Per le carceri italiane solo “briciole” dal Pnrr e in Sicilia i fondi nemmeno arrivano di Filippo Calascibetta Quotidiano di Sicilia, 25 luglio 2023 Nell’Isola non sono previsti interventi per strutture penitenziarie, nonostante sia la regione con il più alto numero di istituti. Ragusa, Palermo, Messina, Augusta; non è l’inizio di una classifica di qualche tipo, affatto. Sono le località siciliane dove vi è almeno un carcere e da dove negli ultimi mesi sono arrivate notizie su persone che si sono suicidate, o hanno tentato di farlo. Cosa avevano in comune? Tutti detenuti. Dati alla mano, la situazione in Italia in merito al fenomeno suicidi in carcere non è incoraggiante. Tanti i fattori scatenanti, persone con problemi psichiatrici, conseguenze degli scioperi della fame e altri tipi di condizioni; probabilmente a influire sono anche i problemi, moltissimi problemi, che hanno gli istituti penitenziari sparsi su tutto il territorio della Penisola a livello strutturale. I problemi delle carceri - Secondo una pubblicazione realizzata dall’associazione Antigone, al 29 maggio 2023, nei primi cinque mesi di quest’anno si sono registrati in Italia 23 suicidi all’interno delle carceri italiane, e sono quelli denunciati, di cui si ha notizia. Sì, occorre l’ultima precisazione, in quanto attorno al fenomeno si è creato un silenzio inspiegabile. Lo conferma il presidente dell’associazione Antigone in Sicilia, l’avvocato penalista Giorgio Bisagna: “Ci sono delle criticità nelle carceri siciliane. Tanti gli scioperi della fame che abbiamo constatato con l’associazione. Le notizie di suicidi e scioperi della fame ci arrivano dalle comunicazioni alla stampa dei sindacati di polizia penitenziaria, mentre è più difficile che si abbia contezza di tali accadimenti direttamente dall’Amministrazione - spiega Bisagna -. Tuttavia, se dovessi trovare una criticità, adesso, la quale richiede la massima priorità, è la presenza di soggetti affetti da disturbi psichiatrici che non ricevono le attenzioni adeguate. Solo ad Augusta su circa 400 detenuti, 120 hanno disturbi psichiatrici in terapia farmacologica e la presa in carico delle Asp di questi soggetti non è adeguata perché i medici devono “dividersi” tra il carcere e tutti i pazienti del Distretto di salute mentale di competenza. Oltre a ciò, mi sento di affermare che il carcere è ancora lontano dall’essere uno strumento rieducativo”. Il carcere come strumento rieducativo, perché nasce con questo scopo, in buona parte ha fallito. Inteso ormai spesso come discarica sociale, gli esperti lo confermano. L’Italia non è assolutamente una Nazione modello in questo, già più volte è stata condannata per violazioni della Cedu (Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo) dalla Corte di competenza. I numeri - Le carceri italiani non versano in condizioni buone, almeno, per un buon numero di istituti è così. Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ossia il Pnrr, si poteva attingere ai fondi per proporre dei progetti di interventi, ma è stato fatto pochissimo, il tutto risulta alquanto irrisorio. Dunque, orientandosi con i numeri, le presenze nelle carceri italiane totali sono: 57.525 (al 30/06/2023, Ministero della Giustizia), di cui 2.512 donne e 17.987 stranieri. In prevalenza la popolazione carceraria possiede solo la licenza media; il 39% degli istituti è stato costruito prima degli anni ‘50; il 25% delle celle non rispetta i 3mq calpestabili per detenuto, come previsto dal regolamento del 2000; Il 5% delle celle non ha un wc in ambiente adeguatamente separato. Gli ingressi in carcere rimangono stabili, ma il numero di presenze crescerebbe per due motivi: il primo, ci sono più condanne definitive, infatti, al 31 dicembre 2021 il 69,9% dei presenti aveva in capo una condanna definitiva. Il secondo, è legato all’aumento dell’età media, in maggioranza, il 18,5%, dei presenti ha un’età compresa fra i 50 e i 59 anni. Subito dopo, 14,4%, età dai 35 ai 39 anni. Il 62% dei detenuti, al 31/12/2021, era stato in un istituto penitenziario almeno già una volta, dunque, è normale chiedersi se i programmi di reinserimento, o le misure alternative, siano poco efficaci. Ma ciò dipende anche da altri fattori. L’insieme di questi dati viene dall’ultimo report dell’associazione Antigone. La Sicilia conta una popolazione carceraria di 6.329 persone detenute, emerge dagli ultimi dati, al 30/06, diffusi dal Ministero della Giustizia. Non pare si superi il numero di capienza prevista che è di 6.476. L’Isola è la regione italiana con il più alto numero di carceri sul territorio, ben 23. Seconda è la Lombardia, 18, dove vi è un grave tasso di soprannumero, e chiude il podio la Toscana con 16. I fondi del Pnrr e il Pnc - Tornando al Pnrr, poteva essere un utile strumento per effettuare alcuni interventi, dati i deficit strutturali delle carceri, ma, nonostante siano stati stanziati anche fondi del Pnc (Piano Nazionale per gli Investimenti Complementari) che ammontano in totale a 30,6 miliardi di euro, in tutto il territorio italiano agli istituti penitenziari sono stato assegnati solo 132,90 milioni di euro. Suddivisi nel modo seguente: 84 milioni per interventi alle carceri per gli adulti e 48,9 milioni per i minori. Gli interventi previsti sono di tipo strutturale per il rifacimento di padiglioni, costituzione nuovi padiglioni, efficientamento energetico, oppure per renderli a norma antisismica. Si faranno in Lombardia, Calabria, Campania, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte, Umbria e Veneto. In Sicilia niente, ed è l’Isola con il più alto numero di istituti. In Lombardia non è previsto alcun intervento per strutture in emergenza seria, come il San Vittore per esempio. Stessa cosa nel Lazio, niente interventi al Regina Coeli o a Latina, le case circondariali che versano in condizioni peggiori. La politica - Per tale motivo, arrivano le parole di un esponente del partito Radicali Italiani, competente in tema carceri, ex consigliere regionale del Lazio, Alessandro Capriccioli: “I dati di sintesi che ho a disposizione coincidono con gli unici resi pubblici sul sito del Ministero della Giustizia (si veda il paragrafo precedente, ndr). Si tratta di interventi legati in gran parte a messe in sicurezza o di efficientamento energetico. Andrebbe rivisto tutto, altroché - dichiara Capriccioli -. Subentra anche un tema di natura politica, perché l’attuale Governo ha proposto ultimamente di costruire nuove carceri, ma così non si risolve nulla. È ora di smetterla con la propaganda politica. Nel Lazio, come nel resto d’Italia, ci sono situazioni nelle carceri imbarazzanti. Il tutto verificato con i miei occhi quando ero consigliere regionale: 3 docce funzionanti per 60 persone; al carcere di Cassino vi erano agenti di polizia penitenziaria e detenuti che indossavano sciarpe, cappelli, guanti e cappotto in alcune sezioni in inverno e viceversa in estate. Parliamo attorno al 2019 o 2020. Questi problemi scatenano nervosismo e causano episodi spiacevoli come le recenti maxi risse e simili. Il problema non si risolve rinunciando alla sorveglianza dinamica, ma del resto la penitenziaria dalla loro parte ha il problema che spesso si trova in sottorganico. Con interventi strutturali adeguati, almeno là dove serve, la tensione diminuirebbe sicuramente, occorrono decisamente più investimenti e con il Pnrr finisce tutto con quelle cifre. Per