bruciati, come hanno dato alle fiamme l’ascensore. “Perché qualcuno fa i dispetti, quando viene mandato via male”, racconta una ragazza che vive in una delle torri. Dentro è un via vai di acquirenti, prendono la dose e se ne vanno. Ogni tanto qualcosa va storto e allora scoppiano risse e rappresaglie. “I celerini arrivano ma tanto mica possono fa’ niente, infatti quelli li guardano e se mettono pure a ride’, c’hanno vent’anni di denunce alle spalle e non è mai cambiato nulla”. Dall’altra parte della strada, nascoste nel verde incolto, spuntano baracche e carcasse di automobili, mentre nei giardinetti, i cassonetti strabordano di tutto e quei carrelli dei supermercati abbandonati ovunque fanno venire i brividi dopo quello che è successo a Michelle. Era nata qui, a via Paolo Emilio Sfrondati, in un contesto complesso, da genitori con qualche problema di droga, forse alle spalle. Il diciassettenne cingalese che l’ha uccisa con sei coltellate alle spalle, al collo e all’addome viveva -prima di essere portato via dalla Squadra Mobile di Roma- a un paio di chilometri di distanza in linea d’aria da lì, a Primavalle, che non è certo una zona facile ma non è considerata né soprannominata il bronx, anche se mentre mi spostavo da una parte all’altra, in via Battistini, all’angolo con via dei Monti di Primavalle un uomo in macchina urlava ad un altro che si era buttato fuori in ginocchio: “Ti ammazzo, se non mi porti i soldi entro due ore, giuro che ti ammazzo”, prima di sgommare e lasciare l’altro lì terrorizzato. L’assassino di Misci, O. come compare nelle cronache di questi giorni, passava la giornata sui social, giocava a fare il piccolo narcos, tra immagini violente e droga che a quanto pare vendeva anche attraverso la piattaforma, mentre la madre era fuori a fare le pulizie nei condomini, come faceva da una vita senza poter contare sull’aiuto di nessun altro. “Era solo un suino” ha detto ancora sporco di sangue ai poliziotti, riferendosi al cadavere di Michelle occultato in un sacco nero; “ho fatto una cazzata” ha ammesso poi senza la capacità di versare una lacrima, senza pervenire nemmeno per un attimo alla consapevolezza della gravità di quello che aveva fatto. Possibile che nessuno si era preoccupato per questo ragazzo minorenne sballato e con precedenti per rapina che spacciava sotto agli occhi di tutti? Possibile che nessuno si è occupato di una ragazza diciassettenne che lo frequentava e che stava accumulando troppe assenze a scuola? Ma quando una famiglia non funziona o non ce la fa, a chi tocca il compito di gestire le fragilità e la devianza giovanile tanto più quando si manifestano in modo così eclatante? Gli operatori sociali sono troppo pochi e mal distribuiti nelle zone di maggior malessere sociale e la scuola, come la famiglia, ha perso da tempo la funzione di agenzia educativa. Questa di Primavalle prima di essere un bruttissimo fatto di cronaca nera, è una storia di abbandono che dovrebbe attirare l’attenzione della politica e di chi ha la possibilità di intervenire prima e strutturare una rete che intercetti il disagio dei giovani prima che esploda in modo così drammatico. Sarebbe interessante ricevere a riguardo una proposta da parte della premier Giorgia Meloni, affinché dalla retorica dell’underdog si passi finalmente ai fatti, così come pure sarebbe opportuno riceverla dalla segretaria del Pd Elly Schlein, che l’altro giorno ha dato il via alla sua campagna militante sul salario minimo dal Pigneto, il quartiere periferico più cool di Roma, con un bel giro di gente del cinema, tra bar e ristoranti alla moda. Qualche anno fa il Pd guidato da Maurizio Martina inaugurò la sua direzione -con telecamere e fotografi al seguito- a Torbella Monaca, poi lì da quel giorno non si sono più visti. Ci auguriamo che le periferie tornino al centro della politica e non solo della propaganda, altrimenti della morte di una ragazzina di diciassette anni resterà a terra solo la solita guerra tra poveri che si intravede già nei commenti di questi giorni e negli insulti rivolti non solo all’assassino, ma anche ai suoi familiari: “Vi facciamo scappare dall’Italia”. Non basta lasciare che se la cavino da soli. Quei ponti oltre la violenza di Concita De Gregorio La Repubblica, 2 luglio 2023 Dovremmo avere tutti una cultura democratica che ci consenta di generare educazione, scuola, possibilità di riscatto e di lavoro. No, non è perché questo era arabo. Perché quello era nero. Non è soltanto razzismo, pregiudizio dei bianchi. La violenza che le maggioranze armate di potere esercitano sulle minoranze che non ne hanno alcuno, di potere, è un modo di concepire le relazioni fra gli uomini e di stabilire l’ordine nelle comunità che ci riguarda tutti, contagia ogni cosa, diventa un modo di pensare e un rassegnato accettare. Finché una volta qualsiasi, un giorno qualunque, non esplode la rivolta. Ci vuole sempre il morto, perché accada. Da sempre. Ma le cose stavano così da prima, da moltissimo tempo prima. Era la norma. Era un sistema di caste, di condizioni sociali ed economiche talmente dispari da essere nemiche le une delle altre. Nemiche tra loro persino le ultime, in una guerra fra ultimi. Ci riguarda tutti, quel che succede in Francia, perché tutti siamo minoranza di qualche maggioranza. Tutti siamo esclusi da qualche circolo che include. Certo: qualcuno è più escluso di altri. Talmente escluso e invisibile, irrilevante o fastidioso che finisce che gli sparano. Ma tutti abbiamo fatto esperienza di non avere accesso a un diritto elementare, di essere scavalcati o eliminati o ignorati da chi fa parte del club che comanda, che assegna lavori e case e posti a scuola in base alle amicizie, ai circoli, alle parentele e alle convenienze. Quindi tutti, a sforzarci un poco, possiamo riconoscere nell’ordine corrente delle cose una forma di sopruso. Una negazione strutturale del principio democratico perché a che altro serve, una democrazia, se non a integrare chi parte da condizioni di svantaggio. A eliminare o per lo meno ridurre fino a che possibile le disparità di condizioni date alla nascita, di opportunità di crescita, di occasioni di lavoro e di vita. Quale altra è, la sfida di questo nostro tempo all’imbrunire, se non riaccendere la luce sulle grandi ingiustizie. La capacità di illuminare quel che accade nei luoghi dove non c’è corrente, nella penombra di periferie delle città, nei mondi dove si sopravvive - non si vive, non si cresce, non si spera di andarsene da lì né di rendere quel luogo, addirittura quello, un luogo degno. Che cos’altro distingue una democrazia di un paese evoluto e civile da un luogo senza legge, o dalla legge del tiranno, se non lo sforzo di accogliere, integrare, mescolarsi, istruire. Educarsi gli uni agli altri. Riuscire a farlo senza prepotenza, senza violenza perché ogni prepotenza è una miccia potenziale. Nelle carceri, nelle strade, nei vicoli, nei mari, ovunque chi possa esercitare il suo potere su un altro essere umano lo fa senza timore di essere messo al bando, lo fa anzi nella convinzione di essere nel giusto e nell’approvazione sociale. Dettata dalla paura, naturalmente. Perché la paura, forma suprema di debolezza, detta la musica. Dall’integrazione degli esclusi passa la capacità di riscatto delle democrazie. Che non sono in buona salute, è evidente. Annaspano, sovente corrotte, di fronte alla