Attenzione: non spetta al Governo scegliere il Garante nazionale dei detenuti di Andrea Pugiotto L’Unità, 29 luglio 2023 L’indicazione dei componenti dell’ufficio avviene su impulso del Consiglio dei ministri, ma le commissioni parlamentari sono chiamate a verifi care i requisiti di “indipendenza” e “competenza” previsti dalla legge. Senza i quali il Colle deve negare la sua firma. Caro Direttore, consentimi un’appendice al tuo corrosivo commento e al dettagliato articolo di Angela Stella, entrambi pubblicati su l’Unità del 26 luglio, a proposito della designazione governativa dei tre candidati all’Ufficio nazionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. 1. Le notizie - confermate dal silenzio-assenso di via Arenula - riferiscono che il Guardasigilli ha preannunciato al Capo dello Stato una terna composta da due professori universitari in materie giuridiche e da un anziano presidente a riposo di tribunale di sorveglianza. Di questa proposta evidenziate le molte criticità. In ordine sparso: il deficit, nei due docenti di diritto privato e di diritto privato comparato, di un bagaglio culturale specifico e idoneo all’incarico. L’appartenenza politica dei tre candidati all’area di governo. L’assenza di un’equilibrata rappresentanza di genere. Il tentativo di depotenziare il collegio, incarnandolo in modo inadeguato ai suoi cruciali compiti istituzionali. Traduco? Incompetenza, lottizzazione, maschilismo, neutralizzazione di un organo di garanzia. Se così è, il problema cessa di essere solo politico e acquista spessore giuridico-costituzionale: è il piano su cui vorrei sviluppare la mia riflessione. 2. La legge istitutiva dell’Ufficio del Garante (art. 7, decreto-legge n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014) descrive un procedimento per la scelta dei componenti del collegio che non eleva il Governo (e il suo ministro di Giustizia) a dominus della relativa decisione. Certamente l’impulso iniziale è del Consiglio dei ministri, chiamato a deliberare i tre nominativi. Quell’indicazione, però, va integrata attraverso due successivi passaggi: l’acquisizione del parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato; il decreto di nomina del Quirinale. Né l’uno né l’altro sono tornanti meramente formali: servono ad accertare il rispetto dei requisiti che la legge richiede ai soggetti candidati. La scelta, infatti, deve cadere su “persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani”. L’assenza di un rapporto in atto di pubblico impiego è requisito preliminare alla selezione, non una condizione che può essere soddisfatta ex post, a nomina avvenuta: già questa è una causa ostativa - ad esempio - per la designazione governativa di un docente universitario in servizio. Quanto agli altri due requisiti, la loro verifica impone un adeguato supplemento d’indagine. L’”indipendenza” richiesta dovrebbe emergere dalle biografie personali, da mettere in relazione anche al rigido regime di incompatibilità previsto dalla legge, secondo cui “i componenti del Garante nazionale non possono ricoprire cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi in partiti politici”. La presupposta “competenza” dovrebbe essere attestata da quanto già detto, già scritto, già fatto dal candidato nell’area specifica della tutela dei diritti umani (e non, genericamente, in ambito giuridico): è un sapere teorico e pratico che deve essere maturato in precedenza, non durante l’esercizio dell’eventuale mandato. 3. Proprio a questi accertamenti andrebbe dedicato il passaggio parlamentare, eventualmente anche attraverso un’audizione dei componenti della terna deliberata dal Governo. Pur non vincolante, il parere delle Commissioni competenti può certamente offrire elementi utili alla valutazione del Capo dello Stato, cui spetta la nomina dei membri del collegio. È già accaduto in passato, alla prima attivazione dell’Ufficio del Garante nazionale. Allora, il mancato gradimento parlamentare fece cadere uno dei tre nomi originariamente indicati dal Governo: il Quirinale, per questo, emanò un primo decreto di nomina di due membri del collegio (il professor Mauro Palma e l’avvocata Emilia Rossi) per procedere solo in un successivo momento a quella del terzo componente (la giornalista Daniela De Robert), all’esito di una rinnovata procedura e con autonomo decreto presidenziale di nomina. 4. Sulla natura giuridica di tali decreti del Quirinale, infatti, è bene non equivocare. La regola costituzionale che - mediante la controfirma ministeriale - fa degli atti presidenziali l’involucro formale di decisioni assunte concretamente dal Governo, vale esclusivamente se quei decreti veicolano scelte politiche spettanti all’Esecutivo. Li firma il Capo dello Stato, ma li decide il Ministro proponente che se ne assume la responsabilità (art. 89, 1° comma, Cost.). Ma non è questo il caso. Nella nomina dei componenti del Garante nazionale, infatti, non si esprime l’indirizzo politico governativo, perché l’atto riguarda la composizione di un collegio che non è né può essere organico al Governo da cui, anzi, è indipendente sul piano giuridico, funzionale, strutturale. Facile è darne dimostrazione. 5. Giuridicamente, l’istituzione del Garante nazionale adempie a un obbligo internazionale imposto dalla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene inumani e degradanti (art. 3 del relativo Protocollo opzionale, ratificato con legge n. 195 del 2012). È un obbligo che impone allo Stato italiano la costituzione (e il mantenimento) di un meccanismo nazionale indipendente, deputato a vigilare sulla custodia delle persone comunque ristrette, affinché la limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Ragione - per incidens - che renderebbe illegittima (per violazione dell’art. 117, 1° comma, Cost.) la sua abrogazione. Sotto il profilo funzionale, quindi, il Garante nazionale è chiamato primariamente a controllare l’uso della forza legittima esercitata dagli apparati statali, che proprio nel Governo hanno il loro organo di vertice. Va dunque evitata una qualsiasi osmosi tra controllore e controllato. Operativamente, è vero che il controllore nasce da una costola del controllato, avvalendosi di strutture, risorse, personale, messe a disposizione dal ministero di Giustizia. Tuttavia, il Garante nazionale vive poi di vita autonoma: è il codice di autoregolamentazione di cui si è dotato (delibera del 31 marzo 2021) a stabilire i principi-guida della sua attività, improntandola all’assoluta indipendenza e all’assenza di qualunque interferenza. 6. Se così è, il Quirinale ha voce in capitolo, rispetto alle scelte espresse dal Governo e vagliate dalle Camere. La sua non è una dovuta presa d’atto. Nella sua duplice veste di organo super partes estraneo al circuito dell’indirizzo politico governativo e di garante degli impegni internazionali assunti dallo Stato italiano, il Presidente della Repubblica ha un compito preciso: apprezzare in modo imparziale la sussistenza in concreto dei presupposti che giustificano l’adozione del decreto di nomina. In assenza di quei presupposti, deve negare la firma necessaria a perfezionare il suo provvedimento finale. 7. La morale è presto tratta. La regola dello spoil system non si addice agli organi di garanzia, dunque nemmeno all’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. È altra la logica da seguire, tracciata nella legge istitutiva. La nomina del relativo collegio, infatti, deve scaturire da un concerto tra Governo, Parlamento e Capo dello Stato secondo uno spartito la cui chiave è il principio costituzionale di leale collaborazione tra poteri. Se qualcuno stona o pretende il ruolo di solista, il procedimento è destinato a incepparsi. A meno che, davanti a un Esecutivo che batte il pugno sul tavolo, le Commissioni parlamentari competenti scelgano un omissivo e acquiescente silenzio e il Quirinale rinunci ad esercitare le proprie prerogative. Se questo si rivelerà davvero il finale di partita, avremo un Garante nazionale ridotto a esoscheletro. Sarebbe una grave responsabilità collettiva, non solo di un tremebondo Guardasigilli sempre più irriconoscibile a sé stesso. Lettere dal carcere del passato: in 50 anni non è cambiato nulla a cura di Rossella Grasso L’Unità, 29 luglio 2023 Raccontano di sovraffollamento, vite sospese nel nulla, rapporti umani inesistenti e soprusi. Dal carcere si è sempre scritto tanto. Lettere a familiari, ad amici, alle fidanzate. Se per un attimo coprissimo le date delle lettere scritte dai detenuti negli anni 70 non ci accorgeremmo di nulla di strano: quello che si scriveva un tempo è identico a quello che si scrive oggi. Sbarre di Zucchero ha voluto fare questa prova. Arrigo Cavallina, attivista, ha recuperato e donato tre lettere del 1975 scritte dai detenuti. Ed è incredibile costatare che potrebbero essere state scritte ieri. “Queste lettere secondo noi sono importanti proprio perché dimostrano che quello che veniva scritto nel 1975 è uguale a quello che viene scritto nel 2023. Questo è una pietra miliare del senso di quello che facciamo. Noi cerchiamo il cambiamento perché da 48 anni non c’è nessun cambiamento, è sempre tutto uguale”, spiega Monica Bizaj di Sbarre di Zucchero. Riportiamo di seguito le tre lettere recuperate dal passato. Lettera ad un giovane amico in ospedale per frattura (16 aprile 1975) Quasi quasi sono più libero io, che alla mattina vado a girare di corsa lungo muri di cemento grigio alti più di due metri. E pensa quanto mi sento importante: da una torre una telecamera riprende tutti i miei allenamenti. Io ogni tanto saluto con la mano. Chissà che non mi vedi qualche volta, se all’ospedale hai la televisione. Tu però hai un vantaggio: sai che questo periodo di male (di letto, di sofferenza) non dura tanto: forse anche un mese, o due, sai che poi tutto ritorna come prima. L’importante per non scoraggiarsi quando si sta male è pensare a dopo: Pensa che il tuo “dopo” è di qualche settimana, qui c’è gente che aspetta anni. La “giustizia” è così: che uno intanto sconta la pena (il carcere) e poi - dopo un periodo che va fino a 8 anni - capisci, 8 anni! - si deciderà se è colpevole o no. Qui a San Vittore pochissimi hanno avuto il processo. Quasi tutti stanno aspettando, e non sanno fino a quando. Oggi m’hanno consegnato un nuovo ordine di cattura. Vuol dire che per me la vita potrebbe essere solo questo, come non esistesse altro. Come fossimo nati per vivere in una stanza e camminare qualche ora dentro triangoli di muri. Che cosa strana la televisione, la lettera, i venti minuti settimanali di colloquio: una visita all’osservatorio astronomico, dove capti con curiosità strani messaggi di un mondo lontano. Non si soffre a non poter andare sulla luna. La vostra vita per me è la luna, non esiste. Sono altre le notizie che cerchi sul giornale: le vicende personali di chi conosci, quelle sulle carceri, quelle di Milano per sapere se verrà una persona nuova in cella con te. Se la vita è solo questa, dentro di lei si guarda la televisione, si beve, si gioca a pallone, si parla per ore di cose che un inverosimile me del passato considerava stupide. Si legge poco, non si fa l’amore (non esistono le ragazze), c’è tanta solidarietà ma nessuna mano, guancia liscia. Lettera alla fidanzata (4 aprile 1975) Qualche giorno fa finalmente ho insistito e il brigadiere mi ha accompagnato nella biblioteca. Abbiamo passato la porta chiusa del piano terra e (al contrario di quando vado al colloquio) ci siamo diretti al centro, dove confluiscono tutti i raggi, proprio come i raggi di una bicicletta. Il centro si chiama ‘la rotonda’, in mezzo c’è l’altare e domenica funziona da cappella. Anche durante la messa, però, tra ogni raggio e la rotonda c’è una porta di sbarre. Abbiamo dunque passato due cancelli per entrare nella rotonda e poi nel terzo raggio. Poi porticina, scalette, porticina, biblioteca: percorso e ambiente da soffitta kafkiana, inaspettato, che non c’entra niente con tutto il resto. Vecchietto con gli occhiali sulla punta del naso, che dice “praticamente, abbiamo tutto” e vuole sapere di cosa m’interesso, che ci pensa lui a darmi il libro adatto. Scorro il lungo elenco alfabetico, non c’è quasi niente. Quando bisbiglio “Don Chisciotte” il brigadiere, che si sentiva un po’ tagliato fuori, si illumina e dice trionfante: “È di Cervantes?”. Prendo “Oblomov”, e il bibliotecario dice che passa lui dal raggio ogni giovedì. Ma poi giovedì non è passato e siamo al punto di prima. Ho cominciato a fare ginnastica, anche se devo fare gli esercizi senza orologio, che qui è vietato. All’aria scendo in cortile, che è composto da alcuni spicchi geometrici e un po’ irregolari, divisi da muri. Lo spicchio più grande è quasi un quadrato. E a girare attorno vicino al muro si fanno circa 60-70 metri. La mattina faccio giri di corsa, il pomeriggio di marcia. All’aria (o se piove nei corridoi) si chiacchiera camminando. Ma la necessità di moto, gli spazi strettissimi, la tensione nervosa sono tali, che vedi ogni gruppo camminare a passo affrettato continuando a fare dietro front vicini al muro. Il passo veloce e i continui dietro front sono l’andatura tipica, angosciosa del detenuto. Sembra che in molte carceri (anche qui) ci sia tensione. Vedi sul giornale quanti episodi. In realtà molte cose sono sempre successe, quotidianamente, e la novità è solo il fatto che le pubblicano. La libertà vuol dire principalmente tu. All’inizio pensavo addio montagne, spiagge; adesso non ci tengo più molto. La stangata del carcere è nei rapporti personali. Questo non toglie che devo stare attento a sorvegliare i ricordi, che non emergano troppo vivi, perché allora è brutta e ci vuol del tempo a riprendere il controllo; per un attimo eri tu, una spiaggia piena di sole, e una sberla con voglia di piangere. Anche la repressione sessuale è durissima. Attende considerazioni e dibattiti su ogni ragazza alla televisione. Ieri mi sono sognato che mi hanno accompagnato in un posto a parte per fare l’amore con te, che anche eri detenuta, ma dovevamo fare in fretta per lasciare il posto ad altri. Poi siamo usciti e avevamo pochi attimi per parlare prima che ci separassero. Ma, visto che non c’era la guardia, ci siamo allontanati alla chetichella, in mezzo alla gente libera, e abbiamo camminato tenendoci per mano sui prati assolati, liberi. Pensando però che l’evasione è un reato, che poi bisogna stare latitanti tutta la vita, e che probabilmente saremmo usciti in breve tempo per via legale, abbiamo deciso di rientrare, ognuno nel proprio carcere, lasciandoci e salutandoci da lontano. Lettera ad un’amica (18 aprile 1975) Certo mi piacerebbe avere la piantina che tua mamma vorrebbe consegnarmi. Ma, oltre alla prevedibile difficoltà burocratica di farla entrare, c’è un altro inconveniente. Circa ogni dieci giorni viene la “perquisa” (= perquisizione). Cioè una squadra numerosa di guardie ci svegliano la mattina presto, ci fanno uscire in corridoio e devastano la stanza senza mai trovare niente, naturalmente. Allora trovano la scusa per portarci via qualcosa: attaccapanni, o coperte, o posate, ecc. Quando rientriamo è tutto sparpagliato: devo cercare le lettere sparse sul pavimento, ci accorgiamo che hanno strappato per dispetto e buttato via pagine di libri, o fracassato lavoretti di fiammiferi incollati su un disegno, ecc. Se ne vanno sfottendo. Lo fanno probabilmente per provocare reazioni, ma noi stiamo sempre calmi. Ecco, non vorrei che se la prendessero anche con la piantina (magari con la scusa di vedere se c’è nascosto qualcosa sotto terra). Ci resterei troppo male. Lavori pubblica utilità: AiCS, storie di vita e di