non considerare che la popolazione carceraria negli ultimi 30 anni è cambiata, vi sono più culture diverse, spesso mancano mediatori culturali, e si può parlare fino all’infinito dei problemi che si riscontrano nelle carceri” conclude Alessandro Capriccioli. L’iniziativa “Devi Vedere” - Il partito Radicali Italiani ha organizzato recentemente un progetto che si chiama “Devi Vedere”, al quale possono partecipare tutti, previa una selezione e un breve percorso di formazione, per portare, con le autorizzazioni necessarie naturalmente, le persone esterne in visita alle carceri. È stato fatto in diverse parti d’Italia sino ad ora. Un’iniziativa che serve a portare a conoscenza le condizioni degli istituti penitenziari e aggiunge Capriccioli: “Si tratta di strutture chiuse, come si pretende un percorso di rieducazione, di reinserimento se la gente all’esterno non sa nemmeno di cosa si sta parlando? E anche chi è rinchiuso all’interno, sostanzialmente non conosce più l’esterno. Quando abbiamo avviato il progetto nel Lazio nel giro di una settimana abbiamo avuto circa 200 domande, da giovani e giovanissimi. Significa che a loro interessa il tema. Le carceri, ricordo, sono un luogo dello Stato”. Progetti del Pnrr per le carceri e i Provveditorati - In conclusione, per quanto concerne i fondi Pnc destinati alle carceri italiane, è utile sapere che si tratta di fondi complementari al Pnrr, i quali possono essere cofinanziati da quest’ultimo oppure colpiscono direttamente il bilancio dello Stato. In totale si parla, appunto, di 30 miliardi circa, ma neanche l’1% destinati agli istituti penitenziari. Questo è quanto previsto per ora. Pochissimi progetti presentati, nel caso della Sicilia, si rammenta, nessuno. Competenti nel proporre o, meglio, a presentare i progetti sarebbero i Provveditorati regionali che coadiuvano il Ministero della Giustizia per un migliore coordinamento nella gestione. La Sicilia ne ha uno per sé. Abbiamo contattato il Provveditorato di competenza, per chiarire la mancanza di progetti per la Sicilia, ma al momento non intendono rispondere. Una rosa di tre uomini per il Garante dei detenuti, quando serve Rita Bernardini di Marco Perduca huffingtonpost.it, 25 luglio 2023 Nordio ci ripensi. Annullerebbe la prassi per cui gli orientamenti politici di chi fa parte di un organo di garanzia siano più o meno rappresentati, perché tutti e tre i candidati di oggi guardano a destra. Pare che il ministro Nordio abbia composto la rosa di candidature per il rinnovo del collegio dei garanti dei diritti delle persone private di libertà: ci saranno tre uomini. In patente spregio alle raccomandazioni delle Nazioni unite che suggeriscono il massimo di inclusività e rappresentazione all’interno delle istituzioni, e in particolare quelle di monitoraggio e garanzia del rispetto dei diritti umani, e a conferma che Giorgia Meloni ha purtroppo solo leggermente scheggiato il soffitto di cristallo ci prepariamo a un bel triumvirato (del collegio a fine mandato facevano parte Emilia Rossi e Daniela De Robert). Nordio non solo cancellerebbe le donne, chissà cosa ne pensano i paladini della lotta alla cancel culture a lui vicini, ma annullerebbe anche la prassi per cui gli orientamenti politici di chi fa parte di un organo di garanzia siano più o meno rappresentati - tutti e tre i candidati di oggi guardano a destra. Garante-in-chief sarebbe Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato di Forza Italia arrivato a Fratelli d’Italia attraverso Coraggio Italia. Ordinario di diritto privato a Firenze, già consigliere comunale a Bucine (paesino di 10000 abitanti in provincia di Arezzo) è stato anche il vicepresidente dell’agenzia regionale di sanità della Toscana. Non si rinvengono particolari interessi nei diritti delle persone private di libertà. Più strutturato invece il curriculum del professor Mario Serio, secondo in lista, ma anche qui mancano particolari interessi professionali o pubblici per la detenzione e i diritti delle persone ristrette anche in altre strutture. Appropriata invece, almeno in teoria, la figura di Carmine Antonio Esposito, ex-presidente del Tribunale di sorveglianza di Perugia e successivamente di Napoli. In teoria perché, lasciando da parte l’età piuttosto avanzata, il Garante fa un lavoro che non può non confrontarsi con la magistratura di sorveglianza, nel caso di Esposito (che una decina di anni fa frequentava i Radicali napoletani) ci potrebbero essere dei potenziali conflitti di interesse - chiamiamoli così. Nessuno dei tre quindi, con l’ultima eccezione (anche se il presidente non va direttamente a sorvegliare cosa accade negli istituti) non si rintracciano particolari affezioni al rispetto dei diritti umani delle persone ristrette, un’affezione che, dato il tema a le condizioni della detenzione in Italia, va vissuta in maniera diversa da una professione, un’affezione da vivere con piglio “militante”. Ed è proprio qui il problema. Se i nomi avanzati da Nordio fossero quelli definitivi, la Repubblica italiana potrebbe continuare a godere di (almeno) quattro garanti: i tre maschi investiti ufficialmente e Rita Bernardini che, indipendentemente dal governo in carica e disinteressata a riconoscimenti (chessò un cavalierato, una qualche stella di un qualche ordine per meriti acquisiti nel campo della protezione dei penultimi tra gli ultimi) continuerà a fare quello che ha sempre fatto. Uno scenario invidiabile… Possibile che il (sedicente) liberale Carlo Nordio, che conosce Bernardini anche di persona, abbia preferito rimanere nel solco della tradizione delle peggiori pratiche dello spoil system quando si parla di diritti umani, piuttosto di far sì che le persone ristrette nelle carceri, in istituti a custodia attenuata, nelle residenze per persone con problemi psichiatrici, ma anche migranti detenuti “amministrativamente” nei Cpr o negli hotspot fino ad arrivare ai rimpatri forzati non possano sperare di avere dalla loro parte qualcuno che conosce perfettamente quel che deve fare, perché lo fa da decenni? Possibile? Un mese fa qualche gola profonda aveva segnalato la contrarietà di alcune componenti del centrosinistra - e in effetti il silenzio parlamentare sinistro sulla questione regna sovrano -, il 23 luglio il Deputato di Italia Viva ha, finalmente, pubblicamente sostenuto la candidatura con un tweet che ha avuto una certa eco, mentre Schlein and Co. continuano a non esser pervenuti. Che ci sia un baratto in attesa di ravvedimenti operosi dell’ultimo minuto? Da un paio d’anni Rita Bernardini è presidente di Nessuno Tocchi Caino (una delle associazioni che per anni hanno fatto parte di quella che Marco Pannella chiamava “galassia radicale”) che ha lanciato un appello a sostegno della sua candidatura. “Rita Bernardini” si legge “continua a essere un patrimonio della storia, non solo radicale, di Nessuno tocchi Caino, che andrebbe tutelato come bene prezioso con un dovuto riconoscimento del valore che le è proprio. Un’investitura, finalmente ufficiale, le consentirebbe di esercitare la funzione di Garante come ha sempre fatto e di essere quella che è sempre stata, con la visione del carcere e dei luoghi di privazione della libertà come una comunità, non una somma, un insieme di parti diverse, non contrapposte, da rispettare e conciliare”. Tanto è fuori discussione la prosecuzione dell’opera di Bernardini per i diritti delle persone