voce brutta dei populismi, alle sirene dell’uomo forte che risolve i problemi per tutti - che sollievo, no?, delegare, lasciare che siano altri a pensare per noi. Ma che pericolo, anche. Come lo racconteremo, ai nostri nonni che si sono fatti torturare per garantire le nostre libertà. Come diremo scusa, ma è stato tutto inutile: siamo di nuovo lì. Siamo ai tuoi vent’anni, settant’anni dopo. Che altro possiamo fare invece se non promettere loro, o giurare sulle loro tombe, che continueremo a dirlo a voce alta e fino allo sfinimento, quel che ci hanno lasciato in dote, e pazienza se siamo minoranza. Tutti, certo, vedete: tutti siamo in qualche modo minoranza. E allora? Bisogna forse rinunciare? Bisogna scendere in piazza e devastare, incendiare biblioteche pubbliche, rispondere con rabbia alla rabbia e con morti ad altri morti? Certo che no. La parola, è quel che abbiamo. La parola che sappia arrivare dove non arriva più da tempo, togliere dalle orecchie la musica in cuffia e tornare ad ascoltarsi. Si sono svolti ieri i funerali di Nahel, che aveva 17 anni e non si è fermato a un posto di blocco. Direte: doveva fermarsi. Sì, certo. Se avesse avuto esperienza di rispetto reciproco, se le forze dell’ordine avessero una reputazione democratica, se non avesse avuto paura di essere picchiato, privato di parola o peggio perché la cronaca ce lo dice ogni giorno, in ogni luogo del mondo a partire dall’America, presunta esportatrice di democrazia, che ti ammazzano, invece, spesso. Ti inginocchiano e ti picchiano, per strada o in una cella, ti riducono al silenzio. Quindi sì, si doveva fermare. Ma siamo sicuri di aver creato le condizioni per cui un minorenne di origine araba si senta al sicuro, quando una pattuglia lo ferma? Chiediamocelo: siamo sicuri? Il funerale si è svolto nella moschea di Nanterre. Nahel faceva il fattorino per un fast food, giocava a rugby, studiava per diventare elettricista, viveva da solo con la madre in un sobborgo di Parigi. Probabilmente aveva commesso qualche illecito, in passato. Non so, suppongo. I vostri figli cresciuti in famiglie medio borghesi, alto borghesi non commettono illeciti? Non bevono non fumano non comprano sostanze illegali nella piazza sotto casa non superano il limite di velocità con le grandi macchine prese in garage o a noleggio? Siete molto fortunati, perché tanti invece lo fanno. Però alcuni si sentono più in pericolo di altri, a un posto di blocco. Magari non possono chiamare il padre o un avvocato, recarsi velocemente all’estero se sospettati. Quelli che diffidano della giustizia la rifuggono. Quindi il problema è generare giustizia giusta. Un sistema di controlli che non sia fondato sulla sopraffazione ma sul rispetto degli esseri umani. Chiedo. Domando a voi. Abbiamo un sistema di controlli e un sentire comune che esclude categoricamente che ci possano essere abusi di potere da parte della polizia? Abbiamo una cultura che ha eliminato ogni pregiudizio verso le minoranze? Abbiamo generato condizioni di vita che garantiscano l’integrazione delle prime ma ormai delle seconde e terze generazioni? Abbiamo dato loro cittadinanza? Perché se lo abbiamo fatto siamo tutti d’accordo. Un adolescente di periferia di colore o religione diversi da quella di chi gli intima l’alt deve fermarsi rispettosamente a un controllo. Nessuno gli sparerà in testa. Neppure lo picchierà nella cella durante l’interrogatorio. Ma se non ce l’abbiamo, questa cultura democratica diffusa - è solo un’ipotesi, un esercizio dialettico - allora forse dobbiamo lavorare su questo. Generare educazione, scuola, possibilità di riscatto, di lavoro non nero ed equamente pagato che facciano sentire tutti al sicuro. Che diano a tutti una possibilità di cambiare le condizioni assegnate in partenza. Che lascino ciascuno libero di decidere cosa è famiglia, cosa è essere padri ed essere figli, cosa è comunità: in un quadro condiviso di diritti e di doveri. Siamo a posto col compito? Abbiamo già fatto questo? Se invece la forza e il dettato del più forte sul più debole fosse la regola, sempre per ipotesi, allora saremmo a rischio. Di incendio, di devastazione, di rivoluzione violenta. Non è con la proibizione che si elimina il rischio, come sa chiunque abbia fatto di nascosto qualcosa che non doveva - cioè tutti, in qualche momento della vita. Non è creando barriere ma costruendo ponti che si genera una comunità. È banale, me ne scuso. Lo abbiamo detto mille volte, i nostri nonni ce lo spiegavano senza mai entrare nel dettaglio delle loro sofferenze. Ma appunto: siamo in grado di rispondere loro? Nonna, nonno, tranquilli. Abbiamo capito. Migranti, piccoli calcoli in Europa. Il dramma resta in alto mare di Paolo Lambruschi Avvenire, 2 luglio 2023 È emergenza in mare per i migranti ed è di nuovo emergenza politica nella Ue. L’esito del Consiglio europeo di ieri conferma che sul tema chiave migratorio, quello dell’accoglienza, l’Europa e i governi nazionali sono divisi, immobili e senza idee. Concentrati su future maggioranze a Strasburgo a un anno dalle elezioni più che sui drammi cui stiamo assistendo da gennaio con circa 1.300 tra morti e dispersi. I numeri spiegano dove sta la vera emergenza. Lampedusa sta accogliendo in queste ore oltre 3.200 migranti, numero otto volte superiore alla capienza del centro di contrada Imbriacola. Nell’ultima settimana di giugno sono approdati sulle coste italiane oltre 5mila persone, stando agli ultimi dati del cruscotto statistico del Viminale, e purtroppo dai racconti dei profughi emerge che vi sono molte persone disperse. Siamo a quota 65mila arrivi da gennaio, in sei mesi sono arrivati quasi gli stessi migranti del 2021. Quando l’attuale premier Meloni e il vice-premier Salvini chiedevano un giorno sì e l’altro pure le dimissioni del prefetto Lamorgese, predecessore al Viminale del prefetto Piantedosi. È evidente oggi come allora che non è colpa del ministro degli Interni se gli sbarchi proseguono, perché le partenze avvengono dalla Tunisia e dalle due Libie e la politica europea di pagare i capi banda libici o i dittatorelli d’uomini forti sulle rotte migratorie per fare da polizia di frontiera ha fallito. L’emergenza vera è questa. Le persone in accoglienza nei centri italiani al momento sono infatti 120mila, non una cifra che possa credibilmente mettere in crisi un Paese di 60 milioni di abitanti. E l’Italia non è il centro di accoglienza d’Europa. Basta confrontare le domande di asilo con quelle degli altri Paesi europei l’anno scorso per vedere che siamo solo quarti. Il dramma dunque è in mare. L’Ue, come ha dimostrato il già archiviato, tragico naufragio di Pylos, non è stata capace di coordinarsi per i salvataggi, mentre Roma ha reso la vita difficile alle Ong obbligandole a fare centinaia di miglia di navigazione supplementare per portare nei porti indicati le persone soccorse. Parlare di politica unitaria di accoglienza tra i 27 è tabù, come prova l’intangibilità del regolamento di Dublino, che obbliga i migranti a restare nello Stato Ue di primo approdo. Non va meglio sulle sponde del Mediterraneo, dove il fallimento europeo sul contenimento degli sbarchi è visibile in queste ore con le partenze dal Nordafrica che si intensificano molto probabilmente per ragioni politiche. La Tunisia del presidente Saied sta forzando per ottenere aiuti economici da Roma e Bruxelles che le consentano