Giustizia, i segnali del Quirinale di Michele Ainis La Repubblica, 27 luglio 2023 Mattarella parla con i gesti, con messaggi che vanno interpretati. È la soluzione meno invasiva. Purché l’interprete abbia orecchie per udire. C’è un tratto specifico, un elemento distintivo, nel modo con cui il presidente Mattarella esercita il suo ruolo di garante. La vicenda che circonda l’abuso d’ufficio ne è un esempio - soltanto l’ultimo, in ordine di tempo. Occorre domandarsi, tuttavia, se e quanto il suo stile venga percepito: dall’opinione pubblica, ma soprattutto dai partiti, dai leader politici, dai ministri di questo governo. Giacché l’incomprensione può ben essere foriera di conflitti, come avviene fra le coppie in crisi, quando ciascuno rimane sordo alle ragioni altrui. E c’è invece bisogno d’ascoltarsi, o meglio d’ascoltarlo, per risparmiare traumi alle nostre istituzioni. L’abuso d’ufficio, quindi. Reato “evanescente”, Nordio dixit; sicché il 15 giugno il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge che ne dispone la cancellazione. Destando immediatamente le proteste dell’Associazione nazionale magistrati, dell’Autorità Anticorruzione, dei partiti d’opposizione; e l’altolà della Commissione europea. Anche perché il ddl non si limita a correggere il reato, restringendone l’applicazione a casi tassativi, come vuole la Costituzione: no, lo azzera, e lascia perciò senza castigo le marachelle dei colletti bianchi. Ma si tratta, per l’appunto, d’un disegno di legge, non di un decreto fin da subito efficace. Dunque la parola tocca al Parlamento, che potrà respingerlo, approvarlo, oppure modificarne qualche aspetto. E prima del Parlamento tocca al capo dello Stato. Qui entra in campo, difatti, l’articolo 87 della Carta costituzionale, che ne enumera le attribuzioni. Fra queste, il potere d’autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi. Un potere disarmato, tuttavia, come si legge in tutti i manuali di diritto: se anche il presidente rifiutasse la firma, l’esecutivo avrebbe gioco facile a far proporre il medesimo testo da un qualunque parlamentare della propria maggioranza, e in quel caso non servono autorizzazioni. Semmai il capo dello Stato potrà opporsi alla promulgazione della legge, se e quando quest’ultima verrà approvata dalle Camere. Allora sì, il niet presidenziale dispiegherà a pieno i suoi effetti. Ma nella fase dell’iniziativa legislativa il controllo che spetta al Quirinale è più apparente che reale, e infatti i presidenti firmano sempre, in quattro e quattr’otto, i disegni di legge del governo. L’ha fatto pure Mattarella, il 19 luglio scorso: quindi oltre un mese dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri, a 35 giorni di distanza. Un ritardo, a quanto pare, senza precedenti. Significa che il nostro presidente si è impigrito? No, vuol dire che quel testo non gli piace, e ha inteso farcelo sapere. È il suo modo indiretto - potremmo definirlo “laterale” - d’esercitare la propria moral suasion, il potere invisibile di cui nell’Ottocento parlava Walter Bagehot. E quest’ultimo episodio ne offre l’ennesima conferma. Così, il 26 maggio la presidente Meloni, parlando in una piazza di Catania, definisce le tasse ai commercianti un “pizzo di Stato”; e il 19 giugno il ministro Nordio le fa eco. Ma il giorno dopo Mattarella incontra i vertici della Guardia di finanza, e ne approfitta per ricordare che la giustizia fiscale s’iscrive tra i principi fondamentali della Costituzione. Nessuna polemica diretta col governo, però parole chiare, inequivocabili, precise. Come il suo gesto, anzi il segnale, del 13 luglio: una nota di Palazzo Chigi attacca i magistrati per i casi Santanché e Delmastro, e lui convoca a sorpresa la prima presidente e il Pg della Cassazione, comunicando ufficialmente la riunione. “Parlare a nuora perché suocera intenda”, recita un vecchio detto. È la cifra di Sergio Mattarella, e d’altronde ciascun presidente ne esprime una del tutto personale. Giacché il Quirinale è un’astrazione, tratteggiata in nove succinti articoli della nostra Carta, che non sono mai stati corretti in settantacinque anni d’esperienza. Ma i presidenti, viceversa, sono persone in carne ed ossa, e ognuno ha il suo temperamento. Napolitano esercitava la propria moral suasion parlando a voce alta, attraverso appelli, moniti, rampogne. Ciampi parlava a bassa voce, negoziando in privato col governo per correggere i suoi provvedimenti. Mattarella invece parla con i gesti, con messaggi che vanno sempre interpretati. È la soluzione meno invasiva, meno dirompente. Purché l’interprete abbia orecchie per udire. La politica altera i rapporti coi magistrati di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 27 luglio 2023 L’opposizione chiede le dimissioni di un ministro, la maggioranza respinge la mozione. Tutto rientra nella fisiologia del dibattito parlamentare. Ma non lo è la motivazione adottata dalla maggioranza: il ministro sarebbe “dimissionato” qualora intervenisse il rinvio a giudizio. Delegare una scelta squisitamente politica, come lo è la nomina o la sfiducia per un ministro, ad una decisione della magistratura, per di più in una fase iniziale della procedura giudiziaria, è una grave alterazione del rapporto politica/magistratura. Quel giudice che in ipotesi dovesse pronunziarsi sul rinvio a giudizio, e, prima ancora, il pubblico ministero che dovesse scegliere tra l’alternativa dell’archiviazione o della richiesta di rinvio a giudizio dovranno forse porsi il problema delle conseguenze politiche delle loro scelte, una volta che si fosse affermata la dottrina dell’automatismo rinvio a giudizio/dimissioni? E poi dimissioni dopo il rinvio a giudizio sempre e comunque, per qualunque reato? E la presunzione di innocenza non dovrebbe far scattare l’automatismo alla sentenza definitiva? Il parlamento si ritrae dal sovrano apprezzamento se circostanze e dati di fatto emersi da inchieste giornalistiche abbiano riflessi sulla “onorabilità” di un esponente politico. Il requisito della “onorabilità” è richiesto da ultimo dal Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 169/2020 per esponenti aziendali di banche e intermediari finanziari. È capitato persino di sentire l’argomento: ma è mai possibile che un’inchiesta giornalistica faccia cadere un ministro? Sì è possibile, non solo ma, fuori d’Italia, è normale e si arriva ben più in alto di un ministro? Ricordano nulla nomi come Bob Woodward e Carl Bernstein, Washington Post, Watergate? Ministri, responsabili politici, capi di Stato si sono dimessi per valutazioni politiche, a prescindere da iniziative giudiziarie, spesso neppure iniziate. Karl-Theodor zu Guttenberg, già segretario generale del partito Csu, Ministro tedesco della difesa, il 1 marzo 2011 si dimette da ogni incarico dopo che sulla stampa è stato segnalato il plagio di numerosi brani nella sua tesi di dottorato in diritto internazionale del 2006. Sebastian Kurz, leader del Partito Popolare Austriaco, per due volte Cancelliere federale, nel 2021 si dimette dal cancellierato e annuncia il ritiro dalla vita politica a seguito dell’accusa di aver usato fondi pubblici a fini di partito, tra il 2016 e il 2018, quando era Ministro degli Esteri. Christian Wulff, già presidente del partito Cdu, è Presidente della Repubblica Federale Tedesca dal 30 giugno 2010. Il 16 febbraio 2012 la procura di Hannover chiede la revoca dell’immunità prevista per il capo dello Stato in relazione ad una indagine per un finanziamento di 500.000 euro con un mutuo a tasso agevolato del 4%, che Wulff avrebbe ottenuto da un amico imprenditore, per la realizzazione di un appartamento in Bassa Sassonia, in cambio di favori. Il giorno dopo si dimette: il 27 febbraio 2014 è stato assolto dal Tribunale di Hannover dall’accusa di corruzione. Helmut Kohl, presidente onorario del partito Cdu, artefice della riunificazione tedesca, quando nel 2000 emergono cospicui finanziamenti che aveva ricevuto in nero per la sua carriera politica si dimette da ogni incarico. Dominique Strauss-Kahn, esponente di spicco del Partito Socialista francese, già ministro in dicasteri economici, dal 1º novembre 2007 direttore generale del Fondo monetario internazionale, nonché potenziale candidato alle elezioni presidenziali francesi, il 14 maggio 2011 è arrestato a New York con l’accusa di tentata violenza sessuale ai danni di una cameriera di un albergo; quattro giorni dopo rassegna le sue dimissioni dalla carica di Direttore del Fmi. La procura di New York successivamente archivia il caso. Questa nuova “dottrina” nostrana insidia il ruolo fondamentale che la libera stampa deve svolgere in una democrazia. Apparentemente rispettosa della magistratura è una alterazione del rapporto politica giustizia, non meno grave di un precedente spesso dimenticato. Il Senato della Repubblica con la mozione approvata il 5 dicembre 2001 censura provvedimenti giudiziari pronunciati in processi in corso che vedono come imputato il presidente del Consiglio, senza che il presidente del Senato, sen. Marcello Pera, abbia osservato alcunché sulla stessa ammissibilità del testo. Urge ritornare ad un corretto rapporto tra i tre poteri tradizionali e anche con il quarto potere, la stampa. Bocciata alla Camera la direttiva europea sulla lotta alla corruzione di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 luglio 2023 Sull’onda del Qatargate, Parlamento e Consiglio dell’Unione europea hanno proposto un provvedimento che va ben oltre gli obiettivi prefissati. Con 187 voti a favore, 100 contrari e tre astenuti, l’Aula della Camera ha confermato il parere motivato con cui la commissione Politiche europee ha bocciato, lo scorso 19 luglio, la direttiva del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea sulla lotta alla corruzione. La ragione è che la direttiva “risulterebbe palesemente in contrasto con il principio di sussidiarietà e con quello di proporzionalità”. Insieme ai partiti di centrodestra ha votato a favore del “no” anche Azione. La direttiva aggiorna il quadro giuridico europeo in materia di lotta contro la corruzione, vincolando gli stati membri all’adozione di norme di armonizzazione minima delle fattispecie di reato riconducibili alla corruzione e delle relative sanzioni, nonché di misure per la prevenzione del fenomeno corruttivo e di strumenti per rafforzare la cooperazione nelle relative attività di contrasto. Purtroppo, i contenuti della direttiva in diversi casi sembrano andare ben oltre gli obiettivi prefissati. Per comprenderlo è sufficiente leggere la definizione che si vorrebbe introdurre di “abuso d’ufficio”, che, per Parlamento e Consiglio Ue, dovrebbe estendersi persino all’ambito privato: “L’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”. La direttiva poi, oltre a prevedere pene minime per ciascun reato, stabilisce anche i termini di prescrizione, che non possono essere inferiori a otto, dieci e quindici anni a seconda delle fattispecie. Nelle sanzioni accessorie ci si spinge a prevedere anche la privazione del diritto di eleggibilità. Insomma, la direttiva risente dello scenario in cui è nata (lo scandalo del Qatargate) finendo per diventare uno strumento populistico nella lotta alla corruzione, facendo debordare le istituzioni dai propri ambiti di competenza. “No all’editto europeo sulla corruzione”, così la Camera blinda Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 27 luglio 2023 La maggioranza, sostenuta dal Terzo Polo, vota il parere critico sulla direttiva Ue che impone tra l’altro di colpire l’abuso d’ufficio. Un assist per il ddl del guardasigilli. Si potrebbe semplificare e dire che la maggioranza, sostenuta dal Terzo polo, ha espresso un parere negativo sulla “proposta di direttiva anticorruzione” dell’Ue perché non vuole altri ostacoli nel già sdrucciolevole cammino del ddl Nordio. Ed è in parte la verità, ma non basta. Perché il voto con cui ieri mattina l’Aula della Camera ha approvato il documento della commissione Politiche Ue di Montecitorio fa emergere altro. Innanzitutto la compattezza sulla giustizia di un centrodestra in versione extralarge. Sui 290 presenti, ben 187 hanno detto sì (100 invece i contrari, tutti dal fronte Pd-M5S-Avs) al parere predisposto dal relatore, il deputato di Fratelli d’Italia Antonio Giordano, avvocato napoletano che ha riferito con ricchezza di argomenti sulla “bozza” di direttiva europea. Come detto, tra quei 187 ci sono anche i deputati di Azione e Italia viva. E dunque la prima certezza è che la maggioranza di Giorgia Meloni si è messa alle spalle le tensioni culminate, dieci giorni fa, nel richiamo della premier al ministro Carlo Nordio, che, sul concorso esterno, aveva parlato troppo e comunque “non da politico”. Dopo quella scossa che ha fatto temere di nuovo per le prospettive del guardasigilli, il centrodestra torna unito sulla giustizia. Con una certa fermezza nel respingere le ipotesi estreme avanzate dal Parlamento di Strasburgo e dal Consiglio europeo. Soprattutto, si sfata il mito secondo cui una parte prevalente della maggioranza, FdI e Lega, sarebbe pronta ad accantonare ogni scrupolo garantista non appena si rischia di vedere indebolita l’immagine della destra legge, ordine e “certezza della pena”. Emerge ancora un altro dato: se si tratta di difendere l’autonomia italiana dalle pretese obiettivamente debordanti dell’Europa, l’ordine dei fattori cambia. Forse sollecitati anche da un mai sopito istinto euroscettico, i partiti di Meloni e di Salvini si irrigidiscono e sono pronti persino a difendere il garantismo della riforma Nordio, nel momento in cui c’è da respingere le pretese eurocomunitarie. E ancora più nello specifico, ieri, con il loro voto, maggioranza e Terzo polo hanno sfidato le perplessità europee sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, contenuta appunto nel ddl Nordio. Ad attaccare per prima, nella seduta mattutina di Montecitorio, è stata la 5 Stelle Elisa Scutellà: ha citato l’ormai famosa Convenzione Onu di Merida, che imporrebbe, ancor prima della direttiva, di non cancellare l’articolo 323 del codice penale, e la più generica esigenza, manifestata da Bruxelles, di allestire “un sistema anticorruzione efficiente” per fronteggiare i rischi legati alla gestione del Pnrr. Gli ha replicato Gianfranco Rotondi, intervenuto a propria volta in rappresentanza di FdI, che ha ricordato come in realtà quell’accordo siglato nel 2005 alle Nazioni Unite “indichi l’incriminazione dell’abuso d’ufficio come meramente facoltativa: nella Convenzione di Merida c’è una ponderazione con cui la proposta di direttiva Ue non sembra coerente, visto che quest’ultima mette sullo stesso piano obblighi e mere raccomandazioni”. Si può abrogare l’articolo 323 senza provocare strappi con la comunità internazionale, fa notare dunque il partito della premier. C’è poi un argomento particolarmente energico, che non dovrebbe lasciare indifferente lo stesso Pd, ed è sfoderato dal leghista Stefano Candiani: “Non possiamo tollerare che, come sembra fare la collega che mi ha preceduto”, cioè la 5S Scutellà, “si arrivi ad associare il concetto di abuso d’ufficio, automaticamente, ai sindaci, ai carabinieri o ai medici”. Il relatore, il meloniano Giordano, solo un attimo prima ha messo a nudo il vero punto debole della proposta di direttiva Ue, contro il quale il Parlamento italiano può scagliarsi agevolmente, cioè la violazione del principio di sussidiarietà, vero oggetto del parere votato ieri: “In base all’articolo 5 del Trattato di funzionamento, l’Ue legifera nel momento in cui su una determinata materia gli obiettivi non possono essere adeguatamente conseguiti con le legislazioni nazionali”. E a parte il fatto che, proprio l’Italia, di strumenti repressivi ne ha fin troppi, in questo caso, spiega il parlamentare di FdI, “anziché davanti a norme minime, ci troviamo con una proposta di direttiva che svela quasi un intento di codificazione: sembra l’inizio di un progetto di codice penale europeo, in particolare sui delitti contro la Pa”. E sì, perché non mancano, nella “bozza” di Strasburgo, aggravanti, nuove fattispecie, persino allungamenti della prescrizione, come segnala l’azzurro Pietro Pittalis. Ed è proprio il vicepresidente forzista della commissione Giustizia a far notare con malizia che “la proposta Ue nasce sull’onda delle ben note vicende giudiziarie che hanno interessato eminenti personaggi della sinistra europea”, il Qatargate. Il dem Piero De Luca non raccoglie la provocazione, e si soffeerma piuttosto sulle ombre di euroscetticismo: “Contrariamente a quanto sostiene la maggioranza, l’Europa ha piena competenza sulla corruzione: avete piantato una bandierina ideologica da sventolare ai vostri elettori”. Come a dire che il no a Bruxelles risponde appunto a un antico richiamo della foresta. Fosse pure così, di certo dal voto apparentemente secondario di ieri mattina, Carlo Nordio esce assai più rafforzato di quanto lui stesso potesse immaginare. Non c’è processo accusatorio senza separazione delle carriere di Catello Vitiello Il Riformista, 27 luglio 2023 Processo penale e ordinamento giudiziario rappresentano un insieme di regole e strutture che disegnano il modello processuale: la definizione dei poteri del giudice e del pubblico ministero nel codice di rito non può prescindere dall’articolazione delle carriere, perché quest’ultima contribuisce a dare sostanza all’imparzialità del giudice. E non si intende, in questa sede, discutere della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni né trattare il tema come fosse una bandiera ideologica che divide i buoni dai cattivi. Nonostante abbia fatto una lunga campagna referendaria a sostegno della separazione, non ho mai pensato che fosse un tema da lasciare alla volontà popolare, non perché sia contrario alla democrazia diretta, ma perché ritengo che lo strumento del referendum sia imprescindibile per le questioni giuridiche di alto valore morale ed etico, quelle - per intenderci - che il popolo si deve autodeterminare perché caratterizzano un passaggio epocale dei diritti, una conquista rispetto alla quale la rappresentatività politica deve cedere necessariamente il passo. La separazione delle carriere non è niente di tutto questo: l’ordinamento giudiziario non è materia da referendum perché la decisione di strutturare la magistratura in un modo piuttosto che l’altro deve dipendere da una decisione politica che, tecnicamente, abbia