La morte di Carmine Corallo a Poggioreale e i diritti degli ammalati detenuti di Riccardo Rosa napolimonitor.it, 28 luglio 2203 Carmine Corallo era un detenuto di settantuno anni. Si trovava nel carcere di Poggioreale, condannato per truffa e rapina. Era malato ai polmoni ed è morto venerdì 21 luglio all’ospedale Cardarelli, dove era stato trasferito d’urgenza dal carcere napoletano. Sebbene già nel 2015 gli fosse stata riconosciuta l’incompatibilità con il regime detentivo, un nuovo cumulo di pena aveva fatto sì che lo scorso maggio Corallo rientrasse a Poggioreale nonostante le sue gravi condizioni di salute. Condizioni che erano in costante peggioramento, tanto che il suo legale, Gandolfo Geraci, aveva presentato un mese fa una nuova istanza di scarcerazione, ignorata dall’autorità giudiziaria. La richiesta era quella di permettere al detenuto di morire tra le mura della propria casa, dignitosamente, e non all’interno di una struttura carceraria. “Non voglio morire qui dentro!”, aveva detto Corallo al suo avvocato quando erano stati l’ultima volta a colloquio. Considerando i dati degli ultimi tre anni, i decessi per “morte naturale” in carcere sono stati 129 nel 2022, 91 nel 2021, 93 nel 2020. A questi numeri vanno aggiunti quelli relativi ai suicidi (quasi un terzo dei decessi totali, in media, negli ultimi dieci anni), che come spiega il dossier Morire di carcere del Centro studi di Ristretti Orizzonti, sono spesso legati a motivi di salute, e al sentimento di abbandono e disperazione che travolge le persone ammalate e detenute - anche non gravemente - in carcere. “I tribunali - si legge nel dossier - applicano in maniera molto disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate e spesso la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la malattia che lo debilita totalmente”. Anche l’associazione nazionale dei medici penitenziari ha più volte denunciato tagli alle risorse, diminuzione del personale e “impossibilità di garantire a tutti i detenuti il loro diritto alla salute”, una privazione che diventa quasi una condanna nel caso dei detenuti sieropositivi. L’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids denuncia che “almeno il settanta per cento delle persone sieropositive rinchiuse nelle carceri non riceve cure corrette”; a peggiorare la situazione ci sono inoltre i continui trasferimenti e “la possibilità, frequente che assieme al detenuto non si sposti la cartella clinica, con la conseguente sospensione forzata della terapia, l’annullamento dei risultati raggiunti e il rischio di andare incontro a infezioni opportunistiche”. Nel caso specifico, l’esposto presentato dall’avvocato Geraci dopo la morte di Corallo evidenzia un certo livello di superficialità da parte dei medici del carcere e del magistrato di sorveglianza, che si sono rimpallati per un mese una fitta documentazione ritenuta insufficiente per procedere alla scarcerazione del detenuto. Uno scollamento totale della realtà, tanto più considerando la qualificazione di delinquenza “comune” attribuita a Corallo, che non poteva essere pericoloso, nelle condizioni estreme in cui si trovava, né essere in grado di commettere nuovi reati. Nell’esposto, il legale di Corallo chiede il sequestro della cartella clinica e del fascicolo ricevuto dal magistrato di sorveglianza, che aveva chiesto ai medici ulteriori informazioni per poter decidere su un caso che appariva invece già molto chiaro. Una tendenza che pare sistemica all’interno del Tribunale di sorveglianza di Napoli, la cui presidente, Patrizia Mirra, ha fama di poca disponibilità al dialogo con gli avvocati, le associazioni e le istituzioni di garanzia in ambito penitenziario. Il tema, tuttavia, va ben oltre i confini del tribunale napoletano, e necessiterebbe di un intervento urgente a livello legislativo. L’articolo 147 del codice penale prevede infatti genericamente il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per chi si trova in condizioni di “grave infermità fisica”, una dicitura che implica una forte discrezionalità da parte del magistrato di sorveglianza chiamato a esprimersi sulla scarcerazione, e a cui andrebbe con la massima urgenza e necessità aggiunto, quantomeno, l’obbligo di trasferimento alla detenzione domiciliare in presenza di una malattia cronica irreversibile. Al contrario, l’ossessione per la certezza della pena e per la presunta necessità di reclusione in carcere, fanno sì che, sebbene il tema della scarcerazione dei detenuti ammalati sia emerso in maniera eclatante nel corso della pandemia di Covid-19, il dibattito nel merito sia ancora al grado zero. Un caso eclatante, proprio durante i mesi di pandemia, fu quello della campagna messa in atto da alcuni quotidiani nazionali e dalla trasmissione di La7 Non è l’arena, che dopo alcuni provvedimenti presi dalla magistratura a tutela di persone gravemente ammalate, soffiò sul fuoco diffondendo informazioni parzialmente o completamente inesatte riguardo la presunta “messa in libertà di centinaia di boss mafiosi”. Quella campagna penal-populista ebbe l’effetto di condizionare le successive scelte politiche e amministrative, di provocare addirittura le dimissioni dei vertici dell’amministrazione penitenziaria e la modifica di un provvedimento emanato nell’ottica del rispetto del diritto alla cura garantito dalla Costituzione. Proprio in epoca di pandemia (rapporto annuale 2021), infine, il Comitato del consiglio d’Europa sulla prevenzione della tortura ha ripreso i governi di praticamente tutti gli stati europei ritenendo insufficienti gli sforzi per il decongestionamento delle carceri e in particolar modo la mancata implementazione delle misure alternative alla detenzione in prigione: “L’uso delle misure non reclusive - si legge nel rapporto - resta modesto in molti stati, soprattutto in fase pre-processuale, e non dà alcun reale contributo alla riduzione del numero dei detenuti ristretti in carcere. È di assoluta urgenza che i governi lavorino con i parlamenti, i giudici, i pubblici ministeri e le amministrazioni penitenziarie per un consistente decongestionamento delle carceri con azioni concrete”. Va sottolineato che uno dei temi su cui maggiormente si soffermano i successivi lavori del Comitato è il consistente passo indietro fatto in termini di accesso alle misure alternative per motivi di salute dalla maggioranza dei paesi europei, che non hanno colto le indicazioni e le poche esperienze timidamente positive emerse durante la fase pandemica in termini di tutela dei diritti dei detenuti ammalati, e conseguente decongestionamento delle strutture. Il monito del Colle: “Non esiste alcun contro-potere giudiziario” di Antonella Rampino Il Dubbio, 28 luglio 2203 “Politica e toghe collaborino”, dice Mattarella, perché “soltanto al Parlamento è riservato questo compito dalla Costituzione”. Della necessità di spronare la UE “al fine di agire per contrastare più rapidamente ed efficacemente la crisi climatica” si era già occupato anche il giorno prima, vergando una nota congiunta con l’omologo greco, la presidente Katerina Sakellaropoulou. E Sergio Mattarella, nella consueta “cerimonia del Ventaglio”, l’incontro annuale con i giornalisti che scrivono di politica, è tornato sull’argomento. In un discorso dai toni fermi in cui, ricordando il valore della libera informazione, valutando l’iter dei fondi Recovery, o appunto esprimendo preoccupazione per l’Italia devastata dalle alte temperature, ha lanciato messaggi chiari. Il negazionismo climatico, per esempio, è “inammissibile”. Sul fronte dell’informazione “I giornalisti devono essere al riparo da ogni forma di intimidazione”, e non è lecito vagheggiare “organismi terzi che certifichino la liceità delle informazioni”: c’è l’articolo 21 della Costituzione. “Un insuccesso del PNRR non sarebbe una sconfitta del governo, ma dell’Italia”, perché così verrebbe preso a livello internazionale e perché così sarebbe nella realtà. E dunque “occorre mettersi alla stanga”, citazione degasperiana che suggerisce un presidenziale sguardo non proprio ottimistico su come stan procedendo le cose. Ma il peggio - per così dire - è venuto in materia di giustizia, e di rapporti tra poteri dello Stato. “Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con la magistratura”. Il cui “ruolo nel giudicare va rispettato, perché soltanto alla magistratura questo compito è riservato dalla Costituzione”. E quindi “si collocano fuori dalla Costituzione e non possono essere praticate” le svariate iniziative di commissioni d’inchiesta parlamentare, dal Covid al caso Orlandi, e c’è pure chi ne vagheggia su Via d’Amelio o Tangentopoli. Così come “non sono le Camere a poter verificare se le leggi siano conformi alla Costituzione perché questo è compito esclusivo della Corte costituzionale”. Certo, è necessario che “la magistratura sia consapevole di esser chiamata -in piena autonomia e indipendenza- a operare e giudicare secondo le norme di legge”. Anche “interpretandole”, come ovvio: ma le leggi le fa il Parlamento perché “soltanto al Parlamento è riservato questo compito dalla Costituzione”. Insomma “i ruoli non vanno confusi, anche a tutela dell’ambito di cui si è titolari”, e non è nemmeno la prima volta che Mattarella lo dice. Stavolta, scende in dettaglio. Non bisogna “pretendere di fare abusivamente la parte degli altri: gli organismi rispettino i confini delle proprie competenza, e ciascun potere dello Stato rispetti gli altri”. Parole chiare, in un Paese in cui pezzi di governo vagheggiano di contrastare sentenze della Cassazione via decreto legge, o di scatenano campagne mediatiche e politiche quando la magistratura ritiene di inquisire o prendere provvedimenti verso esponenti dell’esecutivo. E in cui non son pochi i politici che invocano le più svariate commissioni d’inchiesta, magari soltanto perché non avevano gradito gli esiti di questo o quel processo. Parlamento e magistratura: ecco chi vìola la Costituzione di Armando Spataro La Stampa, 28 luglio 2203 Le parole del Capo dello Stato rappresentano un movimento d’aria fresca e pulita sui rapporti tra organi costituzionali e sul rispetto delle reciproche competenze. Grazie alla Cerimonia del Ventaglio, “sventolato” in alto dal Presidente Mattarella, un movimento d’aria fresca e pulita va diffondendosi in Italia: speriamo non si ritiri ed aiuti tutti a respirare. Il Capo dello Stato, nel salutare la stampa prima della pausa estiva, ha toccato alcuni dei temi oggetto delle più accese e recenti discussioni che dividono il nostro Paese: dalla necessità di un’informazione libera ed indipendente (capace, anche grazie alle moderne tecnologie, di accertare la verità dei fatti di cui dà notizia) all’immigrazione di decine di migliaia di disperati (cui, in nome della solidarietà e delle convenzioni internazionali, deve essere assicurata una vita dignitosa, grazie anche al coinvolgimento dell’Unione Europea), dall’impegno a salvaguardia dell’ambiente (citando la straordinaria forza d’animo di chi ha spalato il fango ed aiutato le persone colpite) all’aggressione della Federazione russa all’Ucraina (un tema che ha visto diffondersi ipocrisia e falsità) Ma importanti parole sono state riservate anche ai rapporti tra i tre poteri dello Stato ed al dovere di rispetto delle reciproche competenze tra Parlamento e Magistratura. È forse questo il tema in cui, presumibilmente, si manifesteranno opposte e strumentali interpretazioni del pensiero di Mattarella, un rischio in cui spera di non incorrere chi scrive. Già il mero tentativo di commento delle parole di un Presidente della Repubblica potrebbe apparire inopportuno, ma questa è la ragione per cui è utile partire da alcune frasi con cui il Capo dello Stato ha chiuso il proprio intervento: “la Costituzione - a 75 anni dalla sua entrata in vigore - è la guida del nostro agire, fissando principi, valori irrinunziabili, diritti inviolabili… è un patrimonio comune che si è arricchito nel tempo grazie a una larga condivisione. È l’architrave dell’ordinamento giuridico che sostiene il nostro modello sociale”. Dunque, come si studia sin dalle scuole medie inferiori, è assolutamente ineludibile che ogni potere dello Stato agisca entro l’ambito delle competenze che la Costituzione gli attribuisce e che - in particolare - il Governo ed il Parlamento non pensino di poter agire come poteri sovraordinati alla Magistratura: in proposito come dimenticare che, in epoca berlusconiana, nel 2011, due ex ministri della giustizia (Alfano e Castelli) teorizzarono in TV che “Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”, mentre il loro leader politico palesava la propria meraviglia per il fatto che “un magistrato, semplice funzionario dello Stato, vincitore di un pubblico concorso, potesse incriminare ed eventualmente condannare chi, eletto dal popolo, è legittimato a governare il Paese”. Sono concezioni dei rapporti tra poteri che devono essere cancellate dagli spazi di discussione politica (non dalla nostra memoria), senza che ciò significhi divieto di criticare civilmente - e non in modo delegittimante - sentenze ed iniziative dell’ Autorità