Neutralizzare il Garante dei detenuti, ecco il piano dei meloniani di Angela Stella L’Unità, 26 luglio 2023 Non potendo cancellarlo, come sarebbe piaciuto a tanti nel governo, si prova a renderlo innocuo affidando la tutela dei diritti dei detenuti a un civilista, a un docente di diritto comparato e a un magistrato di sorveglianza in là con gli anni. Come neutralizzare la missione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale? Scegliendo la terna che, come ha riferito Liana Milella su Repubblica, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbe portato all’attenzione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella la scorsa settimana. Stiamo parlando di Felice Maurizio D’Ettore, ordinario di diritto privato a Firenze, che dovrebbe essere il presidente del Collegio, affiancato da Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, e da Mario Serio, Professore ordinario di Diritto Privato Comparato nell’Università di Palermo dal 1994. Persone vicino al Guardasigilli raccontano che la scelta non sarebbe dipesa solo dal Guardasigilli, ma avrebbe ricevuto indicazioni dal partito che poi lo ha fatto eleggere, ossia Fratelli d’Italia, e da Forza Italia, senza lasciare alcuna casella per le opposizioni e quote rosa. Infatti D’Ettore dopo una esperienza politica nel Popolo delle Libertà e in Coraggio Italia, a settembre dell’anno scorso passa nelle file del partito di Giorgia Meloni. Esposito è stato consigliere comunale con FdI e Mario Serio fu componente eletto dal Parlamento del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 1998-2002 in quota Forza Italia. Insomma, a preoccuparsi dei diritti dei detenuti, degli immigrati nei Cpr e hotspot, degli internati nelle Rems, dei ricoverati nelle Rsa e dei disabili ci penseranno un civilista, un ex magistrato di sorveglianza vicino agli ottant’anni - forse troppi per girovagare per l’Italia a fare ispezioni come l’attuale Collegio di Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela De Robert - e un comparativista esperto di common law inglese. Come ha ricordato il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, “ogniqualvolta si debba nominare un’autorità nel campo dei diritti umani (e vi rientra chi si occupa di diritti delle persone private della libertà, monitoraggio dei luoghi detentivi, prevenzione della tortura), così come le stesse Nazioni Unite hanno ampiamente specificato nel tempo, si deve guardare esclusivamente alla competenza specifica, all’esperienza e all’indipendenza. Non dovrebbero mai contare le appartenenze politiche o partitiche. Il campo dei diritti umani deve essere sottratto a spartizioni o manuale Cencelli”. Nessuno inette in dubbio la preparazione e cultura dei tre prescelti - Via Arenula non ha smentito Repubblica - ma ci chiediamo come potranno portare avanti l’obiettivo principale del Garante ossia “vigilare affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia”. Occorre un bagaglio culturale specifico, basta vedere i curriculum vitae dell’attuale Collegio. Sorge quindi il dubbio che il Governo, non potendo cancellare la figura del Garante, come richiesto dalla Lega, abbia scelto tre figure pronte a inibire quello che il magistrato Riccardo De Vito in un suo articolo pubblicato su Questione Giustizia ha definito “un patrimonio indiscusso della Repubblica” per il suo molo nella prevenzione delle possibili violazioni dei diritti delle persone private della libertà. Pensiamo solo al reato di tortura: Fratelli d’Italia a inizio legislatura ha proposto un ddl per cancellarlo mentre Mauro Palma ha detto che sarebbe “un rischio grave e assolutamente da evitare”. La domanda è: i due eventuali nuovi membri del Collegio, in quota Fdi, che atteggiamento avranno nei confronti di detenuti che denunciano torture? Faranno come previsto dalle funzioni, ossia scrivere “un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni” e “inoltrarlo alle autorità competenti”, compresa la magistratura? La domanda chiave è: i diritti dei ristretti saranno garantiti o su di loro cadrà l’oblio? Chi avrebbe assicurato una luce su quei luoghi oscuri, lontani dal dibattito democratico, sarebbe stata la radicale Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, che voci di corridoio dicono fosse, a questo punto paradossalmente, nei desiderata di Nordio. Oltre 80 docenti hanno firmato un appello a suo favore ma si rincorrono le ipotesi sul perché sia stata scartata: per la sua condanna a 2 mesi e 20 giorni per le disobbediente civili accanto a Marco Pannella per la legalizzazione della cannabis, per i cattivi rapporti con l’attuale segretario generale della presidenza della Repubblica Ugo Zampetti, per le sue visite in carcere insieme a esponenti di Casapound, per un possibile veto del Partito Democratico, smentito però da uno dei colonnelli dem. Forse non lo sapremo mai ma quello che resta è un giallo che l’ex parlamentare ha condiviso ai microfoni di Radio Radicale: “Io sono stata audita dal capo di gabinetto di Nordio, Alberto Rizzo, nel mese di febbraio e ho avuto con lui una conversazione di un’ora che mi sembrava essere andata molto bene. La prima domanda che mi ha fatto è: “Come mai vorrebbe far parte dell’ufficio del garante?”. E io gli ho risposto: “Perché fondamentalmente già lo faccio”; basti dire che dall’inizio dell’anno con Nessuno tocchi Caino abbiamo visitato oltre sessanta istituti penitenziari, evidenziando tutte le criticità che via via incontriamo. Dopodiché è accaduto che mi è arrivata un’e-mail dal capo di gabinetto in cui si esplicitava la designazione e si richiedeva la documentazione, tipo il documento d’ identità e tutto il resto. Però a distanza di trentasei ore mi arrivava un’altra e-mail in cui, senza troppe spiegazioni, mi si diceva che quella precedente era stata annullata, per cui evidentemente qualche intoppo c’è stato”. Inoltre la sua condanna era inserita nel cv e l’ha anche rivendicata in sede di colloquio, ma questo non aveva impedito a Via Arenula di promuoverla per poi silurarla senza motivo. Anche perché diversi Garanti locali sono ex detenuti, anche condannati per terrorismo, e comunque possono svolgere quel molo. Tutto questo solleva però anche un altro interrogativo: dov’è finita la sensibilità di Nordio per le carceri? È l’ennesima contraddizione del Ministro: prima ha elogiato Carlo Renoldi e poi lo ha rimosso da capo del Dap, prima si è detto contrario all’ergastolo e poi, nella prima conferenza stampa, ha presentato quello ostativo, prima ha detto di essere favorevole a depenalizzazioni e poi appoggia l’introduzione di nuovi reati con la nonna anti rave party, ora condividendo o non imponendosi contro questa terna, sminuisce la figura del Garante. Eppure in una conversazione con Marco Pannella e Massimo Bordin del 2012, Carlo Nordio si pronunciò addirittura a favore dell’amnistia. Comunque si attende il Cdm - oggi o la prossima settimana forse - durante il quale il responsabile di Via Arenula porterà la terna per l’approvazione, che poi verrà mandata per pareri non vincolanti alle commissioni giustizia di Camera e Senato. A sentire alcuni parlamentari, il passaggio sarà puramente formale perché non ci saranno scontri, visto che se ne prevedono già altri sui dossier più caldi che dovranno affrontare. Intanto gira voce che qualche dipendente dell’ufficio del Garante stia pensando di chiedere di essere destinato altrove, un pre-ammutinamento, potremmo dire. Garante dei detenuti. La destra contro Rita Bernardini: è troppo liberale e disobbediente di Piero Sansonetti L’Unità, 26 luglio 2023 Vuoi lottizzare i consigli di amministrazione delle aziende partecipate dallo Stato? E lotizzale, va bene. Vuoi lottizzare la Rai dicendo che in fondo è stato sempre così? E lottizzala, anche se certo in questo modo violi il principio del pluralismo. Vuoi lottizzare il Csm e la Corte Costituzionale? Ok, è un modo per rispettare la rappresentanza. Ma le prigioni? Che senso ha lottizzare le prigioni? Nominare il Garante dei diritti dei detenuti è solo un atto di giustizia e di controllo, conta l’esperienza, la passione e la competenza dei candidati. Non può essere un titolo di merito essere dei Fratelli d’Italia o di Forza Italia o di qualche altro gruppo minore della destra. È una follia. Il Garante ha solo il compito ingrato di rendere il meno possibile lontane dai canoni minimi della civiltà le prigioni italiane. Compito arduo assai, visto che l’idea stessa di prigione è di per sé lontanissima dai canoni minimi di civiltà. Me lo disse una volta, durante una intervista, una quindicina d’anni fa, un intellettuale liberal americano di grande prestigio: Gore Vidal. Mi disse: “Lo sai perché io stento a definire gli Stati Uniti una democrazia? Perché tengono tre milioni di persone in prigione”. Vero. Noi avevamo una persona che meglio di chiunque altro poteva svolgere il ruolo del Garante. Si chiama Rita Bernardini. È una allieva di Marco Pannella. La sua allieva preferita. È espertissima, conosce palmo a palmo le carceri italiane, è liberale, garantista, coraggiosa, anticonformista, combattente, molto saggia. Infatti Nordio l’aveva convocata per nominarla. Era andato tranquillo, ad occhi chiusi. Poi è arrivato un veto. Non si sa di chi. E il governo ha deciso di lottizzare l’istituto del Garante, togliendo di mezzo gli esperti e scegliendo alcuni giuristi che di carcere non sanno niente. Li ha scelti sulla base della loro fedeltà politica. Ma qui non si gioca una partita di potere, come in Rai. Si gioca una partita di sopravvivenza del popolo carcerario. Diciamo la verità: questa ignominia di eliminare Rita Bernardini, il centrodestra la può fare solo approfittando della morte di Berlusconi. È una vigliaccata. Garante dei detenuti. Nordio sceglie un candidato incompatibile e sbatte la porta al Pd di Liana Milella La Repubblica, 26 luglio 2023 Il Guardasigilli accelera sul cambio di Mauro Palma: domani il dossier in cdm. L’opposizione denuncia l’assenza di donne nella composizione del nuovo ufficio. Decisamente il ministro della Giustizia Carlo Nordio è sfortunato quando si occupa di carcere. Mette piede in via Arenula e si moltiplicano i suicidi nelle galere, poi la grana di Cospito, e a seguire le violazioni del segreto del sottosegretario Delmastro. Adesso doppio errore, prima politico e poi tecnico, sul futuro Garante delle persone private della libertà, volgarmente detto Garante dei detenuti. Dove commette uno svarione dopo l’altro. Vediamoli allora: coinvolgono la radicale Rita Bernardini, il Pd e le donne, visto che le esclude dal vertice del Garante. E come non bastasse sceglie pure un possibile candidato incompatibile con l’incarico. Tre uomini su tre posti. La segretaria Dem Elly Schlein e la responsabile giustizia Debora Serracchiani vanno su tutte le furie. Decise a contestare alla premier Meloni un’inaccettabile scelta tutta al maschile. Ma guardiamo gli errori uno per uno. Come ha scritto Repubblica, anticipando la notizia, il ministro della Giustizia è intenzionato a portare la scelta del Garante nel prossimo consiglio dei ministri, probabilmente mercoledì. Lui deve indicare una terna, che poi andrà all’attenzione delle commissioni parlamentari di Camera e Senato. Prima di questo passo, mercoledì scorso sale al quirinale, e lì sciorina il suo elenco. Sono i tre nomi fatti da Repubblica. Tre uomini, mentre oggi con il Garante Mauro Palma ci sono due donne con il ruolo di vice garanti. Al Quirinale Nordio porta tre nomi, il potenziale e futuro Garante Felice Maurizio D’Ettore, ordinario di diritto privato a Firenze. E qui cade il primo asino. Perché le regole ferree della struttura del Garante dicono che il titolare dell’incarico non può essere un dipendente della pubblica amministrazione. D’Ettore avrebbe una sola strada per aggirare l’ostacolo, sottoscrivere un’aspettativa di oltre cinque anni. Per il Pd è “incompatibile”. Ex Forza Italia, passato per Coraggio Italia, approdato poco prima delle elezioni politiche a Fratelli d’Italia. Questo il suo curriculum, in cui non si riesce a trovare nulla che abbia a che vedere con le patrie galere. Tutti uomini dunque, accanto all’ipotetico Garante ecco il professore siciliano di diritto comparato Mario Serio, fortemente sponsorizzato dall’ex pm e procuratore di Palermo Roberto Scarpinato oggi senatore M5S. E infine un magistrato in età assai avanzata, sugli ottant’anni, Carmine Antonio Esposito, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia e poi di Napoli, nonché consigliere comunale nel comune di Brusciano nelle file dei meloniani, “famoso” soprattutto per la sua capigliatura vistosamente tendente al biondo. Ma perché Nordio improvvisamente ha rinunciato alla sua candidatura primigenia, quella di Rita Bernardini, la partner di Marco Pannella che porta avanti la battaglia nelle carceri da una vita ed è presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino? Lei racconta che Nordio non aveva dubbi su di lei, che ha fatto un’audizione con il capo di gabinetto Alberto Rizzo e parla di “un ottimo risultato”, al quale però è poi seguito il silenzio. Come ha scritto sull’Unità, non smentita, la collega Angela Stella, ci sarebbe un neo “politico” per la Bernardini, l’aver criticato, quand’era parlamentare radicale l’attuale segretario generale della presidenza della Repubblica Ugo Zampetti, su cui la Bernardini fece aprire degli atti di sindacato ispettivo in tema di contratti e trasparenza quando rivestiva lo stesso incarico a Montecitorio. Pettegolezzi? Sarà, ma un fatto è certo, il nome della Bernardini cade e da via Arenula fanno notare adesso che lei avrebbe delle condanne penali incompatibili con l’incarico. In realtà Bernardini è stata condannata in tutto a 2 mesi e 20 giorni per le disobbedienze civili per la legalizzazione della cannabis, fatte insieme a Pannella. Nordio comunque si ferma sulla candidatura di Bernardini. Mentre sbatte la porta in faccia al Pd quando propongono la magistrata Maria Grazia Giammarinaro, ex capo di gabinetto di Anna Finocchiaro, ma soprattutto per anni rapporteur delle Nazioni Unite sulla tratta delle donne, una professionista stimata dai colleghi giuristi, considerata un’eccellenza per la sua storia e la sua esperienza. Ma Nordio dice ai dem: “Mi avete attaccato brutalmente sul concorso esterno, adesso non potete pretendere di trattare con me sul Garante dei detenuti. La questione è chiusa. Ma il ministro s’infila nell’ennesimo cul-de-sac. Propone un Garante che non si è mai occupato di detenuti in vita sua ed è forse incompatibile, tranne sacrificare la sua carriera per tutta la durata dell’incarico, sceglie un magistrato di età molto avanzata, che ha legami politici con Fratelli d’Italia. A reggere le sorti dell’ufficio del Garante rimane Mario Serio, sicuramente un professionista eccellente, stimato dei colleghi di destra e di sinistra, che è stato al Csm per conto di Forza Italia nel 1998, e che ha strenuamente difeso al Csm Alessia Sinatra, molestata sessualmente dall’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Ancora una volta, nelle mani di Nordio, la giustizia diventa un caso. Abbiamo cercato il Garante tuttora in carica Mauro Palma per sentire il suo parere, ma da una località sconosciuta dov’è in ferie per qualche giorno ci ha risposto con un “no, grazie”. È nel suo stile istituzionale. Restano negli archivi i suoi sette anni in cui la figura del Garante è divenuta alternativa a quelle del Guardasigilli e del capo delle carceri. Forse per questo via Arenula vuole abbassare i toni. Sinistra Italiana Marche vuole una Garante dei detenuti di Marcello Maria Pesarini Ristretti Orizzonti, 26 luglio 2023 “Servono portatori d’acqua nel deserto dei diritti umani, specie delle persone private della libertà, per questo serve la Bernardini”. Scrivono gli oltre 80 accademici e giuristi firmatari dell’istanza. Sinistra Italiana Marche fa suo l’appello sottoscritto dagli accademici firmatari dell’istanza, conosciuti per il loro impegno civile e umanitario ma