come riferimento l’obiettivo che si intende raggiungere: volere o meno il processo accusatorio! E la risposta il Legislatore l’ha data nel 1988 e nel 1999, introducendo un sistema accusatorio che garantisce imparzialità e terzietà del giudice attraverso il controllo dell’operato del pubblico ministero nella fase investigativa e la formazione della prova nel contraddittorio tra accusa e difesa, pilastri del “giusto processo”. Cosa mancava all’epoca per realizzare appieno l’accusatorietà? Certamente una modifica della norma costituzionale sull’obbligatorietà dell’azione penale (desueta e - nei fatti - disapplicata da tempo); ma ancor di più una riforma che modificasse le regole per l’accesso in magistratura e che costituisse due distinti organi di autogoverno: per garantire l’effettività del modello accusatorio prescelto, oltre a fissare le norme che caratterizzano le posizioni del giudice e del pubblico ministero all’interno del processo, si poteva - e si deve oggi - riformare le modalità di reclutamento e di formazione dei magistrati e, soprattutto, le regole sul controllo dell’operato e sull’avanzamento di carriera, che influiscono sulla categoria perché ne condizionano inevitabilmente il comportamento. Di certo, le coscienze dei più si sono formate all’insegna dei principi costituzionali e solo una bassissima percentuale rappresenta un dato patologico, ma in un ambito tanto delicato per gli interessi in gioco e tanto sovraesposto mediaticamente non ci si può affidare alle coscienze e alla sensibilità della stragrande maggioranza di magistrati virtuosi perché anche un solo elemento “patogeno” causa danni irreparabili al singolo e, quindi, alla collettività di cui fa parte. E allora serve la regola, per garantire a tutti l’imparzialità “percepita ed effettiva” del giudice rispetto all’operato del pubblico ministero. Senza dimenticare gli effetti collaterali positivi di un controllo specifico operato da due distinti e autonomi CSM e di una maggiore responsabilizzazione: si annullerebbe il rischio di personalizzazione della funzione giudiziaria; si attenuerebbe, sino a scomparire, il protagonismo mediatico; non vi sarebbe più la tentazione di ergersi a fustigatore di costumi o quella di invadere il campo della politica; si ristabilirebbe un equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato (forse, perché molto dipenderà anche dalla qualità della produzione normativa, aspetto sul quale il Legislatore degli ultimi vent’anni ha lasciato molto a desiderare). Non si può pensare di tutelare, ancora oggi come prima della riforma del 1988, l’imparzialità del giudice solo attraverso una rigorosa verifica del rispetto delle norme giuridiche applicate perché il codice di rito, separando già le funzioni tra giudicante e requirente, stabilisce una debole condizione di parità tra l’accusa e la difesa concedendo al pubblico ministero - soprattutto nella fase delle indagini un peso maggiore e, di conseguenza, una maggiore libertà d’azione: il controllo deve allora partire dalla “forma”, ossia dalla più totale scissione dei ruoli evitando anche solo larvate o potenziali subalternità. Il processo accusatorio diventerà, quindi, garanzia di tutela delle libertà dell’individuo solo con una vera separazione delle carriere. Le promesse non mantenute da Nordio sulle toghe fuori ruolo di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 luglio 2023 “Sono favorevole a una forte riduzione dei magistrati fuori-ruolo”, disse l’ex giudice prima di diventare ministro della Giustizia. Nominato Guardasigilli, le sue decisioni sono andate esattamente nella direzione opposta. “Sono favorevole a una forte riduzione dei magistrati fuori-ruolo: credo che dei 200 attualmente distaccati ne basti solo il 10 per cento, gli altri dovrebbero tornare a lavorare nei tribunali”. Con queste parole, rilasciate in un’intervista al Riformista il 15 febbraio 2022, Carlo Nordio si esprimeva con chiarezza sul tema del collocamento fuori ruolo dei magistrati, da tempo oggetto di critica per i condizionamenti esercitati dalle toghe all’interno delle strutture vitali del governo. È trascorso un anno e mezzo da quelle dichiarazioni, Nordio nel frattempo è diventato Guardasigilli e, al contrario di quanto ci si potesse aspettare, il ministero di Via Arenula è diventato sempre di più terra di conquista delle toghe fuori ruolo, con la partecipazione attiva proprio del nuovo ministro. È stato Nordio, infatti, a nominare i nuovi vertici del dicastero, pescando proprio tra i magistrati, andando così nella direzione opposta rispetto a quella indicata prima di diventare ministro. Provengono dalla magistratura: capo e vicecapo di gabinetto (Alberto Rizzo e Giusi Bartolozzi), capo dell’ufficio legislativo (Antonello Mura), capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Giovanni Russo), capo del Dipartimento degli affari di giustizia (Luigi Birritteri), vicecapo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (Rosa Patrizia Sinisi). Ciò che al massimo si può attribuire a Nordio è la tendenza a scegliere magistrati di estrazione più conservatrice dei precedenti, ma sembra veramente ben poca cosa per un ministro che su questo ambito aveva annunciato cambi radicali. Non è tutto, perché lo stesso Nordio ha nominato una Commissione di studio per la riforma del processo penale composta da ventinove magistrati, nove avvocati e quattro professori. Sempre Nordio ha nominato i membri della commissione ministeriale incaricata di elaborare i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario. Anche qui lo squilibrio è evidente: ne fanno parte diciotto magistrati, di cui dieci fuori ruolo, cinque docenti e tre avvocati. Proprio questa commissione, strapiena di toghe, ha stabilito nelle bozze dei decreti attuativi che il limite massimo di magistrati ordinari collocati fuori ruolo sarà ridotto da 200 a 180. Venti toghe in meno: un taglio risibile. E menomale che - usando le parole di Nordio - all’esecutivo basterebbero venti magistrati per funzionare senza problemi. Le toghe che compongono le commissioni ministeriali, come spesso accade, stanno ormai facendo un po’ quello che vogliono. Così, quelli incaricati di occuparsi dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario hanno deciso di escludere gli attuali magistrati fuori ruolo (cioè loro stessi) dalla nuova disciplina che prevede il divieto di essere ricollocati fuori ruolo se non sono trascorsi almeno tre anni dal precedente collocamento. Insomma, i magistrati se la cantano e se la suonano. Alla faccia del ministro Nordio (che si difende richiamando le difficoltà di mettere sotto contratto professionisti esterni all’ordine giudiziario, e che quindi non riceveranno un doppio stipendio come i magistrati), ma soprattutto del Parlamento. Lo scorso dicembre la maggioranza di centrodestra ha infatti votato alla Camera in favore di un ordine del giorno presentato dal Terzo polo che impegnava il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. Nessuno, a parte gli esponenti del “Terzo polo”, come il sempre attento Enrico Costa (Azione), sembra ora ricordarsene. “La magistratura è aperta al dialogo, ma il governo sembra cerchi lo scontro” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 luglio 2023 Con il pm Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, affrontiamo tutti i temi di attualità in materia di giustizia. Il presidente dell’Anm ha detto: “La politica, paradossalmente, sembra sedotta talvolta dalle istanze della magistratura requirente: basti pensare a come si è reagito da parte del governo che ha annunciato subito un provvedimento d’urgenza per rimediare assertivamente ad una sentenza della Cassazione in materia di criminalità organizzata”. È d’accordo? Credo che le sue dichiarazioni colgano nel segno. La politica sembra applaudire i pm antimafia, anche per ragioni di consenso popolare, e ostacolare in tutti i modi quelli che si occupano di altri settori, soprattutto quelli di criminalità economica e di reati contro la Pa. Più in generale a me sembra che, al di là di questa evidente incoerenza del legislatore sottolineata da Santalucia, l’atteggiamento della politica rispetto alle Procure è quello per cui se si indaga sugli esponenti della parte avversa va tutto bene quando, invece, lo si fa su qualcuno del proprio partito si grida sempre al complotto, ad una giustizia ad orologeria, ad una politicizzazione dei magistrati. Siamo nel 2023 e sarebbe il caso di abbandonare questo modo incivile di trattare i temi della giustizia. Che ne pensa dello strumento del decreto legge per “rimediare” ad una sentenza della Cassazione? C’era la commemorazione della strage di via D’Amelio e si è pensato di cavalcare mediaticamente una sentenza per far vedere che si è dalla parte giusta, ovvero quella di chi contrasta le criminalità organizzate, purché siano quelle degli uomini con la lupara e la coppola. Invece se c’è uno col colletto bianco allora si è meno solerti. A proposito di Antimafia, lei condivide la distinzione del professor Fiandaca tra “una antimafia laica, quella dei principi costituzionali del garantismo penale” e un’altra “dogmatica che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive” ? Nonostante Falcone venga citato molto spesso, c’è una sua frase però che non ho sentito pronunciare a nessuno e che invece a me piace ricordare: “Attenzione”, diceva rivolto ai magistrati, “a non confondere i processi con le crociate”. A mio parere è un monito soprattutto per chi come lui si occupa di grandi fenomeni criminali. Occorre non sovrapporre mai una lettura “ideologica” ad una giudiziaria. Il nostro compito è ricostruire specifiche responsabilità in ordine a fatti e questo dobbiamo farlo secondo le regole del processo e non abdicando a esse. Ricordo quando, da presidente dell’Anm, venni aggredito pesantemente, anche dagli altri gruppi associativi, perché appoggiai una decisione della Cassazione che, annullando con rinvio un provvedimento della Sorveglianza relativo alla compatibilità della condizione di Totò Riina col carcere, chiese una valutazione più approfondita della situazione. Dissi che così lo Stato si dimostrava più forte della mafia, perché coltivava i principi di civiltà e non quelli dell’odio e della segregazione a prescindere. A guardare i recenti fatti di cronaca, a partire dal caso Delmastro, crede che l’autonomia e indipendenza della magistratura siano davvero in pericolo? Sicuramente l’iniziativa del ministro sui colleghi di Milano per il caso Uss ha il sapore di voler condizionare le scelte autonome e indipendenti dei magistrati. Così come la forte campagna mediatica contro la gip che ha richiesto l’imputazione coatta per il Sottosegretario alla giustizia. Questi episodi, insieme ad altri di contorno, mi fanno pensare che si voglia riaprire una stagione di conflittualità che ovviamente i magistrati non vogliono. Lo si fa probabilmente perché non si riesce a gestire ancora una volta, anche da parte di questo governo, la giustizia se non in termini di contrapposizione, di slogan, di amici contro nemici, e di eccessi di visibilità. In che senso di visibilità? Mi sembra che alcune dichiarazioni del ministro siano mosse più da esigenze di clickbaiting che dalla necessità di mettere sul tavolo temi davvero importanti per la giustizia. Neanche la morte di Berlusconi è riuscita a portare un po’ di serenità... Se così dovesse essere sarebbe una grande occasione persa perché vorrebbe dire che il conflitto tra magistratura e politica è destinato a riproporsi in eterno. Come giudica quanto avvenuto ultimamente in Csm? Mi riferisco alla nomina del Procuratore di Firenze e al collocamento fuori ruolo di un magistrato italiano selezionato dalla Cedu. Nessuna rigenerazione etica? Questi due episodi sono dei campanelli d’allarme, quindi occorre vigilare e seguire con estrema attenzione ciò che accade. Se si ripetessero casi di forte interferenza della politica dei partiti - e a volte degli interessi personali del singolo leader - soprattutto in casi come questi di alta amministrazione sarebbe davvero un brutto segnale. Un Csm rigenerato è quello in cui le correnti fanno un passo indietro e in cui la politica non ripropone quanto accaduto all’Hotel Champagne. Lei sta parlando di Matteo Renzi? Lui non ha fatto mistero di avere una particolare e specifica preoccupazione rispetto alla nomina del procuratore di Firenze. Tra l’altro, secondo me, è una preoccupazione infondata perché, non conoscendo entrambi, essa si fondava su un pregiudizio. In questo caso sembrerebbe di poter percepire una sorta di intento punitivo postumo e sarebbe gravissimo. Sono passati nove mesi dall’insediamento del governo Meloni: che giudizio dà sull’operato in materia di giustizia? La situazione negli uffici giudiziari è peggiore da quando il governo ha intrapreso la sua attività. L’entrata in vigore della riforma della Cartabia, a fronte di una mancanza di interventi strutturali e di investimento, ha determinato una serie di conseguenze negative, a partire dal dover posticipare l’entrata in vigore del processo penale telematico. Dall’altra parte, si aprono ogni giorno da parte del guardasigilli, con dichiarazioni a cui spesso non seguono concrete iniziative, fronti di dibattito pubblico che lacerano l’opinione pubblica e determinano contrapposizioni rispetto alla magistratura, quasi che venga ricercato lo scontro anziché l’incontro. La magistratura mantiene la sua disponibilità al dialogo però è costretta a reagire se vengono assunti certi comportamenti. Alcuni commentatori sostengono che il ministro sia commissariato dal suo partito... Il fatto che sia commissariato è frutto di retroscena giornalistici. Penso in generale che è fondamentale per la magistratura avere come interlocutore un Ministro che sia nella pienezza dei suoi poteri. Secondo alcune indiscrezioni di stampa, due dei tre papabili membri del collegio del garante per i detenuti non avrebbero esperienze in materia di carcere. Crede che il governo voglia neutralizzare la figura del Garante? La posizione del Garante è particolarmente delicata e presuppone una persona quasi sbilanciata nella tutela effettiva dei diritti delle persone private della libertà personale. Siamo in una situazione per cui soprattutto i diritti di coloro che sono in carcere sono denegati e avvolti dall’indifferenza politica e dell’opinione pubblica, non certamente dalla magistratura di sorveglianza. Soltanto chi ha una cultura che abbraccia con particolare convinzione questa materia, come fatto da Palma e come sarebbe potuto essere con Rita Bernardini (presidente di Nessuno Tocchi Caino, ndr), può mantenere al centro del dibattito questi temi. Scegliere alcune figure che provengono invece da altre esperienze può produrre un depotenziamento dell’Ufficio del garante. “La maternità surrogata sarà reato universale”. Primo sì alla Camera di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 luglio 2023 Via libera alla legge di Fratelli d’Italia, che ora passa al Senato. La maggioranza vota compatta, opposizioni in ordine sparso sull’emendamento “della discordia”. Opposizioni in ordine sparso, maggioranza compatta fino al traguardo: “La maternità surrogata sarà reato universale. Nessun bambino sarà comprato da ricchi e committenti”. Applausi: con 166 voti a favore, 4 astenuti e 109 contrari, il centrodestra incassa il primo sì alla Camera. La legge presentata da Fratelli d’Italia, relatrice Carolina Varchi, che punta ad estendere la perseguibilità del reato anche al cittadino italiano che faccia ricorso alla gestazione per altri all’estero, ora passa al Senato. E l’esito sembra tanto scontato quanto lo era il verdetto di oggi. L’unica incognita resta il confronto che pure dovrà avvenire tra le forze politiche rispetto all’applicabilità di questa legge e al destino dei bambini già nati o che nasceranno. Il nodo è parecchio complicato, come ha dimostrato la discussione in aula. Perché sui temi etici le regole della politica saltano. E neanche le opposizioni, che hanno respinto in maniera più o meno compatta il reato universale, sono riusciti davvero a trovare la quadra. Per farsi un’idea bastava entrare in aula al momento del voto sugli emendamenti, durante l’intervento di Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra. Scena surreale: la deputata ha appena finito di ribadire il suo no convinto alla gestazione per altri, quando dai banchi della maggioranza si leva un fragoroso applauso. Standing ovation, tutti in piedi. “Non voglio essere strumentalizzata ma la maternità non può essere ridotta a un mezzo di produzione a vantaggio di altre e altri”, scandisce Zanella. “La maternità surrogata in forma solidale? È una grande mistificazione - prosegue la deputata - perché attorno alla cosiddetta generosità di una donna che presta se stessa per una gravidanza, c’è profitto da parte di tutti i soggetti coinvolto”. Il riferimento è all’emendamento che tanto ha fatto tribolare il Pd, quello proposto da Riccardo Magi, segretario di +Europa, che al reato universale oppone un’alternativa precisa: la regolamentazione anche in Italia della Gpa in forma altruistica. L’idea non piace a tanti, anche tra i dem. Ma chi siede ai primi banchi, proprio accanto a Magi, non può credere alle proprie orecchie. È il caso del deputato Pd Alessandro Zan, che senza citare direttamente la “collega dell’opposizione”, bolla come “reazionario” l’intervento di Zanella. Un commento “infarcito di intolleranza e non rispetto del pensiero altrui”, replica il deputato Filiberto Zaratti (Avs). Tutto qui? Niente affatto. L’altro psicodramma si consuma tutto dentro il Pd, che alla fine sull’emendamento della discordia tiene fede alla linea del “non voto” espressa in aula da Chiara Braga. Fatta eccezione per due nomi: Paola De Micheli, che vota contro, e Bruno Tabacci, che si astiene, come tutto il Movimento 5 Stelle. “Contestiamo una questione di metodo”, spiega la capogruppo Pd, per quale si tratta di un emendamento “monstre”, se non una vera e propria “legge nella legge” che non ha alcuna possibilità di approvazione, e che andrebbe discussa in altra sede. Insomma, il Pd non ha dubbi: quella della destra è una legge bandiera, “un obbrobrio giuridico di cui la maggioranza porterà la responsabilità”. Ma alla “forzatura” di Magi non ci sta. E alla fine, l’emendamento viene respinto con 191 voti contrari, 44 astenuti e solo 9 voti a