detenute e detenenti, quanto è indubbio che gli strumenti di un’istituzione pubblica siano molto più potenti dell’operato di un’associazione della società civile - basterebbe pensare alla presentazione del rapporto annuale alla presenza delle più alte cariche dello Stato. Certo c’è l’arma della nonviolenza che a volte riesce a contrastare la “distrazione” istituzionale e il silenziamento mediatico, ma l’ex Deputata radicale ha una salute messa a dura prova da centinaia di scioperi della fame. L’appello di Nessuno Tocchi Caino sottoscritto da decine di giuristi si conclude con l’amara constatazione che “servono ‘portatori d’acqua’ nel deserto dei diritti umani specie delle persone private della libertà”, per questo serve Rita Bernardini. Mancano poche ore alla decisione finale, quel che non si fa in mesi si può fare in una notte (cit.). Nordio ci ripensi. Discariche d’umanità. Il caldo rende invivibili carceri già invivibili di Stefano Musu La Ragione, 25 luglio 2023 L’ondata di caldo stagionale infarcisce quotidianamente le cronache giornalistiche e i bollettini delle istituzioni. Ogni giorno si moltiplicano gli interventi di esperti e politici, i quali mettono in guardia sugli effetti nefasti dell’esposizione alle alte temperature, invitando i cittadini a tenere comportamenti prudenti per non stressare il proprio fisico. Data l’allerta generale, ci si aspetterebbe che proprio lo Stato metta in pratica ogni azione necessaria per mitigare le sofferenze di quanti si trovano sotto la sua diretta responsabilità. Fra loro, necessariamente, ci sono le persone attualmente ristrette nel sistema penitenziario italiano: oltre cinquantamila anime costrette a sopravvivere in condizioni al limite dell’umana sopportazione. Purtroppo le istituzioni che invitano alla prudenza chi può liberamente scegliere per sé il refrigerio di un ambiente climatizzato sono le stesse che da anni ignorano le grida di sofferenza che si levano dagli istituti penitenziari, dove il problema non può essere risolto scegliendo di azionare un condizionatore o un ventilatore. Sopravvivere in estate nelle sovraffollate celle italiane è un vero e proprio calvario: le alte temperature portano i detenuti a mettere in pratica un maggiore numero di eventi autolesionistici, nella (sinora) vana speranza di attirare l’attenzione di quanti di competenza per poter disporre almeno di un piccolo ventilatore per cella che soffi un po’ di aria in quegli ambienti nei quali sono costretti. Non è un caso che la scorsa estate, nell’anno nero dei suicidi, il loro numero sia bruscamente aumentato proprio in concomitanza con le settimane più roventi. In estate il caldo porta poi con sé altri problemi accessori, come l’infestazione di blatte e topi che trovano nel fatiscente sistema penitenziario nostrano un terreno fertilissimo dove prosperare. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, ha recentemente paragonato le carceri a delle “discariche umane” dove i detenuti - invece che rieducati - vengono parcheggiati e dimenticati. Nonostante i cambi di guardia al Ministero della Giustizia e le parole che ciascun ministro spende per promettere l’umanizzazione del sistema penitenziario, nulla sembra mai cambiare per davvero. Ci pensino quanti, a partire da via Arenula, siedono in uffici climatizzati mentre prendono decisioni sul budget disponibile per ogni istituto penitenziario. Estate in carcere. Don Grimaldi: “Serve una programmazione e non vivere questa stagione come un’eterna emergenza” di Gigliola Alfaro agensir.it, 25 luglio 2023 I detenuti trascorrono giornate al caldo, senza attività e senza la presenza del volontariato. Ancora una volta l’ispettore generale dei cappellani chiede attenzione, anche da parte della società. Un’ennesima estate caldissima. Anche il 2023 si sta caratterizzando con alte temperature. E ci sono luoghi dove il tempo, il caldo, la solitudine pesano tanto, come le carceri. A fare il puto della situazione per il Sir è l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. Come sta andando quest’estate nelle carceri, don Raffaele? L’estate, purtroppo, è un periodo difficile per i nostri istituti penitenziari, perché non c’è una programmazione adeguata che consenta di predisporre un’attenzione in più proprio per questa stagione che è molto delicata per chi vive in cella. Parecchie attività vengono accantonate temporaneamente per mancanza di personale, per addetti che vanno in ferie, allo stesso tempo tante volte non si riescono a coinvolgere volontari o altre persone che durante l’anno, invece, frequentano il carcere. Non ci sono corsi, la scuola chiude. Dopo un anno ricco di attività, il detenuto si trova a non far niente: stare in questa condizione 24 ore su 24 è deleterio, produce angoscia. In effetti, i detenuti avrebbero bisogno di un’attenzione in più in estate perché, oltre alla sofferenza per la lontananza dalla famiglia, c’è una sofferenza causata dal senso di abbandono e di profonda solitudine vissuto in estate. Anche la temperatura non aiuta… Certo, anche il caldo non agevola la vita nel carcere, soprattutto con il caldo che c’è questa estate e che è soffocante. Tra l’altro, molti nostri istituti sono di recente costruzione e sono fatti di cemento e quindi il caldo si fa sentire in modo ancora più pesante. Tante volte i cappellani spronano le direzioni degli istituti ad acquistare dei ventilatori o mettere nei corridoi dei frigoriferi per acqua più fredda. Queste sono delle soluzioni pratiche per aiutare il detenuto ad affrontare il periodo di caldo, già non facile per noi che siamo fuori, possiamo immaginare fino a che punto per loro che stanno dentro. Ogni estate si ripresentano gli stessi problemi, perché non si provvede in qualche modo? L’estate non dovrebbe essere ogni volta un’emergenza, ma un periodo da inserire nella programmazione annuale di tutti gli operatori perché a giugno, luglio e agosto vediamo l’esodo dai nostri istituti. Invece la programmazione, come dicevo prima, non c’è e subentra l’emergenza. Serve invece stabilmente una programmazione a monte che consideri la criticità del periodo estivo cercando di organizzare attività di volontariato, di gruppi che vengono da fuori, che animino mattinate e serate per aiutare i detenuti a vivere questo periodo nel modo più sereno e tranquillo possibile. I familiari vanno a trovare i detenuti in questo periodo, di solito? Spesso sono gli stessi detenuti a scoraggiare i congiunti ad andare in visita da loro in carcere per il troppo caldo, ma non vengono a mancare chiamate e videochiamate. In alcuni istituti, però, effettivamente diminuisce il contatto anche con il familiare: per mancanza di personale non viene assicurato questo servizio che è fondamentale per un detenuto. Purtroppo, ci sono sempre tanti suicidi in carcere, anche se non abbiamo raggiunto i numeri dello scorso anno… Rispetto a un anno fa, quando si registrò un picco di suicidi tra detenuti, la situazione sembra leggermente migliorata. Ma non bisogna dimenticare che tanti gesti estremi si sono comunque registrati nei primi sette mesi dell’anno. Mi auguro che dalla tragica esperienza del 2022 abbiamo imparato ad avere maggiore attenzione e più responsabilità per le persone più fragili, soprattutto detenuti con problemi psicologici e psichiatrici, persone sole, immigrati, senza fissa dimora, i più poveri, tutti coloro che non hanno contatti con l’esterno, con