soprattutto per il rispetto della Costituzione Italiana, nel campo della Giustizia rappresentato in primis dall’articolo 27 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” Dopo 7 anni di attività svolta da Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela De Robert finiscono il loro mandato. Sinistra Italiana e tutto il mondo del volontariato, laico e cattolico, apprezzano il loro impegno; oltre ad essere personaggi da sempre impegnati in opera di ascolto, ricognizione nelle carceri e nei CPR, sono stati anche propositori di provvedimenti volti a migliorare le condizioni di vita in luoghi, le carceri, spesso eletti a sospensione delle regole. Anche per quanto riguarda la nostra regione l’ufficio del Garante nazionale ha lavorato come interlocuzione con le esperienze provenienti dal territorio volte all’introduzione di tutele lavorative e culturali, interloquendo anche con la Cgil, Sinistra Italiana Marche raccoglie ora l’appello a favore della nomina di Rita Bernardini alla successione di Palma, come ringraziamento per l’impegno da lei sostenuto con Nessuno tocchi Caino, assumendo in sé e nella sua vita il “mondo carcere”. Per dimostrare i pericoli che sono dietro alle nomine già in mente al Ministro Nordio, tutte di appartenenza FDI, è sufficiente mostrare due proposte di modifica, depositate come leggi, da Giorgia Meloni e da Edmondo Cirielli. “La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. “La pena che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, assicura la giusta punizione del reo per il fatto commesso e la prevenzione generale e speciale del reato e deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione. Sono stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale”. Nel ribadire il nostro appoggio all’appello per Rita Bernardini, Sinistra Italiana è orgogliosa che nell’elenco dei firmatari sia presente Lina Caraceni, Professore Associato di Procedura Penale e Diritto Penitenziario, Università di Macerata, iscritta ad Antigone Marche e già consigliera comunale di liste civiche che hanno visto SI nelle loro fila. La maggioranza in affanno adesso fa melina su ddl Nordio e direttiva Ue di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2023 La maggioranza alle prese con le divisioni interne su più fronti, sta facendo melina sul pacchetto giustizia tanto sbandierato, che ha provocato l’ennesimo scontro con i magistrati e ha portato a una convocazione, nelle settimane scorse della premier Giorgia Meloni da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Proprio il Quirinale, una settimana fa, ha dato il via libera per la calendarizzazione del ddl Nordio, ma in commissione Giustizia del Senato non vi è traccia. Eppure la cancellazione del reato di abuso d’ufficio sembrava una priorità assoluta, evidentemente l’affanno del centrodestra fa rinviare tutto a dopo l’estate. Nel ddl Nordio ci sono anche altri punti assai controversi, per usare un eufemismo, come lo svuotamento del traffico di influenze, l’azzoppamento delle intercettazioni, l’aiutino-interrogatorio a un indagato 5 giorni prima della richiesta di arresto. Tutte norme che vanno contro il vento che spira dall’Unione europea, che ha scritto una direttiva anticorruzione per provare ad armonizzare le norme anti-mazzette nei Paesi membri. La direttiva sarà votata oggi non più in commissione Giustizia della Camera, ma in aula, su richiesta del M5S. La settimana scorsa è stata bocciata in Commissione Politiche Ue dalla maggioranza più calendiani e renziani. Laura Ferrara, europarlamentare M5S, ha presentato un’interrogazione alla Commissione europea per chiedere “se ritenga che l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e l’adozione di altre misure contenute” nel ddl Nordio “possano indebolire la lotta alla corruzione e come intenda reagire al parere contrario”. La riforma della giustizia è una gara a chi fa peggio: così si tradisce il patto di fiducia di Susanna Stacchini Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2023 Riforma della giustizia, pseudonimo di sfascia giustizia. Ogni governo che passa ci mette mano, riuscendo sempre a peggiorare le cose, mai una ricaduta positiva. Insomma, una gara a chi fa peggio, fatta eccezione per la breve parentesi dei governi Conte. Ora, considerato che basta frequentare un po’ le aule di tribunali, per rendersi conto di che cosa non funziona, viene da ipotizzare la malafede più che l’incompetenza. Chi ha a che fare con la giustizia, soprattutto se in qualità di parte offesa, non può che sentirsi deriso e osteggiato, proprio dallo Stato, che nel processo penale è di fatto il migliore alleato dell’imputato che sa di essere colpevole. Continuando imperterriti a legiferare sulla giustizia, avendo come musa ispiratrice la figura dell’imputato ricco e colpevole, ci siamo ritrovati in un gran “pantano” in cui lui è l’unico a trarne beneficio. Agli altri non resta che soccombere. L’imputato può usufruire di una serie infinita di leggi e cavilli legali che, se ben sfruttati, gli consentono di dilazionare talmente i tempi da ottenere il classico nulla di fatto. Si va dalle notifiche non ritirate ai fittizi legittimi impedimenti, passando dagli avvocati di fiducia cambiati a ridosso di udienze, ovviamente fissate almeno con un anno di anticipo, fino ai giudici recusati con medesime tempistiche. Un sistema ben collaudato, funzionale a ottenere ripetuti rinvii di udienze. Ma non finisce qui: la legge mette a disposizione ancora altri stratagemmi, anch’essi fondamentali ad allungare in maniera vergognosa i tempi dei processi. All’imputato è permesso di appellare la sentenza di primo grado con ricorsi spesso pretestuosi, come del resto ricorrere in Cassazione nonostante la totale infondatezza della memoria difensiva. Tutto, con la garanzia che la pena inflitta in primo grado, se confermata, potrà alleggerirsi. In questo scenario, a fare sinergia ovviamente in negativo è la situazione in cui versano cancellerie, tribunali e procure, a corto di personale e mezzi informatici, noti a chiunque abbia avuto la sfortuna di frequentare certi ambienti: i faldoni ammassati nei vari archivi e uffici, trasportati a mano su “apposito” carrello dall’uno all’altro e di quelli che, ancor più sciaguratamente, girano per le cancellerie e procure d’Italia a mezzo treno. Non credo serva una mente particolarmente complottista per immaginare che un contesto lavorativo del genere possa essere fucina di errori, destinati anch’essi a incidere pesantemente sul numero di udienze rinviate. Scelte politiche consapevolmente scellerate perpetrate per decenni hanno ridotto la giustizia allo sfascio e palesemente sbilanciata in favore dei delinquenti. Se lo scopo era quello di evitare eventuali possibili condanne a personaggi illustri attraverso la scure della prescrizione e/o dell’improcedibilità, direi che il risultato è stato ampiamente raggiunto. Nella dialettica politica la parte offesa viene completamente ignorata. Non si parla di problemi strutturali e quindi nemmeno della loro risoluzione. Sia mai che qualcosa potesse funzionare. Mentre ci si concentra sul depenalizzare reati, sempre i soliti, ostacolare il più possibile l’azione penale e quindi il corso delle indagini e trasformare i processi in un vero e proprio guazzabuglio. Spacciano come giunto regolarmente a termine un processo prescritto o dichiarato improcedibile. Definiscono garantismo l’impunità e giustizialismo la certezza della pena. Tutto ciò è devastante per le persone vittime di reati. Sia per chi denuncia sia per chi ci rinuncia, capendo che non ne vale la pena. È deleterio per parti civili e parti offese, destinate a rimanere imbrigliate per anni in processi fiume con uno Stato che non è in grado di fornire loro risposte autorevoli. Insomma, con una superficialità disarmante politica e istituzioni hanno tradito il patto di fiducia con la gente, incuranti del fatto che ciò è l’elemento fondante della democrazia e della sua tenuta. Santoro e Ruotolo intercettati: su via D’Amelio vietato negare il coinvolgimento dei Servizi? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2023 Bisogna preoccuparsi se un giornalista, non adeguandosi al pensiero molto in voga della presenza dei servizi segreti “deviati” nella preparazione della strage di Via D’Amelio, approfondisce piste non vagliate in questi 30 anni o magari intervista pentiti, ovviamente facendo verifiche e riscontri nel limite dei propri mezzi, che raccontano fatti inediti? A quanto pare, sì. Ed è il caso di Michele Santoro e Guido Ruotolo per il libro “Nient’altro che la verità”, in cui vengono riportate le rivelazioni dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola. I due giornalisti sono stati intercettati dalla procura di Caltanissetta per sbugiardare le dichiarazioni dell’ex pentito, partendo dall’ipotesi che fosse eterodiretto da parte di soggetti non identificati al fine di depistare. La finalità? Quella di precludere ‘ ogni ulteriore possibile sviluppo investigativo rispetto alle piste, emerse in plurimi dibattimenti, del coinvolgimento nella fase ideativa ed esecutiva delle stragi di soggetti esterni a Cosa nostra’. Cosa bisogna pensare? Vanno benissimo le dichiarazioni riportate in mondovisione da programmi in prima serata come ‘ Report’, dove soggetti camuffati parlano di entità e storie surreali, prive di riscontri ma funzionali per aumentare l’audience. Va malissimo, anzi si ipotizzano manovre da parte di gruppi oscuri, quando vengono riportate dichiarazioni che non convalidano l’eterna pista dei servizi deviati come fautori della strage. Poco importa sapere che lo stesso Giovanni Falcone ha sempre stigmatizzato la teoria del ‘ terzo livello’, così come poco importa apprendere che in questi trent’anni non è stata concretamente dimostrata la partecipazione di soggetti esterni alla mafia nella preparazione ed esecuzione della strage. In questa narrazione molto in voga, non esiste nessun riscontro. Gaspare Spatuzza parla di un uomo che non conosce nel garage in cui si preparava l’autobomba che avrebbe ucciso il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio. Il fatto che non lo conoscesse si dà per assodato che sia un soggetto estraneo a Cosa nostra. Ma è una supposizione, ed è rimasta tale. Tra l’altro, dettaglio importante, all’epoca Spatuzza non poteva conoscere tutti gli appartenenti a Cosa nostra perché ancora non era un uomo “d’onore”. Poi c’è la testimonianza dell’ex poliziotto Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage, che racconta di aver visto persone vestite come i ‘ man in black’, a 40 gradi all’ombra, rovistare nell’auto ancora in fiamme di Borsellino senza una goccia di sudore. Ebbene, nelle motivazioni sull’ultima sentenza di depistaggio, i giudici scrivono nero su bianco che non può essere credibile il suo racconto. Inoltre, scrivono nelle motivazioni: ‘ Il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole periodo di tempo (Maggi, nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni, non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che ha fornito una versione sulla borsa del dottor Borsellino che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati’. Solo illazioni e suggestioni. Eppure, come riportato qui su Il Dubbio, mancano ancora dei tasselli concreti, a partire dall’identificazione di tutti i mafiosi partecipanti alla strage e il probabile supporto logistico fornito attraverso il palazzo sito in Via D’Amelio numero 46, quello dove risiedeva la famiglia Buscemi. Ma non sembra interessare. Sia i media che le autorità giudiziarie sono alla ricerca dei soggetti esterni, e sembra che sia ‘pericoloso’ se un giornalista mette in discussione tale assunto. Ma c’è dell’altro. I pm esprimono anche un giudizio sul lavoro di Santoro e Ruotolo, sottolineando che hanno ‘in definitiva, operato la scelta di recepire in modo acritico le dichiarazioni rese da Maurizio Avola, riportandone il contenuto nello scritto senza in alcun modo svolgere un vaglio critico’. Tuttavia, un pm non dovrebbe limitarsi a trovare le prove d’accusa nei confronti di coloro che commettono reati, violando le leggi? Comunque, sembra che i giornalisti abbiano cercato non solo dei riscontri, ma anche delle prove contrarie, ovviamente nel limite del possibile, visto che un giornalista non può e non deve avere i mezzi delle autorità giudiziarie, non essendo un pubblico ministero. È interessante notare - anche leggendo il libro - che i giornalisti hanno fatto sforzi per verificare le informazioni. E comunque, come racconta Guido Ruotolo a Il Dubbio, hanno inviato l’intervista fatta ad Avola, registrata tramite smartphone, a una società israeliana. Questa società è specializzata nell’ascolto del timbro vocale per verificare se una persona dice il vero. Il riscontro è stato positivo, ma per maggiore sicurezza hanno richiesto una registrazione più professionale e pulita. Quindi, Ruotolo, avendo a disposizione i mezzi adeguati, ha registrato nuovamente l’intervista ad Avola per poterla rimandare alla società. Tuttavia, la società è ‘ sparita’, non risultava più reperibile. L’aver contattato questa ditta, risulta anche dalla richiesta di archiviazione stessa. Pare quindi che le verifiche siano state fatte. D’altronde, sono stati gli stessi giornalisti a consigliare ad Avola di riferire alle autorità ciò che ha raccontato. In conclusione, appare evidente l’amarezza per il fatto che in questo Paese si debbano enfatizzare i retropensieri, mentre la ricerca dei fatti, anche sbagliando, sembra che sia una modalità inadeguata e soprattutto rischiosa. All’Emilia Romagna il triste record di più detenuti del Nord Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2023 Pubblicato il secondo rapporto dell’associazione Antigone dal titolo “Finestre sul carcere” sulle condizioni degli istituti penitenziari in Emilia Romagna. Elevato numero di detenuti con problemi psichiatrici e dipendenza, carenza di persona medico e infermieristico, l’immancabile sovraffollamento che acuisce i problemi. In tutto questo, l’emergenza sanitaria ha avuto un impatto significativo sulla quotidianità detentiva, in termini di possibilità di contatti con l’esterno, fruizione di spazi comuni e possibilità trattamentali. Parliamo del secondo rapporto di Antigone dal titolo” Finestre sul carcere” riguardante la regione dell’Emilia Romagna. Sono passati cinque anni dalla precedente edizione del rapporto sulle condizioni di detenzione di questa regione e, sebbene il comparto carcerario operi in condizioni di perenne emergenza, il quinquennio trascorso spicca per la sua problematicità. La popolazione detenuta in Emilia-Romagna risulta tra le più numerose del Nord Italia, con un alto tasso di affollamento carcerario. Il rapporto di Antigone mette in evidenza nodi problematici riguardanti l’organico, l’offerta trattamentale, la salute mentale e il tasso di autolesionismo e suicidi. La presenza di oltre 3.400 detenuti, di cui il 47,30% stranieri e il 4% donne, contribuisce all’elevato tasso di affollamento carcerario pari al 105,17%. La presenza di condannati in via definitiva è inoltre elevata, ma il numero di funzionari giuridico-pedagogici è in forte sotto organico in molti istituti. Questa carenza si riflette sulla possibilità di garantire un’adeguata assistenza e trattamento ai detenuti. La carenza di personale medico, infermieristico, psicologico e psichiatrico all’interno degli istituti è un elemento di grande criticità. Il rapporto evidenzia un tasso di sofferenza mentale in crescita, testimoniato dalle alte percentuali di diagnosi psichiatriche e di dipendenza, nonché dall’ampio utilizzo di psicofarmaci da parte dei detenuti. L’autolesionismo è un fenomeno diffuso, con tassi particolarmente elevati in alcune carceri. Non solo. Viene segnalato un alto tasso di suicidi e tentati suicidi nei primi sei mesi del 2022, con 7 persone che hanno perso la vita. La maggiore fragilità psichica della popolazione detenuta è evidente, e i protocolli di prevenzione del