favore: dentro c’è il sì della parte di Avs che fa capo a Sinistra Italiana e di Fabrizio Benzoni di Azione, collega di Giulia Pastorella, che ha firmato l’emendamento Magi ma era assente. “Uno schiaffo in faccia in più alle famiglie e alle persone che hanno nella Gpa l’unica alternativa per avere figli”, commenta Magi con lo sguardo rivolto al Pd. Anche peggio è andato il voto che proponeva di depenalizzare la Gpa in Italia, eliminando la sanzione del carcere. Al segretario di +Europa non resta che una magra consolazione: il largo sostegno da parte delle opposizioni sul nodo delle trascrizioni degli atti di nascita dei bimbi nati all’estero tramite tecniche di fecondazione medicalmente assistita. Ne resterà traccia? Madri in affitto e reati universali di Elena Stancanelli La Stampa, 27 luglio 2023 A cosa servirà aver reso la gestazione per altri un reato universale? Non a vietarla, perché in Italia è già vietata da quasi vent’anni. A punire chi se la procura all’estero e poi torna qui col figlio o la figlia? Neanche, perché il nostro codice penale prevede che un reato compiuto all’estero per essere perseguibile deve essere considerato reato anche nel paese in cui avviene (quello cioè dove ovviamente non è vietato, visto che i futuri genitori ci si sono recati proprio per quella ragione). Quindi? Si tratta, semplicemente, di una intimidazione. A chi ha già avuto e a chi intende avere un figlio attraverso questa pratica - ripeto, in paesi dove questa pratica è legale - viene detto: voi non ci piacete. E quando tornerete qui questo governo cercherà in tutti i modi di rendere complicata la vita a voi e a quel figlio, inventando sempre nuovi ostacoli da saltare. È questo che desideriamo dalla politica? Che perda tempo a produrre inutili manifesti per la disapprovazione? Di questo reato universale Giorgia Meloni ne ha fatto una battaglia, il governo avrà diritto di rivendicarlo come un suo successo. Ma il Pd? Si è diviso, ha perso tempo, è arrivato alla votazione spompato e senza una linea. Da domani si ripartirà a capire da che parte stare, cercando di mediare tra opposte posizioni. A chi è servito questo voto? A nessuno, non a chi ha già figli nati con la Gpa, non a chi ha in mente di farne, che non si lascerà certo scoraggiare da questa buffonata, non a tutti noi altri, con o senza figli. È servito molto a questo governo, questo sì, che con la collaborazione del Pd ha ottenuto di vincere una battaglia ideologica inutile ma molto spendibile. Ma la Gpa è di destra o di sinistra? Non siamo riusciti a capirlo, ma sento di poter dire che trasformarla in un reato universale è certamente di destra. Così come è, o dovrebbe essere di destra, l’automatismo per cui di fronte a ogni complessità si grida “inaspriamo le pene” come una formula magica che dovrebbe spalancare chissà quale porta e far sparire in un buco il crimine in questione. Cinquant’anni fa in questo paese si sono fatte due battaglie epocali, per questioni che riguardavano, soprattutto, le donne: il divorzio e l’aborto. Due battaglie che sono state vinte con l’aiuto di tutte le forze democratiche e progressiste, a partire dai radicali, insieme al femminismo e alle avanguardie intellettuali, compresa parte dell’informazione. Adesso goffamente divise su entrambe le questioni che riguardano il nostro tempo: il fine vita e la Gpa. Siamo paralizzati. Ci sembra di spingere troppo in una direzione pericolosa, di avallare chissà quale mostruosità. Siamo come quelli che votarono contro divorzio e aborto perché li ritenevano un’aberrazione, la fine del mondo. Abbiamo perso la capacità di distinguere tra quello che faremmo noi e quello che non abbiamo il diritto di impedire di fare. Nel dubbio, facciamo quello che dice Fratelli d’Italia. Quella strage di via Palestro e l’eterna tela di Penelope che fa e disfa la verità di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 27 luglio 2023 Il 27 luglio del 1993 fa scoppiò una autobomba che uccise 5 persone. Ma la trama giudiziaria di quell’attentato cambia in continuazione. Sono passati trent’anni da quella sera del 27 luglio, quando alle 23,15 un vigile urbano, Alessandro Ferrari, vide quel filo di fumo uscire da una Panda Bianca davanti al Padiglione di Arte Contemporanea a Milano. E poco dopo l’esplosione e la morte di cinque persone, l’agente di polizia municipale, un immigrato marocchino, Moussafir Driss, che dormiva su una panchina dall’altra parte della strada, e tre vigili del fuoco. Sono passati trent’anni e i cittadini milanesi, già feriti da quella bomba che in piazza Fontana nel 1969 produsse sedici morti, vorrebbero poter commemorare in pace. Soprattutto i vigili del fuoco, che hanno perso i colleghi Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, caduti perché semplicemente erano di turno, e che ogni anno fanno sentire le loro sirene in via Palestro, luogo della strage. Strage di mafia, hanno stabilito i giudici, e in molti si domandano perché proprio lì, negli spazi costruiti e poi ricostruiti dopo la bomba dall’architetto Ignazio Gardella, i corleonesi abbiano deciso di colpire. Non è un luogo conosciuto da tutti, il Pac, perché insieme all’arte contemporanea mette in mostra continue nuove sperimentazioni. Frequentato dunque da giovani dell’avanguardia e una ristretta élite di intellettuali colti e curiosi. Pure i giudici hanno stabilito che è stata la mafia, all’interno di quel programma che ha lasciato una profonda e lunga scia di sangue in Italia tra il 1992 e il 1993, cui gli investigatori aggiungono anche due episodi del gennaio 1994. Se i cittadini milanesi non possono avere pace e commemorare i propri morti è perché da molto, troppo tempo in Italia è sorta l’abitudine di scrivere e riscrivere la storia, affidando il compito di amanuense di prestigio ai pubblici ministeri. Così non possiamo mai dire “amen”, e sono passati trent’anni, il che vuol dire che può arrivare in ogni momento un qualunque scombinato travestito da collaboratore di giustizia a scompaginare le carte e far ricominciare daccapo questa sorta di tela di Penelope proiettata all’infinito. Basterebbe guardare da quei punti di partenza del 1992 che furono le due stragi da tutti conosciute e indimenticabili per il prestigio dei personaggi coinvolti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per avere la verità sulla strage di via D- Amelio sono stati necessari quattro processi, prima di affidare il compito dello storico a un assassino come Gaspare Spatuzza, che ha smascherato il burattino ventriloquo Enzino Scarantino, senza che mai i burattinai siano stati davvero processati e puniti. Bel modo di ricostruire la storia. Ma, come se non fosse bastato sapere che un falso “pentito” era stato costruito in un laboratorio giudiziario a suon di botte e torture e che una decina di persone era in carcere da innocente, ecco spuntare una nuova versione della storia, la “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Protagonista assoluto, il “Retroscena”. E ci sono voluti tutti questi anni perché nel 2022 (2022!) un organo di giustizia facesse davvero giustizia, rimandando a casa con la bocciatura tutti gli eroi dell’antimafia militante, pubblici ministeri e giornalisti, che sulla trattativa avevano campato, avevano costruito carriere e a volte anche capitali”. Così si apre e non si chiude mai lo scenario su quel che è successo in Italia nel 1993, su cui sarebbe facile archiviare il capitolo qualificando quelle bombe come colpi di coda della violenza mafiosa, e prendere atto con soddisfazione che lo Stato è stato più forte e ha saputo catturare e punire, pur con metodi spesso estranei allo Stato di diritto, i boss corleonesi e i loro affiliati. Abbiamo vinto questa guerra lunga trent’anni, dovrebbero gonfiare il petto con soddisfazione tutti gli uomini dello Stato, dalle forze dell’ordine fino agli stessi magistrati. Invece no. Perché tutte le esplosioni del 1993, l’attentato fallito a Maurizio Costanzo (14 maggio), l’autobomba esplosa a Firenze nei pressi degli Uffizi, che ha provocato cinque morti (notte tra il 26 e il 27 maggio), quella di via Palestro a Milano (27 luglio) e quelle davanti a due basiliche romane, San Giovanni in Laterano e la Cattedrale di Roma (notte tra il 27 e il 28 luglio), sono di mafia, ma anche no. Perché avrebbero avuto uno scopo tutto politico, quello di intimorire gli italiani, far cadere il governo tecnico e provvisorio guidato da Carlo Azeglio Ciampi e aprire la strada alla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. Ecco perché all’anno 1993 nelle indagini viene aggiunto anche il 1994. Non solo, fatto che può avere una sua logica, l’attentato fallito allo stadio Olimpico del 24 gennaio, ma anche quello di dieci giorni prima in Calabria con cui due uomini della ‘ndrangheta, Giuseppe Graviano e Santo Filippone, uccisero due carabinieri. Mettere tutto insieme consente ai pm di Firenze titolari di tutte le inchieste di stragi, di poter scrivere, senza che mai la loro fronte venga solcata da una ruga che esprima dubbio, che i mandanti di tutte quel che è successo trent’anni fa sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che avrebbero vinto le elezioni il 28 marzo 1994 a suon di bombe. Indagati e archiviati già quattro volte. Ma la tela di Penelope non finisce mai. Ecco perché alle manifestazioni di oggi per i morti di via Palestro non si può ancora dire “Amen”. “Strage di Erba, nessuna nuova prova decisiva”. Ma sulla sentenza il pg di Milano passa la palla a Brescia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 luglio 2023 Francesca Nanni, dopo le tensioni con Tarfusser, ha trasmesso comunque l’istanza di revisione, ma con un parere in cui la giudica “inammissibile nella forma” e “infondata nel merito”. Il procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, ha trasmesso mercoledì mattina alla Corte d’Appello di Brescia, competente sulle richieste di revisione delle sentenze definitive emesse nel distretto giudiziario di Milano, l’istanza che il sostituto procuratore generale milanese Cuno Tarfusser aveva depositato nella segreteria di Nanni il 31 marzo per perorare la riapertura del caso della strage di Erba, quadruplice omicidio nel 2006 di Raffaella Castagna, del suo bambino Youssef Marzouk, della sua madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini, per il quale sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Per avere depositato questa istanza di propria iniziativa, e violando i criteri interni alla Procura generale che attribuiscono questa eventuale competenza all’Avvocato generale, Tarfusser è attualmente sottoposto a procedimento disciplinare da parte della Procura generale della Cassazione attivatasi su segnalazioni della pg Nanni, nel trasmettere ora a Brescia l’istanza di revisione, l’ha però fatta accompagnare da un parere nel quale la ravvisa inammissibile nella forma perché proveniente da un soggetto non legittimato, e infondata nei contenuti, “perché per la Pg e per il suo Avvocato generale Lucilla Tontodonati, nelle consulenze che i difensori di Olindo e Rosa hanno sottoposto informalmente a Tarfusser, e che Tarfusser ha valorizzato, mancano i presupposti richiesti dalla legge per la revisione, e cioè prove nuove e su elementi che siano stati determinanti all’epoca per la condanna. Tuttavia, ha spiegato la pg Nanni, il fatto che Tarfusser avesse firmato e depositato in segreteria l’istanza ha dato impulso a un procedimento che deve essere concluso nella sua sede competente. Ora sarà appunto la Corte d’Appello di Brescia a giudicare prima sulla ammissibilità o meno dell’istanza, e poi eventualmente a decidere nel merito se debba essere avviata o no la procedura di revisione delle sentenze definitive. “Il parere non compete alla procura generale di Milano, è Brescia che deve valutare”, sostiene l’avvocato Fabio Schembri, difensore di Olindo Romano e Rosa Bazzi. “È la Corte d’Appello di Brescia che deve valutare la richiesta di revisione ed eventualmente può chiedere un parere alla Procura generale di Brescia. Questo (della procura di Milano) è un parere assolutamente irrituale, non previsto dal Codice, che arreca un pregiudizio. Finalmente la richiesta, seppur in ritardo, è stata inviata al giudice competente”, aggiunge l’avvocato. Detenuti, stesso lavoro e stessi diritti di Daniela Barbaresi* collettiva.it, 27 luglio 2023 Una recente sentenza del tribunale di Busto Arsizio stabilisce che l’indennità di disoccupazione Naspi spetta anche alle persone ristrette. La Cgil è impegnata da tempo per garantire il riconoscimento dei diritti e delle tutele del lavoro per i detenuti che sono impiegati alle dipendenze di datori esterni e, soprattutto, dell’amministrazione penitenziaria. È in questo caso, infatti, che si registrano i problemi maggiori, legati anche alla cronica mancanza di diritti e tutele, a partire da una lettera di assunzione che stabilisca compiti, mansioni, orario, durata del rapporto, inquadramento e retribuzione. Questo, oltre a non stabilire come per ogni dipendente il quadro entro cui si colloca la prestazione in termini quantitativi e qualitativi, rende più complesso anche garantire le prestazioni assistenziali, quali l’indennità di disoccupazione alla cessazione del rapporto. Al detenuto devono essere riconosciute tutte le tutele previste per gli individui liberi, perché il lavoro è un diritto delle persone ristrette, e non soltanto un’opportunità, ed è strumento cardine della rieducazione e del reinserimento, che sono il fine assegnato alle pene dalla Costituzione. Costituzione che tutela il lavoro in tutte le sue forme senza fare distinzioni fra lavoratori ristretti e non. La Cgil è da tempo parte attiva nel promuovere ricorsi laddove l’Inps neghi, cosa che succede con frequenza, tale riconoscimento. È di pochi giorni fa la sentenza del tribunale di Busto Arsizio che ha accolto il ricorso di una detenuta lavoratrice, assistita dalla Cgil di Milano, e che fa seguito a una precedente decisione, per una vertenza sostenuta sempre dalla Cgil di Milano, del novembre 2021, e a molte altre nel resto del Paese. La sentenza di Busto Arsizio risponde a una odiosa discriminazione che contrastiamo con determinazione, a maggior ragione dopo che l’Inps, con il messaggio 309/2019, ha instaurato la prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti, o ex detenuti, che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Già un anno fa in un’iniziativa pubblica della Cgil nazionale avevamo chiesto all’Inps un impegno concreto per rivedere la posizione espressa con quel messaggio, evidenziando la consistenza delle ragioni per cui diversi giudici hanno dato e ci danno ragione. In quell’occasione erano stati presi alcuni impegni, e prospettate diverse possibilità per delineare possibili soluzioni: a oggi, nonostante ripetute sollecitazioni, ancora nessun passo è stato fatto. L’articolo 27 della Costituzione dice chiaramente che le pene non devono mai consistere in trattamenti disumani e degradanti, e devono sempre avere un carattere rieducativo e mai afflittivo. Il lavoro è strumento cardine della rieducazione ma, per esserlo davvero, deve perdere ogni connotazione di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e diritti: orario, ferie, retribuzione, contributi, accesso agli ammortizzatori e quindi, il diritto alla Naspi. Lo stesso ordinamento penitenziario (legge 354/1975) stabilisce che il lavoro è il principale strumento rieducativo, e che, proprio per questo, al detenuto deve essere assicurato un impiego che non abbia carattere afflittivo e che sia remunerato. Dunque deve essere garantito, retribuito e tutelato. Oggi però su 55 mila detenuti ne lavorano solo 19 mila, praticamente un terzo, e di questi solo uno su dieci lavora per imprese private o cooperative mentre gli altri per l’amministrazione penitenziaria. Ma per questi ultimi, l’assenza delle normali tutele contrattuali, a partire dalla retribuzione contrattualmente prevista, rischia di mettere in discussione anche il progetto inclusivo e di reinserimento sociale. In questi mesi la Cgil, insieme a decine di realtà associative espressione della società civile, diverse delle quali hanno come riferimento proprio i diritti delle persone ristrette e la qualità della vita in carcere, sta portando avanti con determinazione una mobilitazione in difesa della Costituzione e per la sua piena attuazione, che ci porterà di nuovo in piazza in autunno. Assume quindi particolare importanza sostenere con forza, come recita l’appello Insieme per la Costituzione “quel modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali” come il diritto al lavoro e alla salute, che non possono essere diversamente esigibili a seconda del luogo dove una persona si trova. Non è un caso che l’articolo 27 della Costituzione sia così chiaro, benché ancora non compiutamente applicato: molti dei nostri padri e delle nostre madri costituenti il carcere l’avevano provato, e sapevano bene di cosa si trattasse. *Segretaria confederale Cgil Recidiva reiterata anche in assenza di condanna per recidiva semplice di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2023 Per le Sezioni unite, sentenza n. 32318/2023, la motivazione deve però dar conto di un progressivo rafforzamento della determinazione criminosa e dell’attitudine a delinquere del reo. Le Sezioni unite, sentenza n. 32318/2023, formalizzano l’ormai “costante” approdo giurisprudenziale che ammette la contestazione della recidiva reiterata, anche in assenza di una dichiarazione giudiziale di recidiva semplice, insistendo però sull’obbligo motivazionale ed in particolare sulla dimostrazione del progressivo rafforzamento della determinazione criminosa del reo. La Corte di cassazione ha così bocciato il ricorso presentato da un uomo condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione e cinquecento euro di multa per il reato di furto di due blocchetti di assegni e denaro liquido da un ristorante, aggravato, tra l’altro, dalla recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, considerate tre precedenti condanne (due già definitive al momento del delitto). Secondo la difesa l’assenza di una precedente condanna per fatti aggravati dalla recidiva “induceva a ritenere che la stessa fosse stata esclusa in quelle sedi”. E dunque, in assenza di condanne precedenti per la recidiva semplice, veniva meno la stessa possibilità di ritenere configurabile la recidiva reiterata. Per