recupero gnewsonline.it, 29 luglio 2023 In messa alla prova per un reato minore, ha scontato il suo debito insegnando pugilato ai ragazzi di comunità e ora è uno dei volontari dell’AiCS. È solo una delle storie delle oltre 100 persone prese in carico dai comitati provinciali dell’Associazione italiana cultura sport-AiCS negli ultimi 2 anni, a seguito della stipula con il Ministero della giustizia del Protocollo d’intesa nazionale nel 2021, che consente lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di imputati ammessi a beneficiare dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti, presso strutture e impianti sportivi: dalla cura del verde alla gestione degli impianti, dall’informatica all’insegnamento sportivo ai ragazzi in difficoltà. Oggi c’è chi cura il catering per un’altra comunità e chi si occupa di comunicazione in ambito sportivo. Per tutti la stessa casa, l’AiCS - presieduta da Bruno Molea, anche membro del Consiglio nazionale del Terzo settore. AiCS ha acquisito nel tempo grande esperienza anche in ambito penitenziario, dove organizza laboratori teatrali e di scrittura, corsi di artigianato, musicoterapia, sartoria e ovviamente tanto sport. È presente in oltre 20 tra carceri e istituti di pena minorili, dove garantisce anche corsi di informatica e orientamento al lavoro. Il tutto ha consentito ad AiCS di acquisire talmente tanta esperienza nel settore, che a oggi il responsabile delle Politiche sociali di AiCS, Antonio Turco, coordina il gruppo di lavoro persone private della libertà del Forum nazionale del Terzo Settore. Con quest’ultimo, inoltre, il Ministero della giustizia, per il tramite del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, nel 2022, ha stipulato un importante accordo nazionale teso a promuovere la sottoscrizione, sempre a livello centrale, di accordi fra il Ministero stesso e gli enti aderenti al Forum, per ampliare e diversificare le opportunità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità, sia ai fini della messa alla prova per adulti che come sanzione penale sostitutiva. L’Associazione da tempo siede anche nella Conferenza nazionale volontariato giustizia. Solo per quantificare l’impegno dell’Associazione: delle 100 persone prese in carico, per 45 tra il 2022 e il 2023 sono stati attivati e conclusi i percorsi; 67 hanno percorsi attivi, alcuni già conclusi o e altri in via di svolgimento; 78 cittadini adulti sono in attesa di approvazione da parte dell’Autorità giudiziaria. Sono 200 infine le persone in attesa di essere inseriti nell’albo dei Comitati provinciali AiCS per attivare la pratica della messa alla prova. Per quanto riguarda i comitati provinciali AiCS, sono 23 quelli coinvolti nella gestione e nello svolgimento di Lpu: da La Spezia a Grosseto, da Potenza a Pordenone, da Roma a Sassari, Vicenza, Torino e molti altri. Il giusto equilibrio tra le funzioni del Parlamento e della Giustizia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 29 luglio 2023 Dell’intervento del presidente Mattarella nella cerimonia del Ventaglio, sono già stati commentati diversi passaggi specifici: in particolare quello riguardante le Commissioni parlamentari di inchiesta. V’è però un aspetto di carattere più generale e fondamentale, trasversale a tutto il discorso. Si tratta dell’invito che il presidente ha rivolto a tutti e specialmente a chi ha responsabilità istituzionali a fare al meglio la parte propria, senza pretendere di fare abusivamente la parte altrui. Il presidente ancora una volta ha richiamato l’esigenza ineludibile che i vari organismi rispettino i confini delle proprie competenze e che, a livello istituzionale, ciascun potere dello Stato riconosca l’ambito di attribuzioni affidate agli altri poteri. In una normale e virtuosa logica di collaborazione istituzionale. Vi è nei rapporti tra le istituzioni di vertice dello Stato una questione che è fondamentale e difficile allo stesso tempo: quello dell’obbligo di ragionevolezza dell’agire delle istituzioni e del suo controllo: in particolare quando si tratti del potere legislativo. Quanto la questione sia esplosiva è dimostrato dallo scontro in atto in Israele sui confini della giustizia costituzionale, proprio con riferimento al controllo ora svolto da quella Corte costituzionale sulla ragionevolezza degli atti del parlamento e di quelli del governo. Collegata all’aspro dibattito sulla gestazione per altri, al suo divieto che si vuole stabilire “universale” e più in generale al tema della fecondazione medicalmente assistita, una questione specifica è stata recentemente affrontata dalla Corte costituzionale, con una sentenza che mi sembra esemplare. Si trattava di giudicare della compatibilità con la Costituzione della norma della legge n. 40 del 2004 che stabilisce che la volontà dichiarata da entrambi i soggetti della coppia di accedere alla fecondazione medicalmente assistita può essere revocata solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo. All’epoca della approvazione della legge quel momento era di pochi giorni antecedente all’impianto dell’embrione. Ma successivamente, dal 2009, ne è stata ammessa la crioconservazione; i tempi possono ora dilatarsi anche di molto e le condizioni della coppia nel frattempo profondamente mutare, senza che il consenso prestato possa essere revocato. Nel caso la coppia aveva divorziato e il marito non voleva più che si procedesse all’impianto dell’embrione, che avrebbe condotta alla nascita di un figlio. La Corte costituzionale ha dovuto valutare se fosse discriminatoria la irretrattabilità del consenso del solo uomo (non potendosi nemmeno ipotizzare quella della donna, che rimane libera di rifiutare l’impianto dell’embrione): il giudizio è stato facile per la profonda diversità di condizioni della donna rispetto all’uomo rispetto alla gravidanza, tanto più se indotta medicalmente. Più complessa era l’altra questione da decidere: quella della ragionevolezza di una impossibilità di mutare opinione quando nel frattempo la situazione obiettiva della coppia sia mutata. E qui la Corte ha svolto considerazioni tanto delicate e giustificate, quanto nelle conclusioni opinabili. Opinabili come sono necessariamente quelle di tal natura. In sintesi la questione era quella della non irragionevolezza della disciplina legislativa. La Corte l’ha ritenuta con riferimento sia all’affidamento spettante alla donna, sia all’interesse del bambino alla doppia genitorialità (con i diritti e doveri che ne seguono). Ma dopo averne affermata la non irragionevolezza, e dunque la compatibilità con la Costituzione, la Corte ha ammesso che altre soluzioni sarebbero ragionevoli e dunque possibili. Ma con decisione del Parlamento legislatore. Si tratta di un esempio di rigoroso esercizio del proprio ruolo da parte della Corte costituzionale, unito al rispetto di quello del Parlamento. Ed è anche un esempio della natura del giudizio di ragionevolezza, che è al cuore di quello di eguaglianza o discriminazione tra situazioni simili. La legittima proponibilità di soluzioni diverse, tutte non irragionevoli, rinvia innanzitutto al necessario rispetto delle opinioni altrui (qui di istituzioni diverse) e all’obbligo di armonica collaborazione istituzionale. Se infatti la Corte ha in questo caso segnato il confine della propria competenza e indicato quella del Parlamento, occorrerebbe che sempre quest’ultimo intervenisse senza ritardo. Ciò che invece non avviene le tante volte in cui la Corte riconosce che la legislazione in vigore è contro la Costituzione e che occorre che sia il Parlamento a modificarla o integrarla. Il Parlamento, sulle questioni difficili (che si dicono “divisive”) si ritrae, ritarda, omette. Ne sono esempi la disciplina del suicidio assistito o quella della condizione dei nati all’estero da gestazione per altri, vietata in Italia. La collaborazione istituzionale auspicata dal presidente Mattarella implica non solo di evitare invasioni di campo, ma anche il pieno e responsabile esercizio delle competenze proprie. Non è vero, infatti, che sempre spetti al Parlamento anche di decidere di non legiferare. “Mattarella ha ragione: le inchieste parlamentari sono un’anomalia” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 29 luglio 2023 “Perviene da Mattarella un monito contro l’uso improprio degli strumenti costituzionali”, spiega Michele Ainis al Dubbio. Professor Ainis, dove volevano arrivare le parole del presidente Mattarella sulle commissioni d’inchiesta? Direi innanzitutto che perviene da Mattarella un monito contro l’uso improprio degli strumenti costituzionali. In questo caso le commissioni d’inchiesta, che sono ovviamente consentite, perché l’articolo 82 della Costituzione le disciplina, ma sono altresì uno strumento eccezionale, dal momento che derogano al principio della separazione dei poteri in quanto la commissione d’inchiesta ha gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria. E le eccezioni non possono diventare regola. Da quella sul Covid a quella su Emanuela Orlandi, crede che stiano diventando una regola? Nei primi dieci anni di vita repubblicana, dal 1948 al 1958, vennero istituite soltanto tre commissioni d’inchiesta. Non ho i dati dell’ultima legislatura ma sono sicuro che per quanto riguarda quella conclusa nel 2018 venero battezzate 16 commissioni d’inchiesta. Il malcostume continua perché quella sul Covid non è certo l’unica. Ce ne sono altre già istituite e altre ancora in cantiere. Quindi leggerei nelle parole di Mattarella un altolà rispetto all’uso eccessivo di uno strumento che dovrebbe essere eccezionale, ma anche un altolà rispetto al merito, ai contenuti delle commissioni d’inchiesta. Cioè? Le commissioni possono essere di due tipi. Ci sono quelle legislative e quelle politiche. Le prime servono ad acquisire elementi di conoscenza per legiferare, e ci sono vari precedenti come quella sulla povertà nel mezzogiorno o quella sulla giungla retributiva. Quelle politiche invece servono ad accertare la responsabilità di funzionari ed esponenti di governo in relazione a situazioni di pubblico interesse, come il caso tipico di quella sulla P2. Quando invece diventa una sorta di inchiesta al quadrato, cioè un’inchiesta parlamentare sull’inchiesta giudiziaria, come nel caso del Covid, assistiamo certamente a una stortura costituzionale. In un recente articolo lei ha scritto che Mattarella usa spesso il linguaggio dei gesti, ma questa volta si è fatto sentire forte e chiaro: crede che uno degli obiettivi sia anche la riforma Nordio? Nell’articolo pubblicato su Repubblica ricordavo che la riforma Nordio è un disegno di legge, per cui deve essere autorizzati dal capo dello Stato. Questo potere è in realtà disarmato, perché ove arrivasse il semaforo rosso del Colle su un ddl del governo, lo stesso avrebbe gioco facile a far presentare il medesimo testo da qualsiasi parlamentare di maggioranza e così facendo verrebbe scavalcato il diniego del Quirinale. Rispetto al ddl Nordio Mattarella si è preso 35 giorni di tempo per analizzarlo e per quanto mi risulta è un fatto senza precedenti che esprime perlomeno delle perplessità, manifestate anche dall’Anm, dall’Anac e dall’Ue. Pensa che si riferiscano in particolare all’abrogazione dell’abuso d’ufficio? Non credo che queste perplessità si leghino a un intervento in sé sull’abuso d’ufficio quanto a questo specifico intervento, che di fatto lo cancella. Perché un conto è cancellarlo, un conto è modificarlo obbedendo al principio di tassatività richiamato dalla Costituzione. Legherei le parole di Mattarella ieri sulle commissioni d’inchiesta al ritardo con cui ha autorizzato il ddl Nordio. Ci leggo un messaggio di attenzione nei confronti del potere esecutivo e legislativo, da un lato di necessarie modifiche al testo, dall’altro di rispetto delle norme costituzionali. Come crede che reagiranno governo e maggioranza di fronte a tutto ciò? In questi primi mesi di esperienza del governo vedo annunci roboanti e poi dei passaggi al rallentatore. Basti pensare al presidenzialismo, che si doveva fare entro luglio. Stessa cosa per la riforma del’Autonomia differenziata, con mille dichiarazioni ma un cammino parlamentare sottotraccia. E anche sull’abuso d’uffici credo ci sia stata una frenata da parte della presidente del Consiglio. Per non parlare del resto della riforma, come la separazione delle carriere o altro. Mi sembra ci sia una linea urlata nelle parole ma prudente nei fatti. Tornando al discorso del capo dello Stato, Mattarella ha detto che non sono le camere a giudicare se norme di legge che il Parlamento ha approvato sono conformi alla Costituzione perché il compito è affidato alla Corte costituzionale. È d’accordo? In questo specifico passaggio non mi trovo del tutto in sintonia con il capo dello Stato. Perché in realtà i filtri di legittimità costituzionale nel nostro ordinamento sono plurimi. In Parlamento c’è una commissione Affari costituzionali che dà un parere sulla legittimità, per esempio quando c’è un decreto legge da convertire. Possiamo dire che non funziona o non è efficace il filtro di legittimità costituzionale affidato a un organo politico, visto che poi la maggioranza difende sempre l’operato del governo, eppure esiste. Del resto, anche lo stesso presidente della Repubblica può rifiutare un decreto legge, come fece Napolitano sul caso di Eluana Englaro, o può rinviare un ddl alle Camere. Il Colle insomma ha un proprio ruolo, potremmo dire più di sindacabilità costituzionale che di legittimità, ma comunque ce l’ha. Un altro tema di cui si parla molto è l’abuso dei decreti legge, sul quale il capo dello Stato ha spesso richiamato l’esecutivo: in che modo si può ovviare al problema? In questo caso il presidente della Repubblica si trova tra due fuochi. I decreti legge spesso contengono norme urgente insieme ad altre norme non urgenti. E così il capo dello Stato promulga con riserva, cioè con una lettera in cui lamenta la diversità di argomenti. Ma comunque promulga, perché altrimenti gli interventi urgenti, che spesso sono misure finanziarie, verrebbero rimandati. Bisognerebbe riflettere sulla possibilità di una promulgazione parziale della legge di conversione, ma siamo nel campo della fantasia costituzionale. Qual era dunque l’obiettivo del capo dello Stato nel suo discorso? Il senso complessivo dell’intervento di Mattarella è che ciascuno deve fare il proprio mestiere. Oggi invece spesso accade che il governo legifera al posto del Parlamento, il quale vuol fare il giudice al posto della magistratura, la quale a sua volta legifera al posto del Parlamento. Il sistema, insomma, è in affanno. E in questo senso il richiamo del presidente della Repubblica è più che condivisibile. Il ddl Nordio può attendere: rimandato a settembre di Errico Novi Il Dubbio, 29 luglio 2023 Impossibile che Palazzo Madama inizi a esaminare il testo prima della pausa estiva. Pesa il rebus della presunta incostituzionalità sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio. La riforma si farà. Ma i tempi non saranno fulminei. E soprattutto ci sarà modo di riflettere, di lasciar decantare la questione che più complica il cammino del ddl Nordio: le incognite legate all’abrogazione dell’abuso d’ufficio. È il quadro di sintesi sul primo “pacchetto giustizia”, desumibile da alcuni dati di fatto. Prima di tutto, al via libera concesso i 19 luglio, dopo 15 giorni di stand-by, da Sergio Mattarella al testo del guardasigilli (che era già stato fermo tre settimane al Mef in attesa delle coperture finanziarie) ha fatto sì immediatamente seguito la “trasmissione” a Palazzo Madama da parte del ministro ai Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, ma