Giudiziaria, così come a questa non può non essere consentita una corretta interlocuzione tecnica su iniziative legislative in discussione e di competenza del Parlamento: nessun Capo dello Stato ha mai criticato il CSM o l’ANM o singoli magistrati per tale ragione. È doveroso, però, che anche la Magistratura abbia sempre presente quali sono i suoi compiti, che ruotano, anche quanto alla metodologia investigativa, attorno alla ricerca della verità, evitando forzature ed ignorando eventuali pressioni di diverso segno o insofferenze della politica o spinte populistiche. Né le competono, sia ben chiaro, la moralizzazione della società e la scrittura della storia nazionale, che possono solo essere conseguenza del loro operato secondo legge. Ma se soltanto alla Magistratura spetta giudicare secondo Costituzione, come è possibile - andando al passato - che sia stata approvata nell’ottobre del 2001 la legge sulle rogatorie internazionali per superare la decisione di un Tribunale sulla possibilità di valutare prove sgradite all’imputato e che il 5 dicembre dello stesso anno il Senato approvasse, a maggioranza, una mozione in cui si denunciavano riunioni clandestine tra giudici e pm per trovare il modo di violare la predetta legge sulle rogatorie, bocciando l’interpretazione che ne era stata data dai collegi giudicanti milanesi (lo ha ricordato Edmondo Bruti Liberati ieri su questo giornale)? Tempi andati? Certo, ma qualcuno vorrebbe che ritornassero. Assistiamo anche ad altri strappi dei principi costituzionali, come quello di proporre e promuovere azioni disciplinari per decisioni che, pur non incorrendo in violazioni di legge, non sono condivise da componenti dell’Esecutivo. E perché, poi, promuovere commissioni di inchiesta politica allo scopo non di arricchire per tutti i cittadini gli elementi di conoscenza su fatti rilevanti, ma per sovrapporne le conclusioni ai giudizi della Magistratura? Ed ancora, se la nostra Costituzione prevede (art.10) che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, come è possibile - visto ciò che afferma l’Europa e le convenzioni sovranazionali - pensare di abolire il reato di abuso d’ufficio o di chiudere i porti alle navi che soccorrono i migranti naufraghi o di prevedere un permesso “ad hoc” perché una nave che abbia effettuato un salvataggio in mare possa effettuarne un altro mentre si dirige verso un luogo di approdo? E come è accettabile che la stessa maggioranza politica, a seconda dei casi, attacchi i pm accusandoli di muoversi per finalità politiche o i giudici rei di non essersi conformati alle richieste dei pm? Molto altro potrebbe essere detto, ma è bene chiudere, da un lato, citando altre parole del Presidente Mattarella secondo cui “Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura” mentre “È una doverosa esigenza quella della normale e virtuosa logica della collaborazione istituzionale”, secondo cui “Ciascuno deve fare la parte propria!” Dall’altro, bisogna augurare che il ventaglio usato dal Capo dello Stato, ancora una volta da ringraziare, continui a funzionare e rinfreschi tutti noi: lo fa meglio di un condizionatore d’aria di massima potenza. Nordio e la riforma della giustizia “rimandati” a settembre di Liana Milella La Repubblica, 28 luglio 2203 Solo martedì la capigruppo del Senato deciderà come inviare il ddl alla commissione presieduta da Bongiorno, se in forma “redigente” o “deliberante”. Ma palazzo Madama si avvia a chiudere per le vacanze. Nordio e la sua riforma della giustizia in otto articoli? “Rimandati” a settembre. Perché il disegno di legge licenziato il 15 giugno da palazzo Chigi - la grande riforma del Guardasigilli in itinere ormai da nove mesi - è tuttora in cammino verso la commissione Giustizia del Senato, dove l’attendono le “cure” della senatrice leghista Giulia Bongiorno, nella veste di presidente. Nessuna fretta, a palazzo Madama, di affrontare la super grana dell’abuso d’ufficio in chiave anti Europa. Tant’è che mercoledì la capigruppo ha trattato la questione e ha deciso di aspettare fino a martedì prossimo per lasciare liberi i partiti di decidere se preferiscono che la riforma sia discussa in forma “redigente” oppure “deliberante”. Differenza non da poco, perché nel primo caso in aula si votano nuovamente tutti gli emendamenti dei gruppi, nel secondo no. Quindi la maggioranza preferisce la sede “deliberante” e l’opposizione quelle “redigente”. Ma la stessa opposizione, per frenare la maggioranza, ha un’arma. Anche se i partiti di governo, in sede di capigruppo, dovessero decidere per la sede “deliberante”, loro possono chiedere quella “redigente” in commissione e bloccare il governo. Ma, comunque vada, Nordio sarà comunque “rimandato” a settembre. Perché il Senato chiude i battenti alla fine della prossima settimana. Quindi, anche se il testo arriva in commissione mercoledì prossimo, la presidente Bongiorno lo infilerà in un cassetto e darà mandato agli uffici di preparare il dossier per una più agile lettura. Poi darà appuntamento ai suoi senatori all’inizio del mese successivo augurando a tutti “buone vacanze”. E ci vorrà tempo prima di arrivare ai primi emendamenti e ai primi voti. Perché, inevitabilmente, la commissione dovrà ascoltare i pareri degli esperti, scelti dai partiti. E sicuramente torneranno alla ribalta gli stessi già sentiti alla Camera sull’abuso d’ufficio. Le tante voci contrarie per eliminare il reato, come il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo e il procuratore di Roma Franco Lo Voi. Nonché, dall’Europa, il vicepresidente di Eppo Danilo Ceccarelli. E naturalmente i vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Ci sono state anche voci a favore chieste dal centrodestra. Le sole audizioni porteranno via almeno due o tre settimane. Poi si andrà agli emendamenti. Tempi lunghi. Un voto in aula non prima di novembre, ad andar bene. Carlo Nordio è ministro dal 25 ottobre dell’anno scorso. Tranne i decreti Rave e Cutro - scritti in condominio con il Viminale - non ha ancora affrontato le aule parlamentari per sostenere un suo disegno di legge “strategico”. È stato protagonista di scontri, come per il caso Cospito, per la vicenda Uss, per le rivelazioni di carte segrete delle carceri del suo sottosegretario Delmastro. Nelle due commissioni Giustizia ha annunciato un programma megagalattico, dalla separazione delle carriere, alla riforma della prescrizione, al taglio delle intercettazioni, alle nuove regole sulla segretezza delle indagini. Nonché la completa revisione dei reati contro la pubblica amministrazione che ha “promesso” alla Bongiorno in cambio del via libera al taglio dell’abuso d’ufficio. Di tutto questo, nella “rete” parlamentare, c’è solo il ddl che taglia proprio l’abuso d’ufficio e penalizza i giornalisti che non potranno più pubblicare le intercettazioni se non sono espressamente citate in un atto dei giudici. Ma se ne riparla a settembre, ritemprati dalle ferie. Da rivedere anche il Pnrr Giustizia: “Obiettivi lontani” di Errico Novi Il Dubbio, 28 luglio 2203 Raffaele Fitto è pronto. Il documento di revisione del Pnrr, concordato con la cabina di regia a Palazzo Chigi, passerà nei prossimi giorni per “una verifica in Parlamento e con le parti sociali, poi discuteremo con Bruxelles”, come chiarisce il ministro per gli Affari Ue. In vista dell’ok di Bruxelles, che fonti della Commissione europea già danno per probabile e che dovrebbe arrivare a fine agosto, la “bozza” indica trasferimenti di risorse, con l’esclusione dal Pnrr di investimenti che non si farebbe in tempo a realizzare entro la scadenza concordata con l’Europa, il 2026. Si tratta di una revisione che riguarda interventi per 15,9 miliardi. “Non abbiamo eliminato alcun finanziamento”, assicura Fitto. Nel senso, che, spiega, tutti i progetti esclusi dai fondi per la “Ripresa e resilienza” (spiccano la tratta ferroviaria Roma- Pescara e due lotti della Palermo- Catania) saranno comunque realizzati con altre coperture, come “il Piano nazionale complementare al Pnrr e i fondi delle politiche di coesione”. Già Pd e 5 Stelle passano all’attacco sulla “rinuncia” a includere nel Piano le 144 “misure” interessate (che spesso sono solo “ridefinite”). Ma c’è un capitolo, pure soggetto alla proposta di revisione che Fitto sottoporrà a Bruxelles, di cui lo stesso ministro per gli Affari Ue non parla: la giustizia. In particolare la giustizia civile. Ebbene, qui c’è non solo una “riprogettazione dei cicli di assunzione degli addetti dell’Ufficio del processo e una ridefinizione del target assunzionale complessivo”, come richiesto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Si prevede, soprattutto - e il dato è decisamente meno scontato - una revisione degli obiettivi di riduzione dell’arretrato. In particolare per i Tribunali circondariali (a sorpresa, le notoriamente “sommerse” Corti d’appello non destano allarme) e più precisamente per 45 delle 140 sedi in cui è divisa l’Italia giudiziaria. Qui non si tratterà di ottenere dall’Europa uno spostamento di fondi, come per le linee ferroviarie. La faccenda è più delicata, ed è forse per questo che il ministro con delega al Pnrr non ne parla, al momento: nel caso della giustizia civile, bisognerà convincere l’Europa a concedere una più lenta riduzione dell’arretrato. Si dovrà cioè ottenere il via libera sul più graduale raggiungimento di un target che, secondo la definizione del Piano, è “orizzontale e abilitante” rispetto alla concessione dei 191,5 miliardi complessivi promessi dalla Ue all’Italia. Il problema, come si legge nelle “Proposte per la revisione del Pnrr” messe a punto da Fitto e dalla cabina di regia di Palazzo Chigi, sarebbe originato soprattutto dalla “onda dei ricorsi in materia di protezione internazionale del 2019”. Più precisamente, la percentuale di riduzione dell’arretrato - che secondo il Pnrr dovrebbe raggiungere, rispetto al 2019, quota 65% nel 2024 e addirittura il 90% entro la scadenza dell’intero Piano, cioè nel 2026 - era più incoraggiante prima del covid e della definizione del Pnrr, cioè nel triennio 2017- 2019, quando il monte delle cause da smaltire era stato “abbattuto” del 9,2%. Dopo, vale a dire nel 2021 e nel 2022, è andata peggio, visto che, recita il documento di Fitto, “la riduzione media annuale dell’arretrato nei Tribunali è stata inferiore al 6%”. In realtà il quadro presenta una clamorosa asimmetria, visto che, a fronte di una maggioranza di sedi giudiziarie “virtuose”, 95 in tutto, che nel triennio 2019- 2022 hanno “tagliato” il 28 per cento delle cause arretrate, c’è un “nucleo critico” di 45 Tribunali che, viceversa, “hanno registrato un aumento dell’arretrato”. Situazione allarmante, legata, per il governo, anche ad altre due ulteriori circostanze. Innanzitutto, al fatto che “una quota significativa del nuovo personale per l’Ufficio del processo non è rimasta in servizio” In secondo luogo, il ritardo è spiegato anche con l’efficacia che la riforma civile di Cartabia non avrebbe ancora dispiegato, giacché le sue “innovazioni” si applicano “ai casi successivi all’entrata in vigore” e i suoi effetti, sempre secondo il documento del governo, “richiederanno qualche tempo per manifestarsi”. Un quadro pesante, finora tenuto un po’ nascosto. Il ministro con delega al Pnrr, per venirne a capo, formula due proposte all’Ue: o una “mera rideterminazione quantitativa alla luce delle circostanze emerse nel primo periodo di attuazione”, quindi una riduzione dell’arretrato civile più differita nel tempo, oppure “la previsione di target differenziati, che tengano conto delle differenze oggettive tra Uffici giudiziari”. Ci sono altri due capitoli relativi alla giustizia. Uno sulle assunzioni, che rappresentano, queste sì, un investimento finanziato dal Pnrr, per 2 miliardi e 268 milioni, e che, come detto, sono oggetto di una proposta complessiva di ridefinizione da parte di via Arenula. Nordio chiede di riorganizzare l’immissione delle nuove risorse sia in virtù degli “abbandoni anticipati” da parte di molti addetti all’Ufficio per il processo, poco attratti dalla natura “a termine” dei loro contratti, sia considerato che il loro reclutamento non è stato mai completato: “Sono state riscontrate difficoltà nella copertura delle posizioni messe a bando, sia per gli addetti Upp che per i profili tecnici, soprattutto al Nord”. Tra gli investimenti esclusi dal Pnrr e che andranno finanziati in altro modo compare, udite udite, anche la “valorizzazione dei beni confiscati alle mafie”, ambito che valeva 300 milioni di Pnrr. Ieri Nordio, nel trentesimo anniversario della strage di via Palestro, ha ricordato che “la lotta contro la mafia - come ammoniva Paolo Borsellino - non può concedersi pausa alcuna. E questo è il nostro solenne impegno, da tradurre ogni giorno in azioni concrete”. Che sicuramente dovranno consistere anche in una gestione dei beni sequestrati diversa rispetto agli anni passati. Riforma Cartabia, rebus video-interrogatori di Francesco Grignetti La Stampa, 28 luglio 2203 Secondo un’analisi condotta su dati Istat da Cedat 85 ogni anno nel nostro Paese si svolgono oltre 830 mila