la Quinta Sezione penale l’indirizzo maggioritario, quello che ammette comunque la contestazione, “deve essere superato nella direzione della necessità, per la configurabilità della recidiva reiterata, di una precedente sentenza definitiva di condanna per un reato aggravato dalla recidiva”. Al termine di una lunga dissertazione le S.U. affermano invece che “la recidiva reiterata può essere accertata, ritenuta ed applicata nei confronti di un soggetto recidivo, da considerarsi tale in quanto già condannato due volte per delitti non colposi, anche se tale condizione di recidivanza non sia stata ritenuta nel precedente giudizio, in conformità con l’indirizzo fin qui seguito dalla giurisprudenza di legittimità”. Tuttavia, argomenta, non deve essere trascurata l’importanza dell’evoluzione che ha portato ad una diversa configurazione della recidiva e dei suoi aspetti applicativi. Lo spazio nel quale questa realtà può trovare adeguata considerazione, però, non è quello di un irrigidimento formalistico nella successione delle affermazioni giurisprudenziali delle varie ipotesi di recidiva, ma, piuttosto, quello della motivazione sull’applicazione della recidiva reiterata, in particolare nel caso in cui non vi sia stato un precedente accertamento della recidiva semplice. La rilevanza dell’aspetto motivazionale della recidiva, del resto, è stata già segnalata dalle Sezioni Unite nel rilevare che la facoltatività dell’applicazione della stessa impone al giudice, sia nel caso in cui disponga tale applicazione che nel caso contrario, uno specifico dovere di motivazione in proposito. In questo senso, il superamento della concezione della recidiva come status soggettivo determinato dai soli precedenti penali non rende più ammissibile una motivazione affidata a formule di stile; è di contro doverosa un’argomentazione che, precisando gli elementi fattuali presi in considerazione e i criteri utilizzati per valutarli, dia conto della maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto distogliere dalla risoluzione criminosa per effetto delle precedenti condanne (n. 20808/2018). E gli elementi fattuali ed i criteri di valutazione a cui la motivazione deve fare riferimento restano quelli già indicati dalle stesse Sezioni Unite nella sentenza Calibè, e cioè: la tipologia e l’offensività dei reati, la loro omogeneità e collocazione temporale, la devianza della quale sono complessivamente significativi e l’occasionalità o meno dell’ultimo delitto, oltre ad eventuali, ulteriori, dati emergenti dalla fattispecie concreta. Con riguardo alla recidiva reiterata, il principio si traduce nella necessità che i fatti oggetto delle pregresse condanne ed il nuovo delitto “siano esaminati nelle loro connotazioni sintomatiche di un progressivo rafforzamento della determinazione criminosa e dell’attitudine a delinquere del reo”. E di questo dà conto la motivazione della condanna laddove individua l’accrescimento della determinazione a delinquere dell’imputato, “nella successione dei reati di furto, dimostrato dalla sempre maggiore specializzazione nell’esecuzione delle condotte”, con il coinvolgimento di più persone, la scelta di un locale pubblico chiuso ed appartato e l’impossessamento di titoli di credito oltre che di denaro contante. In tal modo, continua la Cassazione, la motivazione tocca tutti gli aspetti determinanti nel giudizio sulla sussistenza del presupposto sostanziale della recidiva, vale a dire l’omogenea offensività patrimoniale di tutti i reati oggetto delle precedenti condanne, la loro collocazione in un contesto temporale unitario e continuo, nel quale si colloca anche il delitto estorsivo, e il carattere non occasionale dell’ultima ricaduta nel crimine. In definitiva le S.U. hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Ai fini del riconoscimento della recidiva reiterata è sufficiente che, al momento della consumazione del reato, l’imputato risulti gravato da più sentenze definitive per reati precedentemente commessi ed espressivi di una maggiore pericolosità sociale, oggetto di specifica ed adeguata motivazione, senza la necessità di una previa dichiarazione di recidiva semplice”. Richiedenti asilo. Il Tribunale di Roma riconosce la validità della procura online di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2023 Come riportato da Fabi Fugazza e Vittoria Garosci sul sito del progetto “Open Migration”, il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza storica a favore di una famiglia afghana, ribaltando le argomentazioni avanzate dall’Avvocatura dello Stato. La decisione riguarda il rilascio del visto umanitario richiesto dalla famiglia, che era stata respinta dallo Stato italiano a causa delle modalità con cui la richiesta era stata presentata. In particolare, lo Stato aveva obiettato l’inammissibilità delle domande di visto presentate tramite email e aveva contestato la validità della procura presa online dalla moglie della famiglia. La famiglia afghana, composta da sette persone, aveva inizialmente richiesto il visto umanitario per il marito, la moglie e i loro cinque figli minori nel luglio 2022, ma non aveva ricevuto alcuna risposta dalle autorità. Il marito era un ex membro dell’esercito afgano, che aveva studiato a lungo in Italia e aveva legami profondi con il Paese. Durante il ritorno in Afghanistan, era stato costretto a fuggire a causa della minaccia dei Talebani, lasciando la sua famiglia ancora in pericolo nel Paese. Nonostante i legami del marito con l’Italia, lo Stato italiano aveva opposto resistenza alla richiesta di visto umanitario e aveva sollevato obiezioni riguardo alla validità della procura presa online dalla moglie. Come sappiamo, la normativa italiana richiede che le procure siano autenticate alla presenza del procuratore nominato. Nonostante ciò, e per fortuna, il giudice della causa ha riconosciuto la validità della procura presa online dalla moglie, considerando l’impossibilità e il pericolo a cui si sarebbe esposta se avesse dovuto recarsi personalmente in un’ambasciata italiana, considerando anche le restrizioni imposte ai movimenti delle donne in Afghanistan. Questa sentenza rappresenta un’importante evoluzione del diritto italiano, riconoscendo la possibilità di rilasciare procure online in situazioni eccezionali di pericolo e insicurezza. Inoltre, il giudice ha respinto l’argomentazione dell’Avvocatura dello Stato secondo cui le domande di visto presentate via email dovrebbero essere considerate inammissibili. La sentenza si basa anche su principi giurisprudenziali enunciati dalla Corte di Giustizia Europea, che ha stabilito la necessità di flessibilità da parte degli Stati membri nei confronti delle domande di ricongiungimento familiare, consentendo l’uso di mezzi di comunicazione a distanza in situazioni di conflitti armati o crisi dei diritti umani. Questo riconoscimento apre la possibilità di richiedere il visto umanitario anche per coloro i quali lo Stato italiano abbia esercitato un certo grado di potere e controllo. Nonostante l’appello presentato dallo Stato, la sentenza è immediatamente esecutiva e ha un impatto significativo per coloro che desiderano richiedere il visto umanitario. La decisione sottolinea l’importanza di garantire il diritto all’unità familiare e riconosce il pericolo a cui i richiedenti potrebbero essere esposti se costretti a soddisfare personalmente i requisiti procedurali presso le ambasciate italiane in situazioni di grave insicurezza. La famiglia afghana coinvolta nel caso ha ricevuto assistenza legale pro bono attraverso la Collaborazione Italiana Pro Bono per i Rifugiati Afghani (Cipbra), un’iniziativa che offre consulenza e rappresentanza legale gratuita ai richiedenti asilo afghani che cercano di stabilirsi in Italia. La decisione del Tribunale di Roma rappresenta una vittoria significativa per i rifugiati in cerca di protezione e riconoscimento dei loro diritti umani fondamentali. Toscana. Il Garante: “Sollicciano andrebbe demolito, il sistema carcere va ripensato” di Erika Pontini La Nazione, 27 luglio 2023 Mancanza di lavoro, spazi angusti e aumento dei casi psichiatrici. “Il sistema carcere va ripensato integralmente in funzione dell’adempimento del dettato costituzionale: umanità nella detenzione e reinserimento sociale. Siamo lontanissimi ancora da quel modello”. Giuseppe Fanfani è il Garante dei detenuti della Toscana e negli ultimi giorni ha depositato il dossier sullo stato delle strutture toscane. Sedici in tutto per 2963 reclusi, la maggior parte uomini, la metà stranieri, un quarto tossicodipendenti. Qual è il problema principale? “Il sovraffollamento reale: è vero i numeri dei detenuti sono calati anche in Toscana ma i numeri sono calcolati sulla base dell’occupazione degli spazi. In una cella di 15 metri quadri in 3-4 non ci si può stare. È il male delle grandi carceri come Sollicciano, Prato, San Gimignano, Pisa e Livorno e anche Massa mentre nelle strutture piccole è meno sentito, perché ci sono a disposizione spazi più ampi e il differente rapporto anche tra personale e detenuti, improntato all’ aiuto, invece che alla repressione rende il carcere meno afflittivo”. Quali sono le strutture migliori? “L’ideale sono la Gorgona e Pianosa, l’estate ci vorrebbero andare tutti. C’è un clima isolano che è particolarmente accettabile: non è che detenuti possono fare il bagno ma hanno libertà di movimento e vivono sostanzialmente con spazi maggiori. I migliori restano i piccoli: Arezzo, Siena e Grosseto, Pistoia e Massa Marittima, quest’ultimo è ‘bellino’ sempre che questo termine si possa accostare a una struttura penitenziaria”. La maglia nera in Toscana? “Non me lo faccia dire. Tutte le grandi strutture: un carcere per essere educativo e vivibile non deve avere più di cento detenuti”. Sollicciano? “Andrebbe demolito: è un bell’esempio architettonico e stilistico ma non ha niente del carcere moderno dove il detenuto deve essere trattato con umanità e trovare le strade della redenzione sociale. Funziona il Gozzini, meno di cento detenuti: ci sono i semiliberi ed è stato dato vita a un programma di rieducazione importante”. In un anno si sono registrati 4 suicidi (tutti a Sollicciano), 110 tentativi, 912 atti di autolesionismo. Numeri impressionanti... “A Sollicciano c’è malessere, anche io quando entro sento un senso di alienazione che non provo da altre parti. E gli atti di autolesionismo che vengono registrati come tali sono meno della situazione reale. Ho visto uomini che hanno incisi sulle braccia gli anni della detenzione”. Sono sempre più numerosi i detenuti che soffrono di patologie psichiche. A cosa è dovuto? “È un fenomeno che sta esplodendo ovunque: dipende dalla fragilità, dall’ambiente che trovano, dalla solidarietà. Per questo nelle strutture piccole i suicidi non ci sono e si prevengono meglio gli atti di autolesionismo. Ci sono strutture dove se uno non è matto, ci diventa, e poi molti scontano un profondo senso dell’abbandono. A Sollicciano ci sono solo una manciata di educatori e poche ore disponibili con psichiatri e psicologi. Non si possono costruire percorsi duraturi, se gli va bene parlano con il medico a ogni spuntar di luna e vengono riempiti di medicine. Manca il personale per supplire alla fragilità psichica dei detenuti”. Su quasi 3mila detenuti in Toscana appena 212 lavorano all’esterno e un migliaio alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. La mancanza di lavoro non aiuta... “Se a un detenuto lo fai stare 4-5 anni in carcere senza fare niente, quando è fuori è messo peggio di prima. Se non gli cambi i riferimenti sociali ritrova esattamente quelli che aveva prima e torna a delinquere. È un difetto generalizzato del sistema al quale fa da scudo tutto il sistema del volontariato. Dietro le sbarre si lavora solo per le pulizie, in cucina e nelle riparazioni, e mica tutti. Fuori invece il presupposto è trovare un’ambiente che ti accolga, che ti dia lavoro e ti reinserisca ma è difficile. È l’offesa maggiore alla Costituzione”. Rems, nella relazione segnalate una lista di attesa di 70. Non sono tanti? E undici sono in cella in attesa di un posto... “Se uno ammazza una persona ed è matto lo metti in carcere fino a quando non trovi posto nella Rems perché il sistema sociale esterno al carcere è schifoso, inaccogliente. Le persone con problemi psichici andrebbero curate in ambienti di tutela se sono pericolose per mettere in sicurezza i cittadini, altrimenti accade quello che è successo recentemente, o in strutture intermedie che sono le strutture psichiatriche territoriali”. Sono abbastanza? “Non è solo una questione di numeri ma della possibilità di riuscirle a curare. È un sistema che andrebbe ampliato: più riesci ad aumentare la capacità del sistema sociale e più riduci quello della detenzione carceraria”. Firenze. “Pasta come pongo, muffa e cimici”: vita in carcere, la testimonianza di Emanuele Baldi La Nazione, 27 luglio 2023 Abdel, a Sollicciano per due anni, racconta la sua esperienza. “Se scoppia una rissa tra due detenuti chiudono in cella tutti anche per giorni”. “Se mi va di parlare della vita nel carcere di Sollicciano? Certo, non vedo l’ora...”. Abel è nato in Perù 34 anni fa, è arrivato da bambino a Firenze. È stato dentro dal 2021 alla primavera di quest’anno. A difenderlo l’avvocatessa Elisa Baldocci. Sanchez, la sua colpa? “Tentata estorsione. L’unica cavolata della mia vita. L’ho pagata, pensi che ero incensurato”. Il nostro giornale ha raccontato le condizioni di Sollicciano. Sembrano drammatiche… “Io l’ho vissuto in carne e ossa il carcere. Una sera davanti alla tv dissi al mio compagno di cella. ‘Quando esco racconto tutto’”. Siamo qui ad ascoltarla… “Non saprei neanche da dove cominciare”. La sua cella com’era? “Le dico subito che la pulizia praticamente non esiste. C’è muffa a volontà, i materassi sono disastrosi, sono fatti del materiale delle spugne con cui si lavano i piatti. E poi le cimici. Cimici ovunque”. Il cibo? “Non ne parliamo. La pastasciutta viene cotta e poi coperta. Così quando arriva in tavola sembra pongo. Non ha sapore. Il riso poi... neanche gli toglievano l’acqua, ci veniva dato che sembrava una zuppa”. Non il massimo… “No. E poi sempre cibi serviti a un giorno dalla scadenza. Anzi una volta abbiamo mangiato anche la besciamella scaduta”. In questi giorni si sfiorano i 40 gradi. Immagino che in carcere non ci sia il condizionatore... “Macché, nella mia cella c’era solo un ventilatore vecchissimo che non serviva praticamente a nulla. L’estate è un inferno”. E l’inverno? “Le dico solo che uno l’abbiamo passato senza riscaldamento. Era rotto. Lo hanno riparato a aprile, quando non serviva più”. Quante ora potevate trascorrere fuori dalle sbarre? “Due ore al mattino, dalle 8 alle 10. E poi il pomeriggio dalle 13 alle 15. Ma in cortile non c’è quasi nulla. Ricordo un vecchio calcio balilla e un po’ di sedie che certo non bastavano per tutti”. A proposito, i rapporti con gli altri detenuti? “Se uno fa come me e si comporta bene rispettando tutti, ogni cosa va per il meglio. Ho stretto anche delle belle amicizie a Sollicciano”. Non si è mai trovato in mezzo ai guai? “Non per colpa mia, casomai in certi casi ho cercato di sedare qualche rissa. Anche in questi casi dopo succedono cose secondo me non giuste...” Tipo? “A parte che le guardie non intervengono mai, aspettano solo che la situazione si calmi. E poi se qualcuno fa casino a pagare sono tutti. Una rissa e per punizione nessuno esce più dalla cella per l’ora d’aria. Anche per una settimana”. Deve essere difficile... “È durissima, serve un grande equilibrio mentale. Ci vuole testa. Perché è come se tu fossi doppiamente rinchiuso”. Com’è la giornata tipo? “Alle 6 e 30 iniziano i primi rumori. Vengono portate le medicine a chi ne ha bisogno. Poi viene portata la colazione che non sto neanche a dirle che roba sia...Poi si va in cortile, c’è chi segue qualche corso”. Contatti con l’esterno? “Il cellulare non esiste. Ai carcerati danno delle schede telefoniche ricaricabili. Si può fare una chiamata di 10 minuti al giorno al massimo... Io per i primi sei mesi non ho potuto chiamare nessuno”. Completamente isolato dal mondo fuori? “Potevo comunicare solo con le carte postali”. Ha mai ottenuto permessi brevi per uscire? “Non li ho voluti. Ho una figlia piccola e non avrei sopportato l’idea di vederla magari per un paio d’ore e poi dover rientrare là dentro”. A proposito cos’ha provato quando il cancellone di Sollicciano si è riaperto e dopo due anni è tornato libero? “Mi sono sentito spaesato. Era in strada con due borsoni di plastica, ho cercato una cabina del telefono per chiamare la mia mamma. Poi nei giorni seguenti ho iniziato a uscire. Correvo. Ero confuso”. Bologna. In carcere non c’è più posto: stop all’accesso di nuovi detenuti di Giuseppe Leonelli Corriere della Sera, 27 luglio 2023 La decisione si è resa necessaria per il sovraffollamento: oggi il carcere della Dozza ospita 806 detenuti a fronte di 500 posti. Sospensione degli accessi di nuovi detenuti per tutto il fine settimana appena trascorso, una misura estrema che - come spiegano i sindacati - è stata prorogata fino a domani (giovedì 27 luglio). Al carcere della Dozza di Bologna si respira un’aria pesantissima e la decisione presa dalla direttrice Rosalba Casella, approvata dal Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, lo dimostra. L’istituto penitenziario è al collasso, oggi ospita 806 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 500 posti, un sovraffollamento cronico aggravato dalle recenti retate (l’ultima giovedì scorso con 21 arrestati per traffico di droga) e dalla chiusura di una intera sezione da 50 posti al terzo piano per lavori di ristrutturazione. Così i nuovi detenuti da giorni vengono dirottati in altre carceri della regione, una misura estrema che solo nel periodo Covid era stata assunta per un periodo di 10 giorni, per ragioni di carattere sanitario. Il problema caldo - “Lunedì sono stato in carcere e ho avuto conferma dalla direttrice della sospensione degli ingressi per il fine settimana - spiega Antonio Ianniello, garante per i diritti delle persone private della libertà personale di Bologna -. Del resto con la chiusura di una sezione sono stati completamente esauriti i posti disponibili. Ricordo infatti che la legge non consente di avere più di due persone per cella dal momento che con una terza branda ogni detenuto si