ancora serve un ultimo passaggio, vale a dire la formale assegnazione alla commissione Giustizia, che il presidente del Senato Ignazio La Russa firmerà a inizio settimana prossima. Ma a questo punto è semplicemente impensabile che l’organismo presieduto da Giulia Bongiorno possa imprimere, prima della pausa estiva, una spinta significativa a un ddl così delicato. Impensabile pure che la pausa estiva, per parlamentari ed esponenti del governo, svanisca per il secondo anno consecutivo (l’anno scorso vi si dovette rinunciare per portare a casa i provvedimenti di fine legislatura). La riforma Nordio è dunque di fatto rimandata a settembre. Solo allora la presidente Bongiorno e gli altri senatori della commissione Giustizia potranno definire il primo delicatissimo step del percorso: la scelta degli esperti da audire. Ci saranno di certo i tanti giuristi e rappresentanti dell’avvocatura che hanno sostenuto la necessità di abrogare l’abuso d’ufficio, innanzitutto, oltre che di intervenire sulle altre materie affrontate dal pacchetto del guardasigilli (riassunte nell’altro articolo pubblicato in questa pagina, ndr). È altrettanto scontrato che le opposizioni contrarie alla riforma, Pd, 5 Stelle e Alleanza verdi sinistra, chiederanno di sentire non solo l’Anm ma anche i singoli rappresentanti della magistratura, soprattutto inquirente, che già hanno additato la soppressione del articolo 323 come un indebolimento della lotta alla mafia. Sullo sfondo la vera questione affrontata solo di striscio negli ultimi giorni: le ipotesi di incostituzionalità che sempre l’opposizione attribuisce addirittura al Quirinale sull’abuso d’ufficio, in virtù dei trattati che solleciterebbero la previsione del reato (ma in modo non tassativo, come nel caso della citatissima Convenzione Onu di Merida) e della asserita potenziale violazione dell’articolo 117 della nostra Carta, che vincola appunto l’Italia al rispetto degli accordi internazionali. È la vera incognita sul futuro del ddl visto che, se la maggioranza tirasse dritto, non si potrebbe escludere del tutto un rinvio del testo alle Camere da parte di Mattarella. C’è un’altra questione: l’approfondimento sulle intercettazioni condotto dalla commissione Giustizia del Senato nelle scorse settimane e la possibilità che la parte della riforma Nordio dedicata agli “ascolti” venga integrata con gli obiettivi individuati dall’organismo di cui Bongiorno è presidente. Dalla revisione delle norme che estendono i trojan ai reati di corruzione, a un più stringente divieto di ascoltare le conversazioni tra avvocato e assistito. Di sicuro, il cammino della giustizia targata Nordio sarà lungo, e il suo orizzonte, a dispetto delle buone intenzioni emerse con il voto sulla direttiva Ue dei giorni scorsi alla Camera, è ancora tutto da disegnare. La giustizia di Abele non è la gogna di Caino. E il processo non può trasformarsi nella pena di Alberto Cisterna Il Dubbio, 29 luglio 2023 In un pregevole intervento su “Avvenire” di ieri il filosofo Eugenio Mazzarella argomenta da par suo sulla necessità di superare la contrapposizione, irriducibile al momento, tra posizioni giustizialiste e posizioni garantiste e per farlo suggerisce di muovere dalla pietas che deve sempre volgere lo sguardo e assicurare ristoro ad Abele, alla vittima innocente. Non c’è dubbio che, dopo decenni di ingiusto oblio, le vittime dei reati abbiano assunto un ruolo mediatico e politico di grande rilievo nel dibattito pubblico sulla giustizia. Questa centralità stenta, ancora, a conquistarsi pari spazio e dignità nelle anguste rime del processo, ma è indubbio che la voce delle vittime e dei loro sfortunati congiunti abbia assunto un peso notevole nel dibattito pubblico sui temi della giustizia. Al punto da dare a volte l’impressione - con accurate interviste “preventive” e addolorate esortazioni mediatiche in prossimità delle aule di giustizia - di voler condizionare l’esito dei processi o di volerlo sconfessare se contrario alle proprie convinzioni e aspettative. Le sconvenienti prese di posizione sulla recente assoluzione di un imputato di violenza sessuale da parte di stimati giudici del Tribunale di Roma sono solo l’ultima rappresentazione che alla vittima e alle associazioni che intendono rappresentarla sia stata assegnata una posizione pubblica di assoluto rilievo. Il peso di queste incursioni mediatiche, la blanda efficacia delle norme sulla tutela della presunzione di innocenza, lo schierarsi pregiudiziale di tanti media a favore della vittima e contro il reo sono tutti elementi che rendono fragile, se non impossibile la ricerca di un punto di equilibrio tra garantismo e giustizialismo. Anche perché un dibattito quasi sempre annegato in un mare di polemiche non consente quel giusto distacco dalle cose che è il presupposto per una valutazione serena e per una ponderazione ragionevole dei fatti. Eppure, etimologicamente finanche, il processo è appunto un divenire, un percorso dinamico governato da regole. Tre gradi di giudizio, anzi quasi quattro, sono la dimostrazione evidente della profonda convinzione che attraversa la stessa Costituzione secondo cui la giurisdizione sia perennemente esposta al rischio dell’errore, all’alta probabilità dell’abbaglio, alla frequenza della svista. C’è, alla base dei principi che reggono il nostro processo penale, una sorta di insanabile e incomprimibile scetticismo verso la capacità del giudice di pervenire a una conclusione euristicamente validata, a un risultato convincente e rassicurante. Lo scorrere dei gradi di giudizio è nient’altro che il metodo che ci siamo dati per giungere alla meno provvisoria e parziale delle verità, certi che solo il pluralismo delle decisioni, il policentrismo delle corti e dei tribunali possa almeno in parte rassicurarci sulla colpevolezza o sull’innocenza. In altri sistemi, negli Usa in primo luogo, vige la regola che la saggezza della giuria, la sua matrice popolare e non professionale, possano rappresentare la migliore soluzione al problema complesso e incerto della responsabilità dell’imputato; al punto tale che l’appello è una mera, rarissima eventualità. La battaglia tra giustizialismo e garantismo in quel paese praticamente non esiste nella ciclica virulenza con cui si consuma in Italia e per la semplice ragione che un unico grado di giudizio esaurisce la partita e quel che i giurati hanno deciso è percepito come l’unica verità praticabile e possibile. Una follia e basterebbe per tutti ricordarsi del caso di O. J. Simpson. Ma lì va bene così, anche se percentuali altissime di accusati patteggiano la pena proprio per il timore di finire sotto le grinfie di giurie manipolabili e prive di ogni competenza giuridica. È un costo che quel sistema paga. A noi è toccato in sorte di vedere processi che partono con dozzine di arresti, pompose conferenze stampa che coniano verdetti mediaticamente promulgati a distanza addirittura di ore dai fatti e che si concludono con assoluzioni a distanza di anni nell’imbarazzato silenzio di quei media che pure li avevano enfatizzati e sostenuti in principio. Da questo punto di vista la contrapposizione tra chi ritiene di doversi fideisticamente affidare all’accusa e ai suoi coreuti (giustizialismo) e chi, invece, considera doveroso proteggere l’imputato dal linciaggio mediatico sino alla condanna definitiva (garantismo) è non solo irriducibile, ma addirittura indispensabile e vitale. Lo scontro è solo in apparenza processuale, perché invero ha alla base una precisa visione del mondo e una precisa etica pubblica che separa nettamente chi ripone affidamento sui sospetti, sulle accuse, sulle ipotesi investigative - spesso perché danno conferma alla propria visione antropologica dei rapporti umani e alla propria percezione della stessa interiorità negativa degli uomini - e chi, invece, laicamente considera non il peccato, ma l’errore la più grave minaccia alla retta conoscenza dell’uomo e delle sue condotte. Si è giustizialisti o garantisti in forza di una precisa concezione assiologica dell’uomo e del mondo, della sua caducità o della sua incomprimibile dignità e ricchezza. Il sangue di Abele pretende giustizia, è vero. Senza dimenticare tuttavia che “la via dell’inganno nasce stretta, ma troverà sempre chi sia disposto ad allargarla, diciamo che l’inganno, ripetendo la voce popolare, è come il mangiare e il grattarsi, tutto sta a cominciare” (José Saramago, Caino, Feltrinelli 2010). Ecco perché quel decreto mina la separazione dei poteri di Michele Passione Il Dubbio, 29 luglio 2023 A chi ogni tanto dimentica che la sovranità popolare va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione, e non à la carte, a chi pensa che con i pieni poteri è meglio, si fa prima, e calpesta la separazione dei poteri, forse interesserà poco riflettere su queste considerazioni che seguono, che precedono una dichiarazione di intenti che non costituisce più una novità, e dunque non stupisce, ma allarma a prodromi: com’è noto il primo atto di intervento normativo del Governo Meloni è stato il DL 162/ 2022, con il quale (inter alia) sono state introdotte norme in materia di ordinamento penitenziario in ragione dell’affermata “indubbia sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza”, poiché “è noto che, sul tema, è pendente un giudizio di legittimità costituzionale” (così la relazione di accompagnamento). A tacer d’altro, occorrerebbe ricordare che il monito lanciato più volte dalla Corte (ordd. 97/ 2021 e 122/ 2022) a intervenire in materia non era stato raccolto dal Parlamento, ed anche che il Legislatore di urgenza ha dimenticato come l’art. 77 Cost. consenta l’utilizzo del decreto legge “in casi straordinari di necessità e urgenza”, e all’evidenza ciò che è straordinario non è mai prevedibile ex ante. Fin qui, sebbene il precedente citato (formalmente presentato come espressione di collaborazione tra poteri dello Stato, ma in realtà esempio plastico di un diritto penale del nemico) si collochi su un piano parzialmente diverso, ma esemplificativo del modo di intendere la regolazione dei rapporti sociali (i rave come il male da combattere, con buona pace dei Baustelle) e istituzionali (fermare la Corte costituzionale), ciò che in questi giorni viene preannunciato mina in radice il principio di separazione dei poteri. Vediamo perché. Con sentenza emessa il 21 settembre 2022 (non ieri, insomma) la Corte di Cassazione ha ribadito il concetto normativo di criminalità organizzata, muovendo da un consolidatissimo indirizzo ermeneutico (ben tre i precedenti a Sezioni Unite citate), stabilendo dunque come in quel caso le intercettazioni (anche attraverso il trojan) fossero state illegittimamente disposte. Come già è stato ricordato efficacemente da altre voci (Donatella Stasio, Cataldo Intrieri, Gaia Tessitore, Giuseppe Amarelli) “l’interpretazione autentica si giustifica quando c’è davvero un’incertezza nella lettera della legge o c’è un contrasto interpretativo in Cassazione” (per dirimere il quale si può chiedere l’intervento delle SSUU), “ma non quando non si condivide una sentenza”. Siccome però serve fare la faccia feroce e prestare ascolto ai desiderata della DNA, il Governo preannuncia un decreto legge (l’ossessione nella testa). Eppure, si ripete, in assenza di contrasto giurisprudenziale sul punto (al contrario, in presenza di un consolidato diritto vivente) difetta il requisito della straordinaria necessità ed urgenza, così esponendo a rischio di declaratoria di incostituzionalità il prospettato strumento, con quel che ne consegue nell’ambito delle singole vicende che dovessero essere interessate dal novum normativo. Insomma, una legge (non un decreto legge) di interpretazione autentica è utilizzabile quando abbia funzione ricognitiva, e non populista. Diversamente opinando, al formante giurisprudenziale (che ovviamente si può non condividere, quando diventa deformante) si sostituirebbe il potere politico (quello che a volte ignora il senso del divieto, tanto da meritare una richiesta di archiviazione per difetto di elemento soggettivo del reato). Se non è dolo è colpa, diceva qualcuno. Andiamo al mare. Obiettivi Pnrr impossibili con Tribunali così deboli: via Arenula chiama l’Ue di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 luglio 2023 Fitto proporrà a Bruxelles di rivedere anche gli accordi sull’arretrato delle cause civili, che per Nordio può essere ridotto solo del 32 per cento, nel 2026, anziché del 90. Il definanziamento, la riformulazione e, più in generale, il restyling del Pnrr riguarderanno anche la giustizia. Via Arenula, tramite il responsabile per gli Affari europei Raffaele Fitto, ha suggerito infatti una rimodulazione realistica degli interventi da realizzare. Nelle proposte di revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (si veda anche Il Dubbio di ieri, ndr) per la parte dedicata alla giustizia civile, il messaggio lanciato da Fitto è stato chiaro: c’è bisogno di più tempo. Non si riesce a correre ai ritmi dell’iniziale tabella di marcia, finalizzata, prima di tutto, alla riduzione dell’arretrato, grande problema dei Tribunali italiani. Un annuncio a sorpresa - ma fino a un certo punto - quello di Fitto. Il problema dei procedimenti arretrati difficilmente si potrà risolvere se non si interviene alla radice, vale a dire dotando gli uffici giudiziari di un numero adeguato di risorse umane. L’arretrato civile: il caso dei tribunali - L’analisi del ministero della Giustizia parte dal target attuale, coincidente con la data del 31 dicembre 2024, che prevede una riduzione del 65% delle cause pendenti nel 2019 (337.740) presso i Tribunali e una riduzione del 55% delle cause pendenti, sempre nel 2019, (98.371) presso le Corti d’appello. Il target del 30 giugno 2026 prevede invece di ridurre del 90% le cause pendenti sia presso i Tribunali che in appello. Gli obiettivi prefissati per il 2024 richiederebbero già una riduzione dell’arretrato, entro il 31 dicembre prossimo, del 23%, a fronte del 9,3% registrato. Si rileva altresì una diminuzione della capacità di aggressione dell’arretrato rispetto al triennio 2017-2019. In questo contesto emerge la situazione eterogenea dei Tribunali: 95 su 140 (il 68% del totale) hanno ridotto l’arretrato mediamente del 28%. Nei restanti 45 Tribunali (tra questi quelli di Bologna, Milano, Torino e Trieste) i faldoni sono sempre più numerosi. L’arretrato è aumentato anche per l’accresciuto numero dei ricorsi, a partire dal 2019, in materia di protezione internazionale. In simili condizioni, dunque, via Arenula considera realistico che, nel 2026, la riduzione dell’arretrato nei Tribunali civili sia del 32% anziché del 90% inizialmente previsto dal Pnrr. Per le Corti d’appello il target richiedeva una riduzione dell’arretrato del 39% al 31 dicembre 2022, rispetto al 28,3% registrato. In questo caso a via Arenula sono più fiduciosi. Per risolvere le criticità che interessano soprattutto i Tribunali, il ministero non trascura neppure l’ipotesi di attivare misure ulteriori rispetto a quelle già programmate nell’ambito dell’implementazione delle riforme e degli investimenti del Pnrr. Le risorse umane - Sono l’altro snodo fondamentale per rendere efficiente la giustizia. Le risorse umane carenti stanno mettendo in difficoltà tanti uffici giudiziari, con inevitabili disagi per i cittadini e mortificazione del lavoro degli avvocati. Il target iniziale prevedeva l’entrata in servizio di 19.719 unità per l’Ufficio per il processo nei Tribunali civili e penali al 30 giugno 2024. Questo numero è stato rivisto. Il nuovo target prevede l’entrata in servizio di 10mila unità al 30 giugno 