i familiari, e che spesso vivono con disperazione all’interno del carcere. Voi cappellani ci siete sempre… Sicuramente, resta il conforto spirituale offerto dai cappellani. Intanto, sono state spedite a 100 istituti italiani le 8mila bibbie donate dalla Cei, dopo le prime consegnate di persona dall’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, a marzo alla Casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone. Il progetto si inserisce in quel cammino di attenzione della Chiesa verso chi è stato privato della libertà personale e di incoraggiamento per quanti operano nelle carceri, che si concretizzerà a livello locale con iniziative di preghiera e sensibilizzazione. Vuole rivolge un invito? Sì, la società tutta deve avere uno sguardo attento verso il mondo carcerario. Coloro che hanno sbagliato fanno anche un percorso di riabilitazione all’interno del carcere. Con l’aiuto e con l’accoglienza del mondo esterno, molti detenuti possono farcela, ma quando escono e vivono una maggiore emarginazione rischiano di delinquere ancora se non si sentono aiutati e accolti. Questo problema influisce negativamente soprattutto per quei detenuti, che non hanno famiglia o dei punti di riferimento. Riforma Nordio. Tre Gip per decidere sulla custodia cautelare in carcere di Dario Ferrara Italia Oggi, 25 luglio 2023 Contraddittorio preventivo con l’indagato prima della misura cautelare. L’informazione di garanzia contiene una descrizione sommaria del fatto. Stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni. Addio abuso d’ufficio, nonostante i dubbi Ue; ridimensionato il traffico d’influenze. Tre gip, e non più uno, decidono sulla custodia in carcere. Contraddittorio preventivo con l’indagato prima della misura cautelare. L’informazione di garanzia contiene una descrizione sommaria del fatto, con data e luogo di commissione del reato. Stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni. Addio abuso d’ufficio, nonostante i dubbi Ue; ridimensionato il traffico d’influenze. No all’appello del pm per reati a citazione diretta a giudizio. La riforma penale del ddl Nordio inizia in commissione Giustizia al Senato l’iter parlamentare. Indagati garantiti. Sarà il collegio a decidere la carcerazione preventiva: l’intervento necessario di tre giudici è previsto soltanto in fase di indagini e non quando la misura viene adottata durante la procedura di convalida dell’arresto o del fermo. Ma risulta esteso alle pronunce che aggravano le misure cautelari e all’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza detentive. I tre giudici, tuttavia, diventano incompatibili nelle successive fasi del processo: l’entrata in vigore è dunque differita di due anni per consentire l’assunzione di 250 magistrati per funzioni giudicanti di primo grado. Il contraddittorio fra giudice e indagato prima della misura cautelare scatta quando, per il tipo di reato o per la concretezza dei fatti, non è necessario l’effetto sorpresa: il giudice deposita gli atti prima dell’interrogatorio e la difesa può averne copia. Il confronto preventivo è escluso in caso di pericolo di fuga o inquinamento prove e per i reati più gravi. L’Ue ci guarda. Troppi indagati e poche condanne, solo 18 in primo grado nel 2021: si punta a cancellare l’art. 323 Cp. Per la Commissione Ue, tuttavia, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la perimetrazione del traffico di influenze illecite depenalizzerebbero importanti forme di corruzione. Il Governo ritiene invece adeguati gli altri strumenti esistenti, anche grazie all’Anac e al whistleblowing, e non esclude in futuro di sanzionare condotte “in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria”. Terzi salvi. Infine le intercettazioni: vietata la pubblicazione, anche parziale, se il contenuto non è riprodotto dal giudice in motivazione o usato nel dibattimento. Non potrà essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso da parti e difensori. Il pm dovrà vigilare affinché nei verbali non vi siano intercettazioni relative a soggetti diversi dalle parti. Idem vale per i giudici. L’abuso d’ufficio va mantenuto, non si fa Giustizia col muro contro muro di Donatella Stasio La Stampa, 25 luglio 2023 Il governo vuole una resa dei conti muscolare sbagliata figlia degli errori di politici, magistrati e media. Il reato è vitale per la democrazia e la riforma Cartabia può bastare per salvarlo: diamole tempo. Ci sarebbe un modo indolore per uscire dal cul de sac in cui siamo finiti con la proposta del governo di passare un colpo di spugna sull’abuso d’ufficio. Una proposta in forte odore di incostituzionalità perché in palese violazione dei trattati internazionali e delle direttive europee, come ha cercato di spiegare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla premier Giorgia Meloni mentre la sua maggioranza parlamentare si schierava apertamente contro l’Europa. L’uscita indolore passa attraverso l’insegnamento di un grande giurista e padre costituente, Piero Calamandrei, anche se non c’è nulla di più pericoloso (e quindi di immodificabile) delle esibizioni muscolari ideologiche finalizzate a sopraffare il “nemico”, e questa, purtroppo, sembra essere la logica in cui si muove il governo Meloni anche nei rapporti con la giustizia: una logica di resa dei conti e di insofferenza ai controlli, al di là di eventuali interessi di parte. Contro l’abolizione dell’abuso d’ufficio, infatti, si sono espressi, oltre all’Europa, giuristi autorevoli (Tullio Padovani per tutti), autorità indipendenti, magistrati italiani ed europei. Tutte voci inascoltate dal governo, che ha tirato dritto per la sua strada, forte della (comprensibile) richiesta dei sindaci di ridurre la morsa del reato (ma ridurre non vuol dire cancellare) nonché delle statistiche ministeriali, peraltro datate. I dati esibiti raccontano, è vero, di poche condanne a fronte di numerose denunce, ma si riferiscono tutti a prima della riforma che ha già ridimensionato l’abuso d’ufficio nel 2020 e della riforma Cartabia del processo penale entrata in vigore a gennaio 2023. Il buon senso suggerirebbe, quanto meno, di non cancellare il reato al buio ma di vedere prima qual è l’impatto di queste due riforme nei processi e poi, eventualmente, di modificarlo là dove sia ancora possibile. Piero Calamandrei era un liberale, proprio come dice di essere il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ebbene, Calamandrei sosteneva che il segreto per salvare i regimi democratici è “il costume”. Che impregna di sé anche il diritto e il processo. Ciò che plasma il processo, scriveva Calamandrei, non è tanto la legge processuale, la norma giuridica, quanto “il costume di chi la mette in pratica”. E allora proviamo a guardare la vicenda dell’abuso d’ufficio con la lente del costume. Proviamo a vedere se non sia (stata) condizionata, almeno finora, da un malcostume, per cui, cambiandolo, potrebbe cambiare anche il quadro generale. Il presupposto della cosiddetta riforma - che riforma non è, trattandosi della cancellazione secca del reato - è che c’è un forte sbilanciamento tra denunce e condanne, il che dimostrerebbe l’inutilità del reato e renderebbe insopportabile sia il prezzo pagato dalla pubblica amministrazione, la paralisi burocratica per la paura della firma (e della denuncia), sia la “gogna mediatica” subita dagli indagati. Quindi, via il reato. Risposta secca, voluta da Nordio