di evitare il default, lanciando proclami xenofobi che alimentano i viaggi dei subsahariani. La Libia orientale di Haftar e quella di Tripoli considerano i migranti l’asset che ha sostituito i dividendi del petrolio distribuiti alle tribù fedeli dal vecchio Rais, il colonnello Gheddafi. Quindi campano prendendo soldi e motovedette dall’Italia e dall’Europa per fermare i migranti e al tempo stesso chiedendo riscatti alle famiglie di quelli sequestrati e sottoposti a torture. Anche sulle rotte migratorie africane la situazione è grigia, la vecchia politica di stipendiare regimi autoritari per svolgere il ruolo esternalizzato di polizia di frontiera non regge più. La guerra civile in Sudan, dove i mercenari della Wagner sfruttano le miniere d’oro in Darfur, e la sostituzione dei francesi in Mali e Burkina Faso, Africa occidentale, sempre con i mercenari della Wagner, hanno cambiato scenario: i flussi crescenti sono destinati a essere usati come arma. In un quadro più complesso di 12 mesi fa, l’Europa è stata capace solo di litigare e alzare muri, la cui efficacia si può misurare a Ventimiglia, dove passano migranti per lo più destinati nei Paesi del civilissimo Nord a lavoro nero e sfruttamento. L’unica alternativa a queste scelte fallimentari è tornare a una politica europea unitaria capace di includere e governare l’immigrazione con vie legali e corridoi umanitari. Politica che richiede elettori esigenti. Proviamo a ripensare ai padri dell’Unione, da De Gasperi ad Adenauer a Schumann, fino a Kohl e Mitterrand, tutti capaci di darci libertà e non muri e slogan. E di sognare un futuro di pace e democrazia realizzato con la buona politica. Quel futuro che oggi è indissolubilmente legato all’Africa. Migranti. Il piano Nordio-Piantedosi per rimpatriare subito ivoriani e tunisini di Francesco Grignetti La Stampa, 2 luglio 2023 L’incontro tra i due ministri, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, è di giovedì scorso. Si sono visti al Viminale perché c’è una urgenza che ora investe i due ministri: l’immigrazione clandestina. Dal decreto Cutro e anche dall’accordo europeo di Lussemburgo di questi giorni, discende infatti una svolta normativa che deve essere concretizzata. L’idea del governo Meloni è di riuscire là dove finora hanno fallito tutti, rimpatriando sul serio una quota di migranti irregolari. E per arrivarci si sono modificate alcune norme cruciali. Le domande di asilo di richiedenti che provengono da Paesi considerati relativamente sicuri, saranno esaminate in tempi rapidissimi. Nell’attesa, i richiedenti saranno però rinchiusi in alcuni hotspot che avranno cancelli sbarrati e alte mura. Da questi hotspot non si uscirà facilmente. E se le domande dei richiedenti asilo saranno respinte, si pensa addirittura nel giro di qualche settimana, le persone dovrebbero essere riportate indietro in quanto meri migranti economici. Per riuscire nel piano, però, occorre non solo che il ministero dell’Interno costruisca velocemente quattro nuovi hotspot in Sicilia e Calabria, ma che poi siano operativi un numero congruo di funzionari prefettizi che esaminino le richieste e un numero altrettanto congruo di giudici di pace che convalidino l’espulsione coatta. Il governo Meloni, insomma, vuole far vedere alla opinione pubblica e all’Europa che qualcosa accade sotto la regia della destra. E che non si accolgono passivamente gli sbarcati. Tanto più che i numeri continuano a crescere inesorabilmente. Perché il cerchio si chiuda, però, è necessario che anche il Paese di origine sia disponibile a riprendersi i suoi cittadini. E qui il meccanismo si bloccherà perché sono pochissimi gli accordi di riammissione stipulati tra l’Italia e i Paesi da dove partono i migranti. Ce n’è uno che funziona abbastanza con la Tunisia. Uno che funziona male con l’Egitto. E uno che è stato appena firmato con la Costa d’Avorio, da mettere alla prova. A scorrere le statistiche più recenti, in effetti, la Costa d’Avorio (con 7.291 sbarchi da inizio d’anno) è diventata la prima nazionalità dei clandestini che arrivano in Italia via mare. Seguono la Guinea, l’Egitto, il Pakistan, il Bangladesh, la Tunisia. La strategia del governo Meloni è presto detta, quindi: dimostrare che i rimpatri funzionano, trasformare il record negativo della Costa d’Avorio in un un record positivo, e quel punto spingere per altri accordi simili con il Burkina Faso, il Mali, il Camerun, la Guinea. Tutti Paesi dell’Africa occidentale che attraverso la rotta tunisina si affacciano sempre più vigorosamente in Europa dalle coste italiane. Ovviamente al Viminale sanno bene che però un Paese poverissimo come la Costa d’Avorio accetterà di cooperare con l’Italia solo se vede una sua convenienza. E qui si guarda al mitico Piano Mattei, ai fondi della Cooperazione, ad accordi sull’agricoltura, a quote robuste di migrazione legale attraverso il Decreto Flussi. La scommessa di Giorgia Meloni comincia da qui. Matteo Salvini fallì clamorosamente quando promise mezzo milione di rimpatri. Era una sparata delle sue. Ma è anche vero che Salvini era “solo” un ministro dell’Interno. Pacifista in Ucraina, il mestiere più duro: “Mi chiamano traditore” di Mao Valpiana Il Manifesto, 2 luglio 2023 Parla Yurii Sheliazenko, leader del Movimento nonviolento a Kiev “Rischio la vita, ma non mi faccio intimidire dai guerrafondai. Putin e Zelensky restano supremi negazionisti della pace e cercano la vittoria sul campo. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, quindi li fanno letteralmente saltare”. Lavora come consulente legale freelance, giornalista e scrittore, è stato ricercatore e docente di Diritto alla Krok Univesity, vive a Kiev. Barba e capelli lunghi, sempre un po’ trafelato, è il punto di riferimento in Ucraina del movimento pacifista internazionale. La sua organizzazione nonviolenta fa parte di Ebco/Beoc, l’Ufficio Europeo per l’obiezione di coscienza e della War Resisters International. Tra i suoi progetti, tradurre e diffondere in Ucraina i testi sulla nonviolenza di Gandhi e Capitini. Yurii, come va? Che vita stai facendo da quando è iniziata la guerra? Mi chiamano traditore, mi vengono rivolte minacce, rischio la vita, viene fatto pubblicamente il mio nome come nemico. Non mi lascio intimidire da tutto questo. Io mi esprimo contro i guerrafondai, contro tutti coloro che vogliono fare la guerra. La mia casa a Kiev è stata scossa dalle esplosioni di missili russi nelle vicinanze e le sirene dell’allarme aereo mi ricordano, giorno e notte, che la morte vola sopra la testa. Tuttavia, con il nostro movimento aiutiamo i civili a sopravvivere, continuiamo a sostenere l’abolizione del servizio militare obbligatorio, portiamo avanti studi sulla pace e cooperiamo con il movimento internazionale per la pace. Che succede dopo lo scontro di potere tra Putin e Prigozhin? Prigozhin non si è indebolito, ha salvato le sue sanguinose fortune, ha consolidato il suo esercito di mercenari e gli è stato permesso di trasferirsi in un luogo considerato sicuro. L’accordo ha aumentato anche il potere di Putin. Egli ha bisogno di eserciti di mercenari per le guerre ombra russe in tutto il mondo, e anche i suoi alleati cinesi potrebbero averne bisogno. Però questa vicenda ha dimostrato che anche due criminali di guerra rivali sono riusciti a negoziare una tregua tra loro e indica che i negoziati sono sempre possibili. Qual è stato il vero ruolo di Lukashenko, secondo te? La Bielorussia è una società ancora più militarista rispetto alla Russia. Prigozhin operava già in Bielorussia e questo nuovo accordo significa solo che la Bielorussia diventerà il suo quartier generale formale. Significa anche che Lukashenko ha intenzione di usare il suo esercito privato. La Bielorussia è una sorta di offshore per gli oligarchi di Putin, una giurisdizione nominalmente indipendente in cui è possibile salvare i propri soldi. Al Vertice di Vienna per la pace in Ucraina, hai attaccato i “negazionisti della pace”... Nemmeno la distruzione della diga di Nova Kakhovka e l’alluvione di dimensioni bibliche hanno convinto Putin e Zelensky a fermare la guerra e a collaborare per salvare le vittime. Entrambi rimangono supremi negazionisti della pace, cercano la vittoria sul campo di battaglia e si rifiutano di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di riconciliazione. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, e quindi fanno letteralmente saltare i ponti! A chi dice che la sola alternativa è tra vittoria o resa, cosa rispondi? Alcuni dicono che è immorale smettere di armare l’Ucraina per l’autodifesa, ma io credo che sia immorale alimentare la guerra con la fornitura di armi. L’unica speranza di uscire dal circolo vizioso è imparare a resistere agli aggressori e ai tiranni senza violenza, senza riprodurre i loro metodi e la loro follia militarista. Putin ha aggredito militarmente, ma noi non possiamo agire come se la difesa nonviolenta e la diplomazia non esistessero. E ora come evolverà il conflitto? La continua escalation tra Russia e Ucraina rende ora impossibile pensare ad un cessate il fuoco. Putin insiste nell’intervento militare per liberare l’Ucraina da un regime fascista che uccide il proprio popolo. Zelensky mobilita l’intera popolazione per combattere l’aggressione e afferma che i russi si comportano come nazisti che colpiscono i civili. I media ucraini e russi usano la propaganda militare per chiamare l’altra parte nazisti o fascisti. Tutti i riferimenti di questo tipo servono a giustificare che si sta combattendo una “guerra giusta”: devi essere ossessionato dall’idea che “noi” dobbiamo combattere e “loro” devono morire. In Italia ti accuserebbero di non saper distinguere tra aggressore e aggredito... La guerra di Putin è senza dubbio malvagia, ma durante i sette anni prima dell’invasione russa in Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno violato l’accordo di cessare il fuoco in Donbass, in cui migliaia di persone sono state uccise. La verità è che molti ucraini non sono così innocenti, così come i russi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi dell’Occidente hanno potenziato la Nato che si sta espandendo verso Est. Entrambe le parti corrono il rischio di far scoppiare una guerra nucleare che può portare alla distruzione della vita sul nostro pianeta. Niente armi a Kiev? Sbagliate. Ricordatevi della lezione di Langer di Marco Boato L’Unità, 2 luglio 2023 Poco prima di togliersi la vita nel 1995, il fondatore dei Verdi propose l’intervento in Bosnia tramite una forza dell’Onu. Al suo appello non rispose nessuno. 8mila persone finirono trucidate nel massacro di Srebrenica. Sono ormai trascorsi oltre sedici mesi (era il 24 febbraio 2022) dalla aggressione criminale della Russia di Putin contro l’indipendenza e l’integrità dell’Ucraina, Stato libero e indipendente dal 1991, presentata spudoratamente al mondo intero come una “operazione militare speciale” addirittura di “denazificazione”. All’opposto, molti osservatori hanno identificato l’operato di Putin con il 1939 di Hitler, l’aggressione alla Cecoslovacchia e poi alla Polonia, che diede inizio alla seconda guerra mondiale, anche a causa della iniziale inerzia (chi non ricorda il ruolo di Chamberlain e Daladier negli accordi di Monaco del settembre 1938 con Hitler?) degli Stati democratici e purtroppo anche di un “pacifismo” di maniera, presente già allora. E del resto c’era poi stato, nell’agosto 1939, il famigerato Patto Ribbentrop-Molotov (Germania nazista-Unione Sovietica comunista), con la conseguente spartizione della Polonia. Dal febbraio 2022 in poi, in concomitanza con la aggressione militare russa, ha operato instancabilmente un’opera di disinformazione da parte dell’apparato statale (e non solo) di Putin, che sicuramente ha avuto il suo impatto su ampie porzioni dell’opinione pubblica italiana (nella quale l’influenza putiniana è sciaguratamente la più alta che in tutto il resto dell’Europa). Per quanto mi riguarda, il sostegno all’Ucraina aggredita deve essere, certamente, economico, sociale, umanitario, diplomatico, ma anche militare, perché è giusto impedire che l’azione criminale della Russia possa aver successo, con prevedibili conseguenze non solo per l’Ucraina, ma anche per altri Stati indipendenti ex-sovietici come la Georgia e la Moldavia (i primi segni si sono già manifestati), e anche con possibili contraccolpi in quegli altri Stati della precedente sfera di influenza sovietica, i quali ormai da anni fanno parte dell’Unione europea e della Nato (soprattutto Polonia, Romania, Ungheria e i tre Stati baltici: Lettonia, Lituania ed Estonia). Non vi è nessuno (o quasi) che non auspichi una soluzione diplomatica di questa guerra, che Putin, dopo averla scatenata, ha preteso che neppure venisse nominata come tale, denunciando al contrario e spudoratamente (come aveva fatto anche il 9 maggio 2023 nel suo discorso a Mosca) una guerra dell’Occidente contro la Russia. Leggi draconiane, con pene altissime di carcere per i dissidenti russi, impediscono a chiunque in Russia di opporsi pubblicamente, salvo riuscire ad abbandonare il territorio nazionale prima di essere arruolati a forza e mandati al fronte. Nel frattempo la brigata “Wagner” aveva reclutato privatamente, per inviarli a combattere e morire in Ucraina, anche migliaia di criminali detenuti, scarcerati a questo scopo. I drammatici, ma per alcuni aspetti anche tragicomici, eventi di sabato 24 giugno, con la rivolta, poi rientrata, della stessa “Wagner” guidata da Prigozhin, hanno fatto emergere una realtà russa molto diversa da quella sistematicamente propagandata da Putin e dal suo “cerchio magico”. Gli esiti di tutto questo sono, per ora, totalmente imprevedibili. Sul sostegno anche militare all’Ucraina invasa ci sono, all’interno di quasi tutte le forze politiche italiane (ed anche nelle pagine di questo giornale), opinioni differenti, anche se la posizione dei Governi che si sono succeduti (prima Draghi, ora Meloni) è stata sempre costante, ora con la condivisione anche della maggior parte dei partiti dell’opposizione. Lo stesso sforzo inesauribile, ma finora inascoltato, della Chiesa di papa Francesco, nella solidarietà con “la martoriata Ucraina”, finalizzato ad ottenere una possibile trattativa di pace, è stato anche nel recente passato accompagnato dal riconoscimento - da parte del Segretario di Stato vaticano card. Pietro Parolin - della legittimità della resistenza armata ucraina. Ma è evidente che il ruolo del Vaticano e della Chiesa si colloca su di un piano diverso da quello politico e militare, come è dimostrato dalla duplice missione, su incarico di papa Francesco, dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), cardinale Matteo Zuppi, prima