2024. Va detto che 16.500 addetti all’Ufficio per il processo sono stati assunti a tempo determinato in due cicli di assunzioni di 8.250 unità di personale (con contratto rispettivamente di 2 anni e 7 mesi e di 2 anni). Sono invece 5.410 i profili tecnici assunti a tempo determinato con contratto di 3 anni. Le proposte di revisione del Pnrr del ministero della Giustizia riguardano, tra le varie cose, la proroga fino a giugno 2026 degli addetti all’Upp e dei tecnici e la limitazione del secondo ciclo di assunzioni a circa 3.100 ulteriori unità, con contratto di 2 anni e tre mesi in avvio al 1° aprile 2024. Inoltre, è prevista la flessibilità nella distribuzione di 5.410 unità di personale tecnico amministrativo (contratto di 3 anni), con incremento delle posizioni per i profili che presentano graduatorie di merito ancora capienti (tecnico di amministrazione e data entry), senza bandire ulteriori concorsi. Sulla gestione degli addetti all’Ufficio per il processo, è arrivata nei giorni scorsi una severa presa di posizione della capogruppo 5 Stelle in commissione Giustizia alla Camera Valentina D’Orso: ma come si vede, la non del tutto soddisfacente adesione ai bandi per quel profilo sposta la questione su un piano diverso. Il caso del tribunale di Napoli Nord - A patire la mancanza di risorse umane sono tra gli altri gli uffici del circondario di Napoli Nord (si veda Il Dubbio del 18 luglio, ndr). Il presidente del Tribunal Luigi Picardi ha disposto la sospensione delle udienze civili davanti al Giudice di Pace di Aversa dal 15 settembre al 31 ottobre. Qualche giorno fa si è tenuto a via Arenula un incontro con i vertici di avvocatura e magistratura. “Abbiamo rappresentato con fermezza - dice Gianluca Lauro, presidente del Coa di Napoli Nord - la complessità della situazione, soprattutto riguardo all’inadeguatezza della pianta organica in del Circondario di Napoli Nord, strutturata a suo tempo su un “carico zero” e non sull’effettivo numero di utenti serviti, circa un milione, e sui reali flussi degli affari trattati, ad oggi tra i più elevati d’Italia”. L’avvocato Lauro si è recato a Roma con il presidente Picardi e la procuratrice della Repubblica Maria Antonietta Troncone: hanno incontrato Gaetano Campo, capo del dipartimento Organizzazione giudiziaria del ministero. “Da parte del dottor Campo - aggiunge il presidente del Coa di Napoli Nord - è stata mostrata grande sensibilità rispetto alle problematiche esposte. Ha assicurato, riconoscendo alla vicenda carattere di assoluta urgenza, che sarà disposta l’assegnazione di nuove unità, assistenti e cancellieri, da destinare, in maniera permanente, al Giudice di Pace di Napoli Nord entro settembre. Campo ha poi precisato che in autunno, stavolta non in sede emergenziale ma ordinaria e definitiva, sarà valutato e disposto un intervento di modifica, in sensibile aumento, della pianta organica del circondario di Napoli Nord, essendo palesemente acclarata la sua inadeguatezza ab origine. Qualsiasi ulteriore iniziativa da parte del nostro Coa è dunque posticipata a settembre all’esito della concreta adozione dei preannunciati provvedimenti”. Prevenzione e punizione di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 luglio 2023 Finalmente la Cedu si è accorta delle eclatanti abnormità che connotano il sistema nostrano delle misure di prevenzione patrimoniali, un unicum mondiale del quale dovremmo infatti semplicemente vergognarci. Grazie ad esso, può regolarmente accadere che Tizio, assolto da ogni accusa penale, si veda purtuttavia confiscare tutti i suoi beni, sulla base di un assioma indecente: è sì innocente, ma è tuttavia pericoloso. Si tratta, in sostanza, di un sistema binario di persecuzione penale, riservato ai reati più gravi, da tempo non più solo di mafia. Dove non riesco a sanzionarti con la prova, ti sanziono con il sospetto, anche se la prova ti assolve da ogni accusa. Dunque niente carcere, ma ti riduco alla miseria. Dobbiamo la svolta ad una famiglia di imprenditori calabresi, gran lavoratori e persone per bene, i signori Cavallotti, che hanno esattamente subito una simile infamia. Arrestati, processati e definitivamente assolti da accuse di intraneità alla `ndrangheta, sono stati tuttavia interamente spossessati dei loro beni, con le loro aziende affidate alla vorace spoliazione degli amministratori giudiziari. Su ricorso di questi benemeriti, ora la Cedu ha rivolto al nostro Governo una serie di quesiti ai quali la Presidente Meloni ed i Ministri Nordio e Piantedosi dovranno accuratamente rispondere entro il prossimo 13 novembre. Da quei quesiti sembra trasparire una sorta di incredulo stralunamento della Corte Europea, che evidentemente fatica a credere ai propri occhi: “Nel caso di una assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni vìola la presunzione di innocenza?” (ma non mi dire); è “proporzionale è necessaria?” (difficile a credersi); “è forse una sanzione penale surrettizia, violativa dell’art. 7 della Convenzione Europea?” (eh già). E tanti altri interrogativi ficcanti, secchi e non equivocabili. Siamo forse - o almeno ci piace augurarcelo - al redde rationem, che potrebbe segnare l’inizio della fine di un sistema legalizzato di abusi il quale, tanto più in presenza di giudizi penali assolutori, supera ogni limite di tollerabilità in uno Stato di Diritto. Un sistema che - in una malintesa prospettiva di difesa sociale - rende il sospetto più forte della prova, sanzionando ben più gravemente che con la privazione della libertà personale chi non saprà - non potrà - concretamente difendersi dalla brutale spoliazione di tutti i suoi beni. Un sistema in ordine al quale, in un passato anche recente, il Ministro Carlo Nordio ha scritto parole di fuoco, da liberale autentico quale egli è; e che invece il Ministro Piantedosi ha pochi giorni fa magnificato, sostenendo che - udite, udite - tutto il mondo ce lo invidierebbe. Bella prova per il Governo, dunque: da seguire con molta, molta cura. Mandato di arresto europeo, la Consulta: “La consegna non violi il diritto alla salute” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 luglio 2023 La Corte costituzionale: l’esecuzione del Mae non deve discriminare irragionevolmente tra i cittadini europei e quelli extracomunitari. L’esecuzione del mandato d’arresto europeo non può andare a discapito dei diritti fondamentali della persona interessata: così ieri la Corte costituzionale con due sentenze (redattore Francesco Viganò). Primo caso: un tribunale croato aveva chiesto la consegna di un cittadino italiano, assistito dagli avvocati Nicola Canestrini e Vittorio Manes, con gravi disturbi psichici (aveva tentato, tra l’altro il suicidio), per sottoporlo a processo per detenzione e spaccio di stupefacenti. La Corte d’appello di Milano aveva chiesto che fosse dichiarata incostituzionale - per contrasto con il diritto fondamentale alla salute - la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di una persona affetta da patologie croniche di durata indeterminabile, incompatibili con la custodia cautelare in carcere. La Consulta nel 2021, riconoscendo che le questioni prospettate “non concernono soltanto la compatibilità con le disposizioni della Costituzione italiana, ma coinvolgono preliminarmente l’interpretazione del diritto dell’Unione europea, del quale la legge nazionale censurata costituisce specifica attuazione”, ha interpellato a sua volta la Corte di Giustizia, condividendo il deficit di tutela. I giudici europei hanno stabilito che, in ipotesi eccezionali di grave rischio per la salute della persona, i giudici che ricevono la richiesta devono sollecitare le autorità giudiziarie dello Stato richiedente a trasmettere informazioni sulle condizioni nelle quali la persona verrà detenuta o ospitata, in modo da assicurare adeguata tutela alla sua salute, eventualmente anche collocandola in una struttura non carceraria. Soltanto nell’ipotesi in cui le interlocuzioni non consentano di individuare una simile soluzione, l’esecuzione del mandato d’arresto potrà essere rifiutata. Alla luce di queste indicazioni, la Consulta ha giudicato non fondata la questione sollevata dalla Corte d’appello, ritenendo che il meccanismo ora configurato dai giudici di Lussemburgo sia idoneo a fornire adeguata tutela al diritto fondamentale alla salute. “La Corte - ha spiegato al Dubbio Manes - ha condiviso, nella sostanza, i profili di illegittimità lamentati dal giudice rimettente e dalla parte privata ed ha rilevato un chiaro contrasto con i diritti fondamentali, del resto già evidenziato anche dalla Corte di Giustizia. Per superare tale contrasto, ha ritenuto non necessaria una declaratoria di incostituzionalità della legge italiana ma sufficiente una interpretazione costituzionalmente orientata, consentendo al giudice richiesto di eseguire il Mae di rifiutarlo nel caso in cui il diritto di salute dell’imputato non sia adeguatamente tutelato dallo stato richiedente”. Secondo caso: l’autorità giudiziaria rumena aveva richiesto all’Italia la consegna di un cittadino moldavo, condannato per reati di evasione fiscale. L’uomo, tuttavia, era da tempo radicato in Italia, dove aveva significativi legami lavorativi, sociali e familiari. La Corte d’appello di Bologna aveva chiesto che fosse dichiarata incostituzionale la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea, ma stabilmente radicato nel territorio italiano, per consentirgli di scontare la sua pena in Italia. I giudici bolognesi osservavano che questa possibilità è già oggi prevista per i cittadini italiani e per quelli di altri paesi dell’Unione, ma non per i cittadini extracomunitari. La Consulta aveva, anche qui, sottoposto il quesito alla Corte di Giustizia. Quest’ultima ha stabilito l’incompatibilità con il principio di uguaglianza davanti alla legge, sancito dall’articolo 20 della Carta europea dei diritti fondamentali. Sulla base di questa sentenza, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 18-bis della legge n. 69 del 2005, che disciplina nell’ordinamento italiano il mandato d’arresto europeo, “nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano”, alle condizioni precisate dalla Corte di giustizia, affinché possa scontare la propria pena in Italia, per favorirne il reinserimento sociale. Ecco perché la sentenza della Consulta su Renzi è una buona notizia per le libertà di noi tutti di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 29 luglio 2023 Malgrado, come c’era da aspettarsi, la notizia della sentenza della Corte sul caso delle intercettazioni che hanno riguardato Matteo Renzi, abbia avuto una risonanza soprattutto nel dibattito politico, in realtà la pronuncia è una buona notizia per tutti coloro che hanno a cuore le libertà costituzionali. È vero: il giudizio riguardava la tutela delle prerogative del parlamentare e in particolare se fosse necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza perché l’autorità giudiziaria possa accedere a quelle comunicazioni che si realizzano anche con gli strumenti elettronici, quali WhatsApp e email. Ma la decisione, che ha affermato la necessità di tale autorizzazione, lo ha fatto alla luce di una precisazione del concetto di comunicazione i cui effetti si riflettono sui diritti di tutti. L’art. 68 della Costituzione sull’immunità dei parlamentari, là dove accorda specifiche garanzie perché si possa accedere alle comunicazioni dei suoi componenti, si innesta, infatti, su di un fondamento più ampio. Questo fondamento è la garanzia della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione prevista per tutti (non solo i parlamentari, dunque) dall’art. 15 della Costituzione. Definire esattamente cosa sia comunicazione, come ha fatto la Corte, significa allora precisare quale sia l’estensione della libertà di ognuno. Questo è il cuore della decisione. Insomma se non si fosse nel perimetro garantito a tutti dall’art. 15, nemmeno Renzi o qualsiasi parlamentare avrebbero potuto godere della particolare (e ulteriore) tutela che è accordata dall’art. 68. Cerchiamo di capire. Fino ad oggi prevaleva l’interpretazione che riduceva il concetto di comunicazione alla sola fase del suo verificarsi. In parole povere, era considerata comunicazione solo ciò che avviene tra il momento in cui il messaggio, orale o scritto, parte da mittente e quello in cui esso arriva al destinatario. Dopo tale momento, la “comunicazione” non veniva più considerata protetta dall’art. 15 della Costituzione e, quindi, nemmeno dall’art. 68. Si trattava di una interpretazione consolidata e molto autorevole, avallata dalla stessa Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 170, la Corte costituzionale respinge tale lettura riduttiva dell’art. 15 Cost. e precisa che anche una volta giunto, il messaggio non si trasforma in un mero “documento” privo delle garanzie previste dalla Carta fondamentale, ma continua ad essere protetto fin quando esso rimanga “attuale” e di “interesse” per coloro che comunicano. La conclusione è di fondamentale importanza, soprattutto nell’epoca delle comunicazioni elettroniche, nelle quali il tempo tra partenza e arrivo del messaggio è praticamente nullo. Premuto l’invio, il destinatario lo riceve in tempo reale (rete permettendo!). Ridurre la tutela costituzionale al tempo di trasmissione, significherebbe quindi svuotare completamente di contenuto il diritto costituzionale. Equivarrebbe a cancellare l’art. 15 della Costituzione. La verità è che la comunicazione non si riduce a questo. O meglio, per riprendere la Consulta, la comunicazione (e la relativa tutela) ha anche un momento statico, quando il messaggio istantaneo atterra sullo smartphone o sul computer e viene memorizzato. Il messaggio “scaricato”, insomma, non diventa un dato liberamente attingibile dai pubblici poteri (giudici, pm o pubblica amministrazione) o da altri privati. Esso non è privo della garanzia costituzionale che garantisce a tutti che l’accesso di estranei alle proprie libere comunicazioni avvenga “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Le parole della Corte non potrebbero essere più chiare: “degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente - o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile - la ricezione”. Tutte queste considerazioni valgono, lo dice espressamente la sentenza, “per la generalità dei consociati”. Cioè per tutti noi. Gli aspetti relativi alle conseguenze sulle vicende del singolo parlamentare non sono che corollari di quell’impostazione. Il fatto che il dibattito pubblico si sia concentrato sui “vantaggi” che da tale decisione derivano nella fattispecie a Matteo Renzi, scatenando anche gli umori contrapposti delle varie tifoserie, non deve far dimenticare la prospettiva generale. Sia perché, in realtà, per la natura del processo costituzionale, l’oggetto della decisione non è l’interesse di questo o quel parlamentare, ma semmai la definizione del perimetro delle prerogative assicurate, seguendo lo spirito del Costituente, all’organo in cui tutto il popolo è rappresentato. Sia, perché, di una tale decisione tutti, cittadini e non, dovrebbero rallegrarsi. Essa radica su ancor più solide e intangibili basi, e con l’autorevolezza del giudizio del massimo organo di garanzia della Costituzione, la tutela - nei limiti ivi prescritti - del diritto di ciascuno di comunicare liberamente anche nell’era e con i mezzi digitali. E questa, come dicevo, è una buona notizia. Più detenuti e meno permessi premio: nel Lazio la situazione peggiore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2023 Confermato l’incremento costante degli ingressi in carcere, con il Lazio in prima