nonostante i dubbi della Lega e sebbene i suoi uffici gli abbiano prospettato, in alternativa, una riscrittura dell’abuso d’ufficio. È costume della politica cavalcare la presentazione di una denuncia per abuso d’ufficio nonché l’iscrizione nel registro degli indagati dell’amministratore pubblico di parte avversa. La strumentalizzazione dell’iscrizione è un malcostume, tanto più in una stagione politica di ritrovato garantismo a destra e a manca (sia pure a corrente alternata e con numerosi distinguo) e a fronte delle poche condanne certificate dalle statistiche. Ma il costume viene in gioco anche per un altro aspetto, che ha a che fare, da un lato, con il dovere della politica e delle istituzioni di rendere conto in modo trasparente del proprio operato, e, dall’altro lato, con la responsabilità delle decisioni sulla persona indagata. La politica dovrebbe recuperare la propria autonomia e responsabilità senza farsi dettare le decisioni dalla magistratura (spesso perché fa più comodo, salvo gridare alla giustizia ad orologeria). La valutazione sulla sospensione o rimozione di un pubblico amministratore indagato è, anzitutto, di opportunità politica, ha a che fare con l’etica pubblica prima che con i processi, e quindi non può dipendere dal fatto, in sé, dell’iscrizione nel registro degli indagati o del rinvio a giudizio. Insomma, è il costume che deve imporre alla politica l’esercizio del dovere di trasparenza e l’assunzione di un’autonoma responsabilità dall’autonomo costume giudiziario e mediatico. Quanto alla magistratura, c’è da chiedersi quanti uffici di Procura hanno condiviso la prassi, introdotta nel 2017 con le circolari di alcuni noti Procuratori (Pignatone, Melillo, Spataro), secondo cui l’iscrizione non è un automatismo che scatta con la ricezione della denuncia ma un atto ponderato, che richiede “specifici elementi indizianti”. La tempestività dell’iscrizione è un valore e una garanzia per l’indagato ma lo è anche la sua complessiva valutazione per gli effetti pregiudizievoli, professionali e reputazionali, che può determinare nei confronti dell’indagato. In questa direzione si muove anche la riforma Cartabia, là dove prevede che il rinvio a giudizio possa essere chiesto dal pm solo sulla base di una prognosi di successo dell’azione penale, in particolare, sulla base di una “ragionevole previsione di condanna”. Il che comporterà naturalmente ulteriori scremature. In sostanza, sia al momento dell’iscrizione nel registro degli indagati sia in quello della richiesta di rinvio a giudizio, il giudice deve fare il suo mestiere di interprete della norma da applicare al caso concreto, non deve fare, invece, il burocrate che applica la norma in modo automatico. E questo è un costume giudiziario prezioso, da acquisire, ritrovare o da non perdere, sul quale la Scuola della magistratura dovrebbe impegnarsi nella formazione delle toghe. Non meno prezioso è il costume cui dovrebbe attenersi chi fa informazione. Anzi, in questo caso ancora di più. Noi che siamo chiamati a raccontare i fatti abbiamo, proprio come il giudice, il dovere di interpretarli, ponderarli e contestualizzarli, non di strumentalizzarli, manipolarli e urlarli, ad uso e consumo della politica o del mercato. Ebbene, poiché nel deserto di controlli amministrativi efficaci a tutela della correttezza e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (controlli che, paradossalmente, vengono cancellati dal governo perché tanto ci sono quelli penali: sic), al cittadino non resta che rivolgersi al giudice per tutelarsi contro abusi magari non gravi, veri o presunti, ma indicativi del grado di civiltà di un paese (favoritismi personali nei concorsi universitari, nelle concessioni edilizie, persino nell’amministrazione della giustizia...), il compito di noi cronisti, tanto più se esperti, è anche dare il giusto peso alle denunce e ai successivi passaggi giudiziari, sia nel racconto che nella titolazione. Questo è il costume che, come media, ci deve sempre guidare rispetto alla narrazione politica. E l’Ordine dei giornalisti farebbe bene a promuoverlo. Sarebbe un importante contributo alla buona salute della democrazia. C’è da chiedersi, insomma, quale ruolo abbia giocato, nella vicenda dell’abuso d’ufficio, il (mal)costume, politico, giudiziario, mediatico. Forse una correzione si impone. Sarebbe anzitutto un modo per riappropriarsi, ciascuno, e fino in fondo, della propria autonomia e responsabilità, e servirebbe a scongiurare il rischio di “riforme” dannose come il colpo di spugna che il governo Meloni vuole passare su un reato che invece è e resta vitale per il buon funzionamento della pubblica amministrazione oltre che per il contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata. Vale la pena ricordare ancora Calamandrei: “Per il buon funzionamento del processo, ma anche delle istituzioni pubbliche, conta, assai più della perfezione tecnica delle astratte norme che lo regolano, il costume di coloro che sono chiamati a metterle in pratica”. “Separare le carriere anche per fare argine alla giustizia mediatica” di Errico Novi Il Dubbio, 25 luglio 2023 Intervista a Nazario Pagano, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera: “La riforma riporterà equilibrio”. “Prima di tutto, è il caso di sdrammatizzare: non c’è affatto l’idea di riformare la giustizia contro la magistratura. Secondo, la separazione delle carriere è una modifica costituzionale in linea con il sistema accusatorio sancito all’articolo 111 e necessaria anche nell’ottica di ridurre il peso mediatico delle indagini. Di allontanare la confusione secondo cui pm e giudice sono la stessa cosa, al punto che la tesi prodotta dall’inchiesta di una Procura viene paradossalmente percepita dall’opinione pubblica come verità incontestabile. È un circuito da spezzare: in tale prospettiva, la riforma costituzionale della magistratura è particolarmente utile”. Nazario Pagano presiede la commissione Affari costituzionali della Camera. Avvocato, esponente di Forza Italia, ha una delle missioni più impegnative dell’intera legislatura: dirigere i lavori sulla riforma che dovrebbe segnare il divorzio fra giudici e pm. È il dossier che più di tutti rischia di incendiare la dialettica fra la magistratura associata e la maggioranza, affiancata sul punto dal Terzo polo. Ma intanto, presidente Pagano, l’idea di riforma conflittuale stride con un dato: dalla separazione delle carriere deriverebbe un così impegnativo percorso di modifiche anche ordinarie che il dialogo costruttivo fra Parlamento toghe dovrebbe durare anni. O non è così? È chiaro che tutto, anche il dialogo, va sempre concepito nel quadro di una chiara separazione dei poteri: il legislatore fa le leggi, il magistrato le applica. In una cornice simile, il decisore politico può avvalersi senz’altro del contributo tecnico dei magistrati. E posso dirle che ho trovato preziosa, ad esempio, la presenza del presidente Anm Giuseppe Santalucia al convegno organizzato giovedì sulla separazione delle carriere dall’Ocf, dibattito al quale è intervenuto anche il presidente del Cnf. La magistratura associata dice no alle carriere separate, ma c’è il rischio che resti in ombra una “maggioranza silenziosa” di magistrati giudicanti interessata invece a questa modifica? Difficile dire se questa maggioranza silenziosa di giudici esiste. È chiaro, questo sicuramente, come già oggi vi siano giudici