rischio suicidario devono essere accompagnati da interventi sulle condizioni materiali, cura delle relazioni e offerta trattamentale. Sempre dal rapporto di Antigone si evidenzia che l’istituto penale minorile di Bologna ha subito trasformazioni significative tra il 2020 e il 2022, ma le nuove dinamiche hanno portato a diverse criticità. La carenza nell’area educativa e le preoccupazioni relative alla sicurezza dell’edificio sono alcune delle sfide affrontate. La vita detentiva è più regolamentata, rendendo difficile garantire un’adeguata assistenza ai giovani detenuti. A questo si aggiunge la detenzione femminile. L’Emilia-Romagna non ha istituti femminili, quindi le detenute sono ospitate in sezioni femminili all’interno di carceri maschili. Come rileva Antigone, la ripartizione delle risorse tra popolazione maschile e femminile influenza le opportunità riservate alle donne, sia a livello lavorativo che formativo. Le criticità riguardano anche l’offerta formativa, con alcune carceri che presentano carenze nei corsi scolastici e professionalizzanti. Un caso particolarmente significativo riguarda il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, dove i titoli di studio di uno studente-detenuto sembrano essere stati considerati indice di pericolosità sociale rispetto alla prognosi di recidiva. La questione è diventata un caso nazionale, che è anche approdato a Strasburgo, dove è pendente il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che vede il diretto coinvolgimento di Antigone. Piemonte. Antigone presenta il rapporto sulla detenzione al femminile di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 26 luglio 2023 Uno sguardo “ravvicinato” sulla situazione degli istituti penitenziari femminili con un focus sul Piemonte. Domani pomeriggio, alle 17.30, nella sala Comune del Collegio Carlo Alberto di piazza Arbarello, verrà presentato “Dalla parte di Antigone”, il rapporto stilato da Associazione Antigone che vuole stimolare una riflessione sull’esecuzione penale nelle strutture penitenziarie. Il punto di partenza sono i dati raccolti e le ricerche scientifiche: “L’indagine riguarda tutte le carceri e le sezioni femminili nel nostro Paese - spiegano gli organizzatori -, comprese quelle minorili e i reparti che ospitano persone detenute trans collocate nelle sezioni femminili”. A moderare l’appuntamento torinese sarà il garante regionale Bruno Mellano e durante il convegno si parlerà delle 153 detenute piemontesi, recluse a Torino (120) e Vercelli (33) e delle 12 detenute trans nel carcere di Ivrea. Milano. Di Rosa: “Dietro le misure alternative c’è sempre un grande lavoro” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 luglio 2023 C’è sempre chi storce il naso quando un detenuto esce per un permesso premio o una misura alternativa al carcere. Scatta l’indignazione se torna a delinquere. Avviene, più di rado, anche quando al contrario dopo anni di carcere non ottiene alcun beneficio. Giovanna Di Rosa presiede il Tribunale di sorveglianza di Milano che con 24 giudici si occupa di 6.709 detenuti. Talvolta ha dovuto risolvere questioni drammatiche. Siete troppo buoni o troppo severi? “Né l’uno né l’altro, perché le nostre decisioni seguono il criterio della scientificità partendo dal principio costituzionale secondo il quale il fine della pena è di rieducare il condannato per reinserirlo nella società evitando che esca dal carcere così come c’era entrato. Compatibilmente con le risorse che abbiamo, per decidere cerchiamo di temperare la valutazione giuridica con quella sulla personalità del recluso”. Accade che detenuti appena usciti vengono rinchiusi di nuovo perché non si comportano bene... “Purtroppo ci vorrebbe la sfera di cristallo. È chiaro che il nostro lavoro si scontra con l’imprevedibilità dei fattori umani che sono oggettivizzabili, per loro natura, solo fino a un certo punto. Per entrare nella mente e giudicare sulla prevedibilità della condotta di una persona una volta fuori, abbiamo a disposizione solo degli indici predittivi. La legge ci chiede di affermare che il condannato non risulta socialmente pericoloso facendo una prognosi che parte dal reato e si basa sull’osservazione di come si è comportato in carcere, grazie ai contributi degli esperti, tra cui educatori, psicologi e criminologi, e su altri elementi, come le notizie fornite dalle forze dell’ordine sulla sua vita”. Dice che non si può escludere che non righi dritto? “I dati dicono che i detenuti che non rispettano le regole durante i permessi premio sono una percentuale assolutamente minima, non arriva all’uno per cento. Pochissimi casi che, però, talvolta diventano eclatanti per la notorietà del singolo. La preoccupazione più consistente riguarda la recidiva, cioè che si commettano reati, ma per quanto riguarda le misure alternative (come lavoro esterno, affidamento in prova, ndr) la percentuale di revoca è appena attorno al 3% l’anno”. Salvatore Parolisi uscendo in permesso ha parlato delle vittime dei suoi reati, ha detto di essere innocente e di essere stato condannato a soli 20 anni perché non c’erano prove. Gli avete revocato i permessi. Perché? “Non entro nel particolare. Ricordo che la legge non impone l’ammissione della colpevolezza, quindi è possibile che anche chi nega di aver commesso il reato sia ammesso ai benefici. Ciò che si valuta è il riconoscimento del valore della legalità come strumento prioritario e unico per la convivenza civile, che ci sia stata l’interiorizzazione dei valori della convivenza civile, la piena partecipazione al percorso trattamentale e l’attenzione alla vittima del reato. Si pensi che per decidere sulla liberazione condizionale la legge impone di accertare che c’è stato il sicuro ravvedimento. Persino in questo caso la Cassazione dice che non occorre l’ammissione del reato ma che abbia avuto successo il progetto rieducativo che si è svolto in carcere e che sia cessata la pericolosità sociale”. Perché si reagisce negativamente quando un condannato ottiene un beneficio? “Perché non si comprende, forse perché non lo si conosce, il lavoro che c’è dietro, l’impegno che ha dovuto mettere per compiere un percorso frutto di un tormento. A volte, purtroppo, le decisioni della magistratura di sorveglianza sono rappresentate come casuali e immotivate. Non è così, ci sono giudici che hanno svolto un lavoro lungo e ponderato con grande attenzione a tutto, a partire dalla sentenza e dalle parti lese”. Tra poco lei lascerà la presidenza per la scadenza degli 8 anni previsti dalla legge. I momenti più difficili? “Il periodo iniziale della pandemia. C’è stato l’incendio dei nostri uffici, che ha creato enormi difficoltà ma siamo riusciti a non fermare l’attività reinventando un ufficio al piano terra del palazzo e ricostruendo il precedente. E le rivolte a San Vittore ed Opera”. Interi reparti incendiati, lei trattò con i carcerati. Che ricordi le restano? “La sensazione di rivolte organizzate da facinorosi violenti, di una follia imperversante che non permetteva loro di ascoltare ragioni. Volevano essere liberati e basta. La paura della pandemia all’esterno dentro si amplificava a dismisura”. Napoli. Camillo Corallo, detenuto 71enne e gravemente malato lasciato morire a Poggioreale di Andrea Aversa L’Unità, 26 luglio 2023 Arrestato per reati minori, aspettava da un mese la risposta del magistrato di sorveglianza per poter scontare la pena ai domiciliari o in una struttura sanitaria dedicata. Già in passato gli era stata riconosciuta l’incompatibilità con il regime carcerario. È morto nel penitenziario Aveva 71 anni ed era affetto da un enfisema polmonare. Per questo il suo avvocato, Gandolfo Geraci, circa un mese fa aveva presentato al magistrato di sorveglianza un’istanza di scarcerazione motivata dall’incompatibilità con il regime detentivo. Ma dagli uffici della Procura non è arrivata nessuna risposta. Così Camillo Corallo, napoletano arrestato per reati minori quali truffe e rapine, in cella ci è morto. È accaduto lo scorso venerdì nel penitenziario di Poggioreale a Napoli. “Oltre cento detenuti ogni anno muoiono in carcere per ‘cause naturali’. Sono numeri ai quali bisogna dare importanza”, ha dichiarato il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello che ha poi concluso: “È normale che ogni Pm decida in modo autonomo e differente, rispetto al principio della discrezionalità. In fondo ogni caso è diverso dall’altro. Ma in molti di essi non si può non considerare il differimento della pena”. Le domande da porsi e alle quali la giustizia dovrà dare una risposta, sono le seguenti: un detenuto di 71 anni, arrestato per reati minori, potrebbe scontare la pena attraverso modalità alternative al carcere (misura che sarebbe funzionale anche rispetto alla piaga del sovraffollamento)? Una persona gravemente malata, le cui sorti potrebbero essere già scritte, è giusto che muoia in cella o sarebbe meglio che gli fosse garantita un’assistenza sanitaria migliore e la possibilità di morire circondato dai propri familiari? Sono questioni rispetto alle quali lo Stato deve fare chiarezza, tenendo conto soprattutto di due dettati costituzionali: la garanzia per tutti del diritto alla salute e un’azione penale che non sia degradante nei confronti della dignità umana. L’età e l’assistenza sanitaria - Ma scopriamo chi era Camillo Corallo, il detenuto morto a Poggioreale. “Il mio assistito era libero - ha raccontato l’avvocato Geraci a l’Unità- Già nel 2015 gli fu riconosciuta l’incompatibilità con il regime carcerario. Poi, lo scorso maggio, un cumulo di pene superiore ai 4 anni, ha fatto sì che fossero annullati gli effetti dell’indulto e dei vari benefici. Così il signor Corallo è tornato in carcere. Sono riuscito a sentirlo il mercoledì prima del decesso, mi diceva: ‘Avvocato sto male, la prego io non voglio morire qua dentro’. E invece le sue condizioni si sono aggravare. Il venerdì è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Cardarelli di Napoli e alle 14.15, circa, mi è stata comunicata la triste notizia del suo decesso. Faremo il possibile per ottenere giustizia e verità - ha concluso il legale -. Sono tanti gli aspetti poco chiari di questa vicenda. L’unica certezza è che Corallo non doveva morire in cella”. Torino. Suicidi e aggressioni, l’estate rovente nel carcere di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 26 luglio 2023 Al Lorusso Cutugno 26 aggressioni in soli sette mesi e 2 suicidi in 15 giorni. I sindacati: “Qui è una bolgia”. Materassi dati alle fiamme, medici e poliziotti picchiati. Telefonini sequestrati nelle celle e due suicidi nel giro di 15 giorni. L’estate del carcere di Torino è sempre più “rovente” e, dopo aver invocato l’intervento dell’esercito, adesso i sindacati di polizia penitenziaria chiedono anche l’istituzione di un commissario straordinario. Dall’inizio dell’anno al Lorusso e Cutugno si sono verificate 26 aggressioni ai danni degli agenti con 28 operatori feriti. Gli ultimi sono stati aggrediti dal detenuto che a Velletri ha ucciso il suo compagno di cella. Materassi dati alle fiamme, risse, scrivanie ribaltate, medici e poliziotti picchiati. Senza contare telefonini sequestrati nelle celle e due suicidi nel giro di 15 giorni. L’estate del carcere di Torino è sempre più “rovente” e, dopo aver invocato l’intervento dell’esercito, adesso i sindacati di polizia penitenziaria chiedono anche l’istituzione di un commissario straordinario. Dall’inizio dell’anno al Lorusso e Cutugno si sono verificate 26 aggressioni ai danni degli agenti con 28 operatori feriti. Gli ultimi sono stati aggrediti dal “solito” detenuto di 26 anni che a Velletri ha ucciso il suo compagno di cella. E, da quando è stato trasferito a Torino, sta creando disordini quotidiani. Un agente e un’ispettrice sono finiti in ospedale, ma la scorsa settimana il 26enne aveva colpito anche il medico dell’Asl che, a suo modo di vedere, non gli stava somministrando la giusta terapia. Per il sindacato Osapp la situazione è insostenibile: “Il carcere di Torino è diventato una bolgia, gli agenti non sanno più a quale santo votarsi. Non abbiamo più parole per commentare questo disastro e gli stessi medici hanno paura di svolgere servizio all’interno del penitenziario perché temono per la loro incolumità”. E aggiungono: “A Torino ci sono sempre stati detenuti psichiatrici, ma non si era mai assistito fino a oggi a tale totale immobilismo da parte dell’amministrazione”. Il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano ha avuto un colloquio con il 26enne proprio la scorsa settimana: “Con me è stato tranquillissimo, ma mi hanno detto che poche ore dopo ha di nuovo dato in escandescenze. Rappresenta sicuramente un caso “limite” di difficile gestione, ma non bisogna generalizzare. Da più parti si invoca il ricorso alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma questa persona non ha una diagnosi psichiatrica e non ci potrebbe stare. In realtà ha trascorso un periodo in una struttura e non è andata bene. Le Rems non sono necessariamente la risposta a tutti problemi del disagio mentale in carcere. Servono investimenti, anche sulla formazione degli operatori a vario livello. Ed è necessario creare nuovi percorsi alternativi alla detenzione”. Come soluzione immediata Mellano propone la creazione di una seconda Atsm (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale in carcere) a Novara: “La struttura di Torino non è sufficiente per tutta la regione e una nuova “articolazione” permetterebbe di dividere il carico con Novara, dove è anche presente un ospedale universitario”. Sullo sfondo del “caos carceri” c’è anche il dibattito sulla somministrazione dei farmaci: “È una questione delicata - conclude il garante. È chiaro che c’è una grande richiesta da parte dei detenuti, ma è necessario capire come usarli al meglio”. Torino. “Tredici minuti per suicidarsi e gli agenti non c’erano” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 26 luglio 2023 Del Gaudio morì al Sestante, tre condanne. Il giudice: “Doveva essere sorvegliato a vista, poteva essere salvato”. Roberto Del Gaudio ha impiegato 13 minuti per uccidersi. Tredici minuti durante i quali si è alzato dal letto con il cappio al collo realizzato con i pantaloni del proprio pigiama, “ha aperto la finestra della cella, ha tentato di legare il pigiama senza riuscirci, è caduto, ha riprovato fino a quando non ha incastrato il cappio, è salito sul letto e si è lasciato andare definitivamente”. Tredici minuti che raccontano la morte suicida di un detenuto, ma anche la condanna dei tre agenti della polizia penitenziaria che avrebbero dovuto sorvegliarlo a vista. Invece, “nessuno di loro è intervenuto e nessuno ha osservato. Eppure, il controllo continuato e ininterrotto era assolutamente previsto e dovuto”. La ricostruzione di una morte annunciata e della responsabilità di tre agenti (difesi dall’avvocato Marco Feno) è narrata nelle motivazioni della sentenza del giudice Rosanna La Rosa, che ha inflitto agli imputati pene variabili tra 8 e 9 mesi per omicidio colposo per omessa vigilanza. Del Gaudio è morto il 10 novembre 2019. Era detenuto dal 18 agosto, dal giorno in cui aveva ucciso la moglie. Ed era rinchiuso al Sestante perché considerato un soggetto a rischio: gli agenti “avevano l’obbligo giuridico di vigilarlo attraverso il monitor e con piantonamento a vista”. Non lo hanno fatto. Cosa accadde realmente quella sera nel carcere Lorusso e Cutugno è una verità che in gran parte non verrà mai svelata. Non si è mai capito perché gli agenti fossero distratti e non intervennero. A lungo, in fase d’indagine, i pm Giulia Marchetti e Francesco Pelosi avevano ipotizzato che stessero usando il monitor - che avrebbero dovuto trasmettere le immagini di Del Gaudio - per guardare la partita: in campo c’erano Juve e Milan. Il match è iniziato alle 20.46 ed è terminato alle 22.34. Del Gaudio ha iniziato a “comportarsi in maniera anomala” alle 21.37 (i video documentano che non indossa i pantaloni del pigiama), per