posizione. Nell’ultimo semestre, il numero di detenuti definitivi è aumentato del 5,6% in Italia e del 10% nel Lazio. Questo aumento è dovuto principalmente alla crescita dei detenuti con pene inferiori a cinque anni. Non solo. Sempre nel primo semestre 2023, il numero di permessi premio erogati è diminuito di 34 unità, passando da 623 a 589. Questo dato evidenzia un’ulteriore chiusura del sistema penitenziario e una maggiore difficoltà per i detenuti di interagire con il mondo esterno. Questo aspetto è cruciale per promuovere il reinserimento sociale dei detenuti e prevenire la recidiva. Questo è altro ancora si evince dai dati di riepilogo semestrale del Dap sulle dinamiche della popolazione detenuta, grazie ai quali il garante delle persone private della libertà Stefano Anastasìa ha potuto evidenziare le problematiche emerse. Appare evidente, che nel primo semestre del 2023 si è registrato un consolidamento dell’incremento costante degli ingressi in carcere, con una crescita più marcata nel Lazio rispetto al resto del Paese. Il trend di crescita della popolazione detenuta è continuato per circa un anno e mezzo. Questa dinamica è in gran parte attribuibile all’aumento degli ingressi in carcere, con un incremento dello 0,8% in Italia e del 2,4% nel Lazio nell’ultimo semestre preso in esame. È importante notare che i numeri attuali sono ancora inferiori a quelli registrati prima dell’inizio della pandemia. Nel secondo semestre del 2019, gli ingressi in carcere in Italia erano stati oltre 22.000, mentre nel primo semestre del 2023 sono stati poco meno di 20.000. Nell’intero Paese, nel semestre considerato, il maggiore incremento riguarda i detenuti definitivi (+ 5,6%), con una prevalenza di coloro che devono scontare pene inferiori a 5 anni (+ 7,1%). Al contrario, si è registrata una diminuzione del 5,8% nel numero di persone in attesa di giudizio. Nel Lazio, le dinamiche di crescita sono risultate ancora più intense, con un aumento del 10% dei detenuti con pene inferiori a 5 anni e una crescita del 7,6% per coloro che devono scontare condanne di maggiore entità. Anche nel Lazio, si è verificata una diminuzione delle persone detenute in attesa di giudizio (- 6,5%). Riguardo alle persone che hanno meno di due anni di pena residua, il loro numero è aumentato del 4,2% negli istituti penitenziari di tutta Italia, mentre nel Lazio si è registrato un incremento ancora più consistente, pari al 10,4%. Purtroppo le azioni messe in atto dalla magistratura di sorveglianza durante il periodo pandemico, che avevano ridotto significativamente il numero di persone con meno di due anni dalla fine della pena, non hanno avuto un impatto duraturo, e molte di queste persone si trovano ancora in attesa di accesso a misure alternative alla detenzione. I dati relativi alla distribuzione per età dei detenuti negli istituti penitenziari confermano una costante tendenza all’invecchiamento della popolazione detenuta. Tra il giugno 2018 e il giugno 2023, l’età media dei detenuti in Italia è aumentata da 38 a 40 anni e due mesi, mentre nel Lazio è passata da 37 e tre mesi a 40 e 4 mesi. Segno della progressiva cronicizzazione della condizione di reclusione e di marginalità delle persone coinvolte nel sistema penitenziario. Cagliari. Detenuto si toglie la vita nel bagno della sua cella La Nuova Sardegna, 29 luglio 2023 Un detenuto, che pare non avesse nessuna patologia psichiatrica e, dalle prime indiscrezioni, non avesse mai assunto comportamenti che facessero sospettare potesse mettere in atto gesti auto-soppressivi, si è suicidato nelle ore notturne nel bagno della propria camera detentiva, che condivideva con altri compagni di detenzione. Lo ha fatto utilizzando un lenzuolo intrecciato che ha legato alla finestra del proprio bagno. Il personale ha immediatamente dato l’allarme agevolando gli interventi dei sanitari ma a nulla sono valsi i soccorsi seppur tempestivi. A rendere nota la notizia, il segretario generale della Uil Pa Polizia Penitenziaria Michele Cireddu che afferma: “Si tratta dell’ennesimo evento critico nell’Istituto di Uta, dove sono allocati circa 600 detenuti e dove si registra una carenza organica di agenti di circa 140 unità. Le proporzioni numeriche offrono un quadro estremamente significativo, quando va bene, tre unità devono assicurare il controllo di 3 sezioni dove sono allocati complessivamente circa 100 detenuti, e nei 4 piani detentivi la situazione è pressoché simile, è umanamente e oggettivamente impossibile garantire quindi un controllo assiduo. Servono urgenti integrazioni di poliziotti che possano gestire i continui eventi critici che si verificano in Istituto, ma servono anche interventi urgentissimi per correggere le deficienze organizzative, per fornire strumentazioni e tecnologie adeguate, servono insomma urgenti misure emergenziali e strutturali”. Il segretario nazionale della Uil De Fazio ha definito il numero esorbitante di suicidi come una “pena di morte di fatto” e non è difficile preventivare che senza interventi concreti, basandoci solo sulle parole di facciata della classe politica e dei vertici dei palazzi romani, la situazione continui a peggiorare drasticamente ed irreversibilmente. Sulla vicenda è intervenuta la garante regionale per le persone private della libertà, Irene Testa: “In questa settimana mi sono recata quasi tutti i giorni nel carcere di Uta. La polizia penitenziaria è allo stremo delle forze. I detenuti e le detenute costretti a stare in cella con un caldo insopportabile. I ventilatori che l’amministrazione consente di acquistare costano 40 euro, quasi il doppio rispetto all’esterno; la maggior parte dei detenuti non li può acquistare. Il caldo si sa acuisce il disagio soprattutto nella popolazione con problemi psichici, circa la metà dei detenuti ospitati. Non è un caso che stanotte, ancora una volta un detenuto psichiatrico si sia tolto la vita. Proprio due settimane fa avevo scritto al presidente Mattarella affinché si facesse carico della questione riguardante i malati psichiatrici. La risposta non è arrivata ma i problemi rimangono. Le carceri rimangono luoghi abbandonati a se stessi e tutto è lasciato alla grande opera di volontari, direttori e agenti. È evidente che anche il diritto alla salute viene violato. Un ventilatore in cella non fa un carcere a 5 stelle”. Comunicato stampa dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme “È inutile girarci intorno: le carceri sono prevalentemente il luogo della pena di persone senza speranza. Le tragedie documentano lo stato di disperazione di vite devastate dal disagio e dalla fragilità”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” avendo appreso del suicidio nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta di F.A., 54 anni, originario di San Gavino Monreale, trovato impiccato ieri notte nel bagno della sua cella. “Nell’esprimere le condoglianze ai familiari e in particolare alla figlia, SDR non può tralasciare di considerare che un atto di autolesionismo estremo in una cella rappresenta una sconfitta per le Istituzioni e genera dolore e sgomento in tutte le persone che operano nel carcere”. “Parlare delle condizioni della detenzione oggi in Italia e in Sardegna significa - sottolinea Caligaris - farsi portavoce di bisogni primari, secondo il dettato costituzionale. Il principale dovere delle Istituzioni è quello di leggere e interpretare la realtà e offrire alternative adeguate a chi per motivi diversi non è rimasto nel solco della legalità. I bisogni umani, culturali e sociali di chi sbaglia devono essere accompagnati da progetti di crescita e integrazione. Nelle carceri sarde mancano gli Agenti e i Direttori sono tutti a scavalco. Questo significa non riconoscere il peso della perdita della libertà. Spesso in carcere un disagio dissimulato o poco avvertito sconfina nella tragedia ma è certo che la povertà socioculturale e le scarse o nulle prospettive hanno un ruolo determinante nelle pur insondabili scelte di una persona. Ne siano consapevoli soprattutto - conclude l’esponente di SDR - i convinti carcerocentrici. Non si può più continuare a stare alla finestra”. Bergamo. Io, sindaco e i dannati delle “celle pollaio” di Giorgio Gori La Stampa, 29 luglio 2023 Sovraffollamento, carenza di personale, discriminazione sociale, esplosione delle tossicodipendenze. La situazione delle carceri italiane è allarmante. Anche quella degli istituti penitenziari gestiti con impegno e competenza, come il carcere di Bergamo, la città di cui sono sindaco. Descriverne il funzionamento può dare la misura della gravità dei problemi, e forse lo spunto per un’azione di cambiamento. I detenuti nella Casa circondariale di via Gleno sono oggi 521, rispetto ad una dotazione di 319 posti. Il sovraffollamento (+163%, tra i più alti in Italia) comporta che nelle celle in cui sono previsti 2 detenuti ve ne siano 3, e dove 4, 6 o 7. La legge dice che sotto i 3mq a testa, e qui spesso accade, i detenuti hanno diritto a chiedere la liberazione anticipata. In compenso vi è un forte deficit di personale: gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 185, su un organico previsto di 243). Anziché turni di 6 ore, gli agenti arrivano a farne di 9 o di 10. Fino a 41 ore mensili sono straordinari, oltre sono ore da recuperare. Siamo arrivati a 27mila ora da recuperare, pari a 4.500 giornate di lavoro. Sul totale dei detenuti, circa la metà è costituita da italiani; il 7,5% da stranieri comunitari; il 10% da stranieri extra UE con permesso di soggiorno; e il 35% da stranieri extra UE senza permesso di soggiorno. Considerando che questi ultimi sono stimati nel numero di circa 500mila in Italia, meno dell’1% della popolazione residente, significa che la loro propensione a finire in carcere - almeno stando ai numeri di Bergamo - è circa 20 volte superiore a quella degli stranieri regolari, che a loro volta vi entrano in proporzione circa doppia rispetto alla loro presenza nel nostro Paese. Ammesso che la detenzione sia un’attendibile misura della propensione a violare la legge, - lo è solo parzialmente - è la dimostrazione che il “problema sicurezza” non riguarda gli stranieri, ma principalmente - clamorosamente - gli stranieri irregolari, come conseguenza diretta del fallimento delle politiche migratorie del nostro Paese. Lo stesso sovraffollamento delle carceri non è che l’altra faccia della disastrosa gestione dell’immigrazione da parte dello stato italiano. Centinaia di migliaia di persone permangono in Italia dopo che la loro richiesta di asilo è stata respinta, o perdono i requisiti dopo aver perso il lavoro. Non vengono rimpatriati se non in misura minima (nel 2022 i rimpatri sono stati meno di 4mila) ma non possono lavorare regolarmente perché privi di documenti, oltre che di domicilio; e devono sopravvivere. I numeri del carcere di Bergamo dicono con quanta facilità siano portati a farlo violando la legge e quanto sia per loro difficile accedere alle misure alternative alla detenzione (che in Italia coinvolgono quasi il 60% delle persone coinvolte nell’area del penale); queste sono infatti concesse dal magistrato di sorveglianza - e con la riforma Cartabia anche dall’autorità giudiziaria procedente - nelle forme della semilibertà, o della detenzione domiciliare, o dell’affidamento ai servizi sociali. Per chi non ha domicilio, per chi non ha soldi per pagarsi un avvocato e non ha relazioni sociali all’esterno, è quasi impossibile accedervi. In carcere finiscono dunque - per rimanervi - soprattutto stranieri irregolari, o persone senza soldi. 36 detenuti (sui 521 totali) godono del regime di semilibertà (la metà ex art.35): escono di giorno per lavorare e rientrano la sera, grazie ai posti di lavoro esterni reperiti e gestiti perlopiù dall’associazione Carcere e Territorio; altri 40 posti di lavoro coinvolgono condannati che hanno accesso alle misure alternative. Per chi lavora all’esterno - in cooperative o in imprese del territorio, alcuni anche per i Comuni - la forma di inquadramento principale è il tirocinio extracurricolare, retribuito circa 500 euro/mese. Nel 2022, di 80 detenuti coinvolti, 22 sono stati poi assunti a tempo indeterminato. All’interno del carcere i “posti di lavoro” sono invece un centinaio. Circa la metà riguarda “lavori domestici”: pulizie, cucina, distribuzione dei pasti, lavanderia, ecc. Sono poco qualificati, e tuttavia sono piuttosto ambiti, perché consentono di guadagnare qualcosa; sono affidati secondo un criterio di rotazione. Altri 50 sono relativi a lavorazioni gestite da soggetti esterni - cooperative o imprese - e comprendono attività di panetteria, sartoria, assemblaggio di pezzi meccanici, saldatura, cura dell’orto. L’avviamento al lavoro è forse il profilo forse più qualificante del carcere di Bergamo, seppure piuttosto limitato nei numeri. Perché è la chiave per abbattere drasticamente il rischio di recidiva. I dati Cnel dicono che in Italia, su 18.654 detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale, la percentuale di coloro che tornano a commettere un reato è del 2% - contro una media del 68.7%. La legge individua il lavoro come elemento del trattamento rieducativo; purtroppo, come si è visto, solo una parte minoritaria della popolazione carceraria ha accesso a questa possibilità. Un profilo di fortissima criticità è rappresentato dalle tossicodipendenze in carcere. Nella Casa circondariale di Bergamo questo problema coinvolge oltre la metà dei detenuti: circa 300 su 521, molti dei quali giovanissimi. Relativamente pochi sono gli eroinomani, molti di più i dipendenti da cocaina. Tutti, praticamente, ricevono quotidianamente i farmaci prescritti loro dal personale medico per combattere disturbi quali ansia, insonnia o depressione; e molti ne abusano. Mentre gli eroinomani ricevono il metadone con regolarità, in dosi appropriate, gli altri consumano farmaci come il Lirica, un antiepilettico e antidolorifico, che spesso viene stoccato, elaborato e consumato in alti dosaggi, così da ricavarne un effetto in qualche modo simile a quello della cocaina. Numerosi detenuti si fanno prescrivere questi farmaci e poi li vendono per potersi comprare sigarette o altri beni; col risultato che, in astinenza, diventano aggressivi - anche nei confronti del personale sanitario - e richiedono di essere calmati con altri farmaci, tra i quali le benzodiazepine, da cui pure tendono a diventare dipendenti. Preoccupa soprattutto la crescente diffusione dell’uso del Lirica, ma è difficile immaginare di negarne la somministrazione. A Cremona si hanno provato e i detenuti si sono rivoltati danneggiando diverse strutture del carcere. Servirebbe un controllo sanitario molto maggiore, ma con il poco personale disponibile - mancano medici e infermieri; i bandi vanno deserti e il servizio è affidato a cooperative - è pressoché impossibile realizzarlo. Molti sono anche i reclusi con problemi psichiatrici. Alcuni si sono visti prosciogliere “per vizio totale di mente” ma, essendo socialmente pericolosi, dovrebbero essere ospitati in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, una struttura sanitaria dedicata appunto agli autori di reato affetti da disturbi mentali. I posti nelle Rems sono però pochi. Si formano così delle liste d’attesa. Nel frattempo queste persone rimangono in carcere, senza cura - e ci sono stati adolescenti che hanno cercato di impiccarsi -, sempre che il magistrato di sorveglianza non decida di farli comunque uscire, con i rischi del caso. Non ci sono stati casi di suicidio, nel carcere di Bergamo, negli ultimi anni, e questo nonostante il 2022 sia stato un anno tristemente record per il numero dei detenuti