in Ucraina e ora anche a Mosca, i cui risultati sono per ora indefiniti e certamente non misurabili con i tempi della contingenza politica e diplomatica. Conoscendo la mia vicinanza per tutta la sua vita ad Alexander Langer (a cui ho anche dedicato due libri), spesso mi viene richiesto cosa avrebbe pensato lo stesso Langer di fronte alla tragedia attuale. Ho sempre risposto che non volevo e non potevo certo farlo parlare “post mortem”, a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa. Ma ho anche sempre ricordato quale fosse stato il suo giudizio e il suo comportamento di fronte alla guerra nella ex-Jugoslavia, e soprattutto in Bosnia, nella prima metà degli anni 90 del secolo scorso. Per anni Alexander Langer aveva promosso iniziative di pace e di nonviolenza nella ex-Jugoslavia e, in particolare, in Bosnia. Nel 1991 aveva dato vita alla “Carovana europea della pace”, iniziativa a cui era poi succeduto, dal 1992, il “Verona Forum per la pace e la riconciliazione”. Tuttavia, dopo anni di iniziative nonviolente, e dopo che si era verificata nel maggio 1995 la strage di Tuzla e mentre continuava da oltre tre anni l’assedio serbo di Sarajevo, Langer si era convinto che non si potesse più continuare ad assistere passivamente alla tragedia bosniaca (e con lui ripetutamente Adriano Sofri, che scriveva dalla Sarajevo assediata per l’Unità di allora). Per questo motivo, anche dopo avermi consultato personalmente (“è una proposta gandhiana”, gli risposi), l’europarlamentare verde Langer il 26 giugno 1995 guidò un’ampia delegazione di europarlamentari per recarsi in Francia, a Cannes, dove si stava svolgendo la riunione dei capi di Stato e di governo europei, presieduta all’epoca da Jacques Chirac (da poco succeduto a Mitterrand). A nome di tutta la delegazione, Langer presentò a Chirac un drammatico appello intitolato “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” e gli chiese di promuovere un intervento di “polizia internazionale” per porre finalmente fine alla guerra in Bosnia e al lunghissimo assedio di Sarajevo. Del resto, già il 6 luglio 1993, quasi due anni prima, in una intervista radiofonica, Langer aveva posto esplicitamente l’interrogativo: “Uso della forza militare internazionale nell’ex-Jugoslavia?”. E in conclusione così aveva riflettuto: “La minaccia e l’effettuazione di un intervento militare hanno senso solo se non resteranno l’unico tipo di impegno internazionale: ci sarà bisogno di un forte e molteplice impegno internazionale, a cominciare da un solido e generoso programma di ricostruzione del dialogo e della democrazia”. E ancora: “Ma se si continuasse ad escludere, per le più svariate ragioni, il ricorso alla forza internazionale, si continuerebbe a lasciare libero il campo ai più forti e meglio armati, con il rischio di sterminare i gruppi più deboli, di costituire un precedente pericolosissimo in Europa e di moltiplicare le guerre nell’area”. Dunque, già nel 1993 la questione dell’intervento militare era stata posta in modo esplicito da Langer. Ma, quando la propose nuovamente a Chirac in occasione del vertice europeo del 1995, la situazione si era ulteriormente aggravata ed era prevedibile un vero e proprio genocidio. Chirac, imbelle, rispose negativamente a Langer e agli altri europarlamentari. Una settimana dopo Langer pose fine volontariamente alla sua vita, il 3 luglio 1995. Ancora una settimana dopo, l’11-12 luglio, i serbo-bosniaci di Mladic, con la connivenza passiva dell’Onu, effettuarono il genocidio di Srebrenica, con oltre 8mila bosniaci trucidati (di cui sono ancora in corso, dopo decenni, le ultime operazioni di riconoscimento). Se l’appello disperato di Langer fosse stato ascoltato, il genocidio di Srebrenica non ci sarebbe stato. L’intervento militare - di “polizia internazionale”, come l’aveva definito lui - alcuni mesi dopo, in settembre, venne finalmente effettuato e in pochi giorni la guerra finì. Seguirono gli “Accordi di Dayton”, tuttora in vigore, anche se in una situazione sempre molto precaria per i permanenti conflitti etnici. Dunque, l’intervento militare non era contro la pace, ma appunto la premessa per realizzare finalmente un accordo diplomatico di pace. La “lezione” di Langer - sia pure in un così diverso contesto storico- politico - è ancora di straordinaria attualità, se riferita alla guerra della Russia di Putin contro l’Ucraina. Langer era sempre stato un “operatore di pace” (non gli piaceva molto la parola “pacifista”, di sapore troppo ideologico) e un “costruttore di ponti”, ma aveva capito - dopo aver tentato tutte le iniziative di nonviolenza già ricordate - che era necessario realizzare anche l’uso legittimo della forza, per porre fine alla guerra. Una “lezione” davvero ancor oggi di drammatica attualità: ieri in Bosnia, oggi in Ucraina. La rabbia dei figli delle banlieues, la Francia divisa: ora Macron è nel mirino di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 2 luglio 2023 I blindati nelle vie di Parigi segnano una frattura ormai evidente, in Francia. E il presidente-padre della Nazione ora è il bersaglio delle proteste. I blindati nelle vie di Parigi per fermare la rivolta delle banlieues e l’ex allenatore del Nizza e del Psg arrestato per un’espressione razzista sono ovviamente due notizie di dimensioni diverse. Ma il fatto che siano arrivate nello stesso giorno restituiscono l’immagine di una Francia costretta a usare mezzi sproporzionati per far rispettare lo Stato di diritto a un Paese riottoso, ribelle, incattivito. Perché c’è una parte di Francia convinta che neri e arabi siano sottomessi e sfruttati dai bianchi. E c’è una parte di Francia - magari meno combattiva ma certo più ampia - che non scende in piazza ma è convinta con Christophe Galtier che ci siano “troppi neri e troppi arabi”. In mezzo c’è Emmanuel Macron. C’è il campione di una Francia liberale, centrista, europeista, moderna, che ha visto in lui l’uomo del futuro, ma forse ha trovato solo un modo per prendere tempo, per resistere all’avanzata del populismo antisistema, a quella rivolta contro l’establishment, le élite, lo Stato che è il vero segno del nostro tempo. Per sei anni Macron è sembrato l’argine contro tutto questo. Contro il razzismo dei bianchi e il contro-razzismo dei figli degli immigrati. Contro la destra radicale di Marine Le Pen e la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Ma ora quell’argine rischia di crollare. Libération, quotidiano della Gauche critico con il presidente ma che l’ha sempre appoggiato al ballottaggio - “Fate quel che volete ma votate Macron” fu il titolo della vigilia elettorale del 2017 - parla di scene da guerra civile. Ma il Figaro, quotidiano di destra che a sua volta ha appoggiato Macron, affida al suo editorialista Mathieu Bock-Côté un’analisi se possibile ancora più preoccupante: “Vediamo scene di popolazioni che non credono di appartenere allo stesso popolo”. I figli delle banlieues gridano di essere discriminati. Non si sentono francesi perché sostengono di non essere trattati come tali. I loro padri erano disposti a pagare il prezzo del lavoro duro e malpagato, perché fuggivano dalle ex colonie dell’impero, spesso dall’Algeria dove gli “Harkis”, i lealisti, venivano trattati in patria da traditori e collaborazionisti dei francesi, e spesso venivano male accolti nella Francia che avevano servito. Ma i figli