poi mostrare le sue intenzioni suicide alle 22.18 (si alza dal letto con il cappio al collo). Gli agenti si accorgono che è morto alle 22.48, 12 minuti dopo la fine della sfida calcistica. “L’ipotesi - scrive il Tribunale - non è stata dimostrata in dibattimento, ma anche fosse stata provata sarebbe comunque un elemento neutro”. In sostanza, per il giudice non è importante cosa stessero facendo gli agenti: “il dato certo è che non hanno sorvegliato in modo adeguato, come avrebbero dovuto”. “La morte di Del Gaudio si sarebbe potuta evitare - si legge nel documento - qualora gli imputati avessero adempiuto al loro dovere”. E ancora: “Nessuno ha notato o riferito comportamenti allarmanti da parte della vittima, che ha potuto agire indisturbata per oltre un’ora nella realizzazione del proprio proposito suicidario e, in ogni caso, certamente per 13 minuti”. Torino. “Il carcere? Metà struttura dovrebbe essere dichiarata inagibile” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 26 luglio 2023 La garante Cristina Gallo: “È sovraffollata e senza risorse bisogna affidarsi ai volontari”. “Bisogna sfatare il mito che il carcere di Torino possa essere la panacea di tutti i mali”. Monica Cristina Gallo, garante della Città di Torino per i diritti delle persone private della libertà personale, è convinta che la casa circondariale delle Vallette sia diventata negli anni un comodo “parcheggio” per detenuti che arrivano da fuori regione per una diagnosi psichiatrica e poi rimangono al Lorusso e Cutugno in attesa di una sistemazione alternativa che non arriva mai. Cosa intende per falso mito? “Torino è stata una delle prime città in Italia a dotarsi di una struttura per la tutela della salute mentale in carcere. Era un punto di riferimento nazionale, ma sono passati 20 anni e i locali si sono sgretolati e si sono persi anche i contenuti. Ma gli invii continuano e questo crea un problema. Non l’unico, certo”. La polizia penitenziaria di recente ha chiesto - provocatoriamente - l’invio dell’esercito. Cosa ne pensa? “Mi preoccupa perché sembra una resa. I sindacati hanno ragione quando protestano per le carenze di organico e comprendo l’agitazione per i cambiamenti in atto. C’è tanto da fare, ma qualcosa è stato anche fatto. Pensiamo allo sportello “dimittendi” che crea un ponte con il ritorno alla vita. In mancanza di risposte “dall’alto” e in assenza di investimenti concreti dobbiamo trovare soluzioni a livello locale”. Ha già un’idea in mente? “Un ritorno al passato, attribuendo un vero ruolo al volontariato. Non limitarsi a utilizzare i volontari per portare cibo, vestiti e biancheria, ma riconoscere il loro potenziale nella creazione di relazioni umane e organizzare una rete che funzioni. Qualcosa si può e si deve fare. Il Comune ha investito risorse per eseguire una mappatura delle associazioni che operano dentro e fuori dal carcere. Adesso è necessario affidare loro una missione e coordinarle. In maniera tale che la presenza sia più o meno costante e che i percorsi iniziati non si interrompano improvvisamente. Come succede d’estate, che è sempre il periodo più critico e la cronaca quotidiana ce lo ricorda in questi giorni”. Proprio in questi giorni le criticità maggiori riguardano i detenuti con problemi psichiatrici, ma non sono le uniche. Come si può intervenire? “Sono necessarie nuove professionalità. C’è bisogno di personale formato e specializzato che sia in grado di intercettare e comprendere il disagio. Ma per tutta la popolazione carceraria, senza distinzioni. Pensiamo ai giovani detenuti che in carcere frequentano una “scuola di criminalità”. Per loro bisogna creare una strada che faccia intravedere alla fine qualcosa di diverso. È fondamentale spostare il confronto con questi ragazzi su temi differenti”. A Torino ci sono oltre 1400 detenuti a fronte di 1100 posti, con un tasso di recidiva molto alto. In queste condizioni la risocializzazione è ancora possibile? “Diciamo che il carcere è da ripensare, con nuovi spazi dedicati e luoghi dove svolgere attività professionali, ma anche laboratori artistici. Parliamo di una struttura enorme, che per la metà dovrebbe essere dichiarata inagibile. E potrebbe essere gestibile con una popolazione dimezzata. Quando ho iniziato a occuparmene c’erano 5 vicedirettori e un direttore. Oggi c’è solo una direttrice, appena arrivata, che spero resti a lungo per intraprendere un percorso di cambiamento. È l’unico modo se si vuole che il carcere assolva alle funzioni per la quale è stata creata”. Torino. Sanità, in carcere situazione drammatica: c’è chi non può ottenere la propria cartella clinica di Gioele Urso torinotoday.it, 26 luglio 2023 C’è un caso specifico che ha portato Simone Fissolo, consigliere comunale dei Moderati a Torino, a chiedere spiegazioni sulle gravi problematiche nella gestione delle tematiche sanitarie dentro il carcere di Lorusso e Cutugno di Torino. La storia è quella di un detenuto straniero che gli è stata segnalata dall’associazione no profit StraLi. “La sua situazione è comune a molte altre persone che si trovano ristrette presso il carcere”, spiega Fissolo, “Il caso specifico riguarda un detenuto straniero, che non parla né comprende la lingua italiana, con gravi problematiche di salute di natura psichiatrica, privo di una rete familiare o sociale di sorta, e del tutto nullatenente. Tale persona è assistita da un difensore d’ufficio che ha portato alla luce diverse criticità, in particolar modo che concernono l’accesso alle informazioni sanitarie e alle cartelle sanitarie da parte dei detenuti”. Sì, perché l’accesso alle proprie informazioni sanitarie dovrebbe essere un diritto, ma all’interno del carcere, anche quello di Torino, così non è. “A Torino, per avere accesso alle proprie informazioni sanitarie il detenuto deve richiedere e ottenere il permesso all’autorità giudiziaria”, continua Fissolo. Una pratica che allunga i tempi di ottenimento delle proprie informazioni sanitarie e va in contrasto con la piena tutela del diritto alla salute della persona, sostiene Fissolo. “Il caso di questo detenuto straniero, senza famiglia, con gravi problematiche di salute di natura psichiatrica ha portato alla luce la situazione drammatica che vive il carcere Lorusso e Cutugno”, commenta l’esponente dei Moderati, “Parliamo di circa 1.400 detenuti, una media di più 1.700 visite radiologiche nel 2022 e più di 2.900 visite psichiatriche. La cosa sorprendente è che familiari e difensori d’ufficio non possono avere incontri con gli operatori sanitari, la cartella clinica o le informazioni delle visite specialistiche possono essere consegnate al detenuto o al difensore solo dopo pagamento, con parti censurate e dopo autorizzazione del giudice. Inutile parlare della possibilità di avere mediatori o traduttori durante la visita”. Un tema che secondo Fissolo diventa rilevante e prioritario nell’ottica del ragionamento complessivo sul carcere come luogo rieducativo e non solo punitivo, che punti ad abbassare la percentuale di recidiva. “Sono preoccupato perché per l’Assessora Pentenero con delega ai rapporti con il carcere l’argomento non è urgente, al pari come la situazione delle nostre periferie”, conclude Fissolo, “Ringrazio invece l’Associazione Strali, la sua presidente Benedetta Perego e i vicepresidenti Emanuele Ficara e Nicolò Bussolati per l’attività di pressione sulle istituzioni affinché si occupino dei diritti dei più deboli”. Reggio Emilia. Pestaggio in carcere, un poliziotto torna al lavoro: si è discolpato col giudice di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 26 luglio 2023 Cadono le misure interdittive per uno degli otto agenti penitenziari accusati di tortura. L’agente ha chiarito la sua posizione ed essendo stato trasferito non ci sono esigenze cautelari. Niente più misura interdittiva. Potrà tornare al lavoro il giovane agente indagato, insieme ad altri tredici colleghi, per la condotta che avrebbero tenuto il 3 aprile verso un detenuto del carcere della Pulce, per la quale la Procura ha formulato l’ipotesi di tortura. Il poliziotto della penitenziaria, ora non più in servizio a Reggio, era stato l’unico a rispondere durante l’interrogatorio di garanzia, discolpandosi. A lui, e ad altri sette, la Procura contesta la tortura: il gip Ramponi li aveva sospesi dai pubblici uffici per un anno, mentre due agenti per dieci mesi. Tra loro, cinque sono stati raggiunti dall’obbligo di firma. Per i quattordici indagati erano state chieste tutte misure coercitive: da quando trapela, in un paio di casi la Procura ha impugnato quella disposta dal gip. Nel caso dell’agente, la Procura lo aveva individuato, in base alla videosorveglianza interno al carcere, in colui che aveva messo il piede sulla sua caviglia e poi la scarpa sul suo piede. In un altro punto dell’ordinanza cautelare, viene descritto come l’uomo “che tiene fermo il piede destro del detenuto mentre viene colpito a terra con calci e pugni”. Davanti al gip, lui aveva negato sia di averlo offeso e picchiato, sia di aver usato la forza nell’appoggiare la scarpa e tenerlo fermo. Aveva anche sostenuto di essersi trovato a passare in quel momento per caso. Da quanto emerge, il gip Ramponi, al quale l’avvocato difensore Sinuhe Curcuraci ha chiesto e ottenuto la revoca della misura, ha tolto l’interdizione perché ha chiarito la propria posizione e anche perché, essendo stato trasferito a lavorare in altra struttura penitenziaria, non sussistono più le esigenze cautelari. Il giudice ha ribadito la bontà della qualificazione giuridica dell’accusa di tortura, che invece le difese contestano. Bolzano. Nuovo carcere, lo Stato vuole ridimensionarlo di Carmelo Salvo Corriere dell’Alto Adige, 26 luglio 2023 Il progetto da 200 posti e 140 milioni di euro è considerato eccessivo. Il presidente Kompatscher: “Pronti a cambiare, ma bisogna fare presto”. “È lo Stato che vuole il ridimensionamento del nuovo carcere di Bolzano. A noi va bene, purché si faccia in fretta”. A dirlo è il presidente della Provincia, Arno Kompatscher che definisce “non degna” la situazione della struttura di via Dante. Previsto vicino l’aeroporto, il progetto di fattibilità del nuovo carcere comprende 200 posti per una spesa di 140 milioni. Ma sulla sforbiciata, confermata anche dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lunedì a Bressanone, ha delle perplessità l’assessore all’Edilizia Massimo Bessone. “La struttura è realizzata con soldi pubblici e, quindi, dei cittadini. Non vorrei che tra qualche tempo ci si pentisse perché già affollata”. È una corsa decennale ad ostacoli quella del nuovo carcere di Bolzano. Una corsa alla quale, mentre sembra avvicinarsi, viene anche spostato il traguardo. L’ultima “uscita” in ordine di tempo è il ridimensionamento della struttura il cui progetto di fattibilità, su terreni vicino all’aeroporto, prevede 200 posti. A confermarne l’intenzione di ridimensionare il progetto, come ha spiegato ieri in conferenza stampa il presidente della Provincia, Arno Kompatscher, era stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, lunedì a Bressanone. “È lo Stato che paga e che decide - spiega Kompatscher -. Noi siamo soltanto il soggetto attuatore. Certamente è chiara una cosa, che bisogna fare in fretta. Questo l’ho ribadito al ministro. Noi ci siamo sempre, anche per trovare altri terreni o per fare un altro progetto, sempre in base alle disposizioni ministeriali. Ma bisogna ridurre i tempi perché la situazione del carcere in via Dante è inaccettabile e non degna di uno Stato moderno. Nordio mi ha ribadito che Bolzano è tra le priorità. Mi auguro che possiamo essere l’occasione per dimostrare che lo Stato è veloce”. E che il carcere attuale stia in una situazione sempre complicata lo conferma il numero dei detenuti, attualmente 107, sempre superiore a quello di 88 per il quale fu realizzato. Una situazione denunciata nel tempo un po’ da tutte le forze politiche, ultimi in ordine di tempo i consiglieri provinciali dei Verdi. A sollecitare tempi rapidi da parte del governo per l’erogazione alla Provincia dei fondi necessari a realizzare l’opera è l’assessore provinciale all’Edilizia Massimo Bessone, che esprime, però, perplessità circa il ridimensionamento. “Noi - spiega Bessone - abbiamo predisposto il progetto di massima, su indicazione del precedente ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e dell’amministrazione carceraria. Un progetto da cento milioni, che oggi, causa l’aumento dei costi dei materiali, che lo porta a 140. Cartabia, quando venne a Bolzano, mi disse: “Ma è necessario farlo così grande? Non è meglio farlo più piccolo e risparmiare qualcosa?” Io le ho risposto che certo, si poteva fare, ma che bisognava tener conto che facendolo, ad esempio di 150 posti, si rischiava fosse troppo piccolo. Ragione per cui i cittadini, che pagano le tasse, avrebbero potuto lamentarsi di una struttura fatta con i soldi pubblici e, quindi, con i loro soldi. Detto questo dovremo stare alle direttive del ministro, al quale continueremo a chiedere di fare presto”. L’assessore Bessone, comunque, assicura che fare un progetto ex novo non allunga i tempi e che l’area saranno gli stessi terreni espropriati 10 anni fa. “Abbiamo solo un progetto di fattibilità - prosegue Bessone - che è in pratica l’unico gradino dell’iter. Mancano ancora i progetti definitivi ed esecutivi. Quindi nulla di grave. Ricordo che a bloccare l’iter è stato il concordato fallimentare con la società Condotte, che ha vinto l’appalto con la gestione per 10 anni. Ma non sarà necessario fare una nuova gara, visto che a realizzare la struttura sarà Fincantieri che ha acquisito Condotte”. Modena. La Prof.ssa Giovanna Laura De Fazio nominata Garante dei detenuti magazine.unimore.it, 26 luglio 2023 Il Consiglio Comunale di Modena ha nominato la docente di criminologia e autrice di studi sul sistema penitenziario, a garante per i diritti delle persone private della libertà personale. Con un incarico quinquennale, opererà per i diritti dei detenuti e, più in generale, per chi è privato o limitato nella libertà personale. La Prof.ssa Giovanna Laura De Fazio, docente di Criminologia presso il Dipartimento di Giurisprudenza di Unimore, è la Garante per il Comune di Modena dei diritti delle persone private della libertà personale. Il Consiglio comunale, infatti, ha scelto il profilo che per cinque anni opererà per i diritti dei detenuti e, più in generale, per chi è privato o limitato nella libertà personale. Con esperienze di ricerca negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la Prof.ssa De Fazio è autrice di numerosi studi sulle carceri e sull’ordinamento penitenziario. In particolare, la sua attività scientifica in ambito penitenziario riguarda i temi della tossicodipendenza, dei fenomeni di suicidio e autolesionismo e il rapporto tra genitorialità e detenzione. Membro attuale del Comitato scientifico della Scuola di Etica, Bioetica e Deontologia medica dell’Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri di Modena, ha fatto parte anche dell’Osservatorio nazionale sul fenomeno delle tossicodipendenze, Hiv e sindromi correlate del Ministero della Giustizia. In quanto Garante comunale, opererà per cinque anni per promuovere e tutelare l’esercizio dei diritti, le opportunità di partecipazione alla vita civile e la fruizione dei servizi da parte delle persone, residenti, domiciliate o dimoranti nel territorio comunale, private della libertà personale o limitate nella libertà personale. Inoltre, potrà promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti e dell’umanizzazione della pena detentiva, tutelando, mediante l’attività di osservazione, vigilanza e segnalazione, eventuali violazioni dei diritti e lesioni della dignità. Infine, nell’esercizio delle sue funzioni, potrà visitare gli istituti penitenziari, nonché tutti i luoghi di restrizione o limitazione delle libertà personali come Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), camere di sicurezza di