che in Italia si sono tolti la vita (85) e numerosi siano stati anche quest’anno. Anche in via Gleno ci sono però stati diversi “decessi accidentali”, dovuti a overdose di farmaci o all’inalazione di gas (3 nel 2022). E questo è (quasi) tutto. Da un carcere che non è certo tra i peggiori del nostro Paese. San Cataldo (Cl). Antigone: “Troppo caldo in cella, rivolte per le condizioni disumane” blogsicilia.it, 29 luglio 2023 “Da giorni si respira aria di tensione alla Casa di reclusione di San Cataldo, pare che mercoledì scorso ci siano state delle rivolte interne per le condizioni in cui vivono i detenuti stante il caldo anomalo che ha colpito la Sicilia. I centralini risultano staccati e le comunicazioni con i familiari impossibili. Da questa mattina sono stati disposti diversi trasferimenti. Dove la notizia dovesse essere confermata, per Antigone Sicilia è l’ulteriore conferma della assoluta inadeguatezza del sistema detentivo, nonostante gli sforzi e l’impegno del personale dell’amministrazione penitenziaria, degli educatori e dei volontari”. È quanto affermano gli avvocati Giorgio Bisagna e Francesco Leone presidente e vicepresidente dell’associazione Antigone Sicilia. Pare che le proteste sia dovuta alla carenza d’acqua per la doccia, il ritardo nei colloqui e nella consegna del cibo. Auspichiamo rapido intervento della politica - “La disumanità oggettiva dovuta alla fatiscenza delle strutture - aggiungono gli avvocati - al ‘vuoto educativo’ che si determina in estate, l’assenza di adeguati presidi per limitare la sofferenza per l’emergenza climatica in atto non possono che produrre questi risultati. Auspichiamo un rapido intervento della politica su questi temi, non più differibili”. Garante dei detenuti, la Dc: “Avviare iter per nomina nei comuni dove ci sono le carceri” - Nei giorni scorsi la Democrazia Cristiana ha iniziato le interlocuzioni affinché venga avviato l’iter per la nomina dei garanti dei detenuti ad Agrigento, Augusta, Catania, Enna, Piazza Armerina, Gela, Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Noto e Ragusa, comuni in cui insistono gli istituti penitenziari siciliani. “Quella del carcere è una esperienza dall’odore incancellabile, c’è il dolore in tutta la sua sacralità - dichiara il segretario nazionale della Dc, Totò Cuffaro. Il carcere non è storia di corpi, ma storia di anime che vivono la paura e lunghi sensi di colpa in pochi istanti ripetuti. Pochi si rieducano, molti pagano solo un pedaggio alla propria coscienza, troppi scelgono di togliersi la vita. La sicurezza degli istituti penitenziari deve tornare ad essere urgentemente argomento di interesse pubblico e, aggiungo, anche politico”. Reggio Emilia. Detenuto torturato, i telefonini degli agenti indagati sotto esame di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 29 luglio 2023 La Procura dispone e affida ai periti un accertamento tecnico sui cellulari di 14 poliziotti della penitenziaria. Si faranno nuovi approfondimenti investigativi sul caso del detenuto 40enne che, secondo la tesi d’accusa, avrebbe subito tortura il 3 aprile dagli agenti della polizia penitenziaria all’interno del carcere di Reggio. La Procura ha infatti disposto un accertamento tecnico irripetibile sui cellulari sequestrati agli indagati il 13 luglio - giorno in cui sono state applicate loro le misure coercitive e interdittive - per scandagliarne la memoria. Sott’inchiesta sono finiti quattordici uomini: il giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi ha disposto la sospensione dai pubblici uffici per un anno per otto persone, per le quali è formulato il reato di tortura, e per dieci mesi per altre due, oltre all’obbligo di firma cumulativo per cinque agenti. Nei giorni scorsi il gip ha poi revocato la misura interdittiva di durata annuale per un giovane che si era sottoposto all’interrogatorio di garanzia decidendo - l’unico fra tutti - di rispondere alle domande, dicendo di aver agito in modo corretto. Alla base delle accuse mosse, all’interno del fascicolo coordinato dal pubblico ministero Maria Rita Pantani, vi è la denuncia sporta dal detenuto, che ha trovato riscontro, a detta della Procura, sia nei filmati delle telecamere interne sia nelle testimonianze di operatori e altri detenuti. Ora si aggiungeranno altre verifiche sui cellulari, che sono state affidate alla polizia scientifica di Bologna, a partire dal 21 agosto. Le altre parti potranno a loro volta nominare consulenti tecnici oppure chiedere di fare un incidente probatorio davanti al gip. La vicenda è nata quando il detenuto è uscito dalla stanza della direttrice dopo che per lui era stato deciso l’isolamento per condotte che avrebbero violato il regolamento del carcere. Sarebbe stato incappucciato con una federa di un cuscino, messo a terra e preso a pugni e pedate, sollevato a mezz’aria e denudato; poi picchiato una seconda volta. Si sarebbe autolesionato con i pezzi del lavandino rotto poco prima per attirare l’attenzione, finché un medico e un detenuto non sono accorsi in suo aiuto. Foggia. L’inclusione socio-lavorativa dei detenuti attraverso i beni confiscati foggiatoday.it, 29 luglio 2023 Si intitola “Chissà se i pesci piangono”, la nuova avventura della cooperativa che dal 2010 gestisce il laboratorio di legalità “Francesco Marcone” a Cerignola. È partita a maggio la nuova avventura di “Pietra di Scarto”, impegnata dal 1996 nell’inserimento socio-lavorativo di persone in situazione di fragilità e che dal 2010 gestisce il Laboratorio di Legalità “Francesco Marcone”, un bene confiscato alla mafia su cui - tra gli altri - si coltivano e si trasformano pomodori. “Chissà se i pesci piangono” si chiama il nuovo progetto (che durerà per 12 mesi), realizzato con il sostegno di Regione Puglia e in collaborazione con il Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Il titolo, ispirato ad un libro di Danilo Dolci, punto di riferimento dell’organizzazione, vuole interrogare la comunità sulla necessità di una concezione costituzionale del percorso detentivo come elemento di redenzione, riscatto e rivoluzione, andando a rompere stereotipi e pregiudizi. “La nostra ambizione va oltre la possibilità di offrire un’occupazione e quindi un reddito a chi vive la realtà del carcere. Quello che vogliamo ottenere è dimostrare come attraverso la leva del lavoro, la persona - soprattutto in un percorso di pena - possa trovare gli stimoli utili ad una propria autodeterminazione, capace di sviluppare nuove letture di sé e del circostante”, afferma Pietro Fragasso, presidente della Cooperativa. “La possibilità inoltre di poter realizzare questa esperienza su un bene confiscato alla mafia realizza esattamente l’obiettivo fondamentale del riutilizzo sociale: la possibilità di costruire cambiamento incidendo sul reale, sulla vita delle persone, sulle loro storie che diventano ricchezza per tutta la comunità”. Dalla formazione “on the job” in agricoltura sulle varie colture presenti (pomodoro, olive, orticole e piante da frutto), si arriverà alla conoscenza dell’attività di trasformazione agro-alimentare con una formazione dedicata e il perseguimento di un attestato da alimentarista. “È necessario comprendere che il carcere non è un non-luogo, ma luogo della società che coinvolge tutti in responsabilità. Quelli che vivono “dentro” restano cittadini, proprio come noi, e hanno diritti e doveri, non solo obblighi. Riccardo e Michele stanno lavorando sodo per riprendere il controllo delle proprie esistenze e a noi - tutti noi - corre l’obbligo di stargli accanto senza giudicare e condannare ancora”. Catanzaro. La cooperativa “Mani in libertà” forma otto detenuti come pasticceri provetti ildispaccio.it, 29 luglio 2023 La cooperativa “Mani in libertà”, nata per dare concretezza al progetto “Dolce Lavoro” che, con il sostegno di Fondazione Con il Sud, ha formato otto detenuti della Casa Circondariale di Catanzaro per diventare pasticceri provetti, è entrata a pieno regime. Da mesi, infatti, le richieste di dolci e torte arrivano sempre più copiosamente all’interno del laboratorio di pasticceria attrezzato di tutto punto, ricavato in un locale all’interno del carcere messo completamente a nuovo. Torte al cioccolato ed alla frutta, maritozzi con panna, semifreddi alla nocciola ed al pistacchio: le ordinazioni abbondano in bacheca, ed i detenuti, con indosso grembiule e “toche”, calcolano i tempi per la cottura in forno e si alternano con velocità e destrezza nello svolgimento dei vari compiti, accantonando per qualche ora il pensiero di trovarsi in un carcere. Sanno che il progetto è un’incredibile opportunità di riscatto sociale, oltre che lavorativa: alcuni di loro dal carcere non usciranno mai, ma l’idea che la comunità esterna possa apprezzare le dolci creazioni rende sicuramente più sopportabile l’espiazione della pena. La cooperativa è il risultato di un intenso lavoro che ha messo insieme una variegata rete di partenariato - dall’associazione capofila “Amici con il Cuore” all’impresa sociale “Promidea”, dall’associazione “Liberamente” all’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna e, naturalmente, alla stessa Casa Circondariale, con la collaborazione attiva della direttrice Patrizia Delfino, del comandante Domenico Paino, dei responsabili dell’area educativa, dell’amministrazione e degli agenti di polizia penitenziaria - per portare avanti le varie fasi del progetto sostenuto da Fondazione Con il Sud, iniziato con la formazione e l’acquisizione di una qualifica professionale da parte dei detenuti, e proseguito, dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia, con l’inaugurazione del laboratorio di pasticceria. Ora la cooperativa è pronta a camminare sulle proprie “gambe” e ad avviare la vendita online dei prodotti: la fama dei dolci della cooperativa “Mani in Libertà” - appositamente costituita per far lavorare i detenuti - ha infatti varcato le mura dell’istituto penitenziario, non solo per la qualità e l’aspetto magnifico delle torte, ma anche per l’abilità nel riproporre e, all’occorrenza, modificare le ricette tradizionali calabresi. È il caso del “bigiotto”, il biscotto energetico del camminatore che Antonietta Mannarino, presidente dell’associazione “Amici Con il Cuore”, capofila del progetto in carcere, ha ideato qualche anno fa per i pellegrini che affrontavano le camminate nei sentieri più tortuosi della Calabria. La ricetta, che si basava sull’utilizzo di miele, fiori di lavanda ed essenza di mandarino e limone, è stata riproposta dai detenuti con l’aggiunta di mandorle e burro, ed è stata consegnata in monoporzioni ai partecipanti della terza edizione delle Camminate dell’Antica Sila, promosse dall’associazione sportiva “Calabriando”, che si sono concluse il 22 luglio scorso. E presto il “bigiotto”, dalla caratteristica forma di “piede”, potrà essere acquistato nei luoghi turistici scelti come base di arrivo e di partenza delle varie camminate - alla scoperta dei siti calabresi di valore artistico, culturale e religioso - che si alternano per tutto il periodo estivo. Si allunga, quindi, la lista dei dolci prodotti della cooperativa “Mani in libertà” che, con l’apertura della pasticceria “Amare Fuori”, ambisce ad essere una “dolce sintesi” tra creatività e rispetto della tradizione con pasticceri d’eccezione. Forlì. Festival fotografia “Si Fest” oltre i muri del carcere ansa.it, 29 luglio 2023 “Testimone oculare” è un progetto di professionisti e detenuti. Il festival di fotografia Si Fest di Savignano sul Rubicone (Forlì-Cesena) quest’anno oltrepassa i muri del carcere di Forlì e diventa “Testimone oculare”, un progetto realizzato insieme da fotografi professionisti e persone detenute. La 32/a edizione del festival è in programma dall’8 al 10 settembre e nei weekend del 16-17 e 23-24 settembre, ed è affidata per il secondo anno alla direzione artistica di Alex Majoli. La manifestazione approfondirà l’originale percorso di educazione all’immagine fotografica delle nuove generazioni avviato lo scorso anno. Per realizzare “Testimone oculare” quattro fotografi professionisti (Arianna Arcara, Cristina De Middel, Lorenzo Vitturi, Marco Zanella) hanno collaborato con sei persone detenute documentando ciò che ciascuna di loro desidera vedere, o rivedere, del mondo esterno. Gli esiti sono sei ricerche che varcano i confini del carcere, sei reportage progettati e sviluppati alla pari dai fotografi e dalle persone detenute. Accanto a questo focus, ospitato al Consorzio di Bonifica, il percorso espositivo curato da Majoli prosegue come lo scorso anno nelle scuole elementari e medie di Savignano, per avvicinare il più possibile alla cultura fotografica allievi e insegnanti. Ogni mostra è associata a una materia diversa e anche i visitatori del festival sono così invitati a ragionare con gli schemi mentali degli studenti. Minorenni ricoverati negli stessi reparti psichiatrici degli adulti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2023 In Italia, i minorenni con problemi di salute mentale vengono spesso ricoverati negli stessi reparti degli adulti. L’ultimo caso riguarda un minore autistico presso il servizio psichiatrico per adulti di Chioggia, in Veneto. Un caso che poi è approdato in Parlamento con una interrogazione rivolta al ministro della Salute a firma dei Dem Andrea Martella e Sandra Zampa. E interviene anche Carla Galatti, garante per l’infanzia e adolescenza. Come detto in premessa, l’interrogazione parlamentare presentata dai deputati al ministro ha riguardato un grave problema nel sistema sanitario italiano, in particolare nella gestione dei pazienti giovani affetti da problemi psichici, come denunciato dal Movimento per la sanità pubblica del Veneto. Il caso specifico riguarda un ragazzo di 13 anni, il quale è stato ricoverato nell’ambito del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Chioggia, per la mancanza di un’accoglienza alternativa adeguata alla sua età. In particolare, il giovane è stato ricoverato per un mese in un reparto psichiatrico destinato agli adulti, nonostante sia prevista una specifica normativa che vieta il ricovero in promiscuità con persone di età diverse. Questo caso, purtroppo, non è isolato e sembra essere una costante su tutto il territorio regionale, evidenziando una grave carenza di servizi dedicati alla Neuropsichiatria infantile e adolescenti. Le famiglie e i pazienti affetti da spettro autistico si trovano spesso abbandonati a sé stessi, soprattutto in giovane età, a causa dell’oggettiva mancanza di risorse e servizi offerti dalla Ulss (Unità Locali Socio- Sanitarie). Nonostante le promesse della Regione di istituire un reparto di Neuropsichiatria infantile in ogni Ulss, quest’ultima non ha ancora adempiuto a questa importante iniziativa, causando notevoli disagi ai pazienti e alle loro famiglie. La situazione è resa ancora più allarmante dal crescente numero di adolescenti che presentano problemi psichici, dipendenze e manifestazioni antisociali, il quale richiede un potenziamento dei servizi pubblici per garantire loro un’adeguata presa in carico. Questione che ora viene confermata dalla garante per l’infanzia e adolescenza. Ricorda che, secondo la Società di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ben sei minorenni su dieci vengono ricoverati in reparti inappropriati, tra cui quelli dedicati agli adulti. Questa condizione è particolarmente critica nel Veneto, come già è stato segnalato, ma è un problema diffuso su tutto il territorio nazionale. Dal 2017, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza ha espresso la necessità di prestare particolare attenzione affinché i ragazzi di minore età con