hanno avuto l’impressione di essere considerati cittadini di serie B, per il loro aspetto, per il loro accento, anche solo per l’indirizzo e il dipartimento scritti sulla carta di identità. Dall’altra parte, c’è una Francia che più o meno sommessamente dà loro ragione, nel senso che non li considera veri francesi, ma approfittatori di uno Stato sociale ancora generoso, da cui prendono senza dare. È una frattura ormai evidente. E magari fosse tutta colpa di TikTok, come è parso dire Macron in un’uscita che non sarà certo ricordata tra le sue migliori. Il presidente paga anche colpe non sue. Viene tradito da un sistema che era stato pensato per garantire la stabilità, e finisce per scaricare sulle piazze la tensione che non trova sblocco nella politica e nel Palazzo. Il presidente della Repubblica era stato pensato come una sorta di padre della Nazione. Ne è diventato il bersaglio preferito. Charles de Gaulle aveva ritagliato la figura del capo dello Stato su se stesso. Designato e acclamato, più che eletto. Nell’unica volta in cui si sottopose all’elezione diretta, visse come un affronto personale essere portato in ballottaggio (da François Mitterrand). Per lui il presidente era quasi un organo super partes, l’incarnazione stessa della volontà del popolo. Certo de Gaulle non era uno sprovveduto, sapeva che la Francia non avanza per riforme ma per rivoluzioni, non per gradi ma per strappi. E aveva pensato a un “fusibile”, a un agnello sacrificale, a una figura intermedia tra sé e il Parlamento di cui poter fare a meno, su cui scaricare rabbie e tensioni: il primo ministro. Il primo ministro governa; il presidente regna. E, quando qualcosa non funziona, il presidente cambia il primo ministro. Con de Gaulle, Giscard, Mitterrand, Chirac andava così. Poi il popolo ha cominciato a mirare direttamente al bersaglio grosso. Dopo cinque anni ha mandato a casa Sarkozy, che adesso rischia di finire in galera. Hollande non si è neppure ricandidato, e il suo partito socialista è quasi sparito. Macron invece è stato rieletto, per lo stesso motivo per cui aveva vinto la prima volta: fare da argine a Marine Le Pen. Così aveva avuto l’appoggio della destra repubblicana e della sinistra riformista, delle grandi famiglie che controllano l’economia e degli intellettuali preoccupati dall’onda populista. L’anno scorso però non è riuscito a ottenere la maggioranza parlamentare. Governa per decreti, per forzature, con cui ha imposto anche la contestatissima riforma delle pensioni. Ma un uomo che prende meno di un quarto dei voti al primo turno, e che non ha un partito alle spalle, non può pensare di governare la Francia da solo. Perché la torsione con cui il sistema gli consegna le chiavi dell’Eliseo diventa una formidabile forza repressa che attende solo un pretesto per essere scatenata. L’altra volta fu l’aumento del prezzo del diesel; e fu l’insurrezione della provincia e delle campagne, dei Gilet gialli. Stavolta è stato un poliziotto che ha sparato a un diciassettenne (seppellito ieri a Nanterre); ed è la rivolta delle periferie urbane. Che ha costretto Macron all’umiliazione di annullare il viaggio in Germania, dopo aver vagheggiato di sostituire il cancelliere nella guida politica e morale dell’Europa. La Francia è di cattivo umore da molti decenni. È ancora un Paese ricco, è ancora uno Stato che funziona. La curva demografica è decisamente migliore di quella tedesca. Le sue aziende hanno fatto shopping in Italia. Eppure è un Paese che per alcuni sta soffrendo molto, per altri non ha più voglia di soffrire. E il giovane leader che si sognava primo presidente eletto degli Stati Uniti d’Europa rischia di dover lasciare il trono di casa a uno di quei populisti che era stato scelto per sconfiggere. Londra, alt dei giudici al piano Ruanda. Diritti umani senza frontiere di Maurizio Ambrosini Avvenire, 2 luglio 2023 Tocca sempre più spesso alle Corti di giustizia frenare la corsa dei governi verso soluzioni disumane ai drammi dei profughi. Questa volta è stata la Corte d’appello britannica a bocciare il controverso piano di deportazioni verso il Ruanda che il governo conservatore del premier Sunak ha ereditato da Boris Johnson. Un piano avversato dalle organizzazioni umanitarie e dalle Chiese anglicana e cattolica, e contro cui l’Unhcr aveva presentato appello, dopo che nel dicembre scorso l’Alta Corte del Regno Unito l’aveva definito legale. Ora i giudici di Londra hanno stabilito che il Ruanda non è un Paese sicuro per chi chiede asilo, dati i suoi precedenti di detenzioni ed espulsioni arbitrarie di rifugiati: i trasferimenti forzati violerebbero la convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce i trattamenti disumani e la tortura. Il verdetto, non unanime, contiene però una clausola che potrebbe rilanciare il piano: il divieto varrà finché il governo di Kigali non avrà corretto le carenze nelle sue procedure di trattamento delle domande di asilo. Vittoria sudata e non definitiva per i rifugiati e difensori dei diritti umani, ma sconfitta comunque cocente per gli esponenti conservatori. Il governo britannico ha sempre giustificato la drastica proposta con gli alti numeri di profughi che attraversano illegalmente la Manica: 46.000 nel 2022, molti meno in realtà finora quest’anno, 11.000. Molto pochi comunque in confronto con quelli che in vario modo approdano nell’Europa continentale, solo in parte via mare. Come in casi analoghi, Sunak punta il dito contro i trafficanti e rivendica la necessità di entrare nel Paese soltanto se debitamente autorizzati, ma come in casi analoghi non spiega come le vittime dei conflitti in lontani Paesi del mondo potrebbero ottenere documenti, visti, regolari biglietti aerei. Il piano di deportazione in Ruanda, oltre a trovare un parallelo in Danimarca, avrebbe un chiaro significato di deterrenza e di allontanamento dei poveri, con le loro ingombranti richieste di aiuto. La vicenda rilancia una questione di fondo. Il governo conservatore si appella al consenso popolare e rivendica il potere sovrano di decidere su chi può entrare nel Paese. Il monopolio delle frontiere e il controllo degli ingressi rappresentano una prerogativa statuale fin dall’epoca dell’invenzione dei passaporti. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, le convenzioni sui diritti umani hanno temperato questo potere introducendo un altro principio: chi fugge da guerre e persecuzioni va accolto, indipendentemente dal modo in cui arriva. La tutela della vita e dei diritti umani viene prima della pretesa sacralità delle frontiere. Sunak e il pensiero sovranista vorrebbero far tornare indietro l’orologio della storia, aggirando le convenzioni sull’asilo con l’espediente del trasferimento forzato dei rifugiati in un Paese africano che occupa uno degli ultimi posti della graduatoria dello sviluppo umano, il 165° su 191: dietro Haiti, Zambia, Repubblica del Congo. Pressato da una profonda crisi economica post-Brexit e da un impressionante calo di popolarità, il governo conservatore non si dà per vinto e ha annunciato un nuovo ricorso all’Alta Corte: cerca consenso interno a spese dei diritti di chi non può difendersi né col voto né col portafogli. Sta cercando di far approvare una nuova legge sull’immigrazione, come ha ricordato Avvenire nella sua corrispondenza da Londra, con cui spera di rimontare la china alle prossime e non lontane elezioni. Nel frattempo, il sovranismo alza la testa anche a Bruxelles: a poche settimane dal faticoso e modesto accordo del Lussemburgo, Polonia e Ungheria hanno contestato quella minimale “solidarietà obbligatoria” su cui il Consiglio dell’Ue aveva trovato un’intesa. Mentre i sovranismi, in questa come in altre importanti materie finiscono per paralizzare i processi decisionali, il rischio è che il consenso si trovi soltanto sull’inasprimento delle frontiere esterne. Mentre ancora si cercano le vittime del naufragio del Peloponneso, non sarebbe una risposta degna dell’Unione Europea e dei suoi fondatori. Tunisia. Sfax accoglie i morti e teme i vivi di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 2 luglio 2023 Prigioniera della crisi economica, la città tunisina è sospesa: al cimitero di Lajmi dà una tomba ai migranti morti nel Mediterraneo; nelle strade isola i subsahariani in un limbo senza soluzioni. E aumentano gli attacchi xenofobi accesi dal presidente Saied. 