interrogatori. Il 30 giugno, con l’entrata in vigore della Riforma Cartabia, è scattato l’obbligo di registrare in audio o audiovideo le “escussioni”. Sono oltre 830* mila gli interrogatori di indagati, fermati e detenuti che si svolgono in un anno in Italia, ovvero una di media 2276* al giorno, con la Calabria prima regione nel rapporto “interrogatori per abitanti” (1 interrogatorio ogni 54 abitanti) seguita da Basilicata (1/55 ab.) e Liguria (1/56 ab.). È quanto emerge da un’analisi su dati Istat di Cedat 85 realizzata in concomitanza con l’entrata in vigore (dal 30 giugno) dell’obbligatorietà di interrogatori audio/video per indagati e detenuti come stabilito dalla Riforma “Cartabia” della Giustizia, l’indagine mette in evidenza come livello provinciale al primo posto per “densità” di interrogatori c’è Vibo Valentia (1/41 ab.) seguita da Isernia (1/42 ab.), con Imperia e Crotone (1/48 ab.) appaiate al terzo posto. Dal punto di vista dei numeri assoluti la Regione nella quale si tengono più interrogatori è la Lombardia, erano quasi 130 mila (129.756) nel 2021, seguita dalla Sicilia (79.850), che supera di poco la Campania (79.624). A primeggiare tra le province, invece, ci sono quelle con i maggiori centri urbani: con una media di 151 interrogatori al giorno si aggiudica la prima piazza la provincia di Roma, mentre, con 141 e 109 interrogatori, completano il podio la provincia di Milano e quella di Napoli. Analizzando specificatamente il dato sulla densità degli interrogatori per abitanti scopriamo che soltanto la Sicilia “conferma” il suo piazzamento rispetto ai numeri assoluti: è seconda per numero assoluto e quarta per “densità” con 1 interrogatorio ogni 60 abitanti. “Con la riforma Cartabia - afferma Gianfranco Mazzoccoli, presidente e fondatore di Cedat 85 - la fonoregistrazione e la videoregistrazione rientrano tra le ordinarie e obbligatorie forme di raccolta degli atti processuali, tra cui l’interrogatorio. Si capisce, perciò, come questi momenti delicati dell’azione giudiziaria debbano essere svolti nella massima sicurezza e, se possibile, non servendosi dell’infrastruttura Cloud, per sua stessa natura violabile. Da anni - aggiunge Mazzoccoli - lavoriamo, con un nostro brevetto, sulla trascrizione in tempo reale del parlato, siamo riusciti a ingegnerizzare questa tecnologia in un dispositivo “all in one” che si chiama Cabolo e prescinde dalla connessione Internet. Da qui nasce Cabolo Interview Kit, per registrare, trascrivere, archiviare digitalmente verbali di interrogatori in modo sicuro e con file crittografati: un verbale che identifica in modo univoco e protetto gli interlocutori, riportandone in maniera puntuale le dichiarazioni”. Anche gli “addetti ai lavori” accolgono con favore il passaggio alla registrazione audio/video delle escussioni: “Con questo nuovo modo di documentazione - spiega Antonello Martinez, avvocato e socio fondatore dello studio legale Martinez-Novebaci - verranno soddisfatte in pieno le esigenze di velocizzazione del procedimento penale con il superamento dell’arcaico metodo di trascrizione riassuntiva della verbalizzazione. Verrà assicurata anche la vera applicazione dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nel processo. Basti pensare - conclude Martinez - ad un interrogatorio di una persona indagata laddove potranno essere colte anche le minime sfumature delle dichiarazioni rese e si ridurranno tutte le varie interpretazioni sia da parte dell’accusa che della difesa”. “Il Sistema è vivo”. E le correnti si riuniscono nelle stanze del Csm di Simona Musco Il Dubbio, 28 luglio 2203 Cambiano gli accordi di potere nell’organo di autogoverno delle toghe, dove a decidere sono ancora le logiche spartitorie. “Non è solo metodo Palamara”. “Il Sistema è in piena salute. E non si parli più di sistema palamariano, per decenza”. A certificare la continuità tra i vecchi metodi del Csm e quelli nuovi è chi ci sta dentro. Ovvero Andrea Mirenda, unico indipendente in Consiglio. L’ultima occasione utile per ribadire lo stato di salute della “correntocrazia”, come l’ha definita la toga in una mailing list di colleghi, è stata la conferma a larga maggioranza di Marilena Rizzo alla presidenza del tribunale di Firenze. La magistrata, in passato, è finita sotto la scure disciplinare per le chat con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, al quale chiedeva informazioni su nomine e/ o incarichi di magistrati del distretto fiorentino, per poi essere assolta per “scarsa rilevanza” del fatto. Una vicenda di cui non tenere conto, secondo un “innovativo” orientamento del Csm, in quanto ciò che va valutato è la positiva attività dirigenziale del magistrato, non le sue “qualità etiche”. Un “privilegio” di cui invece non ha goduto, ad esempio, Emilio Sirianni, ex presidente di sezione presso la Corte d’appello di Catanzaro, anche lui assolto in disciplinare e in penale ma “punito”, in sede di riconferma, per la sua amicizia con l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, col quale ha espresso commenti poco lusinghieri sul procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. “Se fossi stato presente, avrei votato convintamente e decisamente contro la riconferma della dottoressa Rizzo alla guida del tribunale gigliato, al pari di quanto già feci due settimane fa con il caso Masia (Vittorio, capo del tribunale di Brescia, ndr) - si legge nella mail inviata da Mirenda ai colleghi -. Non riesco, difatti, ad immaginare come si possa riconoscere doti di imparzialità ed equilibrio a magistrati che - come costoro - si siano capillarmente dedicati ad influire occultamente e abusivamente (tramite raccomandazioni, segnalazioni, anatemi e altre confabulazioni indecorose) sulle procedure di nomina/ conferma del Csm; magistrati, i suddetti, chiaramente ispirati, come accade per tutti i correntocrati di qualsiasi segno, ad una logica “malata” e legata a tessiture relazionali inconfessabili, quantomai pericolose per l’indipendenza del singolo giudice e, a cascata, per il diritto dei cittadini ad avere magistrati trasparenti”. Un modus operandi che se ripetuto in una procedura concorsuale pubblica, sottolinea il consigliere del Csm, di sicuro attirerebbe l’interessamento della magistratura penale. “Sia benedetta, dunque, l’abolizione dell’abuso d’ufficio - conclude ironicamente - gioverà più a noi magistrati che agli amministratori pubblici”. La prova che il sistema di gestione delle dinamiche consiliari sia ancora in mano alle correnti è dato da diversi elementi: il primo e più evidente è la circostanza che 18 consiglieri togati su 20 sono espressione di correnti. Il secondo, che ancor oggi si svolgono riunioni correntizie all’interno di Palazzo dei Marescialli tra i consiglieri esponenti delle varie associazioni togate, alla presenza di elementi estranei allo stesso consiglio. Così, come si apprende da fonti interne, in diversi giorni della settimana a Piazza Indipendenza i consiglieri incontrano i segretari delle proprie correnti, alla presenza di alcuni magistrati segretari, “dimentichi di essere al servizio di tutta la struttura”. Lunghe riunioni durante le quali si decidono le strategie e le linee, assieme a chi, però, non fa parte dell’organo di autogoverno. Il terzo elemento è il riposizionamento delle correnti, funzionale alla vita dello stesso sistema. E in questo valzer, la nuova geografia correntizia vede Magistratura Indipendente e Unicost a braccetto, con i laici a garantire il blocco di potere, spiega un consigliere che preferisce l’anonimato. Il nuovo fronte di maggioranza rispecchia, così, gli equilibri politici interni al Parlamento, con un governo pronto, però, ad attuare riforme poco gradite alla magistratura associata - a partire dalla separazione delle carriere, passando per il sorteggio dei togati del Csm -, rispetto alle quali l’Anm è sul piede di guerra. “I laici stanno sostenendo il nominificio, ma non è chiaro in cambio di cosa - fanno sapere voci interne al Consiglio -, dal momento che il programma dell’Anm non è certo sovrapponibile a quello della politica”. E in questo quadro la corrente progressista di Area - un tempo egemone all’interno del plenum e ora ridotta a gruppo di opposizione - stenta a trovare un proprio preciso collocamento. Vi è chi parla ironicamente di salubre “cura dimagrante” che “potrebbe spingere i magistrati democratici a ritrovare la vera anima progressista”, dopo anni in cui le regole “sono state piegate”. Ed è ancora il consigliere Mirenda a parlare di “sistema dirigenziale mostruoso”, capace di assoggettare la quasi totalità dei magistrati ad una casta direttiva a vita, sistema che ora “va ripensato”. “Il sistema è imploso, è disfunzionale e la prova di ciò è che ogni nomina è seguita da una marea di ricorsi, a dimostrazione della sfiducia dei collegi sulla trasparenza delle procedure consiliari”. Una soluzione netta - dice Mirenda - è quella del sorteggio temperato (lui stesso è stato sorteggiato), cosa che porterebbe ad avere non più soggetti “eterodiretti” bensì “giuristi che si confrontano lealmente e in modo indipendente, nell’interesse superiore della giustizia”. Le sintonie, spiega, si creerebbero in maniera “endogena”, volta per volta. Ma per realizzare questo progetto il prezzo è una nuova guerra tra toghe e politica. Proprio ciò che ieri il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con un appello rivolto ad entrambi i fronti, ha chiesto di evitare. La Consulta dà ragione a Renzi nel conflitto di attribuzione coi pm di Firenze di Giulia Merlo Il Domani, 28 luglio 2203 La procura non poteva acquisire senza l’autorizzazione del Senato “messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi”. Matteo Renzi ha ottenuto ragione davanti alla Corte costituzionale sul caso della sua corrispondenza acquisita dai magistrati di Firenze. La Consulta, infatti, ha accolto il conflitto di attribuzione proposto dal Senato nei confronti della Procura di Firenze, che aveva acquisito la corrispondenza dell’ex premier senza chiedere la preventiva autorizzazione del Senato. “La Corte ha dichiarato che la Procura non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi, oggetto di provvedimenti di sequestro nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso parlamentare e di terzi”, si legge nel comunicato della corte. I giudici costituzionali hanno ritenuto che i messaggi fossero “riconducibili alla nozione di corrispondenza, costituzionalmente rilevante e la cui tutela non si esaurisce, come invece sostenuto dalla procura, con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, ma perdura fin tanto che esso conservi carattere di attualità e interesse per gli interlocutori”. La sentenza rileva perchè stabilisce che “gli organi investigativi sono abilitati a disporre il sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi, quali smartphone, computer o tablet: ma quando riscontrino la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza per poterli coinvolgere nel sequestro. Ciò a prescindere da ogni valutazione circa il carattere “occasionale” o “mirato” dell’acquisizione dei messaggi stessi”. La corte invece non ha accolto la parte del ricorso in cui si contestava l’acquisizione dell’estratto del conto corrente personale di Renzi, “in quanto non era stato spedito dalla banca al parlamentare, ma allegato a segnalazioni di operazioni bancarie provenienti da uffici della Banca d’Italia”. Perché visitare i carcerati di Luca Astolfi La Voce e il Tempo, 28 luglio 2203 Gentile Direttore, avrò avuto otto o nove anni al massimo quando per la prima volta ho sentito parlare delle opere di misericordia corporale e ricordo distintamente la mia perplessità quando mi vennero elencate queste sette indicazioni pratiche, e una da subito mi è sembrata decisamente stonata rispetto alle altre sei. Dar da mangiare agli affamati. Dar da bere agli assetati. Vestire gli ignudi. Alloggiare i pellegrini. Visitare gli infermi. Visitare i carcerati. Seppellire i morti. La penultima non mi ha proprio mai convinto. Capisco e condivido la necessità di dar da mangiare agli affamati, come quella di dar da bere agli assetati. Benissimo vestire gli ignudi e alloggiare i pellegrini. Giusto e sacrosanto assistere gli infermi e seppellire i morti. Ma perché mai si dovrebbero visitare i carcerati? Perché dedicare tempo a chi ha ucciso rubato, truffato o comunque commesso un reato? Un affamato non ha colpa se è nato povero, un malato non ha colpa della sua malattia, ma chi è in carcere è colpevole! Se è finito in carcere, è successo perché ha violato la legge! D’altronde mi è risultato da sempre inconcepibile mettere sullo stesso piano affamati, malati e poveri con ladri, furfanti e violenti. Crescendo non mi sono ricreduto e, ogni volta che sentivo risuonare l’invito a visitare i carcerati la mia reazione inconscia è sempre stata di profondo scetticismo. Perché mai visitare i carcerati? In fondo ritenevo che il mio dubbio fosse anche motivato oggettivamente: perché mai un carcerato dovrebbe avere piacere a ricevere la visita di una persona come me? Ho sempre pensato ai carcerati come persone lontane