troverebbe a vivere in uno spazio inferiore a 3 metri quadrati, condizione che rientra tra i trattamenti inumani e degradanti. Ovviamente il caldo estremo di questi giorni ha reso ulteriormente problematica la condizione dei detenuti: il carcere della Dozza non è dotato infatti di condizionatori d’aria nelle celle e, nonostante già nel 2018 il Consiglio comunale di Bologna abbia approvato un odg all’unanimità per farne richiesta al Ministero, solo quest’anno è stata data disponibilità di installare ventilatori, comunque al momento ancora non presenti. Neppure la mia richiesta avanzata alla direttrice sui tempi legati all’ora d’aria ha trovato accoglimento, infatti per problemi legati alla carenza di personale non è stato possibile posticipare l’uscita in cortile oggi prevista dalle 13.30 alle 15.30 in orari meno caldi”. Il reparto infermeria - A confermare la proroga dello stop all’ingresso di nuovi detenuti almeno fino alla giornata di domani è Antonino Soletta, coordinatore Fp Cgil. “La proroga era inevitabile considerata la situazione di assoluta emergenza, ma è evidente che questa è solo una misura tampone e che occorrerebbero modifiche strutturali per arginare il tema del sovraffollamento - afferma Soletta -. Il problema è grave in tutto il carcere, ma nel reparto infermeria dove approdano tutti i nuovi giunti il congestionamento ha raggiunto livelli disastrosi. Il caldo, il nodo sempre presenta relativo alla convivenza tra detenuti, la gestione quotidiana di specifiche criticità, rende la vita per chi lavora in carcere davvero difficile. Con una carenza di personale di almeno 80 agenti rispetto alla pianta organica tutto diventa estremamente complicato, la stessa sorveglianza necessaria per evitare gesti di autolesionismo tra i detenuti non è affatto scontata”. Bologna. “Aggiusto biciclette e anime. A tutti può cadere la catena” di Alessandra Arini La Repubblica, 27 luglio 2023 Dal carcere all’officina di riparazione, la storia di Gianfranco Marcelli. Ex detenuto, ha fondato “Chiusi fuori”, un’associazione ma anche un laboratorio in via San Leonardo a Bologna dove si riparano bici e persone. Quando era in carcere, per parlare con chi veniva a trovarlo aveva a disposizione solo 20 minuti a settimana. Dieci per i colloqui dal vivo, dieci per la classica telefonata. Ora invece coi clienti che gli portano le biciclette da riparare ha tutto il tempo del mondo. Gianfranco Marcelli, detto “Ribelli”, originario di Roma, alla Dozza ci è stato per un po’: “Sei anni, per la precisione”. Sei anni in cui si è guadagnato quel soprannome. “Mi chiamavano tutti così, magistrati, compagni di cella. Perché appena c’era qualcosa che non andava, mi lamentavo per me e per gli altri”. Era finito dentro per rapina, un reato reiterato nel tempo. “Ogni volta mi dicevo che sarebbe stata l’ultima, ma poi, quando entravo in banca, sentivo di comandare. Di contare qualcosa. Non ne ho fatta mai una a mano armata. Mi bastava il brivido”. Quel brivido ha avuto quasi paura di riprovarlo quando è stato liberato e a Bologna - una volta fuori - ha temuto che non sarebbe passata mai “la sensazione di non essere davvero libero, di continuare a vivere sulla mia pelle i pregiudizi verso chi è stato in carcere, di non trovare lavoro. Mi sentivo tagliato fuori dalla società. Proprio io che costruisco relazioni, che mi “ribello”. È uscito nel 2012 e ha fondato “Chiusi fuori”, un’associazione ma anche un’officina di riparazione in via San Leonardo che vuole dare un’altra opportunità non solo alle biciclette, ma anche alle persone. Un’avventura nella quale viene aiutato da Chiara Rizzo, la sua avvocata. “Voglio dare un’altra occasione alle persone che si sentono chiuse fuori dal mondo”. Qui si vendono le bici recuperate negli angoli della città dagli operatori del Comune e che vengono affidate a Gianfranco per essere aggiustate e rimetterle sul mercato. “Le vendo a prezzi stracciati, perché non mi voglio arricchire sulla pelle degli studenti. Sono bici fatte per chi ne ha bisogno”. In via San Leonardo si fa anche riciclo. “Cambio ruote, i freni di una bici li metto a un’altra, una metafora per dire che sì, le cose e i pezzi si possono cambiare” Ad aiutarlo ci sono altri soci, sempre ex detenuti. “Ma questa non è un’espressione che usiamo, perché un po’ “detenuti” lo restiamo per sempre”. Gli danno una mano in officina anche alcuni ragazzi in regime di semilibertà, che vengono a fare volontariato. “C’è anche un volontario che sta scontando l’ergastolo. Per lui rappresenta un momento di distrazione, ma anche di formazione”. Davanti all’officina c’è una tabella con gli orari. Sono “creativi” come lui. “Apro quanno voglio, chiudo quanno c’ho fame”. E là fuori è una processione continua di saluti. “Ciao Gianfranco, come stai? Dopo ti vengo a portare quel pezzo”. Lui dice che il laboratorio è anche “una sorta di bar”. La gente si ferma, beve un caffè, un bicchiere d’acqua. “Un modo per abbattere i pregiudizi delle persone. Tante addirittura hanno cominciato a venire proprio per curiosità, per conoscere la mia storia”. Del periodo passato in carcere non tutti i ricordi sono andati via. Se ne sono andati, invece, le ragioni che lo avevano fatto finire dietro le sbarre. “Ora sono soddisfatto, non ci ricadrò mai più. Questa soddisfazione te la dà solo il lavoro. Perché il lavoro è libertà”. Verona. In carcere a Montorio scoppia la rivolta di Laura Tedesco Corriere di Verona, 27 luglio 2023 Rivolta dei detenuti ieri nel carcere di Montorio: la protesta è per i limiti posti a chiamate e videochiamate all’esterno. Protestano per chiedere “più telefonate, videochiamate e colloqui con le nostre famiglie”. Tensione alle stelle ieri nel carcere veronese di Montorio, dove nel tardo pomeriggio è scoppiata una rivolta dei detenuti che si trovano reclusi in quarta sezione, quella che ospita i condannati con pena definitiva. A darne notizia in serata è stata la Segreteria regionale del Triveneto dell’Uspp, l’Unione sindacati di polizia penitenziaria informando con un comunicato-stampa che “i detenuti si sono barricati, legando i cancelli con lenzuola e mettendo i tavolini tra le sbarre. Pare - continua la nota sindacale - che la rivolta sia scaturita per una situazione di colloqui e telefonate videochiamate per i detenuti. Se confermate, sarebbero queste le ragioni per cui sia scaturita la protesta”. Momenti di altissima tensione e vibrante protesta, quelli vissuti nelle scorse ore all’interno della casa circondariale di Verona Montorio, a cui si è cercato di porre freno con un’immediata opera di mediazione: “Sul posto - precisa ancora il comunicato dell’Uspp - sono intervenuti il magistrato di sorveglianza di Verona e i vertici della direzione, che stanno cercando di mediare con i rivoltosi al fine di dissuadere gli stessi e riportare l’ordine e la sicurezza”. Il preoccupante episodio che si sta consumando in queste ore nel penitenziario di Verona richiama ancora una volta l’attenzione sull’emergenza-carceri e in particolare sulla battaglia condotta dall’associazione “Sbarre di Zucchero”, nata esattamente un anno fa dopo il suicidio dell’appena 26enne Donatella Hodo in cella a Montorio: una battaglia chiamata proprio “Direttore, concedimi una telefonata in più”. Conclusa l’emergenza Covid, infatti, nelle carceri italiane sono stati staccati i telefoni ai detenuti. Dal 28 febbraio di quest’anno, è tornata la stretta sulle chiamate all’esterno: non più una telefonata a giorno, ma 10 minuti di chiamata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, “il che vuole dire che un genitore recluso può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno”. Tranne pochissime eccezioni tra cui Padova dove “un direttore penitenziario illuminato” ha subito ripristinato nei giorni scorsi la telefonata quotidiana, nei penitenziari italiani sta montando la protesta e Verona se n’è fatta portavoce e capofila facendo partire con l’associazione Sbarre di Zucchero una raccolta firme e sottoscrivendo una lettera-appello indirizzata a tutti i direttori penitenziari della Penisola. Un appello a cui adesso, sempre da Verona, si aggiunge la rivolta dei detenuti della quarta sezione. Oggi intanto, in mattinata, Nessuno Tocchi Caino e le Camere Penali andranno in visita (già programmata da tempo) proprio al carcere a Montorio. Comunicato stampa dell’Associazione Sbarre di Zucchero Nel tardo pomeriggio odierno siamo stati informati da nostre fonti che nella quarta sezione della CC di Verona erano in corso dei disordini, si è parlato di battiture ma anche di detenuti barricati, coi cancelli legati con le lenzuola e tavoli messi di traverso per bloccare l’ingresso in sezione, tanto che si sono dovuti recare in loco il Magistrato di Sorveglianza di Verona ed i vertici dirigenziali dell’Istituto scaligero, per mediare coi ristretti e riportare la calma e l’ordine. Da quanto appreso pare che tra le motivazioni dell’agitazione ci siano questioni legate alle telefonate ai familiari ed alle videochiamate di colloquio. In un periodo dell’anno che si svuota della maggior parte delle attività inframurarie per le ferie estive, in cui il caldo rende ancora più insopportabile la detenzione, con un aumento di atti autolesionistici e suicidi, Sbarre di Zucchero chiede a gran voce che venga accolto in tempi brevissimi l’appello congiunto con Ristretti Orizzonti e Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia “Direttore, concedimi una telefonata”, per l’aumento delle telefonate concesse ai detenuti, come durante la pandemia da covid. Appello che è stato sottoscritto da oltre 150 tra enti ed associazioni e da centinaia di singoli cittadini ed ha dato spunto per un’interrogazione parlamentare rivolta al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. A pochi giorni dal primo anniversario della morte di Donatela Hodo, suicidatasi nel carcere di Verona, e che ha dato il “la” alla nascita di Sbarre di Zucchero, siamo convinti che permettere ai detenuti ed alle detenute di coltivare gli affetti concedendo telefonate quotidiane - che, ricordiamo, sono a carico dei detenuti stessi - eviterebbe questi gravi fatti che, purtroppo, stanno diventando così frequenti che, tristemente, non ci si stupisce più. Una telefonata avrebbe potuto salvare Donatela, una telefonata avrebbe potuto salvare molti dei detenuti che già si sono suicidati in questo 2023. È per noi inconcepibile che la salute psicologica dei ristretti continui a non essere presa in carico dallo Stato che così viene meno al dettato costituzionale. Allo Stato chiediamo quindi uno scatto di civiltà, che da troppo tempo manca tra le mura dei 189 Istituti di pena italiani. Bari. Torture in carcere: in udienza emerge l’allarme sovraffollamento di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 27 luglio 2023 Le rivelazioni della direttrice Pirè in aula: “Il personale sottodimensionato” ma “nulla può giustificare la violenza”. Sovraffollamento e carenza di organico. Nulla può giustificare comportamenti violenti, pur al culmine della esasperazione, ma certo non si possono sottovalutare le criticità che da anni vengono denunciate nel carcere di Bari. E a confermarlo, raccontando numeri e situazioni di emergenza, è stata la stessa direttrice Valeria Pirè, dinanzi ai giudici che dovranno giudicare gli agenti penitenziari a processo per aver torturato un detenuto psichiatrico. Sentita come testimone in una delle ultime udienze del processo, la direttrice Pirè ha raccontato ciò che avvenne la notte del pestaggio, il 27 aprile 2022, quando un detenuto 41enne fu violentemente picchiato - lo documentano le immagini interne della videosorveglianza - da alcuni degli agenti in servizio dopo che aveva appiccato le fiamme alla sua cella costringendo alla evacuazione della intera sezione, mentre i detenuti di tutte le sezioni, avvolte da una densa nube di fumo, battevano sulle sbarre delle celle. L’udienza, rispondendo alle domande delle difese, è stata anche l’occasione per raccontare le estreme difficoltà nelle quali gli agenti lavorano. “Quel giorno c’erano 17 agenti in servizio per circa 420 detenuti” ha spiegato la direttrice, ricordando che la capienza massima è di 299 (in questi giorni sono circa 450). Con un numero di agenti ritenuto “sottodimensionato”. “Sono cinque sezioni detentive, quattro più il centro clinico, e servirebbe almeno un poliziotto per piano” ha spiegato ancora. Le parole della direttrice hanno dipinto un quadro allarmante. E tuttavia, come detto, la violenza che un gruppo di agenti quella notte avrebbe usato nei confronti di un detenuto psichiatrico non trova giustificazione, come evidenziato dalla comandante della Polizia penitenziaria barese, Francesca De Musso, pure lei citata come testimone nel processo. De Musso, come la direttrice, ha appreso solo giorni dopo quello che era accaduto, visionando le immagini delle telecamere dopo il racconto della stessa vittima, e hanno immediatamente trasmesso tutto alla Procura. Secondo la comandante, la notte dell’aggressione “sicuramente c’era un obbligo di ciascuno, di intervenire, quanto meno, per fare ragionare chi magari sopraffatto dall’emotività del momento, io penso che sicuramente, in quel momento, l’emotività alterata, per quello che era successo prima, abbia giocato un ruolo importante, perché i miei uomini, io non penso che, non ho mai pensato di avere degli uomini violenti nel mio reparto - ha detto - , non ho mai pensato di avere nel nostro reparto persone che non comprendevano il valore alto del custodire, nel senso più bello del termine, quello etimologico del termine, di custodire, le persone che lo Stato ci affida, per riabilitarle, e restituirle alla società, migliorate”. “Ritengo - ha detto ancora la comandante De Musso - che noi, come polizia penitenziaria, abbiamo una posizione di garanzia, rispetto alla tutela della vita delle persone che lo Stato ci affida, questa è la mia personale interpretazione di quello che è il senso alto del mandato istituzionale che lo Stato ci affida, ed è quello che, normalmente, gli uomini del nostro reparto fanno. Per questo, sono particolarmente anche offesa da quello che è successo”. Buona parte delle testimonianze della direttrice e della comandante sono state dedicate anche alla descrizione della situazione sanitaria del detenuto aggredito. Il 41enne era arrivato a Bari dal carcere di Lecce il 13 aprile. “Era un detenuto molto problematico, molto molto problematico” ha detto la direttrice Pirè, spiegando che “era già stato in carcere da noi in precedenza, nel 2020, ed è una persona, non certo l’unico del carcere di Bari, molto reattiva e di gestione problematica. Era in carico al dipartimento di salute mentale sin dal suo ingresso con patologie psichiatriche accertate”. Dopo alcuni giorni di cosiddetta “sorveglianza a vista”, cioè con un agente che sorveglia la cella h24, il 16 aprile la misura era stata revocata. Si tratta di “una misura molto afflittiva, estrema, quindi deve essere circoscritta nel tempo, perché - ha spiegato Pirè - se una persona deve essere tenuta sotto sorveglianza a vista, in pianta stabile, io sono da sempre del parere che a questo punto è incompatibile con il regime carcerario”. In effetti questo detenuto era in attesa che si liberasse un posto in una Crap, una comunità riabilitativa (“abbiamo una ventina di detenuti in attesa di Crap” ha rivelato la direttrice, parlando di “emergenza nazionale”). La direttrice ha spiegato, peraltro, che nel carcere di Bari “abbiamo un centinaio di detenuti con problematiche psicologiche, psichiatriche, di cui 25-30 con inquadramento diagnostico ufficiale, schizofrenia, e quindi con protocolli chiari, definiti e precisi, e gli altri invece hanno tutte le altre tipologie di patologie, borderline, disturbi di personalità, disturbi del comportamento, che a volte possono essere anche più problematiche dello psichiatrico”. Modena. Progetto di telemedicina per i detenuti con patologie psichiatriche modena2000.it, 27 luglio 2023 Tra i progetti dell’Azienda USL di Modena che hanno ricevuto i recenti finanziamenti regionali nell’ambito della Salute mentale è da sottolineare, in particolare, il progetto di telemedicina nella sanità penitenziaria, avviato nel dicembre scorso nella Casa circondariale di Modena e nella Casa di reclusione di Castelfranco Emilia. Il progetto riguarda, al momento, i disturbi psichiatrici: il medico del carcere, attraverso una piattaforma informatica, può attivare la consulenza dello psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale che potrà televisitare il detenuto, ovviamente affiancato dal medico della struttura di reclusione. Un progetto particolarmente innovativo che rientra nell’ambito della salute in carcere compreso nei finanziamenti regionali. “La telemedicina offre una serie di vantaggi che possono contribuire in modo significativo al benessere dei detenuti e al miglioramento complessivo della sanità penitenziaria” sottolinea la dottoressa Giuseppa Caloro Direttore della struttura complessa Salute mentale adulti Area Sud e coordinatrice degli interventi per la salute mentale in carcere. “Innanzitutto, consente consulti e trattamenti riducendo la necessità di trasferimenti costosi e complessi dei detenuti verso strutture sanitarie esterne. Inoltre, consente una consulenza medica specializzata da parte di esperti, anche se distanti dalle carceri, e permette di affrontare in modo efficace e tempestivo casi complessi o specialistici, offrendo ai detenuti un accesso adeguato a cure mediche di qualità senza la necessità di spostamenti fisici”. Quello psichiatrico è solo il primo degli ambiti in cui l’Azienda USL di Modena sta sperimentando la telemedicina nella sanità penitenziaria. “Stiamo mettendo a punto altri ambiti in cui utilizzare i servizi di telemedicina quali la televisita, la teleassistenza in ambito carcerario - spiega Federica Casoni Direttrice del Distretto sanitario di Vignola e referente del progetto di telemedicina per Ausl Modena - nel medio termine riusciremo ad implementare il progetto”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Nel carcere una nuova biblioteca centrale di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 27 luglio 2023 Una biblioteca centrale per il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Non un muro, ma un vetro la separa dallo spazio circostante, per renderla sempre visibile e a disposizione delle persone private