disturbi psichiatrici non vengano ricoverati nei reparti per adulti, dove le cure e l’ambiente non sono adeguati alle loro esigenze specifiche. Risulta evidente, tuttavia, che questa raccomandazione viene disattesa, mettendo a repentaglio i diritti dei giovani pazienti. La pandemia ha acuito ulteriormente questa problematica, come rilevato dalla prima fase dello studio sull’impatto della pandemia sulla salute mentale dei minorenni, condotto dall’Autorità in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità. In luce di ciò, la Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha recentemente richiesto un numero congruo di posti letto nei reparti di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza su tutto il territorio nazionale. Attualmente, stando ai dati del 2022 del Ministero della Salute, ci sono solo 403 posti letto in degenza ordinaria, mentre secondo la Società di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ne servirebbero almeno 700. Paola De Micheli: “La vera riforma è il reddito universale” di Umberto De Giovannangeli Il Dubbio, 29 luglio 2023 Ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti nel governo Conte 2, sottosegretaria al ministero dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio), parlamentare (attualmente è vice presidente della Commissione Attività produttive della Camera dei deputati) e di partito (è stata vice segretaria nazionale, assieme ad Andrea Orlando, con Nicola Zingaretti segretario). La parola a Paola De Micheli. Il voto spagnolo dice che la “fiamma” di una destra estrema può essere contenuta se non “spenta”. Da quel voto che lezione dovrebbe trarne il Pd? Dalla Spagna è arrivato un segnale politico molto importante anche in chiave europea. E se dobbiamo resistere alla tentazione di guardare con occhi italiani alle vicende di un paese vicino a noi ma differente, voglio leggere con fiducia l’importante risultato ottenuto da un partito dalla sinistra di governo come il Psoe, quando tutti gli osservatori lo davano in inesorabile declino. Destinato a essere travolto dall’ondata di destra. Invece i socialisti hanno guadagnato voti rispetto alle ultime elezioni politiche e si sono confermati forza fondamentale della democrazia spagnola. Così come le urne hanno decretato una sonora sconfitta per gli estremisti di destra di Vox. Il voto in Spagna dimostra che la partita è ancora aperta in vista delle elezioni europee e non c’è un futuro già scritto che confinerà la sinistra a una condizione di minorità. In politica ogni tanto ci vuole anche coraggio, e Sanchez lo ha avuto nella scelta del voto anticipato e affrontando una campagna a viso aperto, fatta sul territorio, non solo incentrata sugli importanti risultati ottenuti al governo, ma sui diritti sociali, offrendo risposte avanzate ai bisogni di ogni giorno delle persone. Naturalmente ora non sarà facile per gli spagnoli darsi un governo stabile, ma sono felice per l’affermazione del Psoe anche per un’altra ragione: perché evidenzia che quella sul salario minimo è una battaglia politica giusta anche per il Pd, Non è solo una questione simbolica legata alla dignità del lavoro, perché può avere una ricaduta reale sulle condizioni di vita delle persone. Tutti o quasi nel Partito Democratico si dicono “riformisti”. Una parola buona per tutte le stagioni che spesso diventa sinonimo di “moderatismo”. Cosa significa per lei essere “riformisti”? Intanto riformismo e riformista sono fra le parole più abusate nel gergo politico degli ultimi anni. Tanto da diventare etichette vuote o da essere accostate impropriamente al moderatismo. Non c’è sinistra senza tensione verso la trasformazione e il Pd non può limitarsi alla “manutenzione ordinaria”, serve una trasformazione anche radicale purché sia sempre indirizzata al miglioramento della vita delle persone, e soprattutto sia misurabile nei fatti. Allora la sfida di un nuovo riformismo oggi è quella di mettere in atto politiche che possano ricostruire e rilanciare una classe media nel nostro Paese, perché senza una classe media forte non può esserci mobilità sociale, con le conseguenze sulla crescita demografica ed economica che sono sotto agli occhi di tutti. A questo si aggiunge che la fragilità della classe media è strettamente connessa a quella della nostra democrazia, come dimostra la crescente disaffezione per il voto. Un problema che sta diventando drammatico perché sempre più persone pensano che recarsi alle urne non possa più incidere sul miglioramento della propria vita. In questo scenario sono convinta che le ragioni fondative del Partito Democratico, con la fusione delle culture politiche del cattolicesimo democratico e della sinistra, e la sua missione storica oggi siano più che mai attuali. “L’estate militante” lanciata da Elly Schlein. Uno slogan o una reale pratica nei territori? Ho apprezzato la proposta lanciata dalla nostra segretaria, ma io sono per estendere l’idea di estate militante tutto l’anno. Per questo credo sia necessario partire da un grande investimento sul partito e sui nostri iscritti, affinché ci sia una valorizzazione quotidiana della militanza e della partecipazione: sia quando i nostri iscritti devono lavorare per il partito, sia quando è necessario interpellarli per compiere le scelte strategiche. Dai Giovani Democratici fino ai militanti storici che tengono in piedi col volontariato le nostre feste, occorre valorizzare al massimo questo grande patrimonio. Non solo attraverso un nuovo modello organizzativo, ma anche dando al PD un profilo identitario chiaro e capace di generare una nuova spinta ideale. La butto giù seccamente. Sul piano interno, il “nuovo Pd” è mai nato? Sì, è nato, e questo è estremamente tangibile tra i nostri iscritti ed elettori, molto di più quanto possa sembrare a livello di gruppi dirigenti. Il Partito Democratico, fin dalla sua nascita, ha visto al suo interno diverse componenti e questa pluralità ha da sempre rappresentato uno dei suoi principali punti di forza. Compito della segreteria è quello di fare una sintesi tra le diverse visioni per poter poi stabilire una linea comune. Un compito senza dubbio gravoso, che richiede tempo e capacità di ascolto da tutte le parti in gioco. L’inedito risultato delle primarie, con gli iscritti che si sono espressi in favore di Bonaccini e gli elettori che hanno premiato Schlein ai gazebo, probabilmente non ha semplificato le cose. Sono contenta che siano tornati centrali temi che ritengo fondamentali per la sinistra come il lavoro; in questo senso auspico che la discussione sul salario minimo sia il punto di partenza per arrivare a proposte più radicali e non un punto di arrivo. Spero che vengano affrontate quanto prima questioni importanti come il rapporto con l’Intelligenza Artificiale e il suo impatto sui lavoratori e le professioni coinvolte nelle grandi transizioni ambientali. È nostro compito accompagnare e tutelare le lavoratrici e i lavoratori in questa trasformazione sociale. Guerra, migranti, diseguaglianze, cambiamenti climatici, una giustizia giusta. Una sinistra che vuole “frequentare” il futuro, orientandolo, non può non avere un pensiero forte su queste sfide epocali. Il Pd è attrezzato per questo? Sono temi centrali per il Partito Democratico, che appartengono nativamente al pensiero e alla cultura di sinistra. L’attualità degli ultimi anni non ha fatto altro che confermarne l’importanza e l’urgenza con cui queste sfide vanno affrontate, al di là degli aspetti ideologici, per l’impatto che hanno sulla vita quotidiana delle persone. C’è il forte bisogno di un nuovo umanesimo, che rimetta le persone al centro e che orienti le decisioni, anche le più radicali, in funzione di esse. Prendo ad esempio la transizione ambientale, uno dei grandi temi di oggi che sarà sempre più centrale negli anni a venire; su questo faccio mia la visione dell’ecologia integrale di Papa Francesco, dove l’uomo e il pianeta avanzano di pari passo senza che uno prenda il sopravvento sull’altro. Servono nuove politiche industriali europee e nazionali e un forte impulso pubblico di sostegno alle persone, affinché nessuno rimanga indietro nell’attraversare questa sfida epocale. Dunque nuovi strumenti di protezione per le fasce più deboli della popolazione come ad esempio il Reddito Universale, già da noi proposto e già attuato in altre democrazie. Uno strumento che si è dimostrato efficace anche nel consentire il ritorno nel mondo del lavoro dopo momenti di difficoltà. Ma anche investimenti importanti in ricerca e sviluppo per trovare nuove fonti di energia che possano realmente soppiantare la densità energetica dei combustibili fossili. Si dice: guardiamo ai programmi. Ma poi si discute e si litiga sulle alleanze... Credo sia normale che approcciandosi alle elezioni europee del 2024, dove vige il proporzionale puro, tutte le forze politiche mettano in campo la propria strategia. È un primo, grande, banco di prova in cui potersi contare realmente e calcolare il giusto peso di ogni componente in vista delle amministrative, dove invece, al contrario, le alleanze saranno centrali. Il Partito Democratico deve prima di tutto tornare a essere egemone nel centrosinistra, perno centrale di eventuali alleanze senza partire da posizioni di subalternità rispetto ad altre forze politiche. Stiamo vedendo unità di intenti su temi fondamentali come il salario minimo, il che è sicuramente un segnale positivo. Allo stesso tempo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi ha inevitabilmente aperto delle riflessioni tra le forze centriste, nei prossimi mesi si avrà verosimilmente un quadro più chiaro, al netto dei posizionamenti tattici, delle rotte che intendono intraprendere i vari partiti. I risultati delle ultime tornate elettorali regionali e amministrative hanno in ogni caso confermato che, laddove ci sono proposte condivise da più forze, di fronte a una destra unita l’alleanza è la via da percorrere. Prima ancora dei programmi, serve una visione chiara e lucida del Paese e della società. Bertinotti: “Il salario minimo non basta, serve il reddito universale” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 29 luglio 2023 L’ex presidente della Camera: “Bene Schlein e Conte a mettere al centro il tema, ma per ora siamo solo sul terreno della tattica parlamentare, per una battaglia sociale serve il conflitto”. “Sul terreno della tattica parlamentare, e prima ancora nell’individuazione del salario minimo come tema di iniziativa politica forte, l’azione di Elly Schlein e Giuseppe Conte è certamente una buona cosa. Tuttavia bisogna essere molto avvertiti sul fatto che la tattica parlamentare è pur sempre una prigione, è un campo molto circoscritto e asfittico”. L’ex presidente della Camera ed ex segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti non esulta troppo davanti alla mossa delle opposizioni che hanno costretto il governo a una piccola retromarcia sul salario minimo: la discussione sarà rimandata a settembre ma almeno il tema non è stato cancellato dall’agenda come avrebbe voluto la maggioranza. Bisogna uscire dalla tattica e muoversi sul terreno politico e sociale per poter cantare vittoria. Dunque, come si esce dalla prigione tattica? L’avvio di una battaglia sociale ha bisogno di ben altro respiro e di un altro campo della contesa. Quale sarebbe il campo della contesa? Quello del conflitto sociale, della partecipazione di massa, della mobilitazione, della costruzione di una piattaforma più ampia. Bene Conte e Schlein, ma vinta la prima manche ora si dia la parola al conflitto. Ma la società italiana è davvero in grado di esprimere conflitto? Prima di tutto una forza politica dovrebbe anche promuoverlo. E se uno posa lo sguardo al di là delle Alpi forse si accorge che il conflitto può anche scoppiare in maniera imprevista. Si immagina Schlein e Conte a promuovere il conflitto? La discussione sulle leadership è fuorviante rispetto alla contesa reale. Ritengo da troppo tempo che la sinistra politica come tale abbia smesso di esistere, è soltanto una manifestazione istituzionale priva del fondamento e della forza che le potrebbe derivare dall’essere un soggetto sociale e politico. Un ruolo decisivo dovrebbe svolgerlo anche il sindacato? Naturalmente sì, ma non solo. Perché il terreno del conflitto sociale non è solo una prerogativa sindacale. I sindacati, per altro, arrivano tardi e divisi all’appuntamento del salario minimo. Persino la Cgil si è convinta solo in tempi recenti della bontà di questa battaglia. Perché? C’è da dire però che la Cgil è stata la prima organizzazione ad accorgersi del rilievo di una battaglia di questo tipo. L’annuncio di una mobilitazione generale, fino all’ipotesi di sciopero generale, è indicativo di una presa d’atto di questa necessità. Ma quali sono le ragioni del ritardo? Dipendono da un atto di presunzione e di percezione della propria forza. Per troppo tempo la Cgil si è rifiutata di vedere che era finita una stagione. Il mutamento della composizione sociale del lavoro ha lasciato scoperta un’intera platea di lavoratori. E da allora è emersa la questione del salario minimo garantito come una necessità assoluta. Il sindacato non si è accorto del mondo che cambiava? Il sindacato italiano - protagonista assoluto del conflitto sociale negli anni 70, capace di ottenere vittorie straordinarie: dallo Statuto dei diritti dei lavoratori alle conquiste del potere in fabbrica - ha pensato nella fase ascendente della sua storia che col contratto si potesse coprire la rappresentanza dei bisogni nell’intera popolazione lavorativa. All’epoca questa convinzione aveva un senso perché la contrattazione si allargava e si qualificava, ma questo ciclo è finito attorno agli anni 80. E da allora la contrattazione si è sempre più impoverita. Per citare quel grande sociologo che era Luciano Gallino, da un certo punto in poi il conflitto di classe si è rovesciato: ad agire sono stati i padroni contro i lavoratori e non i lavoratori contro l’impresa. L’introduzione del salario minimo potrebbe stravolgere questa prospettiva? Il salario minimo è una causa giusta, ma non è sufficiente se non è connesso ad altre battaglie sul reddito: la difesa del reddito di cittadinanza, la necessità di un aumento generalizzato dei salari e delle pensioni. Bisogna mettere al centro il tema politico- sociale di una distribuzione diversa della ricchezza. Forse con il salario minimo garantito molte delle polemiche sul reddito di cittadinanza sarebbero venute meno. Il problema era rappresentato da quelli che alcuni definivano con sprezzo “divanisti” o dalle paghe da fame offerte? Le polemiche magari ci sarebbero state comunque ma quelle argomentazioni sarebbero state senz’altro contrastate più efficacemente. Intendiamoci, siamo davanti a un fenomeno epocale: la tendenziale riduzione del lavoro socialmente necessario. Basti pensare all’intelligenza artificiale che mette il mondo del lavoro di fronte a un problema che negli anni dell’espansione non si poneva: una parte della popolazione non sarà nelle condizioni di lavorare perché sarà sostituita. In questa prospettiva il salario minimo servirebbe a poco... La disoccupazione tecnologica è un tema serio. Per questo persino il reddito di cittadinanza rischia di rivelarsi inefficace, a meno che non venga pensati come un reddito universale che copre tutti. La polemica della destra sui “divani” non è solo razzismo sociale, è anche frutto di un’ignoranza del mutamento della composizione sociale del lavoro e del peso dell’innovazione tecnico- scientifica su di esso. Per la destra il salario minimo è pericoloso perché rischia di livellare verso il basso di tutti i