e ostili nei confronti di Dio e degli uomini: in fondo se avessero coltivato altri valori mica si sarebbero poi trovati in quella situazione. Ma Nostro Signore ama farci capire le cose non imponendocele dall’alto con la forza ma ce le fa scoprire e capire dal basso. E visto che io mai e poi mai avrei messo un piede in carcere a visitare un detenuto che cosa ha escogitato? Ha mandato un carcerato a far visita a me! Ma si può essere più geniali? Dio è riuscito a fare in modo che capissi quanto fosse stupido e assurdo questo mio pregiudizio è ci è riuscito senza far ricorso a nessuna violenza o imposizione, ha lasciato pazientemente che vivessi per oltre 40 anni con la mia infantile repulsione per i carcerati e poi ha giocato il jolly: mi ha messo a lavorare a fianco di un detenuto. Certo, Dio sapeva bene che quando il mio capo (il direttore della Caritas diocesana) mi propose di collaborare ad un progetto di borsa lavoro a favore di un carcerato avrei diligentemente obbedito, ma per il resto ha saputo trasformare la mia collaborazione con Roberto (di solito si scrive ‘un nome di fantasia’, invece Roberto è il suo nome vero e mi ha autorizzato a usarlo) in una lenta ma inesorabile scuola di vita. Roberto è una persona straordinaria che ha commesso un errore per cui ha pagato con molti anni di carcere. Un errore che gli ha cambiato la vita. Roberto non era un delinquente, era un tranquillo e onesto lavoratore che un giorno ha ceduto alle lusinghe di un guadagno veloce e facile. E invece ha perso tutto ed è finito in carcere. Ma non si è arreso, ha fatto tesoro del suo errore e io in confronto a lui, con la mia vita apparentemente integerrima e impeccabile sono in realtà un cristiano piccolo piccolo. Roberto ovunque lo metti a lavorare, porta il suo sorriso e la sua capacità di accogliere chiunque. Roberto arriva prima dell’orario di lavoro per fare la cosa più importante: iniziare la giornata passando in chiesa per una preghiera. Roberto mi racconta della vita in carcere, dove lui e i pochi che guadagnano qualcosa si autotassano offrendo dai 20 ai 50 euro al mese, per comprare la pasta e altri generi alimentari per i detenuti più poveri, solitamente e soprattutto extracomunitari. Ho pensato a quanto metto io, a quanto mettiamo noi buoni cristiani nel cestino delle offerte nella Messa domenicale. Roberto mi ha fatto quindi capire che Dio è ben presente anche in carcere; non solo, ma a volte forse si trova persino meglio e più accolto che in tante nostre comunità cristiane. Finalmente ho capito perché Dio vuole che andiamo a visitare i carcerati, affinché siamo noi a ricevere benefici e insegnamenti da loro! Siamo noi che abbiamo molto da imparare dai detenuti, noi che siamo fuori abbiamo smarrito il senso vero della solidarietà e facciamo troppo spesso al suo posto solo beneficienza ovvero una grattatina veloce e indolore del nostro superfluo. Noi che siamo fuori abbiamo perso la voglia e la capacità di sorridere sempre a tutti, di ascoltare davvero gli altri, di ringraziarli ma soprattutto di ascoltare e ringraziare Dio. Ovviamente sto generalizzando, non voglio certo arrivare al paradosso insostenibile che tutti i carcerati siano santi e che noi fuori sbagliamo tutto. Dico solo che la tentazione di sentirci noi i buoni e loro i cattivi è altrettanto sbagliata, perché il confine tra il bene e il male non guarda i luoghi in cui passa (una casa, una chiesa o un carcere) ma al posto che ogni anima riserva a Dio, a prescindere da dove viva, incluso il carcere che non è quel luogo dannato e maledetto che ho sempre creduto fosse. Chi lo sa, forse per i carcerati la sesta opera di misericordia corporale è visitare chi è fuori dal carcere. Bologna. Gli avvocati: “Situazione del carcere allarmante” La Repubblica, 28 luglio 2203 Sovraffollamento, caldo eccessivo, mancanza di acqua fresca per i detenuti e pochi ventilatori e, per completare il quadro, condizioni di lavoro per il personale “difficili, per usare un eufemismo”. È una situazione che l’ordine degli avvocati e la camera penale di Bologna definiscono senza mezzi termini “allarmante” quella che i legali hanno osservato in una recente visita al carcere bolognese della Dozza. In una nota congiunta, i due organismi evidenziano che, ad oggi, “la struttura accoglie 796 detenuti, nonostante la capienza regolamentare sia inferiore a 500 persone”, rilevando come sia “particolarmente allarmante la situazione nella sezione ‘nuovi giunti’, dove, a fronte di una capienza di 20 persone, si contano 38 presenze, di cui solo 10 sono effettivamente arrivati in carcere da pochi giorni”. Il quadro “appare ancor più critico se si considera che ogni cella ospita tre detenuti, che vivono in regime chiuso, in palese violazione dell’ordinamento penitenziario per chi rimane ristretto fino a fine pena, che dovrebbe ricevere un’offerta rieducativa e di reinserimento”. E il problema del sovraffollamento, insistono i rappresentanti degli avvocati, è reso “ancora più insopportabile dalla calura estiva”. Nelle celle e nei corridoi si registrano infatti “temperature altissime, i detenuti non hanno disponibilità di acqua fresca e gli unici ventilatori sono posizionati nelle salette socialità delle sezioni, ove presenti”, e “pur essendo apprezzabili gli sforzi dell’amministrazione di reperire ventilatori per le celle, ribaditi nelle dichiarazioni della direttrice che auspica addirittura che non ci siano più ingressi in questo periodo”, emerge che “ogni intervento adottato dopo oltre due mesi dall’inizio della stagione estiva non è adeguato a garantire la salute dei detenuti e degli operatori”. Parimenti insufficiente, secondo ordine degli avvocati e camera penale, è “la possibilità, concessa ai detenuti di alcune sezioni, di acquistare mini-ventilatori a pile che hanno un’autonomia minima”. Sul punto, per i legali “potrebbe essere utile introdurre un maggior numero di refrigeratori, per poter usufruire di cibo e bevande a temperature tollerabili”, visto che, tra l’altro, “non sono infrequenti i malori dovuti alla situazione attuale, rispetto ai quali non è sempre garantita un’assistenza sanitaria tempestiva e adeguata, soprattutto in orario notturno, come hanno riferito alcuni detenuti”. Come se non bastasse, prosegue la nota, “promiscuità e sovraffollamento favoriscono anche la diffusione di malattie infettive (soprattutto scabbia e tubercolosi) per le quali, peraltro, non è previsto un totale isolamento, considerati i numeri delle presenze”, e ad aggravare il tutto ci sono “le precarie condizioni igieniche della struttura, con addirittura sezioni infestate da scarafaggi”. Per garantire la pulizia personale, i legali auspicano che sia “reintrodotta la possibilità, per i detenuti, di usufruire autonomamente di lavatrici in ogni sezione, il cui uso è attualmente soppresso e sostituito dal servizio di lavanderia del carcere a pagamento, che sfavorisce i detenuti con minori possibilità economiche”. La situazione non migliora se dalle condizioni dei detenuti si passa ad esaminare quelle del personale penitenziario, “a contatto con situazioni di disagio psichico sempre più marcato e spesso chiamato a svolgere ruoli di supplenza rispetto ad altre figure professionali”. Data la situazione, tirano le somme gli avvocati bolognesi, “è evidente che qualunque tentativo di ‘ridurre il danno’ da parte dell’amministrazione penitenziaria locale non può che sottolineare la necessità di un intervento urgente della politica e delle amministrazioni anche locali”. Intervento che dovrebbe “affrontare il tema della dismissione di edifici fatiscenti, inadatti ad applicare un regime decoroso di vita penitenziaria e la cui manutenzione è dispendiosa e spesso inutile, e di aprire spazi meno avvilenti per l’espiazione della pena, laddove e non sostituibile con altre misure, e di dotare questi spazi di personale adeguato”. Non basta infatti, chiosano gli esponenti dell’avvocatura, “affermare che in carcere forse non si scende sotto lo spazio minimo vitale dei tre metri quadrati a persona detenuta: chiunque ha il potere e il dovere istituzionale di vigilare e di intervenire vada a constatare qual è lo stato attuale della detenzione nel carcere della Dozza (come altrove), e agisca di conseguenza”. Da qui, infine, l’auspicio che sul tema “intervenga, come ha già fatto in passato, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio”, anche perché, ricordano ordine e camera penale, “ogni istituto detentivo è un luogo di privazione della libertà personale, e non certo degli altri diritti inviolabili dell’uomo, quali la salute e la dignità”. Foggia. Vertice in prefettura sul carcere: “I medici non vogliono lavorarci” Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2203 L’Asl ha sottolineato le difficoltà a reperire personale sanitario disposto a lavorare nelle carceri. Si sta “provvedendo a reclutare ulteriori infermieri e medici” ma “ci sono difficoltà a reperire figure professionali disposte ad espletare attività all’interno di istituti penitenziari ed in particolare in quello di Foggia”. È quanto ha evidenziato l’Asl di Foggia durante un vertice in prefettura sul carcere di Foggia. Dall’incontro è emerso anche che a settembre sarà nominato un nuovo comandante della polizia penitenziaria per il carcere di Foggia, mentre a ottobre dovrebbe essere assegnato al penitenziario anche un vicedirettore. Al vertice hanno partecipato il prefetto Maurizio Valiante, le organizzazioni sindacali tranne il Sappe, il provveditore regionale, il comandante della polizia penitenziaria di Foggia, i responsabili della Asl per la sanità penitenziari. Si è discusso, secondo quanto riferisce la Cgil, “dell’esiguità delle assegnazioni di personale non solo per la casa circondariale di Foggia ma anche per gli altri due istituti di Lucera e San Severo nel Foggiano; dell’affollamento dell’istituto di Foggia pari al 190% rispetto agli altri istituti della regione Puglia; dell’insostenibilità di turnazioni fino a 12 e 16 ore continuative che hanno portato i lavoratori al limite della sopportazione”. Dall’incontro è emerso inoltre che “per l’aumento di organico di poliziotti penitenziari si dovrà attendere il corso allievi agenti che terminerà entro la prima metà dell’anno prossimo”. Messina. “Contrada Luna”. I detenuti in scena al Teatro di Tindari tempostretto.it, 28 luglio 2203 Secondo e atteso appuntamento, nell’ambito del Progetto speciale “Tindari a cielo aperto - uno spazio di libertà” inserito nel cartellone del Tindari Festival, che ha la direzione artistica dell’attore siciliano Tindaro Granata, nella suggestiva cornice del Teatro greco di Tindari. Oggi, venerdì 28 luglio alle ore 20.30, andrà in scena lo spettacolo dal titolo “Contrada Luna” di e con Mario Incudine e la Libera Compagnia del teatro per Sognare dei detenuti - attori della Casa Circondariale di Messina, creata dalla direttrice artistica, del teatro Piccolo Shakespeare (all’interno del carcere), Daniela Ursino, nell’ambito del Progetto “Il Teatro per Sognare”, sostenuto dalla Caritas Diocesana di Messina e dall’Università di Messina. Il Progetto ha ricevuto il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Giustizia. Il testo dello Spettacolo, in prima nazionale, è stato ridotto da Mario Incudine ed è tratto da “Lunaria” di Vincenzo Consolo, Le esequie alla luna” di Lucio Piccolo e “Il cavaliere sole” di Franco Scaldati. Ad anticipare l’inizio dello spettacolo la firma del protocollo di intesa con le Istituzioni partner del progetto. Lo spettacolo sarà un tableau vivant con 50 artisti in scena tra attori e musicisti e oltre alla “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” dei detenuti- attori protagonisti principali della messa in scena, vedrà in scena artisti di fama nazionale e internazionale insieme anche alla Compagnia delle studentesse dell’Università di Messina di “Liberi di Essere Liberi” dei corsi di Giurisprudenza e Scienze politiche e le Signore di Patti che ci faranno immergere nel tema a cui quest’anno è dedicato il “Tindari Festival”, sulle tradizioni della nostra terra. Lo spettacolo andrà in scena venerdì 28 luglio alle ore 20.30 e dalle ore 16 sarà possibile assistere alla prova generale con i detenuti e tutti gli artisti. Questo evento dal grande valore sociale rappresenta un altro tassello significativo e importante per il Progetto che D’aRteventi porta avanti quotidianamente all’interno della Casa Circondariale di Messina e da quest’anno anche presso l’istituto Vittorio Madia di Barcellona Pozzo di Gotto e anche all’esterno presso la Parrocchia di Camaro San Paolo insieme a Padre Nino Basile, direttore di Caritas Messina. Toni Negri. La lotta di classe è sempre aperta di Bruno Quaranta La Repubblica, 28 luglio 2203 Il primo agosto il leader di Autonomia Operaia compie 90 anni. E rievoca la militanza giovanile nell’Azione Cattolica, l’ammirazione per Moro, Bobbio e la stagione tragica degli Anni di piombo. A ciascuno la sua lettera scarlatta. Per Toni Negri è un numero, 7, aprile 1979. Il suo Moloch, Autonomia Operaia, finiva in gabbia a Padova. Di fronte sarebbero stati a lungo lo Stato e