della libertà. Il progetto, finanziato da Cassa delle Ammende con risorse pari a 32.320 Euro, ha portato alla costruzione di un’area unica di fruizione dei libri, in sostituzione delle 6 attuali mini-biblioteche di reparto. Sono più di 2.500 i volumi consultabili oggi nel penitenziario, ma si stima che arriveranno a 5.000 grazie alle donazioni di privati. Avere un’unica area rende le attività culturali meno dispersive, consentendo anche di ospitare eventi culturali e incontri e garantendo maggiori collegamenti con l’esterno del carcere. Coinvolta nel progetto anche l’Associazione italiana biblioteche per formare il personale. Al lavoro, in questa fase di partenza e dopo un adeguato periodo di formazione, 10 persone detenute e i funzionari giuridico-pedagogici che operano nel penitenziario. La biblioteca centrale è frutto della convenzione sottoscritta dal presidente di Cassa delle Ammende Gherardo Colombo e dalla direttrice pro tempore della casa circondariale di S.M. Capua Vetere Donatella Rotundo. Se Salvini fa finta di non sapere chi è don Ciotti di Maurizio Patriciello Avvenire, 27 luglio 2023 Dispiace. Di più, addolora. Addolora e sconcerta la presa di posizione di Matteo Salvini alle considerazioni di don Luigi Ciotti inerenti la costruzione del ponte sullo Stretto. Don Luigi ha espresso, a riguardo, una preoccupazione che è di tanti - discutibile, confutabile - Salvini, al contrario, ha sentito il bisogno di offendere l’uomo. Inutilmente. Inopportunamente. Chi sia don Luigi Ciotti lo sanno tutti, in Italia e all’estero. Che cosa abbia rappresentato per la lotta alle mafie, per i familiari delle vittime innocenti, per l’educazione alla legalità è testimoniato da decine di associazioni, migliaia di persone, semplici cittadini, magistrati, professionisti, politici, giornalisti, parlamentari. Don Ciotti può essere studiato da tanti punti di vista, tutti giusti, ma tutti parziali, perché egli è, innanzitutto e soprattutto, un prete. Un prete, costretto a vivere sotto scorta, perché ha preso terribilmente sul serio il comandamento di Gesù di amare il prossimo, concretamente, sporcandosi le mani, là dove si trova, nelle condizioni in cui si trova, correndo il rischio di essere insultato, vilipeso, ucciso. Per liberarlo dai legacci insidiosi che lo tengono prigioniero, rimetterlo in piedi, aiutarlo a essere libero. Don Ciotti ha sentito di essere chiamato ad accendere un faro sulla schiavitù che ha tenuto e ancora tiene prigioniero il nostro Sud, prima di estendersi al di là del Tevere, dell’Oceano, delle Alpi. La sua è una voce limpida e profetica. Le mafie sono asfissianti, velenose, contagiose. Viste da lontano possono apparire solo come un fenomeno, parassitario, sanguinario - uno dei tanti - da combattere con più o meno severità. Le mafie, però, non sono entità astratte, dietro ci sono i mafiosi, uomini e donne, in carne e ossa, con nome, figli, clan, cosche, armi, alleanze, interessi. Per conoscere qualcosa delle mafie devi avere il coraggio di sentirne il puzzo, vincere la paura, addentrarti nei meandri dei vicoli, dei quartieri, delle città. Per conoscere i mafiosi devi, se e quando è possibile, avvicinarli, discutere con loro, con le loro vittime, con i vicini di casa, con i politici di riferimento, collusi e corrotti, e con quelli che li combattono. Devi raggiungerli in carcere, seguirne i processi, passare le notti sulle carte da studiare. Per capire devi andare a ritroso, arrivare alle origini, chiederti come e perché abbiano attecchito e proliferato al Sud. Ora, che le mafie e i mafiosi abbiano una predilezione e un fiuto particolare per i fiumi di denaro stanziati per le grandi opere pubbliche, non è un segreto per nessuno, a negarlo si rischia il ridicolo. Sorvolo, quindi, su cose che fanno parte della storia del nostro Paese. Che alle mafie ora faccia gola il progetto del ponte sullo Stretto non è un dubbio peregrino. Don Ciotti lo ha detto. Ci ha messo in guardia. Ne aveva il diritto, ne sentiva il dovere. Lui non è, non vuole, non può essere un politico. È un prete. Non ha interessi di parte. Non ha da organizzare la prossima campagna elettorale. Non ha da sistemare i figli. Sente solo la responsabilità di mettere a disposizione l’immenso patrimonio accumulato in questi lunghi anni di lotta alle mafie. Lo ha fatto, come nel suo stile, nella più totale parresia. A Matteo Salvini non è piaciuto quello che detto? Nessun problema, è suo diritto. Da argomentare, certo. Le idee vengono espresse per essere discusse, accolte, migliorate, confutate, rigettate. Si chiama democrazia. Perché, dunque, ha voluto fare ricorso all’offesa gratuita e bugiarda? Le parole di don Ciotti e la riposta di Salvini le troverete altrove. Io, prete del Sud- facendomi voce di tanti miei confratelli - voglio esprimere a don Ciotti la mia grande riconoscenza per avermi fatto comprendere che i lacci delle mafie sono radicati e difficili da recidere, ma non impossibile. Le mafie possono essere sconfitte. Per farlo, però, in campo devono scendere tutti, ma proprio tutti. Anche, e forse soprattutto, i preti. Compreso me. Grazie, don Luigi. Il modello economico è malato: profitto sull’assenza di diritti di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 27 luglio 2023 Lavoro minorile. Il rapporto di Save the Children dice una cosa fondamentale: il legame tra fenomeni molto vicini a noi con fatti che sembrano lontani, problematiche di terre remote, ma che alla fine si mostrano estremamente funzionali proprio a un modello di sviluppo malato. In occasione della prossima Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani, la Ong Save the Children Italia ha diffuso la tredicesima edizione del suo rapporto Piccoli Schiavi Invisibili, dedicato quest’anno alla denuncia di un sistema che di fatto viola il diritto alla salute e all’educazione di bambine, partendo da uno studio di caso nazionale sui bambini e adolescenti figli di braccianti in due tra le aree italiane a maggior rischio di sfruttamento lavorativo agricolo la provincia di Latina, nel Lazio, e la Fascia Trasformata di Ragusa in Sicilia. Partendo dal quadro più ampio, il rapporto evidenzia come la maggior parte delle vittime di tratta e sfruttamento nel mondo, per la maggioranza proprio minori e donne, restino funzionalmente invisibili. I numeri della migrazione minorile e le conseguenze occasioni di sfruttamento sono in costante aumento, come evidenziano i dati della Commissione europea. Questo è dovuto principalmente al fatto che il numero delle persone che migrano senza poter contare su canali di accesso legali è aumentato, per effetto di crisi climatica, disuguaglianze e conflitti in corso, che costringono milioni di persone a sfollare e vivere in condizioni di vulnerabilità e povertà estrema, soprattutto nel caso di donne, bambine e bambini. Per evidenziare quanto le logiche di contenimento del fenomeno su scala globale sotto forma di operazioni di ordine pubblico internazionale, come suggerito dalla recente Conferenza di Roma su Migrazione e Sviluppo, oltre che il mancato sostegno agli Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile delle Nazioni unite, siano di fatto le cause che favoriscono un’economia dello sfruttamento anche nel nostro Paese, il rapporto mette in luce la condizione dei minori che vivono in questi due territori nazionali. Quella che emerge è la fotografia di bambine e bambini figli di braccianti sfruttati che spesso trascorrono l’infanzia in alloggi di fortuna nei terreni agricoli, in condizioni di forte isolamento, con un difficile accesso alla scuola e ai servizi sanitari e sociali. Sono tantissimi e, nonostante alcuni sforzi specifici messi in campo, sono per lo più “invisibili” per le istituzioni di riferimento, non censiti all’anagrafe, ed è quindi difficile anche riuscire ad avere un quadro completo della loro presenza sul territorio. Il rapporto raccoglie testimonianze dirette di chi ha subito o subisce lo sfruttamento, insieme a quelle di rappresentanti delle istituzioni e delle realtà della società civile, dei sindacati, dei pediatri, dei medici di base e degli insegnanti, impegnati in prima linea, che restituiscono un quadro di diffusa privazione dei diritti di base che compromette il presente e il futuro dei bambini e delle bambine che nascono e crescono in queste condizioni. Ma ciò che più emerge dal rapporto è la relazione diretta tra la tratta e il grave sfruttamento sia lavorativo o di altro tipo; entrambi i fenomeni si nutrono dello stato di bisogno degli individui con meno risorse sociali ed economiche. Significa che intere aree della nostra economia agricola è di fatto parte di un sistema internazionale di violazione dei diritti dei bambini. Il rapporto presenta molti dati interessanti che hanno il pregio di collegare fenomeni molto vicini a noi con fatti che sembrano lontani, problematiche di terre remote, ma che alla fine si mostrano estremamente funzionali proprio a un modello di sviluppo malato, ancorato in certe zone a un’economia che trae profitto dalla mancanza dei diritti più elementari, a partire da quello, inalienabile di un bambino all’infanzia. Basterebbero allora questi dati, i collegamenti internazionali che il rapporto traccia, a delineare concretamente, come viene proposto nelle conclusioni operative, i termini di un agire politico che vede coinvolti tutti i livelli di responsabilità, a partire dai comuni per arrivare al governo, sino al ruolo delle istituzioni europee ed internazionali. A questo punto è necessario chiedersi come sia possibile, in un Paese tra i più ricchi del mondo, membro dei G7, come sia possibile tutto questo, come ancora si tolleri, voltandosi dall’altra parte, lo sfruttamento lavorativo di bambini già a partire dai 12-13 anni, con paghe che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno. Per questo motivo, la Ong chiede al ministero del lavoro e delle politiche sociali di integrare il Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato con un programma specifico per l’emersione e la presa in carico dei figli dei lavoratori agricoli vittime di sfruttamento, da definire con le parti sociali e il Terzo Settore, alla luce delle esperienze e delle buone pratiche sperimentate sul campo. Piccoli schiavi: pagati pochi euro al giorno per lavorare a 48 gradi di Valentina Petrini La Stampa, 27 luglio 2023 Al Centro e Sud ragazzini stranieri sotto pagati e senza cure mediche. Lo sfruttamento denunciato da Save the Children. “Pompo i fiori”. Cosa significa? “Spruzzo il veleno sulle piante, mi pagano 20/25 euro al giorno”. Usi guanti e mascherina? “No! Un po’ mi dà fastidio respirare il pesticida, ma è diventato il mio profumo ormai”. S. è una ragazza di 14 anni, lavora in campagna da quando ne ha 13. È di origine tunisina, è nata in Italia, vive in provincia di Ragusa. Non siamo sole. Intorno al tavolo con noi ci sono una quindicina di minorenni. Siamo a Marina di Acate, nel Centro Orizzonti a Colori dove Save the Children con l’Associazione “I Tetti Colorati” e la Caritas Diocesana di Ragusa ha scelto di avviare a marzo 2022, il progetto “Liberi dall’Invisibilità”. Ragazze e ragazzi dai 6 ai 17 anni, c’è anche qualcuno più grande che ha accettato di incontrarmi. Non è facile fidarsi degli “italiani” quando sin dalla nascita nessuno ti ha mai visto veramente, ti ha mai riconosciuto dignità. Se raccontano chi sono, come vivono, quanto soffrono è solo perché a garantire per me ci sono assistenti sociali, operatori e mediatori che ogni giorno spendono la loro vita e il loro tempo per insegnare la cultura dei diritti. È una generazione nata e cresciuta nelle serre della fascia trasformata. Cos’è? Me lo spiegate? “È una zona isolata dalla città, dalla civiltà. Non abbiamo trasporti, solo da poco ci hanno concesso un pulmino che porta a scuola anche quelli delle superiori. Non è un pulmino del Comune, lo paga la Caritas. Passa a prenderci casa per casa, tranne quelli che abitano molto vicino a Vittoria, dove c’è già un altro servizio attivo”. Una prima osservazione geoeconomica della “fascia trasformata” in Sicilia risale al 2007, a firma di Gianni Petino, professore associato di geografia economico-politica all’Università di Catania. Fascia trasformata: 80 km di costa, 5.200 aziende agricole, 28.274 lavoratori e lavoratrici di cui poco più di 15.000 italiani/e e 12.653 stranieri/e. Poi ci sono gli irregolari: chissà quanti sono precisamente. C’è chi stima arrivino a circa il 20% della popolazione su tutta la provincia. S. che “pomba i fiori”, non era ancora nata quando nelle università si cominciava ad analizzare questo “non-luogo”, ma ne è rimasta vittima lo stesso. Non siamo riusciti ad estirparlo, abbiamo scelto di tollerarlo e così facendo gli abbiamo rubato l’infanzia e stiamo svendendo anche la loro adolescenza per difendere e tutelare gli interessi del settore agroalimentare. “Io ho lavorato anche stamattina”. Siete minorenni, in Italia sotto i 16 anni è illegale lavorare. “Lo sanno tutti che siamo minorenni. Di che ti stupisci? In magazzino ci portano quello che raccolgono nelle serre, abbiamo tipo delle vaschette, le mettiamo sopra alla bilancia e pesiamo i pomodori. Ogni vaschetta non deve essere più di 520/530 grammi”. Ricordiamocelo la prossima volta che andiamo a fare la spesa. “A volte lavoriamo anche tutta la giornata, se non andiamo a scuola. Come durante il periodo del Covid. E quando dobbiamo lavorare per forza non possiamo andare a scuola”. “Io ho fatto arrabbiare gli operatori del Centro quest’inverno”. Perché? “Lavoravo talmente tante ore al magazzino che il pomeriggio non riuscivo a fare il doposcuola. Non ho studiato, avevo tutti voti brutti. Mi servono soldi. Il padrone mi dà 5 euro all’ora”. Dunque provo a descrivervi dove siamo. Perché solo visualizzando questo “non-luogo” puoi sentire il peso dell’isolamento, la solitudine, la segregazione che subiscono e raccontano. Distese infinite di serre e capannoni fino a ridosso del mare, divisi tra loro da stradine sconnesse che alle prime gocce di pioggia si infangano al punto da diventare impraticabili. Le stesse serre e campi che con il caldo atroce di questi giorni raggiungo anche 48 gradi. Qui vivono e giocano bambini. La presenza della vita umana è segnalata da vestiti appesi su fili di fortuna. Bici giocattolo accanto ai campi seminati. C’è chi ha l’acqua potabile, chi invece nemmeno quella e si lava con l’acqua piovana raccolta in barili blu. Non ci sono mezzi pubblici, fermate, bar, farmacie, scuole, niente. Nulla. Al tramonto si accendono i roghi di plastica e immondizia, proprio accanto a dove si coltiva e dove respirano i più piccoli. Sono tunisini, rumeni, albanesi. Sono nati in Italia. Se ti ammali e devi andare dal dottore paghi qualcuno per farti portare in città. E se non hai soldi non ci vai. Lo chiamano “caporalato dei servizi”. Anche per fare la spesa sei schiavo di un passaggio a pagamento. “Con gli amici non usciamo. Alcune volte chiediamo a loro (operatori, ndr) di accompagnarci tutti a casa di uno di noi, per stare insieme. Non sempre possono però. Siamo tanti”. “A mangiare la pizza non ci andiamo. Non ci sono trasporti, ve l’abbiamo già detto. Avete visto dove abitiamo. A piedi non si arriva da nessuna parte”. I disagi fisici e psichici causati da tutto questo sono cicatrici sui corpi e negli occhi. “Hanno sbalzi di umore repentini dovuti a situazioni stressanti che vivono sin da quando sono nati o a causa della condizione di depravazione in cui si trovano quotidianamente. È un fenomeno molto diffuso”. “Sono vittime di carichi di lavoro estenuanti ma anche di un carico mentale che non hanno la possibilità di affrontare con nessuno”. “Non sono minori socializzati, non hanno altri punti di riferimento oltre il contesto in cui sono immersi”. È la triste fotografia di questa generazioni di esclusi che mi consegnano assistenti sociali e mediatori culturali che operano nel Centro Orizzonti. Da Ragusa a Latina sono 872 km. Due province, due distretti strategici dell’agroalimentare italiano, due mercati di riferimento: quello di Vittoria è il secondo per estensione e per volume di compravendite; quello di Fondi, il Mof - Centro Agroalimentare all’Ingrosso, il più grande e moderno centro italiano di concentrazione, condizionamento e smistamento di prodotti ortofrutticoli freschi. Per raccontare l’infanzia dei figli devi conoscere i loro genitori. Braccianti, sfruttati, sottopagati, schiavi del rinnovo del permesso di soggiorno, condizione che li porta ad accettare tutto pur di avere dal “padrone” i documenti necessari per restare regolari. Bambine e bambini costretti a rimanere da soli dalle prime ore del giorno, mentre mamma e papà lavorano nei campi. Altre e altri già adulti a nove-dieci anni, capaci di badare non solo a se stessi, ma anche ai fratelli e alle sorelle più piccole. Come racconta N., 10 anni, Latina: “Quando ho fame, cucino da solo. Mamma e papà si alzano alle 4 del mattino per andare a lavorare in una fabbrica fuori Pontinia. La sera rientrano non prima di mezzanotte. Io sto già dormendo. La domenica è bellissima: stiamo tutti insieme”. In Provincia di Latina più della metà degli operai agricoli censiti/regolari (13.000 su un totale di 20.000), sono di origine straniera, in prevalenza indiana. Bella Farnia, Borgo Hermada, Borgo San Donato, Pontinia e Borgo Montenero, sono alcuni dei ghetti abitati da loro, contrade e frazioni che fanno da spalla a una costa, quella di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina, che ospita invece il turismo estivo popolare ma anche di lusso. H.S. è arrivato in Italia nel 2005. Lo incontro grazie alla Caritas di Latina. Sua moglie lo ha raggiunto nel 2012 e suo figlio M. è nato nel 2014. “Ho sempre lavorato, prima in campagna, poi nelle serre. Infine ho trovato lavoro a Rocca Massima, facevo il custode per un B&B. Dieci anni fa ho iniziato a fare il panettiere. Mi ero abituato a lavorare di notte, anzi la luce del giorno mi dà fastidio. A marzo 2023 mi sono sentito male mentre impastavo, sono svenuto e mi hanno portato in ospedale. Facevo fatica a respirare. Non sentivo più i piedi. Avevo fortissimi dolori addominali. Sono stato ricoverato il 27 aprile 2023, mi hanno dimesso quindici giorni dopo, il 12 maggio”. Epatite acuta, ipotiroidismo e sospetta neuropatia. H.S. non è più tornato a lavoro. Non ce la fa. Il suo “padrone” il primo mese gli ha dato qualche soldo per