in grado di svolgere la propria funzione con quella terzietà che è l’obiettivo cruciale da cogliere attraverso la separazione delle carriere. D’altra parte, questi esempi positivi non bastano a scongiurare l’ulteriore effetto distorsivo dell’attuale sistema giudiziario: la mediatizzazione delle indagini, la confusione fra tesi dell’accusa e verità consacrate da una sentenza. È questa confusione che ancora oggi finisce per equiparare un avviso di garanzia a una sentenza definitiva. Ancora oggi è una locuzione che rimanda al paradigma di trent’anni fa, quello introdotto da Mani pulite. Siamo ancora fermi lì? Ci sono state riforme parziali del sistema penale, penso anche alle norme sulla tutela della presunzione d’innocenza. Ma mi è bastato guardare lo speciale su Raul Gardini appena messo in onda dalla Rai per ricordarmi di quanto quell’impronta pesi ancora sul nostro processo. Fu una stagione drammatica, in cui il solo essere indagati distruggeva l’immagine di chiunque, tanto che alcuni come Gardini e Cagliari ritennero di non potersi difendere da quel meccanismo terribile e che fosse preferibile mettere fine alla propria esistenza. Si ordinarono arresti finalizzati all’ottenimento di confessioni. Nonostante quegli squilibri fossero evidenti, il processo mediatico, con il peso tutto spostato sulla fase delle indagini, è un fenomeno tuttora presente, il che ci fa capire quanto sia necessario separare le carriere e portare a compimento anche altri capitoli di riforma. A proposito di quanto lei dice: il presidente del Cnf Greco, al convegno di giovedì, ha segnalato l’urgenza di rendere tra loro “estranei” tutti gli attori del processo, anche il giudice e il pm che oggi invece sono colleghi. Se il pm diventa una parte al pari dell’avvocato, il cittadino sarà meno portato a confondere le tesi della Procura con sentenze definitive? È esattamente così. Va risolto una volta per tutte il paradosso secondo cui nel linguaggio comune anche il pm viene chiamato giudice. È un paradosso semantico dietro cui c’è tutto un modello di percezione pubblica: ed ecco perché certamente la separazione delle carriere può contribuire ad arginare il processo mediatico. Voglio dire che cambierebbe la fiducia nel sistema non solo per chi da un procedimento penale è investito, ma anche per l’opinione pubblica generalmente intesa, che avrebbe davanti a sé un assetto più equilibrato e valuterebbe per questo con più equidistanza le notizie sulle indagini. Ma basta la riforma costituzionale, per rivoluzionare la percezione della giustizia? No, e non a caso il governo, con il ministro Carlo Nordio, ha predisposto altri interventi, che mirano ad esempio a scongiurare la pubblicazione indebita di stralci di intercettazioni, a preservare la privacy e la dignità di indagati ed estranei alle accuse. E aggiungo: un sistema più equilibrato dovrà prevedere anche l’avvocato in Costituzione, la riforma sollecitata dal Cnf con cui si intende riconoscere al difensore un rilievo analogo a quello del pm, e un’autentica libertà nell’esercizio della funzione. Ripeto: nulla di tutto questo dovrebbe essere vissuto come un attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura. Nei giorni scorsi un sostituto pg, il dottor Gaetano Bono, ha firmato sul Dubbio un articolo in cui si esprime positivamente sulle carriere separate, ma definisce pericoloso l’assoggettamento del pm al governo... Voglio chiarirlo da presidente della commissione Affari costituzionali, dove la riforma è in discussione: non c’è una sola forza politica, nella maggioranza di governo, che intenda introdurre, con la separazione delle carriere, un assoggettamento del pm all’Esecutivo. Una soluzione a cui non sono personalmente favorevole e che, ribadisco, non è nei piani né del governo né dei partiti in Parlamento. Neanche per l’Ucpi, che raccolse le firme per il primo ddl sulla separazione, si trattava in effetti di un requisito irrinunciabile. Il chiarimento su questo punto basterà a sdrammatizzare la riforma, a evitare che, quando dopo l’estate nella commissione da lei presieduta ripartirà l’iter, si scateni un’ordalia? Non c’è motivo di drammatizzare. Siamo aperti al confronto e assolutamente non animati da intenti punitivi. Trovo utile l’analisi di alcuni pm di peso secondo i quali l’appartenenza alla stessa carriera allontanerebbe il rischio di trovarci con dei pm-superpoliziotti. D’altra parte potrei ribattere che oggi chi ha fatto il pm e diventa giudice rischia di svolgere quest’ultima funzione con uno sguardo sbilanciato a favore dell’accusa. E più in generale, quando dico che, con la riforma costituzionale, ne vanno realizzate altre di rango ordinario, penso anche a nuovi percorsi per la formazione dei magistrati, a un inserimento in ruolo più graduale: la cosiddetta cultura della giurisdizione va insegnata e poi consolidata con un tirocinio adeguato. Cambiare la giustizia è possibile, a maggior ragione se in mente si ha non un atto di rottura ma la ricerca di un migliore equilibrio. Misure di prevenzione scelte da algoritmi: la deriva finale di una giustizia senza limiti di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 25 luglio 2023 Le sanzioni dettate da indizi hanno già sostituito il giudizio penale e il suo corredo di garanzie, ora col “Sistema Giove” la polizia potrà colpire le persone in base a etnia o gusti sessuali. Più volte, su queste pagine, abbiamo espresso preoccupazione non tanto per il vertiginoso aumento dei procedimenti di prevenzione, quanto soprattutto per il rapido processo di sostituzione del processo penale con l’azione “preventiva”. Uno strumento di “punizione” non necessariamente ancillare rispetto all’accertamento di una responsabilità (una sanzione senza condanna) consente di aggirare l’intero sistema delle garanzie che in decenni di sedimentazione hanno costituito il sostrato del giusto processo accusatorio, dando mano libera a chi sponsorizza una giustizia senza orpelli, senza fronzoli, secondo il mantra della “certezza”. La certezza della pena, soprattutto, intesa, grazie agli “analfabeti funzionali del diritto” e mutando ontologia, come statistica sicurezza di ricevere una sanzione, all’esito di un trial nel quale domina, invece, “l’incertezza del diritto”, sempre più governato da addizioni (o sottrazioni) giurisprudenziali, all’interno di un sistema nel quale la divisione dei poteri, specie tra quello legislativo e giudiziario, è sempre più indefinita. La prevenzione, che ha dunque l’attitudine di trattare come colpevole chi colpevole non è mai stato - e, magari, mai poteva essere - dichiarato, si presta e si candida a sostituire il processo penale per la sua performabilità: è rapida; è caratterizzata da una prova contratta, spesso invertita e quasi mai formata in contraddittorio; è sostanzialmente svincolata, tranne poche ipotesi, dal giudicato penale; è dotata di un giudicato instabile, che può essere rivisto in senso migliorativo, ma anche peggiorativo per il cittadino; non conosce la prescrizione. Una tale duttilità lo ha reso, prima, un irrinunciabile strumento di recupero dell’azione penale non conclusa o conclusa in senso assolutorio; in seguito ed in prospettiva futura, la naturale alternativa al procedimento penale. Che quello appena ipotizzato possa essere il futuro della prevenzione non è solo nella pletorizzazione dei provvedimenti, ma anche nei “segni”. Le recenti riforme