il teorico dell’anti-Stato, ancorché docente di Dottrina dello Stato. Fin quando il pallottoliere giudiziario formò un ulteriore numero, 17, gli anni di carcere inflitti al professore, che ne sconterà 11 e mezzo. Toni Negri si avvia a compiere novant’anni a Parigi, l’1 agosto, attaccato ad “una sorgente d’ossigeno”. Si è diradato fino a dissolversi, nel suo studio, il fumo delle ultime mai ultime sigarette che fuoriusciva verso il boulevard dove ancora nitide sono le orme hemingwayane, tra la Coupole e la Closerie de Lilas. Novant’anni, il ricordo che la conforta? “Il periodo più positivo, fra l’83 e il ‘97, il tempo dell’esilio, io, un sans papiers, obbligato ad arrangiarmi per sopravvivere. A disvelarsi era il mondo postmoderno, azzeratosi il moderno. Lo sfruttamento del lavoro in fabbrica cedeva il passo al lavoro precario: era, è, il capitalismo, che procede per costruzioni e per distruzioni, sempre inverandosi”. Marx sollecitava i filosofi a trasformare il mondo, non solo a interpretarlo. Quale il suo contributo in tal senso? “L’analisi del movimento operaio, la costruzione di un nuovo soggetto che impronterà gli anni Sessanta-Settanta. Dai Quaderni rossi all’attività politica, fino al 7 aprile. Vent’anni per modellare una prospettiva militante”. Non crede che sia fallita? Se a segnare l’Italia sarà il ventennio berlusconiano? “È fallita anche la parte più decente della borghesia, che si è lasciata ammaliare e fagocitare dal Cavaliere o Caimano che dir si voglia”. E il Pci? Berlinguer non è mai stato un suo “compagno” ideale… “Il Pci non ha capito la trasformazione del capitalismo. Si è adeguato a un modello di sviluppo industriale fordista, mai avventurandosi nel post-fordismo e mai andando al di là del keynesismo”. Le è successo di non nascondere la stima per Moro… “Il quale aveva capito due cose: il Pci era in crisi, giustamente in crisi, una condizione che andava trasformata in fatto politico. Purtroppo sarà il Caf, Andreotti & C., a realizzare l’impresa in termini reazionari”. Torniamo al comunismo. Di fronte alla débâcle del comunismo storico, Norberto Bobbio osserverà: “Forse la redenzione umana non è di questo mondo”. “Lo considero un momento di sconforto di Bobbio. Era kantiano. L’illuminismo ci insegna che la grandezza dell’uomo moderno in ciò consiste: non avere ostacoli, sapere andare al di là di ogni ostacolo”. Che cosa la divideva da Bobbio, che contribuì a farle avere la cattedra di Dottrina dello Stato? “Affermava che il comunismo non è caratterizzato da una dottrina dello Stato, è pura violenza politica. Secondo me, invece, lo Stato sussiste, non come sovranità assoluta, ma come spazio dove lottano forze diverse”. Einaudi non esiterebbe a parlare di Stato liberale, liberale l’aggettivo declinato in modo rivoluzionario da Gobetti… “Perché no?”. È nota la sua formazione cattolica, nella Padova degli anni Cinquanta. Le capitò di votare Dc? “No, mai. Quando militavo nell’Azione Cattolica ancora non avevo diritto di voto. La prima volta scelsi il Pci”. Quale l’impronta cattolica degli anni di piombo? “Perché cattolica? Direi cristiana. Ovvero amare i più poveri, sceglierli. Siamo giunti a papa Francesco che invita al Sinodo il disobbediente Casarini”. Evangelicamente amare… Ma allora gli omicidi erano quotidiani… “Ma chi cominciò? Le stragi non erano forse di Stato? Io, comunque, non ho mai ucciso”. E gli ex terroristi italiani che la Francia ha deciso di non estradare e la giustizia nei confronti delle vittime? “Sono trascorsi più di quarant’anni… In qualsiasi altro Paese avrebbero goduto dell’amnistia. Qualcuno ricorderà l’amnistia Togliatti, la cancellazione dei crimini fascisti”. La Francia brucia, arriverà Marine Le Pen all’Eliseo? “Se si votasse oggi, al 70 per cento”. E la sinistra? “O sarà nuova o non sarà. Qualche segnale di incoraggiante lo scorgo. I Gilet Gialli che hanno archiviato lo sciopero classico, inventando lo sciopero sociale. Senza di loro non ci sarebbe stata la rivolta delle pensioni”. Oltre che la sinistra, bisognerebbe fare l’Europa… “Io sono sempre stato europeista. Fra dieci anni, terminata la guerra in Ucraina, sarà feudo dell’industria e del potere americano. Mentre la Russia sarà sotto l’ombrello cinese”. Come legge il fenomeno Meloni? “Post-fascismo non vuol dire niente. Si tratta di una svolta autoritaria, molto liberale, incastrata nella continuità delle scelte reazionarie del ceto politico italiano”. Lei ha tre maestri. Machiavelli… “Insegna che la lotta di classe sta al centro di ogni concezione del potere e che lo Stato è il prodotto di questa lotta sempre aperta”. Spinoza… “La migliore vita sociale è la vita condotta collettivamente, la vita comune, la moltitudine dovrebbe organizzarsi liberamente, come società amorevole”. Marx… “Mescola la lotta di classe con la tendenza a edificare un comune materiale e spirituale, politico ed economico”. E Gramsci? “Auspico che lo si legga, sottraendolo alle macerie, ossia al togliattismo. È uno scrittore rivoluzionario, non il teorico del compromesso storico”. Sua figlia le ha mosso la critica di aver sacrificato la vita all’ideologia… “I miei figli hanno sofferto molto della repressione ed è giusto che abbiano una certa collera nei miei confronti. Ma fare un film su quella vicenda, come ora sta facendo Anna, è trasformare la sofferenza in una proposta. Stiamo ricostruendo”. Novant’anni. Bobbio affermava che avanzando negli anni gli affetti contano più dei concetti… “Riecco Bobbio. Riecco aprirsi il dissenso. Io ritengo, con Foucault, che affetti e concetti siano maledettamente intrecciati”. Se ne è andato Kundera… Libération titola: “L’infinie liberté des lettres”. La letteratura come via alla libertà? “Gli esempi non mancano. Dal nostro Risorgimento, da Alessandro Manzoni, a Victor Hugo per la Francia, a Tolstoj, al Grossman di Vita e destino”. Per lei è prioritaria la libertà o la giustizia? “Bobbio distingueva, la giustizia contrassegna la sinistra, la libertà la destra. No, sono indivisibili, ora e sempre: giustizia e libertà”. Quando i partiti esasperano le divisioni esistenti nel paese di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 28 luglio 2203 Le formazioni politiche subiscono una drastica mutazione passando dall’opposizione al governo e viceversa. Così, affrontare i veri problemi diventa praticamente impossibile. Dalla lezione di un grande studioso della democrazia, Giovanni Sartori, si ricava che quando la polarizzazione politica è elevata l’opposizione tende ad essere “irresponsabile”: si contrappone frontalmente al governo su tutto. Senza ombra di realismo. Ciò spiega la drastica e repentina mutazione che subiscono i partiti quando passano dall’opposizione al governo e viceversa. Giorgia Meloni, prima di vincere le elezioni, aveva (tranne che sull’Ucraina) la tipica postura dell’oppositore irresponsabile nel senso di Sartori. Meloni al governo è un’altra cosa. Il Pd ha fatto il tragitto contrario: era una cosa quando faceva parte della maggioranza di governo guidata da Mario Draghi, è un’altra cosa fuori dall’area di governo. Quando sono all’opposizione il partito di destra o il partito di sinistra si fanno guidare, rispettivamente, dal principio pas d’ennemis à droite (niente nemici a destra) e pas d’ennemis à gauche (niente nemici a sinistra). Ciò alimenta la costante delegittimazione reciproca fra governi e partiti di opposizione. Riflette le divisioni che esistono nel Paese. Ma tende anche a perpetuarle e a esasperarle. Viviamo in una fase storica nella quale la polarizzazione politica è aumentata in tante democrazie (si pensi agli Stati Uniti) ma l’Italia fa storia a sé. La nostra era una democrazia polarizzata (quando molte altre non lo erano) ai tempi della Guerra fredda. Ed è rimasta tale. Con l’aggravante che mentre un tempo l’esistenza di forti partiti riusciva a contenere, almeno in parte, le pressioni divaricanti, oggi che quei forti partiti non ci sono più l’opera di contenimento è assai più faticosa e spesso impossibile. Le conseguenze sono pesanti. Quando predomina lo spirito di fazione affrontare i problemi del Paese diventa impossibile. Sia perché chi governa — ovviamente costretto ora a fare i conti con la realtà — non può mai liberarsi completamente delle scorie accumulate nella fase dell’opposizione irresponsabile. Sia perché non è pungolato da una opposizione che sappia confrontarsi con i problemi anziché innalzare muri ideologici. I problemi del Paese sono noti: insufficiente crescita economica, declino demografico, mali antichi dell’amministrazione, malfunzionamento dell’amministrazione della giustizia, deterioramento del sistema scolastico, prestazioni di welfare mal distribuite e con ampie sacche di inefficienza, necessità di governare i flussi migratori, obbligo di conciliare le misure per fronteggiare il cambiamento climatico con la salvaguardia della forza industriale del Paese. Grandi e difficilissimi problemi che richiederebbero una convergenza di intenti, chiamare il Paese a riconoscersi in alcune idee-forza. Una cosa è dividersi, come è normale in democrazia, su proposte diverse ma volte a uno stesso scopo. Altro è dare libero sfogo allo spirito di fazione e a uno scontro ideologico che inghiotte tutto e che nasconde anziché rendere visibili i termini del problema che si dovrebbe affrontare. Prendiamo, ad esempio, il caso della scuola. Basta leggere i risultati dei test Invalsi per capire che stiamo segando il ramo su cui siamo seduti. Stiamo dilapidando, prima ancora di averlo formato, un grande capitale umano. Ma senza capitale umano non si va da nessuna parte. I successi economici “asiatici” (della Cina e non solo), da tanti ammirati, sono, prima di tutto, il prodotto di sistemi educativi di prim’ordine. Qualunque professore con una lunga esperienza sorride quando sente dire che ci sono tanti giovani bravi e preparati. Certo che ci sono, come ci sono sempre stati. Ma il problema di un sistema educativo è, prima di tutto, quello di preparare decentemente la fascia media (i bravi, quelli che hanno vocazione per lo studio, se la cavano comunque). Il cedimento strutturale della scuola ha riguardato la fascia media. È in questa fascia che l’impreparazione dilaga. Con gravi danni, in prospettiva, per l’economia e le professioni. E anche per la democrazia. Interessi corporativi e faziosità ideologica impediscono di ammetterlo. E di cercare i rimedi. Oppure si prenda il tema dell’immigrazione. In un Paese in crisi di natalità c’è un grande bisogno di immigrati. Ma c’è anche bisogno di assorbirli senza provocare forti “sbreghi” nel tessuto sociale e culturale. Qualcuno può affermare che il tema, da quando si è imposto all’opinione pubblica, sia stato affrontato, da destra e da sinistra, in modo non ideologico? C’è ora qualche segnale di un atteggiamento più pragmatico ma è ancora troppo presto per giudicare. È comunque un altro argomento su cui il riconoscimento di un interesse comune dovrebbe spingere a cercare convergenze anziché contrapposizioni frontali. Se la polarizzazione politica impedisce di riconoscere la natura delle sfide e di cercare convergenze, dobbiamo allora sperare nell’emergere di forze capaci di affrontare con pragmatismo i problemi che incombono e che riescano a mettere nell’angolo gli ideologizzati delle varie fazioni? Dobbiamo cioè aspettare che si formi, al centro dello schieramento, una opposizione responsabile? Si sente spesso dire che esisterebbero vaste praterie che aspettano solo di ricevere una offerta politica credibile. Qualche tempo addietro lo pensava anche chi scrive. Ma forse era un’illusione. In un sistema polarizzato, chi rifiuta lo spirito di fazione fatica a fare passare messaggi che prendano di petto i problemi. La faziosità occupa la scena. Non solo una offerta politica credibile del tipo indicato, al momento, non si vede. Ma se ci fosse non è detto che avrebbe successo, che riuscirebbe a intercettare tanti elettori. In teoria la democrazia appartiene al novero dei regimi moderati. In un regime moderato la demagogia è tenuta a freno, relegata ai margini dello spazio pubblico. Per questa ragione, forse, la forte polarizzazione registrata negli ultimi anni in tante democrazie occidentali potrà essere prima o poi riassorbita. Però il nostro Paese non ha mai conosciuto la suddetta moderazione. Fino ad oggi, tuttavia, la democrazia italiana è riuscita a sopravvivere. Forse è l’eccezione che conferma la regola. Forse è solo il frutto di fortunate circostanze. Caso e fortuna hanno comunque giocato a nostro favore. Si spera che continuino a farlo. Salute mentale, l’Autorità garante: “Basta minorenni ricoverati con gli adulti” redattoresociale.it, 28 luglio 2203 Garlatti: “Secondo la Società di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza in media 6 minorenni su 10 vengono ricoverati in reparti inappropriati, tra cui quelli per gli adulti”. L’invito è ad aumentare il numero dei posti letto di neuropsichiatria infantile, dare risposte adeguare per l’età e superare le differenze tra regioni. “Accade in Italia che minorenni con problemi di salute mentale vengano ricoverati negli