Questure, caserme di Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia locale, nonché reparti ospedalieri dove si attuano trattamenti sanitari obbligatori e monitorare le condizioni detentive, di trattamento, ambientali. Padova. Tenerezza e Giustizia dietro le sbarre di Davide Pelanda La Voce e il Tempo, 26 luglio 2023 Umanità, tenerezza e giustizia sono state il filo conduttore della Giornata nazionale di studi “La tenerezza e la Giustizia” organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti, notiziario sui temi carcerari che opera nel penitenziario padovano, tenutosi il 19 maggio presso la Casa di reclusione di Padova. A partire dalle parole di Papa Francesco “la tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia” gli interventi hanno riportato al centro del dibattito sulla carcerazione e sulla giustizia penale l’uomo. Presenti gli studenti del liceo “Galileo Galilei” di Padova che con Ristretti Orizzonti hanno lavorato ad un progetto di incontro e conoscenza sia del carcere che dei detenuti con i quali si sono confrontati. “Quegli uomini” scrive una studentessa dopo un incontro del progetto con le scuole “avevano comunque accettato di ammettere il fallimento della propria vita davanti a chi invece la vita l’ha tutta davanti a sé: si sono messi a nudo raccontando i propri errori a dei giovani per cui forse sarebbero voluti essere esempi da seguire, non da evitare e da non imitare. Tuttavia allo stesso tempo mi sento di dire che in un certo senso sono dei maestri in quanto si impegnano a riferire gli sbagli che li hanno portati sulla cattiva strada, nella speranza che i ragazzi che vengono ad ascoltarli possano riconoscere i segnali che conducono verso la strada del male per non rovinarsi il viaggio della vita”. È intervenuto anche “Francesco “Kento”, educatore e rapper, che insegna a esprimersi con il rap ai ragazzi delle carceri minorili: “Parli dei detenuti ma non sai chi sono loro, dici non gli interessa né studio né lavoro, vogliono i soldi facili per arricchirsi subito ma questa realtà tu la conosci? Ne dubito”. È la prima strofa di una canzone rap che Kento ha scritto insieme ai giovani detenuti dell’Istituto penale minorile di Catanzaro, e non è un caso che questi testi siano spesso rivolti ai magistrati, e a una Giustizia che i ragazzi sentono lontana, ostile. Ha sottolineato come sia necessario educare a monte le famiglie e la società per scongiurare la reclusione nelle carceri minorili o per gli adulti. Ma è anche necessario che alla fine della pena ci sia un accompagnamento sereno da parte delle amministrazioni carcerarie e della società civile per permettere al recluso di ricostruirsi il proprio futuro senza più “inciampare” nuovamente nell’illegalità. Toccante anche l’intervento di Loretta Rossi Stuart, sorella dell’attore Kim che ha parlato del figlio con disturbo borderline di personalità: il ragazzo quando ha dato evidenti segnali della sua malattia aveva 18 anni e faceva uso di sostanze stupefacenti, amplificando la patologia e diventando aggressivo e violento. Ora ha 28, e per altri ragazzi adolescenti con la stessa patologia, nelle Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ovvero una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi) non c’è posto. Quindi è costretto a fare avanti e indietro tra un carcere e l’altro. La donna, insieme ad altri genitori, ha fondato un’associazione che ha fatto ricorso all’apposita Commissione della Comunità europea per riuscire ad ottenere un posto in una Rems. Sulla sua storia Loretta Rossi Stuart ha scritto un libro “Io combatto” (Armando Editore). Dalla Calabria ha parlato via zoom il magistrato antimafia Stefano Musolino, sostituto procuratore e segretario nazionale di Magistratura Democratica, che ha sottolineato come il carcere sia diventato oggi un luogo di occultamento e di marginalizzazione delle problematiche sociali. “Tredici”. La peggiore strage nelle carceri italiane del dopoguerra raccontata da Luigi Mastrodonato ilpost.it, 26 luglio 2023 Quello che succede nelle carceri nella maggior parte dei casi è destinato a rimanere nelle carceri. Si sa poco o nulla della quotidianità dei detenuti, delle grandi e piccole torture a cui sono sottoposti quotidianamente, di quanto soffocante sia la loro vita in cella. Il carcere è da sempre un luogo altro, lontano, in cui i pochi diritti e le poche libertà dei detenuti sono troppo spesso messe in discussione. Nel marzo del 2020, in un momento molto particolare in cui l’attenzione generale era completamente rivolta all’emergenza coronavirus, nel giro di 72 ore morirono tredici detenuti, in tre diverse carceri italiane: nove di loro erano detenuti del carcere di Modena, tre nel carcere di Rieti, uno nel carcere di Bologna. Si chiamavano Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lotfi Ben Mesmia, Salvatore Piscitelli, Abdellah Rouan, Carlo Samir Perez Alvarez, Marco Boattini, Ante Culic e Haitem Kedri. “Tredici”, il podcast scritto e raccontato da Luigi Mastrodonato, racconta come le carceri italiane arrivavano a marzo 2020 in uno stato già molto precario, come denunciato pochi mesi prima dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, un organo parte del Consiglio d’Europa. La pandemia e la paura che ne è conseguita hanno di fatto peggiorato la situazione: per evitare i contagi si sono ulteriormente ristrette le già risicate libertà disponibili, con la sospensione dei colloqui con i familiari in presenza, dei permessi di lavoro e di quelli premio, e in alcuni casi anche delle telefonate. L’introduzione di queste limitazioni, la mancanza di una comunicazione chiara rispetto ai rischi causati dal virus, la consapevolezza di vivere in posti estremamente sovraffollati in un momento in cui era imposto il distanziamento fisico hanno scatenato rivolte in decine di istituti italiani. Con un elemento comune: l’assalto alle infermerie da parte dei detenuti per depredare il metadone, un oppioide usato per ridurre l’assuefazione nella terapia sostitutiva della dipendenza da stupefacenti. In pratica, il farmaco usato per disintossicarsi. I tredici detenuti sono morti proprio così, per overdose da metadone. Una versione data per buona dalle istituzioni sin dalle prime ore, ma su cui con il passare del tempo si sono accumulati i dubbi. Questa è una storia di cose dette e non dette, di documenti giudiziari che sostengono una cosa e di fascicoli sanitari che ne certificano altre, di testimonianze che si contraddicono. Una storia dove tanti elementi non tornano sui tempi dei soccorsi, sulle perquisizioni, sui segni delle violenze e sul modo in cui sono state condotte le autopsie. Una storia di tredici persone morte nel silenzio e di cui per settimane nemmeno si è saputo il nome. Una storia di cui probabilmente molti di voi non avranno mai sentito parlare, perché i detenuti sono fantasmi tanto da vivi quanto da morti. Una storia che scatta una fotografia terribile dello stato delle carceri italiane. La storia della peggiore strage nelle carceri italiane del dopoguerra è raccontata da Luigi Mastrodonato in un podcast di cinque puntate, disponibili da oggi, 26 luglio. Si chiama Tredici come tredici sono i detenuti morti in circostanze mai del tutto chiarite tra l’8 e l’11 marzo 2020. È prodotto dal Post e si può ascoltare gratuitamente sull’app del Post (scaricala qui) ma anche sulle principali piattaforme di podcast, come Spotify e Apple Podcasts. Di seguito il trailer: https://www.ilpost.it/episodes/podcasts/tredici/ No alla notte della democrazia di Don Luigi Ciotti La Stampa, 26 luglio 2023 Sono passati trent’anni da quelle esplosioni nel centro di Roma, la notte tra il 27 e 28 luglio 1993: ventitré feriti e danni ingenti alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro. Che fossero la risposta di Cosa Nostra alle parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento, quando definì la mafia “civiltà di morte” ed esortò i mafiosi a convertirsi prima del giudizio di Dio, lo avrebbero rivelato, oltre alle indagini, le parole di un boss di primo livello, Francesco Marino Mannoia. Interrogato dagli agenti dell’Fbi negli Stati Uniti, dove si trovava sotto regime di protezione, Mannoia disse: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile, ora invece Cosa Nostra sta attaccando la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”. Messaggi che si tradussero poi in pallottole: il 15 settembre venne ucciso a Palermo don Pino Puglisi e pochi mesi dopo, il 19 marzo 1994, a Casal di Principe, don Peppe Diana. “Interferire” è verbo che chiama in causa tutti: la Chiesa, lo Stato, la società cosiddetta civile. Sì, perché interferire significa esercitare la parresìa, quel “parlare chiaro” che è il contrario dell’ipocrisia, della parola che nasconde o che confonde. Ma, prima ancora, interferire significa parlare con la propria vita e le proprie scelte, lasciare che siano i nostri atti a testimoniare del nostro desiderio di giustizia e del nostro impegno a ricercare la verità. E’ dunque un segno di speranza la fiaccolata co-promossa da Libera, Comune e Diocesi di Roma in occasione del trentennale di quella notte, nel segno di una memoria che non smette di ardere, di accendere le coscienze e il desiderio di giustizia. Un segno di speranza, questa volontà d’interferire collettivamente, di disturbare le dinamiche di potere, di smascherare le omissioni e i silenzi che lo alimentano. Ma è una fiamma che non può essere fuoco di paglia, è fiamma da custodire e alimentare giorno dopo giorno. Per la Chiesa e la comunità cristiana significa saldare Cielo e Terra, nella consapevolezza che la fede non è un salvacondotto che ci esonera dalle responsabilità della vita sociale e civile. Credere in Dio non comporta solo dare accoglienza ai fragili e ai bisognosi: implica saldare lo slancio del cuore con l’impegno affinché siano riconosciuti i diritti di tutti, e quindi siano rimosse le cause che generano la povertà e l’ingiustizia in questo mondo. Se manca questa tensione “politica” - questo desiderio d’interferire, appunto - la dimensione spirituale rischia di ripiegarsi in se stessa, diventare un percorso di sterile edificazione personale, un sedativo di quelle inquietudini che rendono una vita davvero viva. È confortante, in tal senso, l’operare di tante realtà di Chiesa che vivono il Vangelo con la necessaria radicalità e s’impegnano, anche in contesti difficili, per affermare la dignità e la libertà delle persone. Segni di un fermento che spero si moltiplichi e metta radici, lasciando definitivamente alle spalle le sottovalutazioni, le reticenze, le ambiguità e anche le complicità che hanno caratterizzato a volte l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi delle mafie. Per la politica significa tornare alla sua vocazione originaria di servizio per il bene comune. Ma per esercitare questo servizio la politica deve impegnarsi a ridurre e infine eliminare quelle ingiustizie, discriminazioni, disuguaglianze cresciute a dismisura. Deve prendersi cura delle persone in quanto persone, non come elettori a cui strappare il consenso! Nella scena politica la visione profonda e lungimirante è stata oscurata dall’interesse contingente, così come la parola alta, meditata, è stata scalzata da quella retorica, utilitaristica, spacciatrice di illusioni. Più che mai, oggi, urge una dieta e una bonifica delle parole, un ritorno alla parola che vincola, convalidata dalle azioni. Credo che la crescita dell’astensione trovi qui una delle sue ragioni: la politica viene percepita da molti, da troppi, come un luogo distante, autoreferenziale, inaffidabile, lontano dalla vita. Perché la democrazia torni a essere “potere del popolo” è necessario che la politica torni a parlare con le persone e non alle persone. E necessario che agisca con loro, non al loro posto. Una democrazia solo di facciata è puro esercizio di potere e terreno di conquista per le mafie. Attraversare il centro di Roma la notte del 28 luglio, reggendo ciascuno una fiaccola, sarà un modo non solo simbolico per dire un corale “no” alla notte della democrazia. Save the Children: in Italia una vittima di tratta-sfruttamento su 3 è minore, soprattutto ragazze La Stampa, 26 luglio 2023 Un focus sui figli “invisibili” di genitori sfruttati nel lavoro agricolo in alcuni territori del nostro Paese, a grave rischio nell’accesso alla scuola e alle cure sanitarie. In Italia le nuove vittime di tratta e sfruttamento identificate nel 2021 sono state 757, in più di un caso su tre (35%) si tratta di minori, con una prevalenza di femmine (168 casi) rispetto a maschi (96). Le vittime prese in carico dal sistema anti-tratta nel 2022 sono state 850, di cui il 59% donne e l’1,6% minori. Il principale paese d’origine è la Nigeria (46,7%), seguito da Pakistan (8,5%), Marocco (6,8%), Brasile (4,5%) e Costa d’Avorio (3,3%). Tra le forme di sfruttamento prevalgono quelli di tipo sessuale (38%) e lavorativo (27,3%). Questi alcuni dati della XIII edizione del rapporto “Piccoli schiavi invisibili” diffuso da Save the Children. Quella che emerge è la fotografia di bambine e bambini figli di braccianti sfruttati che spesso trascorrono l’infanzia in alloggi di fortuna nei terreni agricoli, in condizioni di forte isolamento, con un difficile accesso alla scuola e ai servizi sanitari e sociali. Sono tantissimi e, nonostante alcuni sforzi specifici messi in campo, sono per lo più “invisibili” per le istituzioni di riferimento, non censiti all’anagrafe, ed è quindi difficile anche riuscire ad avere un quadro completo della loro presenza sul territorio. Il rapporto raccoglie testimonianze dirette di chi ha subito o subisce lo sfruttamento, insieme a quelle di rappresentanti delle istituzioni e delle realtà della società civile, dei sindacati, dei pediatri, dei medici di base e degli insegnanti, impegnati in prima linea, che restituiscono un quadro di diffusa privazione dei diritti di base che compromette il presente e il futuro dei bambini e delle bambine che nascono e crescono in queste condizioni. La tratta e il grave sfruttamento, che sia lavorativo o di altro tipo, si nutrono dello stato di bisogno degli individui con meno risorse sociali ed economiche, e il rapporto diffuso oggi mira a far comprendere il nesso nocivo tra tratta, grave sfruttamento e infanzia negata. Secondo una stima del 2021, gli occupati irregolari nel settore dell’agricoltura in Italia erano circa 230 mila, con una massiccia presenza di stranieri non residenti e un numero consistente di donne coinvolte (55 mila). Il fenomeno si concentra dove c’è più lavoro, come nel caso di alcuni distretti strategici per l’agroalimentare italiano, proprio come le province di Latina e Ragusa, dove ci sono terreni che consentono la coltivazione intensiva, e che richiedono una forte presenza di manodopera anche per la raccolta e l’imballaggio dei prodotti agricoli, e dove sono nati due dei mercati ortofrutticoli più importanti del Paese, il MOF - Centro Agroalimentare all’Ingrosso di Fondi (LT), e l’Ortomercato di Vittoria. La dimensione dello sfruttamento lavorativo in questi territori riguarda un numero significativo di nuclei familiari, anche mono-genitoriali e spesso di origine straniera, con più figli. Figli di braccianti già lavorano a 12 anni - Il filo rosso del percorso scolastico dei figli dei braccianti che lavorano nelle province di Latina e Ragusa si sfilaccia o si spezza a causa di un coinvolgimento diretto dei minori nello sfruttamento lavorativo, già a partire dai 12-13 anni, con paghe che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno. Questi alcuni dati del rapporto ‘Piccoli schiavi invisibili’ diffuso da Save the Children, che accende un faro sulla condizione dei minori che vivono in alcuni territori caratterizzati dallo sfruttamento del lavoro agricolo. Si può trattare di un lavoro a tempo pieno o, più spesso, limitato al tempo extra-scolastico quotidiano o estivo, o di un impegno che può iniziare già a 10 anni per ‘dare una mano’ nel periodo di