contratti. Cosa pensa di questo ragionamento? Non c’è nessun nesso causale tra una cosa e l’altra. Francamente mi sembra di trovarmi davanti a un ragionamento tecnicamente infondato e politicamente insensato. Da quale schema di ragionamento deriva il fatto che se io metto una soglia sotto la quale non si può scendere significa pure che non si può salire? Ci sono milioni di lavoratori totalmente fuori da ogni tutela contrattuale, ma di cosa stiamo parlando? Apriamo un ombrello che copra coloro sui quali piove. La verità è che siamo di fronte a una rivincita insopportabile del profitto e della rendita sui salari. Per Julian Assange Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2023 È in corso già dal 2019 in Inghilterra il procedimento per l’estradizione negli Stati Uniti d’America di Julian Assange, il giornalista fondatore di Wikileaks, nato in Australia. Oltreoceano egli è accusato di 18 reati contestatigli in larghissima parte in base alle disposizioni dell’Espionage Act del 1917 che punisce, in particolare, le interferenze con le relazioni internazionali e commerciali degli Stati Uniti e le attività di spionaggio: in caso di condanna Assange rischia una pena fino a 175 anni di reclusione. Come ha dettagliatamente precisato nei suoi rapporti Nils Melzer, dal 2016 al 2022 relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Assange è stato sottoposto ad una lunga e durissima tortura soprattutto psicologica di cui sono a suo avviso responsabili: * gli Stati Uniti, che lo perseguono per crimini inesistenti, dopo avere a lungo segretato le indagini; * la Gran Bretagna, che lo detiene dall’ 11 aprile 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, noto come la “Guantanamo britannica”, dopo avere “assediato” militarmente l’Ambasciata ecuadoriana in cui si era prima rifugiato; * la Svezia, che ha favorito l’arresto in U.K. di Assange, chiedendone l’estradizione - ma al fine di favorire quella successiva verso gli USA - per un’indagine per violenze sessuali, tenuta a lungo aperta ed alla fine archiviata per assenza di prove; * decisione del presidente Correa, ospitandolo nell’Ambasciata londinese dal 19 giugno 2012, ma revocandoli entrambi l’11 aprile 2019, per scelta del nuovo presidente Moreno, e consentendo alla polizia inglese di farvi irruzione ed arrestarlo. In particolare, Assange è stato sottoposto a tortura psicologica, almeno dalla fine del 2017 (allorché si trovava ancora nell’ambasciata dell’Ecuador) con confinamento in spazi ristretti, video controllo permanente anche nel bagno, divieto per un certo periodo di usare cellulari e connessioni al web, controllo di ogni suo movimento, inclusi i pochi incontri autorizzati con amici ed avvocati, al punto da non poter neppure organizzare la sua difesa dinanzi alle autorità inglesi per non essere estradato prima in Svezia e poi negli Stati Uniti. Trasferito dopo l’arresto nel penitenziario di Belmarsh, vi è detenuto in cella di minime dimensioni, con restrizioni e controlli ancora più accentuati, al punto che medici specializzati hanno rilevato, anche in ambulatorio, sintomi tipici della esposizione prolungata alla tortura psicologica con rischio di suicidio o comunque di morte. L’accusa ad Assange di avere violato segreti di Stato americani lede la libertà di stampa, un diritto-dovere proprio di ogni vera democrazia, previsto anche nel primo emendamento della Costituzione americana e nell’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: nell’ “enciclopedia digitale” che lui ha fondato sono state rese note notizie riscontrate e di pubblico interesse, anche se segrete e di fonti anonime (i cd. “whistleblower”). Assange e WikiLeaks, infatti, decisero nell’aprile del 2010 di far conoscere a tutto il mondo un video segreto chiamato “Collateral murder”, che documentava lo sterminio di civili, inclusi due giornalisti dell’agenzia di stampa internazionale Reuters e due bambini gravemente feriti, a Baghdad nel 2007 ad opera delle truppe americane, e poi altri filmati e documenti che, come gli “Afghan war logs” tratti dai database del Pentagono e del Dipartimento di Stato e fornitigli dal soldato Bradley, ora Chelsea Manning, consentirono di svelare altri crimini contro l’umanità commessi dagli Stati Uniti in Afghanistan, nonché nel lager di Guantanamo ed in altre parti del mondo. Tra l’altro, contrariamente alle accuse, Assange non ha leso fondamentali interessi degli Stati Uniti, poiché, prima di far conoscere tramite Wikileaks alcuni dei nomi degli autori di così gravi crimini contro l’umanità (perché di questo si tratta), aveva accertato che si trattava di nomi ampiamente già noti, nel contempo lavorando con un team di giornalisti internazionali per proteggere quelli sconosciuti. Di fatto, a tredici anni dalla pubblicazione di quei documenti, l’amministrazione americana non ha mai fornito un solo nome di persona uccisa, ferita, incarcerata a causa di quelle rivelazioni. Wikileaks, come è noto e come è stato riconosciuto anche dalla stessa giurisprudenza inglese, è un’organizzazione giornalistica operante nel mondo con il dichiarato scopo di proteggere dissidenti interni, fonti d’informazione e blogger da rischi legali o di altra natura connessi alla pubblicazione di documenti attestanti la commissione da parte di esponenti di singoli stati di fatti criminosi altrimenti sottratti alla conoscenza pubblica. Sin dalla sua nascita nel 2006, ad esempio, Wikileaks ha pubblicato anche altri importanti documenti riguardanti attività di spionaggio nei confronti della Commissione europea ed interferenze nelle elezioni presidenziali francesi. Assange, dunque, è oggi, e da oltre 4 anni, detenuto nel citato carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh in attesa di una pronuncia definitiva da parte della High Court circa la domanda di estradizione formulata dal governo USA. La domanda è stata già accolta con un provvedimento recepito dal governo inglese adesso oggetto di reclamo davanti ad un diverso Collegio della High Court. Proprio all’inizio di giugno del 2023, la stessa High Court, in formazione monocratica, ha rigettato un precedente reclamo contro l’ordine di estradizione. Si è, quindi, alla vigilia della decisione finale circa il destino di Julian Assange. Gli argomenti finora spesi dalla sua difesa appaiono della massima importanza perché attengono a temi fondamentali negli ordinamenti a base democratica. In particolare, si tratta di stabilire se l’attività pubblicistica propria del giornalismo d’inchiesta che, posta in essere da Assange, ha consentito la rivelazione di gravi crimini commessi da singoli stati anche in occasioni belliche, rientri (come è stato affermato nelle autorevoli deposizioni rese in anteriori fasi del procedimento di estradizione inglese, del Professor Paul Rogers, insigne autore di studi sulla pace, e del Professor Noam Chomsky, prestigioso linguista e filosofo) nel principio della libertà di espressione e di opinione, riconosciuta dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo del 1950, e vada inoltre considerata di natura politica: circostanze, queste, decisive in quanto, se accertate dai giudici inglesi, impedirebbero, ai sensi dell’ Extradition Act britannico del 2003, l’estradizione. Ma vi è un ulteriore e basilare tema di indagine, affrontato con esiti alterni nei gradi precedenti: quello della sussistenza o meno di pericoli per la vita e l’incolumità del giornalista australiano nel caso di detenzione, a seguito di condanna, in strutture penitenziarie statunitensi. Né può sfuggire ad un’attenta valutazione giudiziale la condizione di grave prostrazione psicologica di Assange a causa della protratta privazione della libertà: condizione tanto grave da aver indotto il giudice inglese, Vanessa Baraitser, chiamato a pronunciarsi in primo grado sull’estradizione negli Stati Uniti nel gennaio del 2021, a negare l’estradizione per il timore che il giornalista potesse cedere a pulsioni suicide. Tale decisione fu riformata nel grado successivo del giudizio da un Collegio che ritenne si potesse concedere l’estradizione sulla semplice base delle assicurazioni fornite dal governo USA circa l’eventuale detenzione in stabilimenti dotati di adeguate strutture sanitarie, specializzate anche nei trattamenti di natura psicologica. Proprio sulla base di questa pronuncia il ministro inglese dell’interno ha emanato l’ordine di estradizione che, come si è detto, dopo un primo sommario rigetto dell’impugnazione proposta da Assange, sarà prossimamente e di nuovo esaminato dalla High Court. La rilevanza della vicenda, per le sue implicazioni di principio e per i suoi gravissimi riflessi sul piano della persona di Assange, è di tale drammatica evidenza da impegnare l’opinione pubblica in genere e la comunità dei giuristi in specie a contribuire ad un dibattito aperto e costruttivo per la riaffermazione del principio di trasparenza cui ogni forma di esercizio del potere pubblico deve essere ispirata. Non può, infatti, negarsi che l’estradizione di Julian Assange, oltre che ad elementari ragioni umanitarie imposte dalle sue provatissime condizioni psico-fisiche e dai ragionevoli timori circa il futuro regime carcerario, costituirebbe un terribile esempio di soffocamento della libera informazione orientata al disvelamento degli abusi di potere e si risolverebbe, in ultima analisi, nel definitivo inaridimento delle fonti di conoscenza di cui la collettività deve continuare a poter godere. Sono queste le ragioni che inducono i sottoscrittori di questo documento, nella loro qualità di giuristi e cittadini sensibili al mantenimento della democrazia informativa, a diffonderlo e, confidando nella futura pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ad auspicarne la condivisione da parte dell’opinione pubblica. 20 luglio 2023 (Segue elenco - ancora aperto - di 144 firmatari) Gaetano Azzariti - Università “Sapienza” di Roma Daniela Abram - avvocato Stefania Amato - avvocato Roberto Aniello - magistrato Marco Annecchino - avvocato Cesare Antetomaso - avvocato, membro Esecutivo Ass. Naz.le Giuristi Democratici Mauro Barberis - Università di Trieste Fabio Basile - Università di Milano Marcello Basilico - magistrato Barbara Bellerio - già magistrato Gian Antonio Bernacchio - Università di Trento Alessandro Bernardi - Università di Ferrara Laura Bertolè Viale, già magistrata Giovanni Bisogni - Università di Salerno Paolo Borgna - presidente Istoreto Torino, già magistrato Vittorio Borraccetti - già magistrato Mario Bova - Ambasciatore Alberto Bradanini - già Ambasciatore d’Italia a Teheran e Pechino Giuseppe Bronzini - già magistrato Silvia Buzzelli - Università Bicocca di Milano Andrea Calice - magistrato Paola Cameran - magistrato Giovanni Canzio - già magistrato e Primo Presidente della Corte di Cassazione Nunzia Cappuccio - già magistrata Antonio Caputo - già magistrato Gianrico Carofiglio - scrittore, già magistrato Irene Casol - già magistrata Marina Castellaneta - Università di Bari Giovanni Cellamare - Università di Bari Adolfo Ceretti - Università Bicocca di Milano David Cerri - Avvocato Elio Cherubini - avvocato Pierluigi Chiassoni - Università di Genova Alba Chiavassa - già magistrata Angelo Cifatte, già funzionario pubblico in Genova Enzo Ciconte - Università di Pavia Anna Maria Cipolla - avvocato Giovanni Cocco - Università Bicocca di Milano e avvocato Giovanni Comandè - Scuola Sant’Anna di Pisa Antonino Condorelli - già magistrato Riccardo Conte - avvocato Roberto Cornelli - Università Bicocca di Milano Luigi Dainotti - magistrato Nando dalla Chiesa - Università di Milano Vito D’Ambrosio - già magistrato Emilio De Capitani - già segretario della Commissione Libe del Parlamento Europeo (1998/2011) Luciana De Grazia - Università di Palermo Giovanna De Minico - Università Federico II di Napoli Pasquale De Sena - Università di Palermo Maria Chiara Di Gangi - Università di Palermo Sandro Di Minco - avvocato Daniele P. Domenicucci - Referendario c/o Corte di Giustizia dell’Unione Europea Vittorio Fanchiotti - Università di Genova Manuela Fasolato - magistrata Damiano Fiorato - avvocato Mario Fiorentini - Università di Trieste Fabrizio Forte - magistrato Fabrizia Francabandera - magistrata Domenico Gallo - già magistrato Nicoletta Gandus - già magistrata Giancarlo Geraci - Università di Palermo Giuseppe Giaimo - Università di Palermo Gianfranco Gilardi - già magistrato Bruno Giordano - magistrato Elisabetta Grande - Università del Piemonte Orientale Tommaso Greco - Università di Pisa Filippo Grisolia - già magistrato Laura Hoesch, avvocato Costanza Honorati - Università Bicocca di Milano Marco Imperato - magistratp Enrico Imprudente - già magistrato Caterina Interlandi, magistrato Elena Ioratti - Università di Trento Franco Ippolito - già magistrato e presidente della Fondazione Basso Giulio Itzcovich - Università di Brescia Gabriella Luccioli - già magistrata Gianni Macchioni - magistrato Ezia Maccora - magistrata Oscar Magi - già magistrato Franco Maisto - già magistrato, Garante diritti persone private della libertà personale del Comune di Milano Francesca Manca - già magistrata Marco Manunta - già magistrato Maria Rosaria Marella - Università di Roma Tre Giovanni Marini - Università di Perugia Luigi Martino - già magistrato Dick Marty - già magistrato, già Senatore e Presidente della Commissione dei diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa Luca Masera - Università di Brescia Chantal Meloni - Università di Milano Filippo Messana - magistrato Elio Michelini - già magistrato Vincenzo Militello - Università di Palermo Rachele Monfredi - magistrato Nicola Muffato - Università di Trieste Aniello Nappi - avvocato, già magistrato Gioacchino Natoli - già magistrato Roberto Natoli - Università di Palermo Luca Nivarra - Università di Palermo Giovanni Orlandini - Università di Siena Maria Teresa Orlando - magistrato e Procuratrice Europea Delegata Elena Paciotti - già magistrato Giuseppe Pagliani - magistrato Francesco Palazzo- Università di Firenze Michele Passione - avvocato Ignazio Juan Patrone - già magistrato Maria Paola Patuelli - Associazione nazionale Salviamo la Costituzione Lucio Pegoraro - Università di Salamanca Rosario Petruso - Università di Palermo Giuliano Pisapia - avvocato e Vicepresidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo Giovanni Porqueddu - già magistrato Vincenzo Antonio Poso - avvocato e consigliere Fondazione Pera Rosalba Potenzano - Università di Palermo Giovanni Puliatti - già magistrato Debora Ravenna - avvocato Carlo Giuseppe Rossetti - Università di Parma Massimo Rossi - Avvocato Nello Rossi - già magistrato Federica Resta - giurista Roberto Riverso - magistrato Massimo Ruggiero - già magistrato Giuseppe Salmè - già magistrato Adriano Sansa, già magistrato e sindaco di Genova Guido Savio - avvocato Aldo Schiavello - Università di Palermo Rocco Sciarrone - Università di Torino Tullio Scovazzi - Università Bicocca di Milano Mario Serio - Università di Palermo Ottavio Sferlazza - già magistrato Guido Smorto - Università di Palermo Alessandra Somma - Università La Sapienza di Roma Armando Spataro - già magistrato Maria Patrizia Spina - già magistrata Simone Spina - magistrato Massimo Starita - Università di Palermo Davide Steccanella - avvocato Giovanni Tamburino - già magistrato Paolo Tamponi - già magistrato Valentina Tecilla - magistrato Ida Teresi - magistrato Matteo Trotta - già magistrato Giuliano Turone - già magistrato e scrittore Giulio Ubertis - Università Sacro Cuore di Milano Domitilla Vanni - Università di Palermo Christine Von Borries - magistrato Salvatore Zappalà - Università di Catania