stessi reparti degli adulti. L’ultima segnalazione di un episodio del genere registrata dalle cronache è arrivata dal Veneto, ma secondo la Società di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza in media 6 minorenni su 10 vengono ricoverati in reparti inappropriati, tra cui quelli per gli adulti”. Ad affermarlo è Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, che ricorda come dal 2017 l’Autorità garante richieda particolare attenzione “affinché si eviti che ragazzi di minore età con disturbo psichiatrico si trovino ricoverati in reparti di psichiatria per adulti per la carenza di strutture specifiche per l’età evolutiva. Una raccomandazione che, evidentemente, viene disattesa in violazione dei diritti di questi ragazzi”. Prosegue Garlatti: “A tal proposito, proprio di recente, all’esito della prima fase dello studio sull’impatto della pandemia sulla salute mentale dei minorenni condotto dall’Autorità in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ho chiesto che venga garantito su tutto il territorio nazionale un numero congruo di posti letto nei reparti di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. In Italia, stando ai dati del 2022 del ministero della salute, ci sono 403 posti letto in degenza ordinaria. Secondo la Società di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ne servirebbero 700”. “È indispensabile - conclude Garlatti - assicurare a bambini e ragazzi una presa in carico da parte dei servizi che sia in grado di dare risposte specifiche e appropriate alla loro età e alla fase di sviluppo che stanno attraversando. Infine, occorre garantire un’organizzazione omogenea su tutto il territorio nazionale dei servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza al fine di superare le attuali differenze regionali, poiché ci sono regioni che risultano avere pochi posti letto o altre che non ne hanno per nulla”. Progetto Aula 162, rinascere attraverso il lavoro di Maria Chiara Gadda Il Riformista, 28 luglio 2203 Nel nostro Paese il mercato del lavoro è caratterizzato da vecchi e nuovi problemi tra questi l’incapacità di far incontrare domanda e offerta e quello dello “skill mismatch”. Se questi due fenomeni si incrociano le complicazioni crescono, e il risultato è che chi cerca un impiego e appartiene a una categoria socialmente debole e con poche competenze rimane ai margini e le aziende continuano a lamentare la mancanza di figure tecniche e anche in settori quali la logistica, il magazzinaggio, le pulizie. Un ponte tra questi due bisogni è quello creato da Associazione Next, nata dall’operatore logistico Number 1, attraverso il progetto “Aula 162” sostenuto da Procter & Gamble. Il progetto si chiama “Aula 162” perché si ispira alle parole di Papa Francesco espresse nel paragrafo 162 dell’Enciclica Fratelli tutti che recita “…aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere quello di consentire loro una vita degna mediante il lavoro (…). Non esiste peggiore povertà? di quella che priva del lavoro e della dignità? del lavoro”. Un tasso di disoccupazione che nelle fasce giovanili arriva al 21,7%, con l’esponenziale numero dei Neet, i ragazzi che non studiano e non lavorano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila le donne disoccupate, e oltre 630mila i migranti che oggi lavorano in Italia illegalmente. “Con Aula 162 - spiega il presidente Renzo Sartori - vogliamo creare una rete che unisce imprese e Terzo Settore per riqualificare questi soggetti fragili e dar loro una reale opportunità di rinascita attraverso il lavoro. In ottica sussidiaria contribuiamo a creare ricchezza per il territorio, offrendo una risposta concreta ad una piaga sociale che si sta allargando sempre di più”. Solo negli ultimi sei mesi Associazione Next è riuscita a fornire opportunità lavorative a 51 persone, oltre 380 dal giorno della sua costituzione. Di queste, grazie alla partnership realizzata con Danone e Korian, 17 persone hanno trovato una ricollocazione in 7 RSA sul territorio di Milano, Monza e altre province lombarde. Tra di loro Marlene, 55 anni di origine cubana, che, dopo la chiusura nel 2011 dell’attività che aveva avviato, e il susseguirsi di lavori saltuari, non aveva più trovato un’occupazione. “Da dicembre non sono più riuscita a trovare nessun lavoro, prima di incontrare Associazione Next stavo perdendo le speranze; invece, oggi per me è un nuovo inizio, ho imparato molto nel corso e sono contenta di avere un motivo per alzarmi ogni mattina”. Altre 7, dopo un corso di 15 giorni in cui hanno potuto apprendere nozioni base dell’attività di magazzino e della logistica in generale e partecipare all’esame per ottenere l’abilitazione all’uso dei carrelli elevatori, sono state inserite presso il deposito Decathlon di Castel San Pietro (BO). L’azienda di marchi sportivi ha offerto una grande opportunità di ripartenza a Issah, un ragazzo ghanese di 22 anni e in Italia da quattro, che in questa occasione ripone tutte le sue speranze “Ringrazio Next per la fiducia che mi ha dimostrato. Spero davvero che questa esperienza possa portarmi a una posizione di lavoro stabile e duratura, che mi permetta ancora di crescere per lasciare il passato alle spalle e guardare con fiducia al futuro”. Altre ancora sono state inserite nella logistica di In’s Mercato nel veronese. La buona riuscita di questa iniziativa è il risultato della perfetta collaborazione tra profit e non profit, motivata dall’intento di dare a tutti una possibilità senza distinzione di provenienza geografica, genere o altri elementi che spesso fungono da ostacolo. Come spiega Riccardo Calvi, Direttore Comunicazione di Procter & Gamble Italia, Aula 162 è il primo progetto di una azienda multinazionale come P&G, che si propone di attuare cambiamenti positivi e concreti per le persone e per l’ambiente su tutto il territorio nazionale. “Cambiamenti - spiega - che non sarebbero possibili se non grazie alla collaborazione di realtà diverse, che mettono a fattor comune risorse e competenze per migliorare la situazione e dare una possibilità di riscatto a tante persone bisognose. La concretezza di Aula 162 risiede proprio in questo aspetto.” Nel report sulle “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine” aggiornato al quinquennio 2023-2027, elaborato nell’ambito del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con Anpal, si è evidenziata la perdita di 37,7 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 3,1% di quanto generato complessivamente dalle filiere dell’industria, a causa dell’inserimento ritardato delle professioni difficili da reperire. “È sempre più evidente che l’inverno demografico e l’immigrazione sono temi caldissimi che vanno affrontati con strategie nuove. La formazione, l’integrazione e l’accoglienza organizzata sono le parole chiave per guidare le strategie del Paese e continuare ad alimentare interi settori che hanno bisogno di manodopera, Associazione Next è un piccolo modello che dimostra che questa può davvero essere una strada percorribile per un futuro migliore in cui ognuno deve fare la propria parte”. Queste parole del presidente Sartori sono uno stimolo da non lasciare cadere nel vuoto. Invisibili e senza diritti: le storie dei figli dei braccianti in condizioni di schiavitù di Mariano Sisto Corriere della Sera, 28 luglio 2203 Nel rapporto di Save the Children le storie di ragazze e ragazzi, spesso minorenni, costretti a condividere con i genitori i turni massacranti nei campi agricoli tra Latina e Ragusa. S. ha 14 anni ma ha iniziato a lavorare a 13: capita che a scuola si addormenti sul banco per la stanchezza accumulata a impacchettare ortaggi e spargere antiparassitari. Fa parte degli “invisibili” per i quali è a rischio l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie: sono i figli dei genitori sfruttati nel lavoro agricolo. Vittime, fin dalla nascita, di una violazione normalizzata dei loro diritti. Sono di origine straniera e le loro storie sono raccolte nel rapporto “Piccoli schiavi invisibili” diffuso da Save the Children in vista della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani che ricorre il prossimo 30 luglio. Gli invisibili trascorrono l’infanzia in alloggi di fortuna nei terreni agricoli, ma per l’anagrafe non esistono. Si concentrano maggiormente tra Latina e Ragusa, distretti strategici per l’agroalimentare italiano. Terre fertili che consentono la coltivazione intensiva, quindi avide di manodopera anche per la raccolta e l’imballaggio dei prodotti agricoli. Non a caso è in queste due aree che sono nati i due mercati ortofrutticoli più importanti del Paese, il Mof - Centro agroalimentare all’ingrosso di Fondi e L’Ortomercato di Vittoria. “Maestra, papà è morto di lavoro”, ha detto con grande lucidità G., 9 anni, dopo che il padre è stato stroncato a 40 anni da un infarto mentre lavorava nei campi. I lunghi orari di lavoro dei genitori, l’assenza di mediazione linguistica e di asili e scuole di prossimità costringono i piccoli a restare da soli chiusi in casa o seguire la mamma e il papà al lavoro. Molto spesso questo si traduce in un coinvolgimento diretto dei minori nello sfruttamento lavorativo, già a partire dai 12-13 anni, con paghe che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno. Si può trattare di un lavoro a tempo pieno o, più spesso, limitato al tempo extra-scolastico quotidiano o estivo. Così diventa difficile fare i compiti e si arriva in ritardo alle scuole superiori, a 16 o 17 anni. “Lo sanno tutti che siamo minorenni - racconta S. - In magazzino ci portano quello che raccolgono nelle serre, abbiamo tipo delle vaschette, le mettiamo sopra alla bilancia e pesiamo i pomodori. Ogni vaschetta non deve essere più di 520/530 grammi”. Storie che si intrecciano con i dati allarmanti sul lavoro minorile diffusi recentemente da Save the Children: in Italia si stima che tra i 14-15enni che lavorano, il 27,8% (circa 58.000 minorenni) abbia svolto lavori particolarmente dannosi per il proprio sviluppo educativo e per il benessere psicofisico. Tra i minorenni intervistati che hanno dichiarato di aver avuto esperienze lavorative, il 9,1% è impiegato in attività in campagna. La barriera della burocrazia, inoltre, rende difficile dove non impossibile l’iscrizione all’anno scolastico, l’ottenimento della residenza o del codice fiscale, l’assegnazione del medico o del pediatra e l’accesso ai bonus per i servizi mensa e trasporto. Un terreno paludoso ma fertile al tempo stesso per lo sviluppo di una forma di caporalato dei servizi, che offre ogni tipo di supporto a pagamento, fuori da ogni controllo. Per questo, nel 2022 Save the Children ha scelto la Fascia Trasformata di Ragusa per avviare, tra gli altri, il progetto “Liberi dall’invisibilità” nei territori di Vittoria e di Marina di Acate, grazie anche alla collaborazione con altri enti del territorio e alla partnership con l’Associazione “I tetti colorati” e la Caritas Diocesana di Ragusa. O il progetto “Vie d’uscita”, lanciato nel 2012 per individuare e immettere ragazze e ragazzi in percorsi di fuoriuscita dai circuiti della tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo. “È fondamentale innanzitutto riconoscere l’esistenza di questi bambini, assicurare ad ognuno di loro la residenza anagrafica, l’iscrizione al servizio sanitario e alla scuola e i servizi di sostegno indispensabili per la crescita”, ha dichiarato Raffaela Milano, direttrice programmi Italia-Europa di Save the Children. “Spero che gli altri ragazzi non siano costretti a passare quello che ho passato io - racconta Aycha, che oggi ha ventun anni - Rimanere isolati, non avere i mezzi, lavorare nelle serre, ma gli auguro di poter essere come tutti i ragazzi della mia età dovrebbero essere”. Lo stigma dei “bimbi comprati” di Michela Marzano La Stampa, 28 luglio 2203 “Bambini comprati”. L’unica cosa che resterà dell’assurda legge che vuole trasformare la Gpa in reato universale sarà quest’orribile frase, quest’insulto che, ormai sdoganato, verrà buttato in faccia a tante bambine e a tanti bambini che, oltre alle difficoltà oggettive che l’esistenza riserva a chiunque, avranno sulle proprie spalle pure il peso dell’essere trattati come capricci, giochini, cose che ci si compra come qualunque altro oggetto. Come si fa anche solo a immaginare di imporre a una figlia o a un figlio la fatica di dover giustificare la propria vita e i propri genitori? Dietro gli slogan sulla “schiavitù del terzo millennio”, dei “ricchi committenti”, o della protezione del “diritto del bambino ad avere una mamma e un papà”, c’è solo tanta cattiveria. C’è sempre cattiveria, d’altronde, quando un essere umano viene usato all’interno di un’ideologia (qualunque essa sia) per portare avanti la propria visione delle cose, per spiegare a destra e a manca cosa siano davvero la libertà e la dignità, e per sentirsi quindi bravi, difendendo una certa idea della famiglia o della donna. Ma, questa volta, è peggio del solito. È peggio perché Francesco, Donatella, Sandra, Giuseppe, Caterina e tanti altri bambini, d’ora in poi (anche se, in realtà, sta già accadendo), verranno