4216. 4197. Yoroba Sandrine. 4201. Distante pochi chilometri dal centro di Sfax, nascosto lungo una delle strade che porta fuori dalla città, si trova il cimitero musulmano di Lajmi. Qui prende forma tutta la drammaticità legata alle partenze verso la sponda nord del Mediterraneo dalla Tunisia delle ultime settimane. Molte volte si racconta di come i numeri non riescano a spiegare a fondo le migrazioni. A Lajmi, al contrario, i numeri sono l’elemento più evidente di un cambiamento radicale. A inizio anno decine di tombe senza lapide, messe assieme con un po’ di mattoni e del cemento con inciso sopra una semplice cifra, accoglievano le vittime di naufragio a cui non è stato possibile dare un nome. Oggi quelle tombe sono diventate centinaia, almeno il doppio rispetto a qualche settimana prima del duro discorso del presidente della Repubblica Kais Saied contro la comunità subsahariana presente nel paese e, soprattutto, a Sfax. Numeri come 4216, 4197 e 4201 sono raramente intervallati da una lapide con un nome. Come Yoroba Galo Sandrine, della quale si sanno solo l’anno di nascita e di morte: 1985 e 24 dicembre 2020, quando in un naufragio al largo delle coste tunisine morirono 20 persone. Si salvarono in cinque. Sfax non è solo la città che si prende carico del lato più duro del mare. È anche il luogo dove si riempiono di significato le oltre 40mila partenze da gennaio 2023 e si registrano le conseguenze più dirette di parole come “esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica del paese, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”, quelle pronunciate da Saied il 21 febbraio scorso. La seconda città della Tunisia continua a essere uno dei punti più strategici per la traversata lungo il Mediterraneo. Nel frattempo, mentre il piccolo Stato nordafricano sta per chiudere questa settimana un memorandum d’intesa con l’Unione europea per incentivare gli investimenti e il rafforzamento delle sue frontiere esterne, il paese continua a (non) accogliere la comunità subsahariana, costretta a vivere in condizioni estremamente precarie. “Benvenuti al Green hotel”, è il saluto di alcuni ragazzi sudanesi all’ingresso di un piccolo parco accanto alla medina di Sfax, in pieno centro. Da metà aprile, quando la guerra civile è esplosa a Khartoum, circa duecento persone - quasi tutti uomini - hanno trovato rifugio tra gli alberi di una delle poche aree verdi della città dopo avere passato le prigioni della Libia. I giorni scorrono lenti. Più veloce invece è la sensazione di essere bloccati in un limbo senza soluzioni. L’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) e altre organizzazioni internazionali o della società civile non sono mai pervenute tra le pile di rifiuti che si sono accumulati col passare delle settimane. Da qui è partita la manifestazione dello scorso 25 giugno convocata da un gruppo locale per “proteggere Sfax dalle minacce contro la sicurezza dei suoi abitanti”. Un centinaio di persone ha deciso di agire direttamente contro una situazione considerata ormai intollerabile. Talmente intollerabile che a fine maggio un giovane originario del Benin è stato accoltellato a morte da un gruppo di giovani tunisini in uno dei quartieri popolari della città. Il segno più evidente di un momento arrivato (forse) a un punto di non ritorno. L’aumento degli attacchi di stampo xenofobo da parte di una fetta della popolazione tunisina è sicuramente alimentato dall’insicurezza costante che ormai la Tunisia offre alla sua popolazione: un rating di CCC-, un’inflazione galoppante e un tasso di disoccupazione costante al di sopra del 15% sono i dati più evidenti di una precarietà che si sente molto di più a livello quotidiano quando il potere di acquisto diminuisce e i prezzi al mercato aumentano. Attraversata la strada che divide il Green hotel e la medina dal centro della città, l’impatto con la realtà diventa ancora più violento. “Basta farsi un giro qui intorno per trovare tutta l’Africa”, è il benvenuto di un gruppo di ragazzi originari del Burkina Faso, arrivati a Sfax da qualche giorno. Ed è effettivamente così: nell’arco di poche centinaia di metri si intrecciano storie e racconti di ogni tipo, mentre il tempo diventa qualcosa di relativo rispetto a chi pensa che “gli africani” (espressione usata in senso dispregiativo per definire la comunità subsahariana e non solo, ndr) siano arrivati in Tunisia solo per partire in direzione dell’Italia. C’è chi a Sfax ha trovato un lavoro considerato stabile e che non ha mai pensato di lasciare il piccolo Stato nordafricano, almeno fino al discorso del presidente Saied di febbraio. C’è chi ha mollato tutto nel 2014 per poi ritrovarsi, in ordine, in Marocco, Algeria e in una prigione della Libia. C’è chi non ha il tempo di parlare con i giornalisti “perché mi hanno appena cacciata di casa e devo capire dove andare questa notte”. C’è chi è costretto, come alcune donne, a vendere spezie a un dinaro per poi sottolineare che con i media non discutono “perché poi arriva la polizia e ci cacciano”. Ci sono storie come quella di Duplex Yoko Nenkam, 25enne originario di un piccolo villaggio del Camerun, che riassume quel senso collettivo di trovarsi in una prigione a cielo aperto in Tunisia: “Ormai non riesco neanche a più contare le volte che ho provato a partire da quando sono arrivato nel 2020. A febbraio mi hanno cacciato di casa a pietrate e sono scappato nei campi di ulivo qui vicino. Ci sono restato un mese. L’ultima volta che ho provato a partire è stata qualche giorno fa. Dopo qualche ora è arrivata la Guardia costiera tunisina e ci hanno lanciato i gas lacrimogeni addosso. Alcune persone sono ancora in ospedale. Se entro due mesi non arrivo in Europa tornerò in Camerun ma anche lì la situazione è pessima. Cosa devo fare?”