andare avanti, poca cosa, sono finiti subito e ora lui e sua moglie sono disperati. M. - suo figlio - è seduto al centro tra mamma e papà. Ha lo sguardo basso. Non interviene mai. Da quando papà si è ammalato ed è rimasto a casa senza stipendio, né uno straccio di sussidio o pensione di invalidità, vanno ogni giorno a mangiare alla mensa della Caritas. Il problema non è solo il cibo e l’affitto di casa che non stanno pagando. L’emergenza vera è il suo permesso di soggiorno in scadenza. E senza il rinnovo del contratto di papà tutta la famiglia è condannata. H.S quel rinnovo non lo avrà. Ora che si è ammalato non serve più. La Caritas ha fatto qualche ricerca e ha scoperto che in realtà per tutti questi anni è stato inquadrato come fioraio. Non ha mai percepito quindi l’indennità notturna da panettiere. Avrebbe potuto chiedere la disoccupazione, ma non sapeva nemmeno questo. Potrebbe avere diritto ad una pensione di invalidità ora che è gravemente malato, ma non ha presentato domanda perché i suoi documenti, contratti, buste paga, ce le ha sempre il padrone. Inoltre non ha una residenza. Eppure mi mostrano le foto della loro lunga vita in Italia. Gli scatti della nascita di M. all’ospedale di Latina, le foto con le maestre, alle gite scolastiche. Secondo i referenti della Caritas il bambino avrebbe bisogno anche di una valutazione neuropsichiatrica. Manifesta probabili problemi non diagnosticati. “M. sei preoccupato?”, chiedo al ragazzo mentre il padre racconta i loro drammi. “Tanto” mi risponde sempre con lo sguardo basso. Ti piace la scuola? “Sì”. Che vuoi fare da grande? “Guidare i treni”. Raccontare questa provincia laziale è stato più complesso. Non c’è Save the Children a portare lo Stato, la Caritas fa quello che può insieme a qualche cooperativa sociale. È stato un viaggio più faticoso e lento, durato mesi in cui mettendo insieme i tasselli raccolti dalle interviste a psicologi, pediatri, mediatori culturali, sindacalisti, operatori Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria per richiedenti protezione internazionale da cui proviene una parte della manodopera “temporanea” che si riversa nei campi), giornalisti, avvocati, insegnanti è emerso un quadro sconcertante. “Maestra, papà è morto perché lavorava troppo”. Scuola primaria di Sabaudia. G. è un bimbo di nove anni. L’anno scorso ha perso il papà: ha avuto un infarto sul lavoro a 40 anni. La maestra racconta il caso visibilmente provata. Il corpo docenti dice di essere in ginocchio, la popolazione studentesca straniera cresce e non c’è un adeguato accompagnamento linguistico negli inserimenti. Le scuole sono chiuse il pomeriggio, pochissime ore di mediazione finanziate dalle istituzioni e solo fino alle medie. La mediazione alle superiori non esiste. Così, se hai 16 anni e i tuoi genitori vogliono che ti sposi per forza, smetti di studiare e nessuno può aiutarti, convocare le famiglie, fornirti sostegno adeguato. Darti una via d’uscita. Non ci sono servizi ricreativi pomeridiani, solo per qualche ora a settimana, nemmeno doposcuola gratuito. Parliamo di famiglie di lavoratori regolari, ma poveri che sorreggono un settore produttivo strategico, l’unico i cui introiti continuano a crescere dal Covid in poi. C’è poi un altro spaccato che mi è stato consegnato dai docenti e di cui dobbiamo farci carico: i problemi legati alla gestione dei bambini bisognosi di sostegno. “Io seguo due bambine del Punjab, che oltre a non parlare l’italiano hanno anche dei problemi cognitivi - spiega un insegnante - ma non sono certificate, non sono mai state viste dall’Asl, dai medici. Le seguo perché abbiamo deciso con gli altri docenti che andavano aiutate comunque. E però oltre a loro due ho anche una bambina italiana. Quindi tre casi in una stessa classe”. Perché non sono certificate? “È difficile fare diagnosi. I test sono solo in italiano. Poi i tempi sono lunghissimi, per tutti, italiani e indiani: per ottenere l’appuntamento per la valutazione cognitiva ci vuole un anno”. Rani ha quattro figli. Vive in una casa fatiscente in mezzo alla campagna dell’agro pontino insieme ad altre dieci persone. Ogni nucleo familiare ha una stanza. Quando arrivo i bambini giocano all’ingresso. Appena entri sulla destra c’è una cucina con le pareti piene di muffa. Non c’è riscaldamento, né acqua calda. La stanza di Rani e dei suoi figli è due metri per tre. Tutta la loro vita è lì dentro. Un letto a castello e un letto matrimoniale attaccato. Un cassettone e un frigorifero. Lavorava in una fungaia della zona, tra Sabaudia e Pontinia, un posto molto noto per casi di incidenti sul lavoro, ogni giorno iniziava alle 6 di mattina, finiva a mezzanotte. I funghi si raccolgono da sdraiati su impalcature, è un lavoro faticoso. Un giorno è caduta. L’impatto con il pavimento è stato violento. Si fa male agli organi genitali. Sviene, perde sangue. Il “padrone” ordina alle colleghe di soccorrerla, ma non chiama l’ambulanza. Alla fine, siccome Rani non si riprendeva, è un’altra lavoratrice, sempre indiana, che dal suo cellulare chiama il 118. La portano in ospedale. Dopo le cure però, firma ed esce. Non sporge denuncia. Il padrone l’aveva minacciata: non ti permettere, racconta che ti sei sentita male da sola. Mi dice tutto suo figlio più grande, 11 anni, italiano perfetto e aria da ometto di casa. “Quella notte mamma stava ancora molto male, perdeva sangue. Io le portavo dei panni bagnati per asciugarsi ma lei non si riprendeva. Così con il suo cellulare ho chiamato di nuovo l’ambulanza”. C’è molto altro dolore negli occhi di questa donna e dei suoi bambini. Non solo la brutalità di un lavoro schiavista, dove i diritti sono sistematicamente calpestati, ma anche la violenza domestica subita dal marito. È sempre il primogenito a raccontarmi tutto. “Un giorno ho chiamato i carabinieri e l’ho denunciato. La picchiava, ci picchiava, voleva uccidere la mia sorellina più piccola”. L’uomo oggi è in carcere. “Lei rappresenta il fallimento totale dei servizi sociali italiani - dice l’avvocata Silvia Calderoni che l’ha difesa. Non è chiaro perché dopo un processo che ha certificato i maltrattamenti nessuno di loro sia stato preso in carico in modo adeguato. Per di più, in quanto vittima di violenza avrebbe avuto diritto all’assistenza della Regione Lazio, ma siccome non ha la residenza, in verità non ha diritto a niente, e questo impatta sulla sua vita e la rende il soggetto più sfruttabile del mondo sul piano lavorativo perché deve mantenere quattro figli, è una donna sola, vive in una casa fatiscente e continuerà a farsi sfruttare pur di badare a tutti”. Lei e i suoi bambini, i nostri bambini, sono il simbolo del fallimento totale del sistema Italia. Ricordiamocelo in vista della Giornata Internazionale Contro la Tratta di Esseri Umani (30 luglio). Ricordiamocelo quando i leader di tutti i partiti invieranno - come ogni anno - messaggi di circostanza. La realtà è fatta di donne, uomini, bambine e bambini in carne e ossa e come li ho visti io sono visibili a tutti: istituzioni per prime che da anni tollerano abusi e violazioni sistematiche. La XIII edizione del rapporto “Piccoli Schiavi Invisibili” diffusa ieri e realizzata con Save The Children denuncia un sistema che di fatto viola ogni giorno il diritto alla salute e all’educazione di minori e adolescenti figli di braccianti che ho incontrato. Eppure restano sempre bambini, trovano il bello anche nell’inferno in cui vivono. Chiedo al primogenito di Rani cosa vuole fare da grande: “Il carabiniere”. Migranti. Imprese a caccia di lavoratori per il Pnrr: e il governo rivede la Bossi-Fini di Francesco Grignetti La Stampa, 27 luglio 2023 Visti concessi anche agli stranieri senza contratto, purché dipendenti di aziende italiane all’estero salta un pilastro della legge, obiettivo 500mila ingressi in 3 anni. I dem: sposano le nostre proposte. Sorpresa: per la maggioranza la legge Bossi-Fini è un inciampo. Quello che è stato un tabù per molti anni, ma che già il potente sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, dava per “superata e invecchiata” diverse settimane fa, è picconato da un emendamento di Tommaso Foti, il capogruppo di Fratelli d’Italia. Secondo la proposta di Foti, votata in commissione alla Camera addirittura all’unanimità, andrà concesso il visto di ingresso per lavoro in Italia agli stranieri che sono stati dipendenti di aziende italiane operanti in Paesi extracomunitari per almeno 12 mesi nei precedenti 4 anni. È un notevole strappo perché il caposaldo della Boss-Fini è che non si può entrare senza contratto di lavoro già stipulato. Un paradosso, perché non si capisce come sia possibile che uno straniero, mai passato prima per l’Italia, possa avere un contratto di lavoro. La legge concedeva ingressi “al buio” solo per figure professionali altamente specializzate come i docenti universitari. Ora si introduce la possibilità anche per figure di livello professionale inferiore. Unico limite: che siano stati dipendenti di società italiane operanti in Paesi extracomunitari. La sorpresa per l’emendamento da parte del centrosinistra è espressa da Matteo Mauri, Pd, già viceministro all’Interno ed esperto di immigrazione: “Pensavo che l’emendamento fosse stato presentato da un collega di centrosinistra perché avevamo sollevato noi il tema della necessità di allargare le possibilità di ingresso legale in Italia. Vedo con piacere che il governo fa la faccia feroce, descrivendo l’immigrazione come una sostituzione etnica, poi agisce in modo incoerente anche se in modo giusto, e per noi va bene così”. La novità è figlia di un’esigenza molto concreta che il governo di destra-centro ha recepito con una buona dose di pragmatismo. “Se una azienda italiana ha bisogno di personale specializzato che ha formato all’estero, è giusto che possa farlo venire in Italia, specie ora che c’è bisogno per realizzare le opere del Pnrr”, spiega Foti. È quanto scrive anche nella relazione che accompagna la proposta. Siccome per le grandi opere previste dal Pnrr, e su cui sono impegnate grandi imprese del settore, serve manodopera specializzata, ecco la necessità di far arrivare anche quegli operai operanti in Paesi extracomunitari “nell’ottica di favorire, con le procedure semplificate di ingresso previste dal regolamento di attuazione del Testo unico Immigrazione, i fabbisogni di manodopera rilevati dai settori, quale ad esempio quello dell’edilizia, con la garanzia della loro occupabilità nelle imprese italiane, tenuto conto che, per i suddetti lavoratori, è stata già testata competenza lavorativa e affidabilità degli stessi”. La richiesta arriva ovviamente dalle imprese del settore e il governo, attraverso l’emendamento del capogruppo di FdI, l’ha fatto proprio. Tutto per non frenare l’attuazione del Pnrr. Lo strappo sui principi fondanti della Bossi-Fini, insomma, c’è. E d’altra parte che le cose con il governo Meloni stiano cambiando sul versante dell’immigrazione è chiaro da settimane. C’è quel decreto-flussi che prevede ben 500mila ingressi legali nel giro di tre anni. C’è l’annuncio di una trattativa bilaterale con il Bangladesh per uno scambio tra ingressi legali e riammissione di clandestini. In fondo, come dice il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che è una voce pesante di FdI, “bisogna cercare di regolamentare un afflusso di persone che vogliono venire a lavorare nel nostro Paese. Persone di cui il nostro Paese ha bisogno, che può poi trattare nel modo migliore, e inserire in un modo che finora né centrodestra né centrosinistra hanno dimostrato di saper fare”. C’è insomma l’ambizione di governare una fase nuova. Il dem Mauri a questo punto ha però chiesto di allargare ulteriormente le maglie di ingresso legale in Italia. Una richiesta avanzata anche da M5S e da Italia Viva con Maria Elena Boschi. E su questo c’è stata una schermaglia con Alessandro Urzì, capogruppo Fdi in Commissione Affari costituzionali. Urzì: “Cogliamo lo spirito positivo del sì delle opposizioni, che così facendo dicono sì alla linea del governo”. Mauri: “Non sposiamo la linea del governo, rileviamo che il governo è sulla nostra”. Ma queste, appunto, sono schermaglie dialettiche. Foti spiega così alla Stampa perché ha presentato il suo emendamento: “È strategico soprattutto per l’edilizia e le società italiane che realizzano le grandi infrastrutture, tenuto conto della ristrettezza dei tempi imposti dal Pnrr”. Il famoso bagno di realtà impone al governo di abbandonare impostazioni ideologiche, del tipo portare nei cantieri delle grandi opere gli “occupabili” che al momento beneficiano del reddito di cittadinanza, e lo costringe ad ascoltare la voce di chi gestisce davvero i cantieri e incredibilmente non poteva fare affidamento su personale già formato e rodato in altri cantieri, ma soltanto perché fuori dai confini dell’Unione europea. Le politiche repressive non fermano l’immigrazione clandestina di Maurizio Turco e Irene Testa* Il Dubbio, 27 luglio 2023 Con la conferenza internazionale di fine settimana la Presidente del Consiglio ha definitivamente confermato di essere una leader europeista. Giorgia Meloni sta portando avanti la politica dell’Unione europea di dialogo con paesi autoritari che, in cambio di denaro, sono o dicono di essere, disposti a fare quello che ci serve. È una politica vecchia, connaturata con l’idea che ha l’Ue di cooperazione con i paesi terzi. E lo sta facendo meglio di chi l’ha preceduta, finora l’Ue si è accontentata di generiche promesse, Giorgia Meloni ha fissato almeno un paletto: fermare l’immigrazione clandestina. Fatte queste premesse, alcune puntualizzazioni Il partigiano Enrico Mattei, da cui il piano voluto dalla Presidente del Consiglio, diciamo che c’entra solo in parte con il Piano Meloni, forse sull’energia. Forse. Per il resto certamente no. E anche il Piano Meloni ha poco a che fare con l’aiuto all’Africa, ai cittadini africani perché non abbiano bisogno di emigrare anche a costo della vita. È evidente, logico e scontato che i soldi che vengono dati, per esempio all’autocrate Saied, non finiranno nelle tasche dei cittadini tunisini né saranno utilizzati per creare sviluppo al fine di superare ragioni e necessità di coloro che attendono di raggiungere illegalmente l’Italia. Gli aspiranti emigranti finiranno in luoghi che non possono nemmeno essere definite carceri, nulla di comparabile con le peggiori carceri europee. Saranno oggetto di violenze inaudite, alcuni saranno uccisi. Per non dire di chi sarà lasciato morire di fame e sete nel pieno del deserto. No, questa non è una politica degna nemmeno dell’Unione europea, ma questa è la politica dell’Unione europea. Noi crediamo che sia sbagliato l’approccio della Presidente Meloni nel momento in cui l’obiettivo è l’immigrazione clandestina. Il Partito Radicale e Marco Pannella in particolare, avevano già dal 1979 denunciato il dramma dello sterminio per fame nel mondo e accusato i governi dei paesi “ricchi” di rendersi di fatto complici del nuovo olocausto, essendo la malnutrizione nel mondo più il frutto di un vero e proprio “disordine economico internazionale” che di una penuria di alimenti. E proposto che si restituissero quelle persone condannate a morte “vivi allo sviluppo” attraverso un intervento straordinario per salvarli dalla morte certa e intanto creare sviluppo in quelle aree, anche attraverso il sostegno alla delocalizzazione di aziende italiane. D’altronde, mentre nel 1945 l’Africa era esportatrice netta di prodotti cerealicoli alimentari, nel 1979 era (ed è) costretta ad importarli. Nel pieno di quella iniziativa politica - segnata in particolare dal Manifesto appello dei Premi Nobel contro lo sterminio per fame, sete e guerra nel mondo - che Pannella preconizzo l’arrivo di migliaia di disperati dall’Africa sub sahariana in Europa. È necessario un piano di aiuti straordinario gestito dai donatori e rivolto direttamente a chi ne ha bisogno; e un piano per lo sviluppo delle aree sottosviluppate. La politica di dare i soldi ai dittatori per stabilizzare alcune aree ha fallito. E se avesse stabilizzato quelle aree con la repressione anziché con politiche di libertà, sarebbe stata un fallimento maggiore. Servirebbe una conferenza internazionale per l’affermazione dello Stato di diritto democratico federalista laico. Ma si continuano ad agitare finte emergenze, come quella dell’immigrazione clandestina che è la nuova stabilità in un pianeta pieno di gente che soffre la mancanza di pane e di acqua, di diritto e di diritti. *Segretario e Tesoriere Partito Radicale Droghe e trattamenti farmacologici: disparità fra Regioni e mancanza di dati sulle carceri droghe.aduc.it, 27 luglio 2023 Il governo ha finalmente presentato - 19 giorni dopo la scadenza prevista del 30 giugno, ai sensi del DPR 309/1990 - la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia (dati 2022). Si tratta di un documento di 539 pagine, ricco di dati. Abbiamo scelto di concentrarci su quelli relativi ai trattamenti farmacologici attuati dai Servizi per le Dipendenze (Serd) fuori e dentro le carceri. Rispetto alla prima casistica, la Tabella di pag. 321 è confortante in termini assoluti (il 78% delle prestazioni dei Serd riveste carattere farmacologico, oltre 12 milioni di prestazioni totali) ma sconfortante rispetto alle differenze abissali esistenti fra le varie Regioni: si va dal 13% di trattamenti farmacologici effettuati nella Provincia Autonoma di Trento al 77,1% nella Provincia Autonoma di Bolzano, dal 17,2% nel Lazio al 96,6% in Campania. Rispetto ai trattamenti dei Serd in carcere, si riscontra una mancanza di dati corretti e completi, ammessa dagli stessi autori della Relazione: “L’informazione sui trattamenti erogati è disponibile per 16.258 assistiti, pari al 76% del totale detenuti in carico per uso di sostanze stupefacenti … Il dato sui trattamenti erogati ai detenuti tossicodipendenti è piuttosto frammentario e riferito a 13 regioni, per alcune delle quali l’informazione è parziale (Liguria, Marche, Campania e Sardegna) … (pag. 364/365)”. Il governo si è preso tutto il tempo a sua disposizione, anzi di più, per presentare la Relazione al Parlamento; ha avuto oltre sei mesi di tempo per richiedere ed ottenere da tutte le Regioni i dati del 2022. Non lo ha fatto e, quindi, le valutazioni su dati quantitativamente inadeguati sono anch’esse inadeguate. Ciò premesso, assistiamo anche qui a enormi differenze