additati come: “comprati”. E vivranno quell’ingiustizia atroce che sin da adesso conoscono tutti coloro che provano a raccontare chi sono e come vivono, l’amore profondo che li lega ai propri genitori, la ninnananna la sera o i tuffi in piscina, le lacrime asciugate da papà Gianni o da papà Marcello, che sono i loro papà - ma come si permettono gli altri, che non ne sanno nulla della loro vita, a giudicarli o indicarli con il dito? Francesco, Donatella, Sandra, Giuseppe, Caterina e via di seguito sono bambini come gli altri: voluti, aspettati, desiderati, accuditi, sgridati, talvolta anche trascurati, come accade in ogni famiglia, a ogni figlio e ogni figlia, mai nessuna esistenza è priva di difetti o fratture - inutile ripetere a pappagallo: “ogni bambino ha diritto a un papà e una mamma!” che vuol dire? da quando in qua è la presenza di un uomo e di una donna a garantire la felicità di un figlio? Ci si riempie la bocca di “supremo interesse dei minori”: perfetto, sono d’accordo! è questa l’unica cosa che conta, il supremo interesse dei minori - che hanno ovviamente diritto all’amore, e a essere accettati e riconosciuti per quello che sono, e che hanno disperatamente bisogno che gli adulti li aiutino a capire che la vita è bella e merita di essere vissuta, e che non tutti i desideri si potranno realizzare, certo, ma che il proprio valore è intrinseco, c’è e non cambia, c’è ed è lo stesso identico per ogni essere umano, c’è e non viene meno nemmeno quando qualcuno prova a calpestarlo. Ma come si fa a sentirsi importanti, e ad accedere alla consapevolezza del proprio valore, se c’è chi li tratta come “bambini comprati”? Ci si riempie la bocca di tante frasi fatte, ma quand’è che si guardano negli occhi questi bambini e questi genitori, li si ascolta veramente e li si prende sul serio, invece di etichettarli, privandoli anche solo della possibilità di raccontare ciò che vivono? “La maternità è unica, insostituibile, non surrogabile” ha dichiarato la prima firmataria di quest’assurda legge sulla GPA. Probabilmente contenta di sé, perché la frase suona bene - che c’è che non va in una frase così? Ma cos’è questa maternità di cui parla? Di cosa è fatta? Di legami genetici o di affetti? Lo sa, la prima firmataria della legge, che una donna che porta avanti la gravidanza per altri non ha alcun legame genetico con quel bambino o quella bambina? Lo sa che nessun genitore adottivo ha legami biologici con i propri figli? Lo sa che ciò che è unico e insostituibile e non surrogabile è quel legame unico, insostituibile e non surrogabile (appunto!) che ogni bambino e ogni bambina creano pian piano con i propri genitori, e che nessun legislatore dovrebbe poter recidere? Lo sa, e lo sanno coloro che hanno votato questa legge, che ci sono donne che hanno portato avanti la gravidanza per altri (e che lo hanno fatto essendo già madri, senza aver alcun legame genetico con quei bambini, per libera scelta visto che nei Paesi in cui la Gpa è legale si deve già avere un reddito) che vorrebbero raccontare pure loro la propria storia, e che nessuno le ascolta? Lo sanno, queste brave persone, che la vita non si riduce a formule vuote, e che sdoganare insulti crea dolore e tragedie e ingiustizie? L’appello della moglie del medico accusato di spionaggio: “Nessuna prova, l’Italia convinca l’Iran a liberarlo” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 28 luglio 2203 Il docente iraniano naturalizzato svedese Ahmadreza Djalali, accusato di spionaggio, è detenuto in condizioni orribili da sette anni. “Non vedo mio marito da sette anni, è detenuto in condizioni orribili, è diventato pelle e ossa e potrebbe essere ucciso da un giorno all’altro, mi appello al governo italiano affinché possa fare qualcosa per favorire la sua liberazione, mio marito ha vissuto in Italia per tre anni e al momento dell’arresto era residente in Italia”. Vida Mehrannia è la moglie di Ahmadreza Djalali, medico e docente iraniano naturalizzato svedese (collaboratore anche con l’Università del Piemonte orientale), specializzato in medicina nelle emergenze e accusato dall’Iran di spionaggio e collaborazione con Israele, e per questo arrestato nell’aprile 2016 (dopo un invito in Iran dall’Università di Teheran) e condannato a morte. Come sostenuto dall’avvocato di Djalali, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare le accuse di spionaggio. Amnesty International teme che le autorità iraniane stiano minacciando di mettere a morte Djalali per costringere Belgio e Svezia a consegnare due ex funzionari iraniani, Asadollah Asadi, un ex diplomatico iraniano che sta scontando una condanna a 20 anni in Belgio in relazione a un attentato poi sventato in Francia, e Hamid Nouri, ex dirigente penitenziario sotto processo in Svezia per la sua presunta partecipazione ai massacri del 1988 nelle prigioni iraniane. Abbiamo raggiunto la signora Mehrannia, madre di due figli avuti con Djalali e residente in Svezia, attraverso la mediazione di Amnesty International Italia, che ha lanciato una petizione pubblica per il rilascio che ha raggiunto quasi 300mila firme. Signora Mehrannia, quali sono le condizioni di detenzione di suo marito? “Ahmadreza vive in condizioni orribili, in una stanza stipata, sporca, insieme ad altri detenuti, in condizioni del tutto disumane. Viene torturato mentalmente ogni singolo giorno”. Rischia l’esecuzione? “Sì, è a rischio imminente di esecuzione, potrebbe essere ucciso da un giorno all’altro senza preavviso. Proprio nei giorni scorsi, i media iraniani hanno pubblicato un articolo con una chiara minaccia nei suoi confronti”. Quali sono le sue condizioni di salute? “È diventato pelle e ossa, pesa 57 kg e soffre di molte malattie. Ad esempio, ha perso molti denti, ha un basso numero di globuli bianchi e ha bisogno di cure mediche immediate”. L’ultima volta che gli ha parlato? “Non abbiamo alcun contatto diretto con lui, a volte la sua famiglia in Iran riceve una sua telefonata, così loro ci chiamano, mettono due telefoni vicini e noi riusciamo a sentire la sua voce. Gli negano persino di chiamare i suoi figli”. Come vivete questa situazione? “Questa situazione ha influenzato le nostre vite in tutti gli aspetti negli ultimi sette anni e mezzo. Non è possibile vivere una vita normale sapendo che la persona amata soffre ogni minuto, desiderando solo la libertà e il ritorno a casa. Ci chiediamo ogni giorno: quando finirà questo incubo?”. Come è riuscita a sopravvivere sette anni e mezzo lontano da suo marito? “L’unica cosa che ci fa andare avanti è il sostegno delle persone, delle organizzazioni per i diritti umani, dei politici e anche vedere come Ahmadreza fa del suo meglio per sopravvivere ogni giorno in modo da poter tornare con noi, prima o poi”. Come stanno i suoi figli? “Sono profondamente colpiti. Ogni compleanno, Natale, Capodanno, pensano al padre e desiderano la sua libertà”. Vuole lanciare un appello? “Voglio fare appello al governo italiano e ai politici italiani affinché possano usare tutte le loro possibilità per rilasciare Ahmadreza. Mio marito ha lavorato in Italia e la nostra famiglia ha vissuto lì per 3 anni. Al momento del suo arresto, Ahmadreza era residente in Italia. Una parte del suo cuore appartiene ancora all’Italia e chiediamo al governo italiano di fare tutto il possibile per liberare un padre innocente da una morte orribile”. Singapore. Eseguita condanna a morte per droga, domani in programma un’altra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 luglio 2203 Mohd Aziz bin Hussain, 56 anni, di origini malesi, è stato impiccato ieri a Singapore per aver trafficato circa 50 grammi di eroina. È stata la prima delle due esecuzioni annunciate questa settimana. La seconda, nei confronti di Saridewi Djamani, è prevista domani. Se portata a termine sarà la prima esecuzione di una donna a Singapore degli ultimi 20 anni. Mentre i paesi di tutto il mondo stanno progressivamente eliminando la pena di morte dalle strategie di contrasto alla droga data la sua completa inutilità a tal fine (l’ultimo proprio ieri il Pakistan) le autorità di Singapore non solo non si adeguano a tale tendenza ma aumentano il ricorso alle impiccagioni. Nel 2022 erano state eseguite 11 condanne a morte per reati di droga. Quella di Djamani sarebbe la quarta di quest’anno. Organizzazioni come l’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine e l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti hanno condannato l’uso della pena di morte per reati di questo tipo e hanno spinto i governi a impegnarsi verso l’abolizione. Singapore è uno dei soli quattro stati, insieme alla Cina, all’Iran e all’Arabia Saudita, in cui continuano a essere eseguite condanne a morte per reati di droga. Il Ghana ha abolito la pena di morte per i reati comuni di Angelo Ferrari agi.it, 28 luglio 2203 Il Parlamento ha approvato il provvedimento, così da diventare il 29esimo paese africano abolizionista e il 124esimo a livello globale. Era un provvedimento atteso da anni e ora, finalmente, il Ghana ha abolito la pena di morte, almeno per i reati comuni. Il Parlamento ha approvato il provvedimento, così da diventare il 29esimo paese africano abolizionista e il 124esimo a livello globale. Il disegno di legge per modificare la legge sulla pena di morte è stato presentato dal deputato Francis-Xavier Sosu ed è stato sostenuto dalla commissione parlamentare per gli Affari Costituzionali, Legali e Parlamentari. I sondaggi di opinione, inoltre, hanno sempre evidenziato come la maggior parte dei ghanesi approva l’abolizione della pena di morte. Un ruolo, dunque, importante, lo ha avuto anche l’opinione pubblica del paese dell’Africa occidentale. Il Ghana ha attualmente 170 uomini e sei donne detenuti nel braccio della morte, le cui condanne saranno ora commutate in ergastolo: l’ultima esecuzione è avvenuta nel 1993 ma la pena di morte, fino a ieri, era prevista per reati come l’omicidio. La nuova normativa - che per entrare in vigore dovrà essere ratificata dal presidente Nana Akufo-Addo - modificherà la legge statale sui reati penali (Criminal and Other Offences Act) e quella sulle forze armate (Armed Forces Act), sostituendo la pena di morte con l’ergastolo. In realtà da 30 anni in Ghana non si registrano esecuzioni, l’ultima ha riguardato 12 prigionieri fucilati perché condannati per rapina e omicidio. Le tappe di un percorso lungo più di un secolo - La pena di morte è stata adottata dal paese sin dall’introduzione della common law inglese, nel 1874, ed è prevista per omicidio, rapina a mano armata e alto tradimento. Un primo tentativo abolizionista risale al 2014, quando il governo ha approvato un disegno di legge, che è rimasto sulla carta. Il successivo progetto di modifica dell’articolo 13 della Costituzione - che prevede la condanna a morte per alto tradimento - avrebbe dovuto essere sottoposto a referendum, cosa che non è avvenuto. A sottolineare l’incongruenza è Amnesty International che nel definire un “importante passo avanti” il voto parlamentare avverte che “la piena abolizione di questa punizione draconiana non sarà completa fino alla revisione della Costituzione”. Con l’entrata in vigore della nuova normativa - e, si auspica, con la modifica costituzionale - il Ghana diventerà, appunto, il paese il 29esimo paese in Africa ad abolire totalmente la pena capitale. “L’abolizione della pena di morte dimostra che siamo determinati come società a non essere disumani, incivili, chiusi, regressivi e oscuri”, ha commentato il deputato Francis-Xavier Sosu che ha presentato il disegno di legge in parlamento con il sostegno del Death Penalty Project (Dpp), organizzazione britannica che assieme ad Amnesty e ad altri partner locali ha lavorato per cambiare la legge. Negli ultimi anni molti Stati africani hanno abolito, parzialmente o totalmente, la pena di morte. Tra questi Burkina Faso, Benin, Repubblica Centrafricana, Ciad, Guinea Equatoriale, Sierra Leone e Zambia. La pena capitale resta però ancora in vigore in Algeria, Camerun, Repubblica democratica del Congo, Gambia, Kenya, Malawi, Mali, Mauritania, Marocco, Nigeria, Sudan, Tunisia, Tanzania Uganda e Zimbabwe, dove le la pena capitale difficilmente viene eseguita. Le condanne a morte, invece, continuano ad essere eseguite in Egitto - paese che registra da anni un record di esecuzioni - Somalia, Sud Sudan e Botswana. Stati Uniti. Nba, marijuana legalizzata. Durant: “La fumo, come tutti. È come il vino” di Salvatore Riggio Corriere della Sera, 28 luglio 2203 La nuova policy della lega è inclusa nel contratto di lavoro entrato in vigore dall’inizio di luglio ed è valida per i prossimi sette anni. In Nba il 1° luglio è stata ratificata la decisione presa ad aprile di legalizzare la marijuana, sostanza tolta tra quelle proibite per i giocatori. Non ci saranno controlli, multe o eventuali sospensioni per i recidivi. Ed è stato un campione a convincere il Commissioner Silver a compiere questo passo storico. Si tratta di Kevin Durant, avvocato (improvvisato) di successo. “Pioniere di questa campagna? No, proprio no. Semmai mi piace la pianta. Semplice, tutto qui”, ha detto il fuoriclasse dei Phoenix Suns a Cnbc. E ancora: “Cosa ho detto a Silver per convincerlo? Beh, quando ci siamo visti me l’ha annusata addosso, non c’è stato bisogno di molte parole, era tutto sottinteso. È la Nba, lo fanno tutti, per essere onesti. È come il vino”. La nuova policy della lega è inclusa nel contratto di lavoro entrato in vigore dall’inizio di luglio ed è valida per i prossimi sette anni. Invece, prima funzionava così: dopo la prima violazione un giocatore doveva cancellare quella che era considerata una cattiva abitudine o quantomeno un cattivo esempio sociale. Una seconda violazione, invece, per positività a un controllo occasionale comportava 25mila dollari di multa. Infine, il terzo provvedimento era ancora più pesante: cinque partite di sospensione. Nella sostanza dal 2021 i controlli in merito in Nba erano già spariti. “Le cose sono cambiate in America e nel mondo, l’uso di marijuana non è più stigmatizzato pubblicamente come in passato. Non ha alcun effetto negativo”. In realtà la Nba ora vuole combattere l’uso, tra i suoi giocatori, di sostanze più pericolose come cocaina e ormoni della crescita, doping che influenza prestazioni e risultati. Un altro motivo che spiega la decisione di “sdoganare” la marijuana. Niger. Perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo di Domenico Quirico La Stampa, 28 luglio 2203 Quello che era il pré carré francese finisce in mano a golpisti e Wagner tra scorribande di gruppi jihadisti. Milioni di disperati preparano la fuga. Uno, due, tre: dopo il Mali e il Burkina Faso è la volta del Niger, il bastione dei fedelissimi della République, di Areva con il suo uranio maledetto, del “caro presidente Bazoum”, dei Tuareg custodi della loro emarginazione arcaica e bellicosa. Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della “grandeur”. Quel che è sacrosanto negli ariosi boulevard, ovvero la democrazia, non poteva certo innescare scrupoli teologali nei flatulenti vicoli di Niamey. Da Bokassa a Déby qui si è di bocca buona: Parigi procede da sempre a una trasmutazione alchimistica dei valori, il moralmente condannabile è assolto tra le valli riarse e le acacie spinose con la chioma a ombrello del Sahel. Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando telefonavano le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. Il golpe nigerino pare ancora in bilico, il presidente, in carica dal 2021, non è stato giudiziosamente e immediatamente fucilato, come insegna l’abc delle rivolte militari. I golpisti, ex presunti fedelissimi della guardia presidenziale, tentennano, hanno scrupoli: pericoloso anacronismo per dei ribelli. Bazoum sta in villa e manda tweet a mezzo mondo, soprattutto a Macron perché venga a salvarlo con i 1500 soldati francesi di stanza nella capitale per tran tran imperialistico. Che si spera resteranno in caserma senza interferire. Non è più il tempo. Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale. Invece di consumare i lumi cerebrali in bilanci vien voglia di dire: ma i francesi non potevano far tutto prima, risparmiando tanti milioni e brutte figure? Evitando di lasciar come colpevole eredità, anche a noi, la Wagner putiniana e africana, i golpisti e il jihadismo che amministra e tortura territori interi? E la disperazione della miseria per milioni di africani affidati a ciurmatori e bricconi? Muore dunque meschinamente la “Francafrique”. Non meritava di meglio. Finalmente! Ed è una buona notizia per i saheliani che l’hanno tenuta sul gobbo per ulteriori decenni, ma anche per la Francia. Che questo museo storico e umano fatto di arroganze prostituzioni e prepotenze ha infettato la politica francese, spezzato il rapporto con milioni di cittadini delle banlieu come una crepa insuturabile. Una cosa è certa: nel Sahel i francesi sono detestati da gran parte della società civile, la loro presenza collegata a una “lotta al terrorismo” che serve a puntellare le vecchie colpe, è necessaria solo a una borghesia di scrocconi di tutti gli affari tenebrosi, di losche figure specializzate nelle speculazioni con gli aiuti per lo sviluppo, di politicanti che parlano di democrazia solo per svaligiarla. O di funzionari obbedienti e ben remunerati della Internazionale finanziaria, ovvero ex della Banca mondiale, ex del Fondo monetario e via di seguito. Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere. Un luogo dove siamo stati a un tempo corrotti e corruttori. Per capire sarebbe utile ai volenterosi redattori dei “patti per l’Africa” oggi di moda un educativo pellegrinaggio fisico in Paesi come Niger, Mali, Burkina Faso, Ciad. Ma a patto che si esca dai quartieri del neocapitalismo africano con le sedi di banche fresche di aria condizionata e i piccoli grattacieli di vetro e metalli e le targhe in ottone dove brillano lustre sigle con l’immancabile finale “ltd”. Avanzate invece nella polvere della canicola, nei prologhi delle capitali fatti di baracche, nei mercati con le loro ondate di umanità disperata. Attraversate deserti dove le donne, abituate come le coefere a portare pesi sul capo, adempiono alla quotidiana corvée della ricerca dell’acqua. E dove i jihadisti passano in villaggi falciati dai patimenti e uccidono e poi passa l’esercito e uccide quelli che si sono salvati accusandoli di esser complici perché sono rimasti vivi. E volano i droni francesi, che meraviglia!, e eliminano fanatici e innocenti, poi Dio distinguerà. Leggete le statistiche dei sequestri: nel Sahel 850 ostaggi negli ultimi sei anni, non sono occidentali, sono insegnanti operatori umanitari capi religiosi commercianti, vittime per cui nessuno pagherà o sprecherà un articolo una parola una denuncia. E poi bisognerebbe cercare di conoscere davvero i militari africani, golpisti e non. I soldati possono essere una forza rivoluzionaria o una forza reazionaria, soprattutto dove la società è fragile. Per questo ci sono i golpisti immacolati dell’Africa libera come Thomas Sankara e i golpisti al servizio del potere come Blaise Compaorè, l’amico traditore che lo uccise. Spesso un indizio sono i gradi sulle maniche: i generali hanno licenza di rubare, vivono nell’aria condizionata, hanno le ville; i capitani e i sergenti conoscono la miseria, la divisa è una possibilità di ascesa sociale, sono mal pagati e spesso non pagati perché la camarilla governativa dirotta i soldi. E poi ci sono reparti di prima categoria, paras e guardia presidenziale e la carne da cannone, i fanti, spediti contro i jihadisti senza armi, senza razioni, senza speranza. A che tribù appartengono quelli di Niamey? Brucia l’Ecuador prigioniero dei Cartelli di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 28 luglio 2203 Il presidente Lasso ha convocato elezioni anticipate per il 20 agosto e ha dichiarato lo stato di emergenza per 60 giorni in tre province per arginare la violenza ormai diffusa anche all’esterno. A meno di un mese dalle elezioni generali diventa esplosiva la situazione in Ecuador. Il paese è in fiamme. Per le strade si spara, si bruciano bus e auto, la gente si rifugia in casa; sospese le lezioni nelle scuole, uffici e negozi chiusi, l’esercito schierato a difesa dei palazzi del potere. Non sono singoli episodi della violenza che scandisce da mesi la vita nel Paese andino. C’è un piano d’azione coordinato e messo a punto dai boss delle bande criminali in carcere. In 11 penitenziari, contemporaneamente, sabato scorso sono scattate delle sommosse. I detenuti si sono impossessati delle strutture e sequestrato un centinaio di guardie. Lamentavano le condizioni di prigionia, il sovraffollamento, l’igiene, il cibo. Hanno iniziato uno sciopero della fame e si sono asserragliati all’interno dei penitenziari. Ma in realtà faceva parte del piano che è proseguito all’esterno, con raid delle gang che hanno iniziato a sollevare delle barricate con le carcasse dei mezzi dati alle fiamme, lanciato bombe, sparato raffiche di armi automatiche. Per tre giorni Guayaquil, la capitale costiera dell’Ecuador, crocevia del narcotraffico, appariva deserta. Solo l’intervento dei soldati, dopo una battaglia durata due giorni e due notti, è riuscito a ristabilire una normalità almeno apparente e consentire alla popolazione di uscire dalle case. Gli ostaggi sono stati liberati. Pesante il bilancio di quanto è accaduto nelle carceri: 31 morti, con i corpi squarciati e dati alle fiamme, 14 i feriti. È da almeno un anno che la tensione, assieme alla violenza, sta mettendo a dura prova la stessa democrazia dell’Ecuador. Si è assistito a una raffica di attentati nei confronti dei candidati alle ultime elezioni amministrative. Chi è stato eletto e non si è adeguato agli ordini delle gang è stato minacciato e spesso ferito. Si registrano aggressioni continue ai giornalisti che hanno coperto l’ultima campagna, killer che agiscono in pieno giorno facendo fuori chi rifiuta di piegarsi alla paura e continua a girare per le strade delle città che governa. La posta in gioco della criminalità è la supremazia sui territori e la gestione dei traffici illegali: dalle estorsioni, alla droga, al flusso migratorio. Il presidente Guillermo Lasso, centro destra, ha resistito fino a quando ha avuto il sostegno del Congresso. Poi, davanti alla violenza dilagante delle bande, ha gettato la spugna impugnando la cosiddetta muerte cruzada, una clausola della Costituzione che gli consente di sfuggire a un procedimento di impeachment e dissolvere, entro i primi tre anni di governo, il Parlamento. Sono state quindi convocate elezioni anticipate che si terranno il prossimo 20 agosto. La decisione non ha placato l’attività delle gang che si erano già fatte sentire prima e durante le elezioni amministrative di febbraio. Condizionano le scelte di chi andrà a votare, dettano le regole da rispettare in futuro. Una protervia da AntiStato. In una sequenza impressionante ci sono state decine di omicidi eccellenti. Anche qui candidati a governatore e sindaci presi di mira e falciati come birilli. E’ stata la campagna elettorale più violenta nella storia del paese, secondo gli osservatori. Il 5 febbraio, poche ore prima che aprissero le urne, viene fatto fuori Omar Menéndez. Era candidato a sindaco del villaggio di pescatori di Puerto López. La gente è andata in massa a votare e lo ha eletto con oltre il 60 per cento dei voti. E’ stato il primo sindaco nominato alla guida di un paese da morto. La folla di sostenitori lo ha omaggiato assistendo alla veglia funebre che si è tenuta nella sala del Municipio dove è entrato dentro una bara. Allarmate da tanta violenza, le autorità hanno deciso di correre ai ripari e costituire un ufficio di sicurezza per queste nuove elezioni generali. Chiunque si sentisse minacciato poteva chiedere un servizio di protezione. Ma su 1.200 candidati ci sono state solo tre domande. Delle otto coppie che aspirano alla presidenza, tre hanno rifiutato la scorta. “Il sostegno ci verrà dal popolo”, hanno detto con orgoglio. Nascondersi, o girare protetti da uno scudo di poliziotti, sarebbe una resa. La dimostrazione di una debolezza che chiunque voglia governare il paese non può certo mostrare. Ma significa anche affidarsi al caso. Nessuno può sentirsi sicuro di girare per le strade. Comandano le gang. Wis Chonino, neosindaco di Durán, appena eletto ha convocato il consiglio comunale. Un commando di quattro killer ha fatto irruzione nella sala e ha iniziato a sparare. Ci sono stati tre morti e tre feriti. Chonino è fuggito dal retro, protetto dal servizio di sicurezza. Da quel giorno indossa un giubbotto antiproiettile e non si fa vedere in giro. Nessuno lo biasima. Tre giorni fa, l’ennesimo omicidio eccellente: Augustín Intriaco, 38 anni, sindaco di Manta, principale porto dell’Ecuador, è stato freddato da quattro proiettili al petto esplosi da due sicari. In pieno giorno, tra la folla, mentre visitava un cantiere per l’ammodernamento del sistema fognario. Intriaco era molto noto e molto popolare. La sua morte ha fatto scalpore. Adesso, la nuova rivolta nelle carceri esplosa in contemporanea in cinque diversi istituti. Ci sono stati morti e undici feriti nel carcere di Gayas per uno scontro tra bande nella città di Guayaquil. Schierati solo qui 2.500 agenti. La situazione non è ancora sotto controllo. Si sentono esplosioni che il governo assicura si tratta di cariche piazzate dalla polizia per aprire dei varchi nelle strutture occupate. Il movente è sempre lo stesso: la conquista del territorio da parte delle diverse gang sostenute dai Cartelli messicani scesi a sud per gestire in prima persona tutta la catena del narcotraffico. Le sommosse nelle carceri sono nate da uno scontro tra i Tigurones e i Lobos. Questi ultimi sono il braccio destro della Jalisco Nueva Generación, il gruppo egemone in Messico. Il presidente Lasso dichiara lo stato di emergenza per 60 giorni in tre province e lo estende agli undici penitenziari del paese. Tutti invocano il pugno di ferro e guardano come esempio ciò che il presidente Nayib Bukele ha fatto in Salvador nella sua sfida alle pandillas. Settantamila arresti, rinchiusi in un supercarcere che ricorda un campo di concentramento.