legislative, ad esempio, hanno positivizzato la traslatio iudicii dal processo penale a quello di prevenzione, ma non sono intervenute sul modello procedimentale di quest’ultimo, che resta governato da regole eccentriche rispetto al primo, specie sul versante della valutazione probatoria. Non solo perché, ad esempio, il concetto stesso di “indizio di prevenzione” sia, per dirla con Churchill, un enigma avvolto in un mistero dentro un enigma, lasciando al “prudente apprezzamento” ed “al libero convincimento” del giudice uno spazio deliberativo ai limiti dell’arbitrio, ma anche perché, e questo è forse il distacco più qualificante, specie a certe latitudini, tra i due procedimenti, la chiamata in correità, nel procedimento di prevenzione, non necessita di riscontri esterni individualizzanti. Una eccezione tanto pericolosa per il cittadino, quanto provvidenziale per l’Accusa, se si pensa a quanti processi penali naufragano sugli scogli di collaboratori male accrocchiati e non convergenti tra loro. Basta l’accusa del mitomane di turno (di quanti Pandico si ricorderà la storia?) per essere sottoposti ad una misura di prevenzione. E, tra i “segni” delle prossime evoluzioni della prevenzione, c’è anche il varo del “sistema Giove” da parte della Polizia di Stato. Si tratta di un software di polizia predittiva (che a molti ha ricordato il romanzo Minority Report di Philip Dick), basato su un algoritmo in grado di incrociare i dati di tutte le forze dell’ordine, per “prevenire e reprimere i reati di maggior impatto sociale”, mediante l’osservazione di fattori critici ricorsivi. Ma anche con l’applicazione di algoritmi legati alla etnia, all’orientamento sessuale, al credo religioso, alle condizioni economiche ed altre caratteristiche individuali che, da un lato, sono tutelati dalle disposizioni legali e convenzionali in tema di diritto alla privacy e, dall’altro, hanno una impostazione dipendente dal pregiudizio che ciascuna delle dedotte condizioni reca in sé e che non pare essere un criterio affidabile sul quale poter prevedere le future azioni delle persone, magari da sottoporre ad arresto preventivo. Dopo le misure ordinarie e quelle cautelari di prevenzione, il catalogo della giustizia preventiva si arricchisce anche delle misure pre- cautelari di prevenzione, così attrezzandosi a soppiantare il sistema penale anche nell’ambito degli strumenti di polizia. Si può allora fondatamente immaginare un futuro distopico, nel quale squadre specializzate di polizia predittiva potranno privare della libertà personale i soggetti ritenuti pericolosi sulla base di “pregiudizi algoritmici”? La recente Legge francese che consente alle forze di polizie di accedere, da remoto e senza autorizzazione del Giudice, alle memorie degli smartphone dei cittadini autorizza una risposta positiva. Per dirla con Philip Dick: “Non siamo liberi, non lo siamo mai stati. Ma ora ne siamo coscienti”. *Avvocato del Foro di Catanzaro **Avvocato del Foro di Torino Beni confiscati, la Cedu “interroga” l’Italia: “E la presunzione d’innocenza dov’è?” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 luglio 2023 Ricevibile il ricorso dei Cavallotti. “Nel caso di una assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni viola la presunzione di innocenza?”: è questa la domanda cardine che la Cedu ha posto al nostro governo in seguito ad un ricorso, ritenuto ricevibile, proposto da Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti. I tre furono assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nel 2010 dalla Corte di Appello di Palermo ma, nonostante questo, nell’ambito del procedimento per l’applicazione delle misure cautelari, la Corte di Cassazione ha dichiarato definitiva, il 2 febbraio 2016, la confisca dei loro beni, tra cui diverse società, di loro proprietà o di loro familiari (Salvatore Cavallotti, Giovanni Cavallotti, Margherita Martini e Salvatore Mazzola, secondo gruppo di ricorrenti). Per questo, nel 2016, proposero distinti ricorsi (curati da Baldassare Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres) in Europa e adesso è arrivata una prima risposta interlocutoria. Una risposta che cerca di dirimere quel paradosso che l’avvocato Giuseppe Belcastro, vice presidente della Camera penale di Roma, evidenziò durante un recente convegno sull’antimafia: “Come possiamo spiegare al cittadino lo iato tra le misure di prevenzione e il buon senso: in un’aula vieni assolto e nell’aula accanto ti confiscano i beni?”. Ora anche la Cedu vuole vederci chiaro e oltre a quella domanda pone altre questioni all’Italia: se la confisca, sempre nel caso di assoluzione, sia proporzionale e necessaria; se essa non sia una vera e propria sanzione penale, in caso affermativo ci sarebbe una violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea (nulla poena sine lege); se, alla luce dell’assoluzione dei ricorrenti, l’accertamento della particolare pericolosità e la conseguente confisca dei beni fossero giustificati; se le autorità nazionali abbiano dimostrato in modo motivato che i beni formalmente posseduti dal secondo gruppo di ricorrenti appartenevano in realtà al primo gruppo, e se lo abbiano fatto sulla base di una valutazione obiettiva degli elementi di fatto o su un mero sospetto; se l’inversione dell’onere della prova (a differenza del processo penale, nei procedimenti delle misure di prevenzione spetta al cittadino provare l’innocenza, ossia dimostrare la legittima provenienza dei beni) sull’origine lecita dei beni acquisiti molti anni prima non abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti; se ai ricorrenti sia stata concessa una ragionevole opportunità di presentare le loro argomentazioni ai giudici nazionali e se questi ultimi abbiano debitamente esaminato le prove presentate dai ricorrenti. Il governo italiano deve fornire risposte e osservazioni entro il 13 novembre di quest’anno. Come dice al Dubbio Pietro Cavallotti, che da anni si batte contro l’attuale normativa delle misure di prevenzione, “questa iniziativa della Cedu può essere la premessa per una sentenza pilota che potrebbe ridisegnare la fisionomia della confisca di prevenzione”. Eppure proprio ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a Palermo per la firma di un protocollo d’intesa in prefettura per l’assegnazione di alcuni beni confiscati alla mafia, ha detto: “La normativa italiana sui beni sequestrati e confiscati è un unicum nel panorama mondiale, è bene dirlo. Siamo richiesti da Paesi stranieri, anche europei per vedere come funziona il nostro sistema. È bene celebrarlo nella maniera dovuta”. Sarà davvero così? Marche. Carceri, il Garante: “La vera urgenza è sanitaria, inutile creare nuovi reati” di Cosimo Rossi Il Resto del Carlino, 25 luglio 2023 Giulianelli, nominato dal centrodestra: bisogna frenare la carcerazione preventiva. Sanità, edilizia, freno alla carcerazione preventiva, revisione dei reati cosiddetti “ostativi” dell’accesso alle misure alternative. Sono le principali urgenze del sistema penitenziario per Giancarlo Giulianelli, avvocato penalista (noto anche per aver difeso Luca Traini, l’autore del raid razzista di Macerata in rappresaglia dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro), nominato nel 2021 garante dei detenuti dal centrodestra marchigiano. Dal suo osservatorio quali risultano le emergenze strutturali delle carceri italiane? “Innanzitutto l’urgenza