raccolta. Per molti studenti, nel periodo del Covid, la scuola è stata completamente sostituita dal lavoro, poi si è tornati tra i banchi ma il pomeriggio si continua ad aiutare nelle serre, con una grossa difficoltà nel fare i compiti e il conseguente deficit nel rendimento scolastico che porta a bocciature nelle scuole medie, e a un ingresso ritardato alle superiori (16 o 17 anni), come confermano alcune delle testimonianze raccolte dal rapporto. Storie che si intrecciano con i dati allarmanti sul lavoro minorile diffusi recentemente da Save the Children: in Italia si stima che tra i 14-15enni che lavorano, il 27,8% (circa 58.000 minorenni) abbia svolto lavori dannosi per il proprio sviluppo educativo e per il benessere psicofisico. Tra i minorenni intervistati che hanno dichiarato di aver avuto esperienze lavorative, il 9,1% è impiegato in attività in campagna. Save the Children ai ministri: aiutare i figli dei braccianti - “Abbiamo voluto dar voce a bambini, bambine e adolescenti che vivono ogni giorno in un vero e proprio cono d’ombra, subendo gravissime violazioni nel loro accesso alla salute e all’educazione. Questo Rapporto ci dice che i lavoratori e le lavoratrici sfruttate in campo agricolo, oltre ad essere vittime dirette di questa condizione, sono anche genitori, madri e padri di bambini ‘invisibili’ che crescono nel nostro Paese privi di diritti essenziali. Questa dimensione così grave dello sfruttamento troppo spesso, sino ad oggi, è stata ignorata. È fondamentale innanzitutto riconoscere l’esistenza di questi bambini, assicurare ad ognuno di loro la residenza anagrafica, l’iscrizione al servizio sanitario e alla scuola e i servizi di sostegno indispensabili per la crescita”. Lo ha dichiarato Raffaela Milano, Direttrice Programmi Italia-Europa di Save the Children a margine della presentazione del Rapporto “Piccoli schiavi invisibili”. “Per questo motivo, chiediamo al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di integrare il Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato con un programma specifico per l’emersione e la presa in carico dei figli dei lavoratori agricoli vittime di sfruttamento, da definire con le parti sociali e il Terzo Settore, alla luce delle esperienze e delle buone pratiche sperimentate sul campo - aggiunge - Chiediamo inoltre ai Prefetti dei territori dove il fenomeno è più presente di attivare un coordinamento con gli uffici scolastici provinciali, i servizi sociali, l’associazionismo e le organizzazioni sindacali per una sistematica azione di monitoraggio della presenza dei minorenni nei territori agricoli e per una offerta attiva dei servizi di base. In questo quadro, riteniamo anche necessario che questo tema sia inserito nei percorsi di formazione degli ispettori del lavoro e di tutto il personale con compiti di verifica della attuazione delle leggi in materia affinché, con il sostegno del terzo settore, delle organizzazioni sindacali e delle reti anti-tratta, si rafforzi la capacità del sistema di intercettare in modo tempestivo tutte le forme, dirette e indirette, di sfruttamento dei minorenni in ambito agricolo e si potenzino le misure di protezione e di sostegno alle vittime”. La Lega ritorna laica, un suicidio assistito nel Veneto di Zaia di Giulia Merlo Il Domani, 26 luglio 2023 Il Veneto è la prima regione a pagare i farmaci a una donna malata terminale che ha chiesto di morire secondo la sentenza Cappato. “Doveroso rispettare le idee di tutti”, ha detto Zaia, in contrasto con la linea di Salvini che è contrario “al suicidio per legge”. “La vita è bella, ma solo se siamo liberi. Io lo sono stata fino alla fine”, ha lasciato scritto Gloria all’associazione Luca Coscioni. Paziente oncologica veneta di 78 anni, la donna è morta il 23 luglio dopo aver avuto accesso al suicidio assistito. Il suo è il secondo caso in Italia (il primo risale al 2022, nelle Marche), ma Gloria è stata la prima ad aver ottenuto la consegna del farmaco e di quanto necessario da parte dell’azienda sanitaria della sua regione. Il Veneto di Luca Zaia, infatti, è stata la prima regione che ha dato applicazione a quanto previsto dalla sentenza Cappato della Corte costituzionale, fornendo a spese della Asl il farmaco letale e la strumentazione per assumerlo a chi risulta vivere una condizione sanitaria idonea alla procedura del suicidio medicalmente assistito. “Anche se “Gloria” ha dovuto attendere alcuni mesi, ha scelto di procedere in Italia per avere accanto la sua amata famiglia e sentirsi libera nel suo paese”, hanno dichiarato Filomena Gallo e Marco Cappato, Segretaria Nazionale e Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che hanno ringraziato per “la correttezza e l’umanità il sistema sanitario veneto e le istituzioni regionali presiedute da Luca Zaia”. L’esito positivo della procedura, che in passato è stata oggetto di lunghi scontri politici e dolorosi iter giudiziari per le famiglie dei pazienti, solleva un dato politico: il Veneto del leghista Zaia, silenziosamente, ha impresso una svolta rilevante al dibattito sul suicidio assistito. “Dimostra che su questo tema non valgono i recinti dei partiti e delle coalizioni, ma conta la sensibilità nei confronti delle persone che soffrono e delle loro scelte”, ha dichiarato Cappato. Solo due giorni dopo è arrivato l’intervento del diretto interessato, che ha mantenuto il silenzio sulla vicenda nei giorni immediatamente successivi, anche a fronte dei ringraziamenti dell’associazione Coscioni: “C’è una legge, c’è una sentenza della Corte costituzionale del 2019. E noi in Veneto ci siamo limitati a rispettarla”, svolgendo gli iter psicologici e medici e ottenendo i pareri positivi delle commissioni interessate. I medici infatti hanno accertato che la decisione di procedere al suicidio assistito sia stata autonoma e consapevole, l’esistenza di una patologia irreversibile con sofferenze intollerabili e che i trattamenti con farmaci antitumorali mirati costituissero sostegno vitale. Sei mesi tra l’avvio e la conclusione della procedura di verifica, che ha permesso a Gloria di non dover sostenere in proprio le spese per la procedura, come invece era accaduto per il paziente nelle Marche. In quel caso, infatti, era servita una raccolta fondi di 5 mila euro per l’acquisto del farmaco e l’uso della strumentazione. Il caso del Veneto - “Non si tratta di essere a favore del suicidio assistito o contro”, sono state le parole di Zaia a radio Cortina, ma “è doveroso rispettare le idee di tutti” e “io penso che non decidere per non immischiarsi in questi fatti, non essere coinvolti, vuol dire stare nel posto sbagliato”. Lo stesso governatore, infatti, ha aggiunto che “è scandaloso che chi ha la legge in mano, peggio ancora con le domande dei pazienti, non proceda a dare risposte”. Una posizione, quella di Zaia, che formalmente non aggiunge nulla a quanto stabilito dalla Corte costituzionale, ma che nella Lega di Matteo Salvini è dirompente. Il segretario del partito, infatti, all’indomani della sentenza aveva detto che “la vita è sacra” e di essere “contrario al suicidio di Stato imposto per legge” e ha portato la Lega a bocciare in parlamento le proposte di legge in materia per colmare il vuoto normativo sul tema. Eppure, qualcosa nella Lega si sta muovendo proprio a partire dal Veneto, con un ritorno silenzioso a posizioni più laiche - come era il partito delle origini con Umberto Bossi - rispetto a quelle portate avanti dal segretario. Sul fronte politico, infatti, la maggioranza del consiglio regionale - composta da eletti nella lista personale di Zaia ma anche della Lega - ha votato a favore di una mozione sul fine vita. Su quello della cittadinanza, invece, il Veneto è la prima regione dove l’associazione Coscioni ha raggiunto le 7mila firme necessarie per presentare una proposta di legge regionale sul suicidio assistito con il testo “Liberi subito”. Anche su altri temi che hanno a che vedere con la libertà di scelta, la regione di Zaia è capofila: il governatore, infatti, ha dato il via libera al Centro regionale per i disturbi dell’identità di genere definendolo “un fatto di civiltà, oltre che di legge”. Negli anni scorsi, invece, aveva detto che “L’omofobia è una patologia punto e basta. Sono malati coloro che sono omofobi”. Prese di posizione mai urlate ma forti, che Zaia può permettersi anche in rottura con la linea del segretario perché è forte del suo 75 per cento di consensi in Veneto. Un dato rilevante anche in vista delle prossime elezioni europee, dove il governatore è considerato il candidato in pectore. Il suicidio assistito di Gloria, Zaia: “Non chiamatelo così, è la risposta civile a una cittadina” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 26 luglio 2023 Il governatore veneto: “Tema drammatico, dotarsi di una legge è doveroso. È gravissimo tenere in un cassetto le pratiche per non decidere, su questi temi no a dispute politiche” Il suicidio assistito di Gloria, Zaia: “Non chiamatelo così, è la risposta civile a una cittadina”. “Nessun atto di eroismo ma una risposta civile ad una cittadina che chiedeva di poter gestire il suo fine vita in modo libero e consapevole”. Usa toni bassi e parole misurate, Luca Zaia. Non è proprio il caso di sventolare bandierine perché il Veneto è stata la prima Regione ad aver “agevolato”, fornendo il farmaco letale, la scelta di una malata oncologica terminale (Gloria) di porre fine autonomamente alle sue sofferenze. “Noi abbiamo semplicemente dato attuazione ad una sentenza della Corte costituzionale - sottolinea il governatore - quella che nel 2019 si è espressa sul caso del dj Fabo”. Ma è un “semplicemente” che deve fare i conti con un vuoto legislativo che il Parlamento finora non ha colmato né pare, dalle proposte di legge che giacciono nei cassetti delle Camere, voglia colmare. Intanto, però, le situazioni di malati che intendono percorrere la strada di quello che viene chiamato “suicidio assistito”, definizione che fa storcere il naso a molti a partire dallo stesso Zaia (“la chiamerei gestione del fine vita di un malato terminale”). Il fattore tempo è determinante. Gloria, trevigiana di 78 anni, si era rivolta a Marco Cappato nel novembre scorso per chiedergli di aiutarla ad andare a morire in Svizzera. L’ex deputato europeo e l’avvocato Filomena Gallo dell’associazione Luca Coscioni le hanno però spiegato che poteva farlo anche a casa sua. Il suo ultimo appello a lasciarla andare via è del 12 luglio scorso, mentre i medici dell’Asl di Treviso verificavano che vi fossero tutte le condizioni previste dalla sentenza della Consulta, a partire dall’autodeterminazione e dalla capacità di autosomministrarsi il farmaco. Domenica scorsa è arrivato il via libera. Il dottor Mario Riccio era con Gloria quando ha girato da sola la rotella della flebo. “Questa è una materia che appartiene ad una sorta di “no fly zone” - spiega Zaia - non è un terreno per dispute politiche o ideologiche. Io rispetto le idee di tutti, sia di chi ritiene che questa sia una via giusta sia di chi preferisce le cure palliative. Ma su tutto viene il malato. Noi dobbiamo avere la massima attenzione nei suoi confronti e rispettare fino in fondo le sue volontà”. La Regione, attraverso l’Asl, ha seguito il percorso di Gloria e, a differenza di quanto è avvenuto in altre situazioni e in altre realtà, non si è messa di traverso, ma anzi ha fornito ciò di cui la paziente aveva bisogno. Gratuitamente e senza costringerla ad andare in Svizzera. “Un Paese civile si deve dotare di una legge - rimarca Zaia - ma in assenza di questa non possiamo pensare di abbandonare i pazienti a loro stessi. Anzi, dico che sarebbe gravissimo se ci fosse chi si tiene le pratiche nel cassetto per non assumersi la responsabilità di decidere. Ecco perché dico che tocca alla politica muoversi per garantire ai cittadini tutte le libertà a cui hanno diritto”. Torna alla mente il caso drammatico di Eluana Englaro che nel febbraio del 2009 si spense, dopo 17 anni vissuti in uno stato vegetativo, per l’interruzione della nutrizione artificiale resa possibile da una sentenza della Corte d’Appello di Milano. “Siamo ancora fermi lì” sbotta il presidente leghista del Veneto che sulle questioni dei diritti civili da tempo è su una linea più aperta e avanzata rispetto a quella ufficiale del partito. Nella sua regione c’è già un altro caso di un malato che ha avuto accesso alla possibilità di ricorrere alla fine vita assistita. È Stefano Gheller, 49 anni, affetto da distrofia muscolare. Ma le situazioni simili in giro per l’Italia sono diverse. E qui si pone anche un problema di parità di condizioni tra cittadini. “Non conosco la situazione nelle altre Regioni - osserva Zaia - ma mi auguro che non si cerchi di guadagnar tempo perché gli ammalati non ne hanno. Il tema del fine vita è drammatico e lo diventerà sempre di più. Io non ho fatto nulla di strano. Ho applicato una sentenza e moralmente ed eticamente mi sento a posto. Ma ribadisco che non si può andare avanti senza una legge. Non è da Paese civile”. Droghe. Incidenti stradali, i dati sbugiardano il governo di Hassan Bassi Il Manifesto, 26 luglio 2023 Uno degli aspetti più dibattuti del tema droghe è quello relativo alla guida in stato da alterazione da sostanze stupefacenti e l’eventuale correlazione con l’incidentalità. L’argomento è quanto mai delicato in quanto relativo ad episodi anche tragici, ma viene utilizzato come pretesto per sostenere la propaganda proibizionista ed anti storica della destra sul tema droghe senza nessuna attenzione particolare. Ne è riprova la proposta di revisione del Codice della Strada (Cds) dell’attuale ministro alle infrastrutture che vorrebbe imporre ai conducenti “in caso di positività alle droghe, a prescindere dallo stato di alterazione, la sospensione e revoca della patente con divieto di conseguirla fino a tre anni”. Salvini vuole introdurre una presunzione di colpevolezza dei consumatori di sostanze, in un tentativo surrettizio di inasprimento della già severissima normativa sulle droghe. Tanta enfasi non trova giustificazione nei numeri, né tanto meno in un vuoto normativo. L’art. 187 del Cds prevede già l’arresto fino ad un anno, l’ammenda fino a 6000 euro e la sospensione della patente, ed il Codice penale considera le aggravanti nel caso di omicidio stradale. I numeri poi non permettono di annoverare il fenomeno fra le prime cause di incidenti stradali. I dati puntualmente anticipati dal Libro Bianco sono stati confermati dalla relazione del Governo depositata il 19 luglio scorso, e malgrado si sappia che “se torturi i dati abbastanza, alla fine confesseranno quello che vuoi” (D. Huff, 1954), è difficile mascherare in qualche modo il fallimento sociale della normativa sulle droghe. La Relazione al Parlamento riporta infatti che solo nell’1,6% degli incidenti del 2021 è stata rilevata l’alterazione dello stato psico-fisico per uso di stupefacenti di uno dei conducenti. Nella relazione di quest’anno vengono anche buttati lì i dati sulla positività nelle analisi tossicologiche su persone decedute per cause violente. Fra i 780 casi del 2022, 103 fanno riferimento a morti sulle strade. Questi, come sanno bene i tossicologi, non dicono molto sulla effettiva influenza che la sostanza può aver avuto nella dinamica dell’incidente, non solo perché incompleti e parziali (manca il numero totale dei test, e non tutte le vittime vi sono sottoposte), ma soprattutto perché le sostanze psicoattive rimangono presenti nei liquidi biologici per molto tempo dopo aver terminato l’effetto alterante. Non trova poi alcuna giustificazione la presenza dei dati relativi al totale degli omicidi colposi a seguito di incidente stradale, che è un dato generale e non circostanziato all’uso di sostanze. Ieri l’Istat ha reso pubblici i dati del 2022 sull’incidentalità stradale. A fronte di un aumento degli incidenti rispetto all’anno precedente, che portano comunque il totale ad un livello inferiore a quello pre-pandemia, l’incidenza delle droghe pare