. In America c’è una tortura legale, si chiama isolamento carcerario di Valerio Fioravanti L’Unità, 2 luglio 2023 Ogni giorno nelle 4.780 prigioni degli Stati Uniti lo subiscono in media 122.000 persone. “Una crisi umanitaria”. Nessuno tocchi Caino studia da un quarto di secolo il sistema penale statunitense perché lo ritiene interessante: colloca quasi tutte le sue risorse, economiche e umane, nella “repressione”, e pochissime nella prevenzione. È un sistema che tiene in carcere 2 milioni di cittadini, ogni anno arresta 7 milioni di persone (anche solo per poche ore o pochi giorni, ma intanto vengono ‘schedati’ e hanno ‘precedenti’), tiene 2.400 persone nei bracci della morte, e circa 203.000 persone all’ergastolo. È un sistema che non pone interesse nella “risocializzazione” del cittadino che sbaglia, e preferisce confidare in pene molto lunghe, nella convinzione che così le “mele marce” non creeranno ulteriori danni alla comunità. Ovviamente l’idea che basti “buttare la chiave” per avere una nazione più sicura non è un’esclusiva statunitense, ma esclusiva degli USA è invece la ricchezza di materiali, studi, statistiche sui quali è eventualmente possibile impostare una riflessione basata su dati di fatto, non solo sull’emotività. Ultimo arrivato tra questi approfondimenti è “Calcolando la tortura”, un nuovo, straordinario studio che ci dice che nelle 4.780 prigioni degli Stati Uniti, ogni giorno, in media, ci sono 122.000 persone tenute in isolamento. E prova a convincerci che è una cosa grave. Solitary Watch (solitarywatch.org) e Unlock the Box (unlocktheboxcampaign.org) sono orgogliose dei dati che sono riuscite a raccogliere, i più completi disponibili a oggi, con la mappatura completa delle carceri per adulti, ma ci avvertono che nelle prossime edizioni proveranno ad aggiungere i 1.323 carceri minorili, i 181 centri per immigrati fermati alla frontiera, le 80 prigioni nei territori indiani, e alcune decine di strutture “minori”, compresi i “civil commitment centers”, strutture ibride dove vengono “curati” malati di mente e piccoli criminali sessuali. Ma intanto, da subito, la direttrice di Solitary Watch, Jean Casella, avverte: “L’uso diffuso dell’isolamento nelle nostre carceri è una crisi umanitaria. Come hanno confermato le Nazioni Unite, si tratta di torture in atto sul suolo statunitense”. “Questo tipo di informazioni complete e accurate è fondamentale per creare responsabilità “accountability”, il termine anglosassone per stabilire chi debba essere ritenuto responsabile di una determinata scelta politica o amministrativa) e apportare cambiamenti”, ha affermato Casella. Jessica Sandoval invece è la direttrice di Unlock the Box: “Abbiamo un numero crescente di prove che dimostrano che l’isolamento provoca danni psicologici, neurologici e fisici duraturi e aumenta drasticamente il tasso di suicidi, e non riesce a ridurre la violenza carceraria, anzi peggiora la sicurezza per tutti. Tenere tante persone in isolamento è una macchia sulla nostra nazione”. Le due direttrici, insieme, hanno spiegato perché ritengono che contare ognuno che è in isolamento sia importante. “Crediamo che ogni persona in isolamento sia un’anima umana sofferente che, almeno, merita di essere contata. Una di quelle persone era Kalief Browder, che ha sopportato più di due anni di isolamento a Rikers Island mentre era ancora un ragazzo e legalmente innocente (ossia non processato, ndt), e che è morto suicida dopo essere stato (nelle sue stesse parole) “mentalmente sfregiato” da questa esperienza. Un altro era Benjamin Van Zandt, che era già stato in isolamento, dove aveva subito abusi e minacce da parte delle guardie, e che è morto suicida all’età di 21 anni, la prima notte dopo che per punizione gli avevano comminato altri 30 giorni in isolamento. Le loro storie ci ricordano cosa significa il nostro numero in termini umani. Significa che più di 122.000 persone sono detenute in condizioni che costituiscono tortura. Significa che mentre scrivo - e mentre leggi - ognuno di questi individui soffre da solo, essendo esposto a un serio rischio di danni psicologici, neurologici e fisici, oltre che di autolesionismo e suicidio. Assicurarsi che tutti i Kalief, i Ben e gli altri vengano contati è solo un modo per riconoscere e testimoniare la loro esperienza. Raccontare le loro storie, e incoraggiare le persone in isolamento a raccontare le proprie storie è un altro modo. Ma la cosa più importante che possiamo fare per tutti loro è lottare per ridurre il numero di persone in isolamento e continuare a lottare finché l’isolamento non sarà un ricordo del passato e non ci sarà più nessuno da contare”. Stati Uniti. Ritiro dall’Afghanistan, le colpe di Biden e Trump di Giovanna Branca Il Manifesto, 2 luglio 2023 Lo studio del dipartimento di Stato. Ignorata la sorte degli afghani che avevano collaborato con il governo Usa. “Le decisioni sia del presidente Trump che del presidente Biden per porre fine alla missione militare statunitense in Afghanistan hanno avuto serie conseguenze sulla possibilità di sopravvivenza del governo afghano e della sua sicurezza”. Con queste parole si aprono le valutazioni di uno studio del dipartimento di Stato Usa sul disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan nell’agosto 2021. L’analisi, lunga 85 pagine ma di cui solo 24 sono accessibili - il resto rimane classificato - è stata resa pubblica venerdì ma esisteva già da mesi, tanto da essere confluita in parte in un report pubblicato dalla Casa bianca lo scorso aprile sullo stesso argomento. Il report del governo, però, non includeva le conclusioni più critiche raggiunte dal dipartimento di Stato sull’operato dell’amministrazione Biden - e perfino sullo stesso Antony Blinken, che non viene mai nominato - mentre addossava tutta la colpa a Trump, che nel febbraio 2020 a Doha aveva firmato con i Talebani l’accordo a lasciare il Paese entro il maggio dell’anno successivo. Dopo quella decisione, si legge nel documento, l’amministrazione dell’ex presidente repubblicano non è stata in grado o non si è occupata di pianificare il ritiro dopo 20 anni di occupazione: “Restavano senza risposta questioni cruciali su come gli Stati uniti avrebbero rispettato la scadenza di maggio 2021 per un pieno ritiro militare”, e su come mantenere “una presenza diplomatica a Kabul”. E quel che è peggio l’amministrazione Trump non ha gestito la lunga lista di richieste arretrate “per il programma Siv (Special Immigrant Visa)”, con il quale veniva garantito l’accesso al Paese ai cittadini afghani che avevano collaborato con il governo statunitense. “Cosa ne sarebbe stato di loro”, oltre che di “altri afghani a rischio”, era una domanda destinata a restare senza risposta anche con l’insediamento, di lì a poco, dell’amministrazione Biden. Secondo il report del dipartimento di Stato, la principale responsabilità del nuovo governo democratico è stata “l’insufficiente considerazione - condivisa con l’amministrazione precedente - degli scenari peggiori”, come quello che effettivamente si è realizzato con il collasso repentino del governo Ghani (fuggito all’estero), l’inarrestabile avanzata talebana su Kabul e la presa d’assalto dell’aeroporto per fuggire da un destino ormai segnato. I funzionari di Biden sono poi stati carenti nel coordinamento della risposta all’emergenza, assecondando fino all’ultimo le previsioni secondo le quali “il governo afghano e le sue forze armate avrebbero potuto difendere la città per settimane, se non per mesi”. Quanto queste valutazioni fossero sbagliate si sarebbe visto prestissimo, ma l’errore degli ufficiali di Biden non nasceva certo dall’ingenuità: “La preparazione e pianificazione della crisi sono state parzialmente inibite dalla preoccupazione per i segnali impliciti in delle manovre che avrebbero potuto suggerire una perdita di fiducia degli Usa nei confronti del governo afghano, contribuendo in questo modo al suo collasso”.