regionali: in Lombardia nessun detenuto tossicodipendente è stato sottoposto a trattamento unicamente farmacologico, in Basilicata il 100% degli utenti ha ricevuto quel trattamento (Tabella di pag. 365). Dati molto più confortanti sono quelli dei trattamenti integrati (farmacologico + psicosociale), ma non compaiono i dati di cinque regioni e delle due Province Autonome (Tabella di pag. 368). Il dato positivo è che il numero dei detenuti td. con trattamento unicamente farmacologico (1.957) sommato al numero dei detenuti td. Con trattamento integrato (8.871) dà un totale di 10.828 persone, un numero di tutto rispetto se rapportato ai 16.845 detenuti td. totali (il 30% dei detenuti complessivi, un picco che era stato raggiunto solo trent’anni fa). Sicuramente vi è stato un aumento dei trattamenti farmacologici in carcere rispetto agli anni passati. Si tratta di dati che saranno molto utili ai cittadini che visiteranno prossimamente le carceri italiane grazie all’iniziativa di Radicali Italiani “Devivedere.it”. Lo dichiarano in una nota Massimiliano Iervolino-Segretario Radicali Italiani-Giulio Manfredi- Giunta Radicali Italiani-Lorenzo Iorianni-Coordinatore Campagna “Devi Vedere” Migranti, in alto mare: stop al piano Ue di Marco Bresolin La Stampa, 27 luglio 2023 Austria e i Paesi di Visegrad rimettono in discussione il Patto migrazione Ue. Scontro sulle deroghe in caso di crisi gravi: rinviata l’approvazione definitiva. Si complica il percorso di approvazione della riforma del Patto migrazione e asilo, attualmente in discussione ai tavoli dell’Unione europea. Ieri era atteso il via libera dei governi all’ultimo provvedimento del pacchetto, ma c’è stata una brusca frenata: non un semplice incidente di percorso, ma uno stop potenzialmente in grado di far deragliare l’intera riforma sulla quale, all’inizio di giugno, i 27 avevano trovato un’intesa definita “storica”. A far saltare il banco è stato il regolamento che fissa le disposizioni da far scattare in caso di crisi migratoria - per andare incontro agli Stati più esposti ai flussi - in particolare la parte relativa alla gestione dei flussi in caso di “strumentalizzazioni” da parte di Paesi terzi. Il voto contrario dei governi di Visegrad (e dell’Austria), unito all’astensione (per motivi opposti) di Germania e Paesi Bassi, ha fatto saltare l’intesa sulla proposta di compromesso avanzata dalla presidenza di turno spagnola e sostenuta anche dal governo italiano. Lo stop è arrivato durante l’ultima riunione del Coreper, l’organo in cui siedono gli ambasciatori dei 27 Stati membri. Tutto rimandato alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva, anche se l’iter rischia di trovare altri ostacoli. L’intesa raggiunta sugli altri regolamenti un mese e mezzo fa ha permesso di avviare i tavoli negoziali con il Parlamento europeo al fine di trovare una posizione comune e adottare così i provvedimenti in via definitiva entro la legislatura. Ma gli Stati membri non hanno ancora raggiunto un accordo sull’ultimo regolamento - quello che riguarda appunto le situazioni di crisi - e questo rischia di complicare le altre trattative: i negoziatori dell’Europarlamento non intendono dare il via libera definitivo al resto del pacchetto fino a quando non ci sarà una chiara posizione dei governi sul regolamento per le crisi. La palla ora è nelle mani della presidenza spagnola che dovrà lavorare a un nuovo compromesso e ottenere il sostegno necessario dei governi per andare al tavolo negoziale con il Parlamento. Ma lo stallo politico interno dovuto alle elezioni non sarà certo d’aiuto al governo Sanchez, che resta in carica ma senza la piena legittimazione. Inoltre bisogna fare i conti con il fatto che il governo di Mark Rutte è caduto proprio sulla questione migratoria e difficilmente l’esecutivo dell’Aia prenderà una posizione chiara su questi dossier prima delle elezioni del 22 novembre. Il regolamento relativo alle “situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione” era stato presentato dalla Commissione all’interno del Patto. In sostanza puntava a stabilire una serie di deroghe da far scattare in caso di forti flussi migratori per andare incontro ai Paesi più esposti. Il Parlamento europeo aveva proposto l’introduzione di un sistema di ridistribuzione obbligatoria. Il sistema delle quote vincolanti non era incluso nel regolamento iniziale della Commissione ed è stato subito respinto dal Consiglio. Il compromesso portato al tavolo dalla presidenza spagnola prevedeva invece la possibilità - in determinate situazioni - di derogare ad alcuni oneri previsti dalla procedura di frontiera, oppure di interrompere il trasferimento dei cosiddetti “dublinanti” verso gli Stati di primo approdo. Ma a far saltare l’accordo è stata soprattutto la decisione di far resuscitare all’interno di questo regolamento quello relativo alle “strumentalizzazioni”, proposto a suo tempo dalla Commissione e poi affossato. L’idea era di far scattare le deroghe non soltanto in caso di “crisi o forza maggiore”, ma anche in caso di “strumentalizzazione” da parte di Paesi terzi. Ossia quando determinati Stati extra-Ue utilizzano i migranti come “arma” per fare pressioni sui confini degli Stati membri: un esempio su tutti è quello della Bielorussia che ha spesso incentivato i flussi di migranti verso la Polonia, la Lettonia e la Lituania. Ma potrebbe applicarsi per esempio anche alla Turchia di Erdogan o, perché no, alla Tunisia di Saied. Il Paese nordafricano è nel mirino di alcuni Stati Ue proprio a causa del mancato rispetto dei diritti dei migranti. Un problema che - secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - non esiste, come ha spiegato nell’intervista pubblicata ieri da “La Stampa”. Quello delle “strumentalizzazioni” è un concetto giuridicamente controverso perché legato a una valutazione di tipo politico e infatti nei giorni scorsi è stato lanciato un appello sottoscritto da diverse Ong. “Se adottata - si legge nel documento - la proposta avrebbe un significativo effetto negativo sui diritti fondamentali delle persone che cercano protezione in Europa”. Argomentazioni condivise anche dal governo tedesco, in particolare dai Verdi, che per questo motivo si è astenuto. La “scelta” tunisina: la morte nel deserto o la deportazione di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 27 luglio 2023 “Non ci sarà nessun passo indietro”. In occasione della festa della Repubblica e nell’anniversario del colpo di forza del 25 luglio 2021 con cui si è garantito il controllo totale della Tunisia, il presidente della Repubblica Kais Saied ha voluto rincuorare i suoi concittadini. Forte di un consenso popolare ancora forte, con cinque parole pronunciate durante un giro di approvazioni per le vie centrali di Tunisi, il responsabile di Cartagine si è mostrato convinto delle sue decisioni al netto di una situazione catastrofica che sta interessando il paese a livello economico, sociale e soprattutto migratorio. Una foto immortala Saied scambiare qualche battuta con due persone di origine subsahariana nella medina della capitale. La stessa origine di coloro che da quasi un mese si sono visti togliere tutto ed essere gettati lungo il confine libico e algerino senza risposte ma anche senza acqua e cibo. Dal 2 luglio scorso le forze di sicurezza tunisine si sono rese protagoniste di vere e proprie campagne di arresti di massa di cittadini originari dell’Africa subsahariana e del Sudan nella città di Sfax, secondo centro del paese e punto principale della rotta tunisina verso Pantelleria e Lampedusa. Da allora più di mille persone sono state caricate su dei bus e lasciate letteralmente a loro stesse in zone militarizzate e desertiche. Le ultime ricostruzioni parlano ancora di quasi mille persone ancora bloccate in quella terra di nessuno. In un gioco delle parti solo all’apparenza inspiegabile le autorità libiche, le stesse accusate di ogni tipo di violazione dei diritti umani, hanno cominciato a diffondere immagini di salvataggi lungo il deserto. Tra di loro ci sono genitori con bambini e neonati in braccio e donne incinte che per giorni non hanno bevuto una sola goccia d’acqua. Altre foto riportano la morte di almeno cinque persone rintracciate sempre dalle cosiddette forze di sicurezze della Libia. La causa è la forte disidratazione con le temperature che in questi giorni in quell’area hanno superato i 50 gradi. Gli unici altri attori che hanno accesso alla frontiera libica sono la Croce rossa tunisina e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim): “Ieri Oim Libia ha provveduto a fornire assistenza umanitaria a 400 persone al confine con la Tunisia. Con l’aiuto della Croce rossa libica, l’Oim ha garantito cibo e acqua potabile in una risposta congiunta con l’Unicef”, si legge in un tweet del 24 luglio dell’Oim con alcune foto a corredo dei pacchi di cibo con sopra la bandiera dell’Unione europea. La stessa istituzione che domenica 16 luglio ha concluso un memorandum d’intesa con il presidente Saied senza che venissero mai citate le deportazioni di massa ancora in corso in Tunisia. Nel frattempo, mentre la scorsa settimana ha registrato il dato più alto di sempre per quanto riguarda le partenze dal piccolo Stato nordafricano (7.359, fonte Ispi), comincia a emergere la logica dietro a questi respingimenti che hanno portato a decine di morti. Sono centinaia le persone che dal deserto sono state poi ricollocate in alcune città del sud tunisino come Ben Gardane, Tataouine e Médenine e sistemate in alcuni centri dell’Oim, scuole o anche fabbriche abbandonate. Come a Médenine dove 80 persone nei giorni scorsi si sono trovate in un luogo pattugliato da alcuni agenti della Garde Nationale. All’interno alcuni materassi sporchi gettati a terra e due punti di registrazione organizzati dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Tra le varie domande poste ce n’è una in particolare: “Vuoi procedere con il ritorno volontario nel tuo paese?”. Una risposta che dopo giorni passati a subire lanci di gas lacrimogeni da parte delle autorità tunisine, pestaggi, furti di soldi e telefoni e senza bere un goccio d’acqua sembra all’apparenza scontata. Alla situazione migratoria va aggiunta la crisi climatica, altro fattore di grande instabilità per la Tunisia. Migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case nella zona di Tabarka, nel nord ovest del paese, per alcuni imponenti incendi divampati in un primo momento in Algeria. Stati Uniti. Che fine ha fatto Chico Forti: da detenuto a fantasma di Andrea Ruggieri Il Riformista, 27 luglio 2023 60 anni, ha passato più di un terzo della sua vita in carcere, sempre professandosi innocente. Eppure un annuncio del Ministro Di Maio di tre anni fa scacciava via ogni pessimismo. “Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia”. È il 23 dicembre 2020, e l’annuncio trionfale è di Luigi Di Maio, ai tempi Ministro degli Esteri italiano, che su Facebook sembra mettere la parola fine a un’odissea, quella di Chico Forti, velista e produttore televisivo italiano, che dura dal 1998, quando a Miami inizia il suo incubo che lo tiene in carcere da 23 anni. “L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio - scrive Di Maio. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia. Si tratta di un risultato estremamente importante, che premia un lungo e paziente lavoro politico e diplomatico”, conclude Luigi Di Maio. Evviva. Perché il caso di Chico Forti è pieno di ombre, e sta a cuore di molti italiani. In più, se ne occupano trasmissioni assai popolari, e dunque riportarlo in Italia, sia pur a scontare il resto della pena, è occasione anche di popolarità e consenso. La vicenda - Chico Forti era stato accusato tra mille ombre investigative prima, e processuali poi, nel 1998 per l’omicidio premeditato di Dale Pike, figlio di Antony Pike, dal quale Forti stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza: Dale viene assassinato e trovato cadavere su una spiaggia di Miami il 15 febbraio 1998. A giugno 2000 Chico incassa la condanna del Tribunale della Florida: ergastolo senza benefici, e dunque carcere. Sentenza, questa, che nel 2010, all’ennesimo ricorso respinto, diventa definitiva. Passano gli anni, lui è detenuto in un carcere di massima sicurezza in Florida, e l’Italia non riesce a ottenere la revisione del processo americano, anche se persino i familiari della vittima escono nel frattempo allo scoperto dichiarando apertamente le loro perplessità circa la colpevolezza di Forti (lo fa il padre, Tony Pike, ora deceduto, al Tg5, una decina di anni fa, e lo farà il fratello della vittima, alle Iene, un paio di anni fa). Detenuto fantasma - Ma quando Chico ha ormai 60 anni, e ha passato più di un terzo della sua vita in carcere, sempre professandosi innocente, l’annuncio del Ministro Di Maio squarcia ogni pessimismo: l’incubo è finito, prepariamo le bandiere. Eppure, passano da allora due anni, e il 1° giugno 2022 io stesso interrogo in un Question Time Luigi Di Maio, al quale chiedo novità dopo l’annuncio trionfale cui non segue nulla; lui mi assicura che il Governo non avrebbe lasciato solo Chico Forti e avrebbe fatto di tutto per riavvicinarlo ai suoi cari. Però a oggi, dopo più di tre anni, di Chico Forti in Italia non si vede nemmeno l’ombra: da detenuto a fantasma. E lo stesso Di Maio, dopo l’iniziale entusiasmo, è costretto a definire il suo rientro operazione complessa. Ma perché, se il governatore della Florida, Ron De Santis, aveva firmato l’atto di trasferimento in base alla convenzione di Strasburgo sul trasferimento da condannato? Il timore è che Chico Forti sconti sulla sua pelle l’imminente campagna elettorale per la Casa Bianca, che vede il Governatore De Santis impegnato in una difficile primaria contro Donald Trump, rianimato dall’aggressione giudiziaria di qualche procuratore democratico, e un precedente consumato nel 1999 dal Governo D’Alema, con Mauro Diliberto Ministro della Giustizia. Il caso Baraldini - Allora, c’era da riportare in Italia Silvia Baraldini, membro delle Black Panters, organizzazione criminale che si batte per i detenuti afroamericani. Silvia è stata condannata a 22 anni di reclusione per associazione sovversiva, ed è detenuta da vent’anni negli Stati Uniti. Sono i mesi successivi alla strage del Cermis. Il Governo italiano chiude un accordo con quello americano: la Baraldini torna in Italia a scontare il residuo pena. Ma alla Baraldini è stato assicurato che lei torna in Italia e un secondo dopo liberata. Tanto che lei stessa, letto il memorandum di trasferimento, non vuole apporre la sua firma sull’accordo, anche perché c’è nell’aria che possa rientrare nel giro di grazie di fine mandato di Bill Clinton, Presidente americano uscente di lì a pochi mesi. Silvia viene convinta a firmare dagli emissari del Ministero della Giustizia italiano (“una soluzione in Italia la troviamo, tranquilla”), appena atterrata in Italia viene esibita a Ciampino a mo’ di trofeo, tra bandiere rosse festanti (a proposito di rientri alla Patrick Zaki, quelli sì strumentalizzati, ma dalla sinistra), e reclusa a Rebibbia, poi comincia una detenzione domiciliare che fa storcere il naso agli americani perché non prevista dall’accordo di trasferimento, e alla fine esce grazie all’indulto e a una incompatibilità con la detenzione dovuta a una severa malattia che l’aveva colpita. Speriamo questo non ricada su Chico Forti, ma certo quando a sinistra si parla di ipotetiche strumentalizzazioni del rientro di Zaki, prima di aprire bocca penserei se non sia il caso di tacere. Ecuador. 31 detenuti morti dopo la rivolta nel carcere di Guayaquil ansa.it, 27 luglio 2023 La sommossa è iniziata dopo che il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza per tutti i penitenziari del Paese in seguito agli scontri che hanno causato almeno 420 vittime nei penitenziari dal 2021. Almeno 31 morti e 14 feriti nella prigione di Guayaquil, in Ecuador: è il bilancio della ribellione dei detenuti iniziata sabato quando il Governo ha proclamato lo stato di emergenza per 60 giorni dopo le sanguinose rivolte che dal 2021 hanno causato almeno 420 vittime nelle carceri ecuadoriane. Di queste molte sono state decapitate o bruciate vive. Gli scontri sarebbero tra due bande legate ai trafficanti di droga. Nella notte ripreso il controllo del carcere - Le forze di sicurezza dell’Ecuador hanno messo fine a quattro giorni di rivolte nel carcere El Litoral della città di Guayaquil, 270 chilometri a sud-est della capitale Quito, riprendendone il controllo completo. Il bilancio finale è di 31 detenuti morti e 14 feriti. Il portale di notizie Primicias riferisce che le bande criminali che si sono affrontate per il controllo dei traffici nei nove padiglioni del carcere sono Los Lobos e Tiguerones. Militari e polizia sono entrati nella prigione per ristabilire l’ordine e cercare armi, munizioni, esplosivi e altri oggetti illegali usati nelle battaglie in corso. El Litoral è considerato il centro di detenzione più violento dell’Ecuador: negli ultimi 28 mesi ci sono stati 14 diversi episodi violenti. Ha una capacità di circa 9.500 detenuti, ma nel primo trimestre del 2023 ha superato questo numero di quasi 3.000 unità. Disordini anche in altri penitenziari - Intanto, i prigionieri di altre 13 carceri hanno dichiarato uno sciopero della fame e tengono in ostaggio 96 guardie carcerarie per chiedere, tra le altre questioni, migliori condizioni sanitarie e cibo. Dichiarato lo stato di emergenza - Martedì l’Ecuador ha annunciato lo stato di emergenza in tutte le sue carceri dopo una serie di incidenti violenti, tra cui sparatorie ed esplosioni, avvenuti in uno dei suoi penitenziari più pericolosi. È il secondo stato di emergenza che il presidente Guillermo Lasso ha ordinato in meno di 24 ore e sarà in vigore per 60 giorni. La misura prevede la mobilitazione dell’esercito e della polizia nel tentativo di riprendere il pieno controllo delle carceri. Lunedì, Lasso ha firmato un decreto che stabilisce un analogo stato di emergenza nelle province di Los Ríos e Manabí dopo l’uccisione del sindaco della città di Manta, Agustín Intriago, un evento che ha sconvolto la popolazione locale. L’annuncio arriva dopo gli scontri scoppiati nel carcere di El Litoral sabato pomeriggio e degenerati nelle prime ore di domenica, con colpi di arma da fuoco ed esplosioni uditi dagli abitanti delle zone residenziali vicine.