diminuire. Secondo i report forniti da Carabinieri e Polizia, sui 56.284 incidenti con lesioni registrati (circa un terzo del totale) in soli 1.671 casi almeno un conducente (non sappiamo se quello che ha causato l’incidente) risulta positivo agli stupefacenti. Si tratta del 3% del totale, in calo sia rispetto al 2021 (3,2%) che al 2019 (3,4%). Per quello che riguarda i controlli su strada le sanzioni comminate ai sensi dell’art 187 sono leggermente aumentate da 4289 a 4607 (+6,9%) mentre quelle per art. 186 (alcol) addirittura del 21,5% - a fronte però di un aumento di tutte le sanzioni di oltre il 16%, di cui le violazioni del 187 rimangono lo 0,024%. Segno probabilmente anche di una maggiore intensificazione e profilazione dei controlli: la sola Polizia Stradale ha effettuato oltre il 27% di controlli in più nel 2022. Insomma, niente di nuovo sotto il sole: i dati parlano chiaro - per quanto torturati - e per il momento la propaganda ha poco a cui appellarsi. Migranti, i risultati sono tutt’altro che “senza precedenti” di Claudia Fusani Il Riformista, 26 luglio 2023 Ormai è a tutti gli effetti una “conversione”, quasi religiosa. In pochi mesi Giorgia Meloni è passata dal grido di battaglia “serve il muro navale, unica barriera all’immigrazione selvaggia” a “ci servono i migranti, mano d’opera purché regolare”, altro che “sostituzione etnica”. Dalla circolare sui “porti chiusi” e sui divieti alle Ong, brutta copia riveduta e addolcita di quella di Salvini, a “l’Italia ponte d’Europa con l’Africa”. Dal “no pasaran” ai compromessi con gli Stati di origine e transito: tu mi governi i flussi dal sub Sahara e io ti pago, ti do grano, turismo, accordi commerciali e soldi, tanti. Una “conversione” raccontata con una narrazione che sa di sacrale, eroico, eccezionale, roba che dovrebbe essere già nei libri di Storia. Lo dice la stessa premier: “Il grande vertice di Roma su migrazioni e sviluppo dà l’avvio al Piano Mattei”, questo governo sta ottenendo “risultati senza precedenti”, l’Italia “finalmente torna centrale in Europa e in Occidente perché ha deciso di promuovere con l’Africa accordi tra pari, non predatori ma cooperativo”. Ora il problema è che tutto questo non è quello che sembra e che la “conversione” risponde ad esigenze interne ed internazionali. Intendiamoci, il pragmatismo e cambiare idea migliorandola è sempre un ottimo indizio. Basterebbe riconoscerlo senza ammantarlo di altro che non esiste. Sono almeno tre le esigenze che hanno provocato la “conversione”, sostanziale e lessicale della premier: la constatazione oggettiva che il fenomeno migratorio è strutturale, ha picchi più o meno alti, non può essere fermato ma, se si è molto bravi, sicuramente può essere gestito; il contesto sociopolitico e geoeconomico; il bisogno di far ingoiare il boccone agli alleati leghisti da mesi sul piede di guerra per i continui sbarchi e arrivi e spiegare loro che esistono un piano e una strategia vera. Nessuna resa, caro Salvini. Anzi, il governo va all’attacco, nel nord Africa, nei paesi del Golfo e anche a Washington, giovedì, quando il presidente Biden chiederà conto alla premier italiana dello stato dei rapporti con l’Africa. Il punto è che più la narrazione di palazzo Chigi si ostina a decantare le gesta della leader internazionale, più i fatti richiamano alla dura realtà. I numeri sono impietosi: a ieri pomeriggio sono 86.132 le persone sbarcate via mare dal primo gennaio; un anno fa di questi tempi erano 36.600. Il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa fa notare che “nella settimana successiva al Memorandum Europa-Tunisia (Tunisi, 16 luglio, 900 milioni di fondi Ue) che dovrebbe, tra le altre cose, fermare e ridurre le partenze, sono sbarcati in Italia 7.359 persone “solo dalla Tunisia”, record assoluto che ha sbriciolato quella della settimana precedente il Memorandum: 6.431. Ora, nessuno pensa che il Memorandum Ue-Tunisia o il vertice su Migrazione e Sviluppo possano produrre sviluppi ed effetti a stretto giro. Ma tra le parole e i numeri e gli umori della cronaca c’è un abisso. Anche la promessa di ieri pomeriggio davanti ai circa duecento delegati Fao - “obiettivo nel 2030 è zero fame nel mondo” - sembra un po’ velleitario. Così come lo è stato spacciare come “Prima conferenza su Migrazioni e sviluppo” l’invito alla Farnesina di 19 delegazioni che comunque da stamni sarebbero state impegnate nel vertice contro la fame nel mondo in corso alla Fao fino a mercoledì. La verità è assai più pragmatica. Assai meno epica. E neppure inedita. Giorgia Meloni ha due esigenze. Sul fronte interno deve tenere buona la Lega. Da giorni si rincorrono notizie di sindaci del nord Italia, per lo più leghisti, per lo più in Veneto, che letteralmente riconsegnano alle prefetture i nuovi migranti arrivati in città. Non li vogliono, non sanno dove metterli, dicono che “non esiste un piano di accoglienza” e denunciano “situazioni estreme che avranno forti ricadute sul tessuto sociale”. I prefetti non hanno più alloggi dove sistemarli. Il caos, di cui nessuno parla e che il governo tiene nascosto. Fino a quando? L’unica adesso è coprire tutto con la narrazione del governo che impone il Piano Mattei per l’Africa, “la vera e tanto attesa svolta”. Ieri i bilaterali con Etiopia, Gibuti, Somalia, Kenya. Giorgia Meloni ha anche bisogno di avere uno standing internazionale che le permetta di guardare avanti, alle elezioni europee, ad esempio, specie dopo la batosta spagnola. Ha bisogno, quindi, di arrivare giovedì a Washington con tanti dossier avviati e incardinati. L’Africa, nel nuovo mondo in cui Russia e Cina avranno sempre minore agibilità, assume un ruolo centrale per l’Europa e l’Occidente in quanto forziere di materie prime ma anche continente che ha bisogno di tutto, cibo, investimenti e know-how. L’Europa e l’Occidente devono cercare di contenere - ed è sempre troppo tardi - l’avanzata di Cina e Russia nei paesi africani. E hanno bisogno che Egitto, Tunisia, Marocco e anche la Libia (ieri l’annuncio del volo Ita diretto Roma-Tripoli) siano paesi stabili con economie affidabili. Tutto questo di per sé rallenterà le migrazioni e le stragi, in mare e nel deserto. È un quadro completamente nuovo. Con cui Giorgia Meloni, con saggezza e abilità, sta prendendo le misure. Basta avere un po’ di misura. E non definirli “risultati senza precedenti”. Piantedosi: “La Tunisia rispetta i diritti umani e insieme alla Libia fa i blocchi navali” di Grazia Longo La Stampa, 26 luglio 2023 Il ministro dell’Interno: “Aiuteremo sempre chi fugge dalle guerre ma dobbiamo lavorare per creare condizioni di crescita nei Paesi di origine”. Piantedosi: “La Tunisia rispetta i diritti umani e insieme alla Libia fa i blocchi navali” Mentre pianifica la visita, nel primo pomeriggio, nel centro operativo nazionale dei vigili del fuoco, impegnati nella doppia emergenza dei roghi in Sicilia e dei nubifragi in Lombardia e Veneto, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nella sua stanza al secondo piano del Viminale, non trascura un’altra importante questione. Quella dei migranti. Il loro afflusso continua ad aumentare: dal primo gennaio ad oggi ne sono sbarcati 87. 351 contro i 37. 231 di un anno fa. Che cosa vi aspettate per i prossimi mesi? “È evidente che il periodo estivo, con le buone condizioni del mare, è da sempre quello di maggiore affluenza sulle nostre coste. Tuttavia, sono fiducioso che l’impegno ed il lavoro che stiamo portando avanti con la collaborazione operativa dei principali Paesi di origine e di transito dei flussi permetterà presto di avere primi concreti benefici. È fondamentale attuare una strategia di lungo periodo che si fondi su un approccio non solo securitario; la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazione che il presidente Meloni ha ospitato a Roma va proprio in questa direzione”. Ma come possono essere garantiti i diritti dei migranti da Paesi come Libia e Tunisia che non brillano certo per il rispetto dei diritti umani? “Credo che il più efficace contributo anche sotto questo punto di vista sia quello di aiutare questi Paesi a migliorare le loro condizioni socio-economiche. In Libia e Tunisia sono attivi progetti di organizzazioni umanitarie internazionali che lavorano per la tutela dei diritti delle persone. E poi vorrei sottolineare che in questa azione di collaborazione con Tunisia e Libia siamo sostenuti dall’Europa: non penso che qualcuno possa nutrire perplessità sull’attenzione che quest’ultima riserva alle condizioni dei migranti”. Che genere di garanzie chiediamo a Libia e Tunisia in cambio dei finanziamenti che offriamo loro? “Sono attivi in entrambi i Paesi progetti, finanziati anche dall’Unione Europea, di supporto logistico e assistenza tecnica, nonché di addestramento e formazione del personale, diretti a rafforzare il controllo delle frontiere terrestri e marine e in questo modo contrastare più efficacemente i traffici di migranti. Stiamo fornendo apparati tecnologici, equipaggiamenti e motovedette per svolgere attività di law enforcement. Lo stiamo facendo anche con altri Paesi di origine e transito dei flussi migratori irregolari. In una seconda fase, grazie al Piano per lo sviluppo dell’Africa, puntiamo a sostenere la crescita economica di tutta quell’area. Ma queste sono azioni a più lungo termine. Ora dobbiamo gestire l’emergenza sbarchi e su questo fronte sia la Libia sia la Tunisia stanno collaborando”. Che fine hanno fatto i blocchi navali sbandierati durante la campagna elettorale? “Un’attenta attività di controllo delle frontiere marine di Tunisia e Libia è già in corso. Quest’anno, secondo i dati aggiornati alla fine dello scorso mese, sono stati intercettati dalle autorità libiche e tunisine più di 40 mila migranti partiti dalle loro coste. Un’azione che serve a scongiurare tragedie in mare, a contrastare la piaga del traffico di esseri umani e a contenere gli sbarchi sul nostro territorio”. Come migliorare le condizioni dei migranti una volta che sono sbarcati sulle nostre coste? “Abbiamo previsto di rafforzare le strutture di prima accoglienza, soprattutto in Calabria e Sicilia, anche ampliando quelli già attivi. Quella di Lampedusa, ad esempio, è passata da 440 a 680 posti. Certo, durante i periodi più critici, questo centro arriva a registrare anche fino a 2 mila persone ma grazie all’assegnazione della gestione alla Croce Rossa italiana, ad alcuni interventi strutturali e a un costante e rapido svuotamento della struttura la situazione è molto migliorata. In questa direzione è stato fondamentale l’avere dichiarato lo stato d’emergenza che consente di semplificare e velocizzare tutte le procedure ed intervenire con tempestività”. Eppure da molti sindaci e governatori giungono proteste perché il sistema di distribuzione dei migranti è pieno di lacune. “Purtroppo le criticità sono strettamente legate a una pressione migratoria che non consente una programmazione. È una situazione estremamente complicata. Tuttavia, il sistema dell’accoglienza ha retto grazie, voglio sottolinearlo, all’impegno delle prefetture e di tutte le amministrazioni territoriali. Il governo Meloni ha dato un segnale importantissimo adottando i decreti flussi con una programmazione triennale, accompagnati da iniziative di formazione professionale nei Paesi di origine che agevolano l’ingresso legale di personale qualificato nel mercato del lavoro. Nella situazione attuale non possiamo mai sapere quando e quanta gente arriverà. Dobbiamo investire su ingressi regolari che eviterebbero anche conflittualità sui nostri territori”. Ma come può l’Italia, Paese di migranti all’estero e dal Sud al Nord, suggerire di non partire a chi soffre nella propria nazione? “L’esempio dell’Italia calza a pennello perché è la prova che quando le condizioni socio-economiche nel nostro Paese sono migliorate si è ridotto il fenomeno emigratorio. Sia chiaro: aiuteremo sempre chi fugge dalle guerre ma sul fronte dei migranti economici dobbiamo lavorare per creare condizioni di crescita e sviluppo sociale nei Paesi di origine. È quello che il premier Giorgia Meloni ha definito il “diritto a non migrare”. Accordo Tunisia-Italia sui migranti, il dissidente Omar Fassatoui: “Un regalo a Saied, una vittoria dei razzisti” di Orlando Trinchi La Stampa, 26 luglio 2023 “Speravo fosse l’occasione per portare avanti un discorso diverso sulle migrazioni, ma non nutrivo molte aspettative al riguardo”. Il politologo ed esperto di diritti umani tunisino Omar Fassatoui - ricercatore associato presso Mesopholis, Centro mediterraneo di Sociologia, Scienze politiche e Storia dell’Università Aix-Marsiglia - ha commentato la partecipazione - insieme a diversi capi di Stato e di governo del Mediterraneo - del Presidente della Tunisia Kaïs Saïed alla Conferenza internazionale sulla migrazione, tenutasi domenica 23 luglio a Roma. Fassatoui, il 16 luglio viene firmato il Memorandum Ue/Tunisia: tale partenariato potrebbe davvero diventare, come auspica la premier italiana Meloni, “un modello per le relazioni dell’Unione europea con gli altri Paesi del Nordafrica”? “Questo tipo di modello non mi entusiasma. L’accordo serve unicamente a confortare Saïed nella sua posizione di autorità. Non dev’essere solo la questione migratoria ad unirci, ma la mobilità e la condivisione delle competenze. Si tratta di un accordo che sembra confermare le tesi xenofobe di Saïed contro la migrazione, anche sub-sahariana. I migranti rappresentano un facile capro espiatorio. Non costituiscono certo l’unico problema della Tunisia o dell’Italia: ve ne sono molti altri, stabilità economica in primis. Posso comprendere che l’Italia tema i flussi migratori provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, ma bisogna anche evidenziare che i migranti non raggiungono l’Italia come meta ultima, ma per guadagnare un ingresso nell’Unione europea. Alla firma del Memorandum, inoltre, erano presenti la premier italiana Meloni - la cui famiglia politica combatte i flussi migratori e li considera alla stregua di un pericolo - e il premier olandese Mark Rutte, ma non i primi partner della Tunisia, ovvero Francia e Germania. Personalmente, sono a favore di una migrazione molto ben regolata, ma dobbiamo anche tenere conto dei disagi che attraversano le vite di queste persone. Il Mediterraneo sta diventando un cimitero. Fra l’altro, ricordiamo che anche gli italiani sono stati un popolo di migranti”. Durante la firma dell’accordo, nessuno ha accennato alla questione dei diritti umani. Una grave mancanza? “Mi sconforta che il fatto che i leader dell’Europa, che noi consideriamo mondo libero, concedano la loro fiducia a un Presidente che non rispetta la libertà di espressione e incarcera le persone per i più svariati motivi, adottando, in definitiva, lo stesso modus operandi di Ben Ali. Fortunatamente, nella definizione dell’accordo compare l’espressione “società civile”, che mi induce a sperare che non verranno almeno annullate tutte le cose buone compiute durante i dieci anni successivi alla Rivoluzione. A mio parere, l’accordo sarà utile più a Saïed che agli europei, potrebbe diventare un argomento da sfruttare alle prossime tornate elettorali. Circolano anche versioni alternative che sostengono che Saïed abbia addirittura piegato gli europei alla firma dell’accordo. È riuscito a ridurre al silenzio tutte le critiche usando la carta magica dell’immigrazione”. Quale sarà l’atteggiamento di Tunisi verso i migranti? “Dichiarazioni delle Nazioni Unite trovano xenofobe le posizioni espresse da Saïed: ha praticamente invitato la popolazione a gestire in prima persona la questione migratoria, tollerando taluni abusi. Le leggi tunisine sulla cittadinanza, inoltre, non aiutano i migranti: è colpa della Tunisia, che imprigiona sé stessa. Più della metà dei migranti provengono dalla Costa d’Avorio, in quanto da lì possono giungere in Tunisia senza visto per novanta giorni. Se si fermano di più, tuttavia, devono pagare una multa per soggiorno illegale e, se non sono in grado di pagarla, non possono uscire dal Paese. Alcuni sono costretti a rimanervi per decenni”. L’Unione europea stanzia somme importanti a favore della Tunisia, mentre la gran parte dei fondi, ovvero 900 milioni, sono vincolati al prestito della FMI. Secondo lei si supererà la crisi economica? “L’Europa ci ha sempre aiutato, ma a volte si avverte il sentore che essa, in realtà, stia solo aiutando sé stessa. Dare soldi non risolve il problema. Bisognerebbe lavorare sullo stipendio medio: in Tunisia non si riesce a vivere dignitosamente e persino giudici, medici e altri quadri stanno abbandonando il Paese. Una vera e propria emorragia. Abbiamo alle spalle una lunga storia di cooperazione finanziaria: dopo la transizione democratica, milioni di euro sono affluiti in Tunisia, ma non abbiamo registrato effetti sul cambiamento. È diffusa una notevole corruzione. Nonostante vi sia un controllo minimo sulle spese europee, mi permetto di dubitare che tutti questi fondi verranno investiti in maniera opportuna”. Come giudica la gestione del potere da parte di Kaïs Saïed? “All’inizio vi era speranza nei confronti di Saïed, si pensava che avrebbe potuto cambiare le cose, ma ora dobbiamo registrare da parte sua posizioni chiaramente antidemocratiche. Il suo modo di comunicare è oltretutto deprecabile: sui migranti poteva usare parole meno violente. Lui è convinto di seguire un modello democratico, di difendere l’indipendenza e la libertà della Tunisia a livello internazionale, ma bisogna essere realisti: economicamente e politicamente non possiamo isolarci dai nostri partner abituali. Non possediamo né il gas dell’Algeria né il petrolio della Libia, ma solo le nostre competenze e la nostra reputazione”. Il capo del fondo Onu: “Sconfiggere la fame? I soldi ci sono, serve la politica di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 26 luglio 2023 Alvaro Lario, presidente dell’Ifad: “Bisogna investire di più su distribuzione, stoccaggio, trasporti e accesso al credito dei piccoli contadini. Producono un terzo degli alimenti ma ricevono meno del 2% dei finanziamenti per il clima”. “Un mondo senza fame è possibile” va ripetendo lo spagnolo Alvaro Lario, da ottobre alla guida dell’Ifad - il Fondo internazionale Onu per lo sviluppo agricolo - tra i protagonisti del vertice sui sistemi alimentari delle Nazioni Unite, fino a domani a Roma. Come crede che ci si possa arrivare? “Investendo sulle comunità rurali. I piccoli contadini producono un terzo degli alimenti ma ricevono meno del 2% dei finanziamenti per il clima pur essendo i meno preparati ad adattarsi. Stiamo cercando di fare dell’adattamento al clima una priorità del Fondo”. Intanto il numero di quanti soffrono la fame cresce: sono 122 milioni in più che nel 2019. Mentre un terzo del cibo prodotto viene buttato... “Servono più investimenti in distribuzione, stoccaggio, trasporti e accesso al credito. I piccoli agricoltori spesso non hanno accesso ai mercati perché non ci sono strade”. Ma i soldi ci sono? “Ogni anno i Paesi ricchi contribuiscono con 700 miliardi di dollari che il Fondo eroga ai governi sotto forma di sussidi. La Banca Mondiale stima che per trasformare i sistemi alimentari in sistemi equi e resilienti ne basterebbero circa la metà, sui 400 miliardi. Questa è una questione politica più che finanziaria”. L’accordo sul grano sospeso da Mosca la preoccupa? “L’incertezza nell’ultimo mese ha già prodotto un aumento dei prezzi, ma la gran parte delle conseguenze si vedrà nel medio periodo”. Così l’Italia vende le armi sottobanco all’Egitto: il patto con al Sisi di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 26 luglio 2023 Il rapporto di EgyptWide segnala che nel periodo 2013-2021 il materiale esportato oltre il Mediterraneo comprende più di 30.120 revolver e pistole automatiche, oltre 3.600 fucili e più di 470 fucili d’assalto, un numero imprecisato di carabine e software militari. Abbiamo armato uno Stato di polizia. Con quelle armi il “faraone” ha represso nel sangue proteste di piazza. “L’Italia non ha mai interrotto la vendita di armamenti all’Egitto negli ultimi dieci anni, neanche dopo l’omicidio di Giulio Regeni, ma anzi ha venduto all’Egitto armi piccole e leggere per un valore superiore ai 62 milioni di euro”. È quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’associazione EgyptWide for Human Rights dal titolo “Made in Italy per reprimere in Egitto”. Il report, presentato non molto tempo fa alla Camera dei Deputati con Archivio Disarmo, Rete italiana Pace e Disarmo, e Amnesty International, è frutto dell’analisi incrociata di molteplici banche date governative e internazionali relative al commercio di armi piccole e leggere tra Italia ed Egitto nel periodo 2013-2021. Secondo l’organizzazione, il materiale esportato comprende oltre 30.120 revolver e pistole automatiche, più di 3.600 fucili e più di 470 fucili d’assalto, oltre a un numero imprecisato di carabine, mitragliatrici leggere e pesanti, fucili da caccia, munizioni, tecnologia e software per uso militare e componenti di ricambio. EgyptWide nel report rimarca che “così facendo, l’Italia ha contravvenuto alle disposizioni contenute nella sua stessa legge nazionale, la n. 185/1990, la Posizione comune europea 2008/944/Pesc e l’Arms Trade Treaty, che vietano l’esportazione di materiale militare verso Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani o in cui tale materiale possa essere utilizzato per la repressione interna”. Non solo: il rapporto fa anche luce “sull’uso improprio di armi piccole e leggere di fabbricazione italiana in Egitto, documentando episodi in cui le armi da fuoco prodotte in Italia sono state utilizzate per commettere abusi quali repressione interna, brutalità della polizia nei confronti di manifestanti pacifici e pacifiche e persino esecuzioni extragiudiziali. Tra i modelli d’arma esportati dall’Italia ed utilizzati per commettere violazioni dei diritti umani, spiccano i fucili Beretta 70/90 e ARX160, i fucili Benelli M3T Super 90 e M1 Super 90, e pistole Beretta F92?. Quelle armi, rimarcano gli esperti sulla base dell’esito dell’analisi di centinaia di materiali audiovisivi, sono state ripetutamente utilizzate da diversi attori statali per compiere inaccettabili violenze e violazioni nel regime “stabile” del Medio Oriente. I nostri Arx 160, per esempio, sono stati protagonisti di esecuzioni extragiudiziali nel Sinai settentrionale, e delle più piccole Benelli SuperNova Tactical e Beretta 92FS l’Egitto si è servito per intimidire e disperdere i civili nel corso di varie operazioni di sicurezza urbana. I più famosi Beretta 70/90, poi, erano imbracciati dalle forze speciali durante i massacri di Al-Nahda e Rabaa Al-Adawiya che nel 2013, all’indomani del colpo di Stato che aprì la stagione politica più liberticida della storia moderna d’Egitto, lasciarono sul terreno quasi un migliaio di corpi. Il 2021, anno che chiude l’arco cronologico preso in esame dai ricercatori di EgyptWide, ha segnato il record per il valore totale delle licenze per le esportazioni d’armi concesse dall’Italia. Siamo tra i maggiori esportatori al mondo di Salw, secondi solo agli Stati Uniti. Il nome “armi piccole e leggere” non deve far credere che queste siano meno letali. Sono più facili da nascondere e, di conseguenza, da rintracciare ma il numero di morti di cui sono responsabili non ha nulla da invidiare alle “classiche” armi di distruzione di massa. “Le violazioni dei diritti umani compiute con armi italiane e di importazione, comprese le violazioni documentate in questo rapporto, non erano inevitabili, e nemmeno imprevedibili” avverte Alice Franchini, ricercatrice di EgyptWide. Sentita dall’agenzia Dire, Franchini aggiunge: “La normativa vigente in materia di commerci d’arma contiene disposizioni specifiche proprio per prevenire abusi come questi. La scelta di trasgredire a tali disposizioni è stata e rimane una scelta politica, quella di mettere i profitti dell’industria bellica davanti ai diritti umani e alla sicurezza, con le conseguenze che vediamo”. “Lo scorso maggio - annota Giorgio Beretta, analista di punta dell’l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (OPAL) - il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il capo di Stato maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone. Sono stati ricevuti al Cairo dove hanno incontrato il presidente Abdel Fattah al-Sisi e il ministro della Difesa egiziano, Mohamed Zaki, con i quali - riportava l’Agenzia Nova - hanno concordato di proseguire nello sviluppo della cooperazione in ambito militare. Un modo, nemmeno troppo celato - conclude l’analista di OPAL - per dire che l’Italia continuerà ad armare e addestrare le forze armate di al-Sisi”. Mentre in Italia si polemizza sull’ “ingratitudine” di Patrick Zaki, la stampa mainstream oscura un’altra vergogna del faraone. Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati. Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. Peggio della Tunisia di Kais Saied. Italia-Egitto: un patto di sangue. Israele. Così Netanyahu vuole limitare il potere dei giudici di Isabel Kerschner e Patrick Kingsley* Il Dubbio, 26 luglio 2023 La controversa riforma della giustizia prevede l’abbandono dei veti della Corte suprema su leggi e nomine da parte dell’esecutivo. I deputati israeliani alla fine hanno approvato la controversa riforma del primo ministro Benjamin Netanyahu per limitare l’influenza della Corte Suprema, sfidando i movimenti di opposizione che hanno minacciato di bloccare gran parte del paese a suon di proteste. La riforma limita le modalità in cui la Corte può ribaltare le decisioni del governo, un cambiamento del sistema giudiziario che ha portato alla più grave crisi interna di Israele dalla sua fondazione, 75 anni fa. La posta in gioco difficilmente potrebbe essere più alta per Netanyahu e per Israele. La decisione di portare avanti la riforma potrebbe avere pesanti effetti sull’economia dello Stato ebraico, mettere ulteriormente a dura prova le relazioni con l’amministrazione Biden e portare migliaia di riservisti, una parte fondamentale delle forze armate israeliane, a rifiutarsi di prestare servizio volontario. Il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha avvertito che lo scisma potrebbe portare persino alla guerra civile. Netanyahu è a un bivio: stabilizzare la sua coalizione, che comprende partiti di estrema destra e ultraortodossi che hanno le proprie ragioni per voler limitare i poteri della Corte Suprema, oppure placare la furia degli israeliani più liberali che si oppongono al maggiore controllo che il potere esecutivo avrà sull’operato della magistratura. Il conflitto in corso fa parte di un più ampio scontro ideologico e culturale tra il governo di Netanyahu che vuole trasformare Israele in uno stato più religioso e nazionalista, e i loro oppositori, che hanno una visione più laica e pluralista della società e della politic israeliana. La coalizione di governo sostiene che la Corte goda di troppo margine di manovra per intervenire nelle decisioni politiche e questo minerebbe la democrazia israeliana dando ai giudici non eletti troppo potere sui legislatori eletti. La coalizione governativa afferma che il tribunale ha agito troppo spesso contro interessi della destra, ad esempio impedendo la costruzione di insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata o annullando alcuni privilegi concessi agli ebrei ultraortodossi, come l’esenzione dal servizio militare. Gli oppositori temono che la misura azzopperà la Corte e i suoi poteri di intervento sulle decisioni del governo. E che il governo, non vincolato da tribunali indipendenti, potrebbe porre fine ai guai giudiziari di Netanyahu, che è sotto processo con l’accusa di corruzione. In particolare il governo avrebbe più libertà di sostituire il procuratore generale, Gali Baharav-Miara, principale accusatore di Netanyahu. Il premier ha da parte sua negato qualsiasi tentativo di interrompere il suo processo. I critici temono anche che i cambiamenti possano consentire al governo - il più conservatore nella storia di Israele - di limitare le libertà civili od ostacolare il processo di secolarizzazione della società israeliana. Ma in cosa consiste la riforma? Per limitare l’influenza della Corte, il governo cerca di impedire ai suoi giudici di utilizzare il concetto di “ragionevolezza” per revocare le decisioni di legislatori e ministri. La ragionevolezza è uno standard legale utilizzato da molti sistemi giudiziari, tra cui Australia, Gran Bretagna e Canada. Una decisione è ritenuta irragionevole se un tribunale stabilisce che è stata presa senza considerare tutti i fattori rilevanti o senza dare un peso rilevante a ciascun fattore, o dando troppo peso a fattori irrilevanti. Il governo afferma al contrario che la ragionevolezza è un concetto troppo vago e mai codificato nella legge israeliana. La Corte ha fatto arrabbiare il governo quest’anno quando alcuni dei suoi giudici hanno utilizzato questo strumento per impedire ad Aryeh Deri, un veterano politico ultra-ortodosso, di prestare servizio nel gabinetto di Netanyahu. Hanno detto che era irragionevole nominare il signor Deri perché era stato recentemente condannato per frode fiscale. Come si sono svolte le proteste? In inferiorità numerica in Parlamento, i partiti di opposizione israeliani non erano in grado di fermare la riforma della giustizia. Così hanno boicottato il voto e il provvedimento è passato per 64 voti a zero. Ma influenti gruppi della società israeliana gruppi come i riservisti militari, gli scienziati, gli accademici fino ai leader sindacali - stanno usando tutto il loro peso per fare pressione sul governo. Tutti questi attori hanno unito le forze e costretto Netanyahu a sospendere la riforma alcuni mesi fa. I riservisti di prestigiose unità dell’esercito minacciano nuovamente di interrompere il volontariato se la riforma andrà avanti. I leader laburisti hanno anche minacciato di indire uno sciopero generale. Dopo mesi di manifestazioni e cortei le proteste si sono intensificate negli ultimi giorni. Lunedì centinaia di manifestanti hanno bloccato le strade che portano all’edificio del Parlamento, alcuni dei quali si sono incatenati l’uno all’altro. I legislatori o i tribunali modificheranno la riforma? Il Parlamento israeliano, chiamato Knesset, si aggiorna per la pausa estiva alla fine di luglio e non si riunisce fino all’autunno. Ma è altamente improbabile che il governo di Netanyahu, responsabile del voto di lunedì,apporti modifiche al provvedimento nei giorni precedenti la pausa. In un discorso tenuto lunedì sera, Netanyahu ha suggerito che il suo esecutivo potrebbe riconsiderare alcuni punti della riforma alla fine di novembre e che vuole concedere all’opposizione per discuterne in autunno. Netanyahu ha già tentato di ammorbidire alcune parti della riforma congelando l’articolo che consente al Parlamento di annullare le decisioni della Corte, o quello che gli conferisce più poteri nella nomina dei giudici della Corte stessa. Due passaggi molto controversi messi in pausa di fronte alle proteste, ma che potrebbero essere ripristinati a novembre. La Corte Suprema di Israele ora si trova di fronte a uno strano dilemma che potrebbe mettere l’uno contro l’altro il potere politico e quello giudiziario: i giudici dell’Alta Corte devono infatti decidere come gestire una riforma che ridurrebbe il proprio potere. I leader dell’opposizione israeliana hanno promesso di chiedere alla Corte di rivedere la legge; se i giudici decidono di occuparsi del caso, il processo di revisione giudiziaria richiederebbe settimane se non mesi. La Corte Suprema potrebbe anche emettere una sospensione della legge. Ma il voto di lunedì è un emendamento a una Legge fondamentale - uno dei corpi di leggi che hanno uno status quasi costituzionale in Israele - e gli analisti israeliani affermano che la Corte Suprema finora non è mai intervenuta o annullato una Legge fondamentale. *Copyright New York Times