sanitaria. La sanità penitenziaria risente gravemente della crisi del sistema nazionale e la carenza dei medici di base dopo il passaggio alle regioni, per cui oggi come oggi si fa fatica a mantenere standard decenti. Si aggiunga che per effettuare una qualunque visita in una struttura ospedaliera esterna occorre che il detenuto sia scortato, per cui anche le carenze di organico mettono a repentaglio la salute. L’altra criticità riguarda l’edilizia: abbiamo penitenziari assolutamente inadeguati a una detenzione dignitosa. Alcuni sono vecchi conventi cadenti, ma anche quelli moderni sono insufficienti, in termini di spazi e servizi, a rispettare la dignità e anche l’affettività dei carcerati”. Colpa del sovraffollamento? Potrebbe essere governato diversamente? “A giugno avevamo 877 detenuti nelle carceri marchigiane per una capienza di 835. Di questi, il 22,5% sono in attesa di giudizio. Un dato leggermente più basso rispetto alla media nazionale del 25,5%. Quindi un quarto dei detenuti è in attesa di giudizio. Significa che si fa un eccessivo ricorso alle misure cautelari”. Si potrebbero applicare di più le misure alternative già previste? “Contrariamente a quanto appaia, la nostra legislazione è tra le più illuminate. Le misure ci sono e l’ex ministra Marta Cartabia le ha aumentate. Poi l’applicazione da parte della magistratura di sorveglianza lascia un po’ a desiderare. Io credo che delle 679 condanne definitive delle Marche una parte potrebbe adire a misure alternative. Ma la decisione spetta alla magistratura”. Perché le toghe sono così riluttanti? “Ci sono stati casi di persone ammesse a permessi premio che hanno poi commesso reati e i magistrati competenti son stati presi di mira. C’è sempre il problema che fa più rumore l’albero che cade della foresta che cresce. E poi c’è un gran numero di persone che non ha possibilità di accesso a misure alternative perché, ad esempio, senza fissa dimora. Mi trovo perciò a condividere le parole del collega Stefano Anastasia, che sulle pagine del vostro giornale ha rilevato questa problematicità. Ma i dati dicono che l’accesso alle misure alternative abbassa al tasso di recidiva di un buon terzo. Questo infatti è lo scopo: evitare nuovi reati. E il compito di noi garanti è farci portatori di questa esigenza”. La politica invece come dovrebbe intervenire? “Potrebbe cominciare intanto a rivedere l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, da cui traggono origine tante carcerazioni. Bisogna che la politica ponga mano a questi reati cosiddetti ‘ostativi’, che impediscono l’accesso alle misure alternative. E anche smetterla di creare nuovi reati: perché non si può condannare chi guida in stato di ebrezza a pene superiori di chi spaccia”. Basilicata. Sovraffollamento e mancanza di personale: l’estate rovente delle carceri quotidianodelsud.it, 25 luglio 2023 Sovraffollamento e carenza di personale penitenziario: preoccupa la situazione delle carceri lucane. Maggiori difficoltà negli istituti detentivi di Matera e Melfi, va meglio in quello di Potenza. L’europarlamentare Gemma presenta l’interrogazione alla Commissione Ue. “Il sovraffollamento delle carceri e la carenza di personale penitenziario è un problema che compromette i diritti dei detenuti e incide sulla qualità del lavoro degli agenti penitenziari”. Delle molteplici problematiche, di cui si sta già occupando il governo Meloni, si è interessata anche l’onorevole Chiara Gemma, eurodeputata Fratelli d’Italia della circoscrizione del Sud e della Basilicata. L’onorevole ha presentato un’interrogazione in cui ha chiesto alla Commissione Ue di chiarire quali iniziative concrete ritiene che potrebbero intraprendere gli Stati membri affinché il sovraffollamento dei detenuti e la carenza di personale nelle carceri italiane non vadano a ledere le condizioni detentive soprattutto di donne, pazienti psichiatrici e categorie fragili. Sovraffollamento nelle carceri di Matera e Melfi - “La situazione - ha riferito - è difficile da molti anni in tutte le regioni italiane e anche in Basilicata. Stando agli ultimi dati, le tre carceri lucane potrebbero ospitare un massimo di 378 detenuti, mentre i presenti sono 442. Le difficoltà maggiori si registrano nelle case circondariali di Matera e Melfi. Equilibrata la situazione nell’istituto detentivo di Potenza”. “Oltre a questo, c’è il problema, altrettanto diffuso e grave, in particolare nella struttura penitenziaria Potenza, dell’insufficienza di personale. Secondo i dati del rapporto ‘Space I’ del consiglio d’Europa, - ha spiegato - il tasso ufficiale di sovraffollamento delle carceri europee è del 107,4 %. Questa situazione, unitamente al problema endemico della carenza di personale, causa un generale declino del benessere degli agenti penitenziari”. “Non esistono misure di armonizzazione che stabiliscano norme minime per le condizioni di detenzione a livello dell’Ue, in quanto materia di competenza esclusiva degli Stati membri. Le cattive condizioni di detenzione generano gravi problematiche che incidono sui valori e i principi fondamentali dell’Ue alla base della cooperazione giudiziaria in materia penale”. “Anche alla luce del fatto che il Consiglio d’Europa ha emanato raccomandazioni per il reclutamento, la selezione, la formazione e lo sviluppo del personale penitenziario e di libertà vigilata, al fine di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali nei luoghi di detenzione (Linee guida del Consiglio d’Europa, 2019) - ha concluso l’on. Gemma nell’interrogazione - si chiede alla Commissione Ue di esprimersi sulle questioni poste”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Problemi nell’ex Opg: l’unica unità operativa psichiatrica della Sicilia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2023 Inadeguato il servizio psicologico e psichiatrico, mancano gli operatori socio sanitari e come se non bastasse c’è sovraffollamento. Parliamo del carcere siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, un tempo un ospedale psichiatrico giudiziario poi convertito in penitenziario. La settimana scorsa vi ha fatto visita il garante regionale Santi Consolo, a seguito dello sciopero della fame intrapreso da due detenuti, uno italiano e uno algerino. Il Garante siciliano ha incontrato la direttrice dell’istituto, la dottoressa Romina Taiani, e il comandante della polizia penitenziaria. Ha poi visitato le sezioni dell’istituto, parlato con i detenuti e ispezionato le celle. Ed è in quel contesto che Santi Consolo ha potuto verificare le gravi criticità che attanagliano l’istituto penitenziario. Come detto in premessa, la visita di Consolo è stata motivata dalla situazione critica di due detenuti ristretti presso l’Articolazione di Tutela per la Salute Mentale (Atsm), che avevano intrapreso uno sciopero della fame da tempo. Il Garante, nel corso di un convegno a Capo d’Orlando, aveva già discusso della questione con la presidente del Tribunale di Messina, assicurandosi che la vicenda ricevesse la massima attenzione. La direttrice Romina Taiani, ha comunicato che uno dei detenuti in sciopero della fame sarebbe stato trasferito in ospedale tramite ambulanza, in seguito al suo precedente incontro con il Garante presso l’Istituto di Augusta. Tuttavia, il detenuto si dimostrava ancora determinato a portare avanti la sua protesta senza dare spiegazioni. Durante la visita, il Garante Consolo ha parlato con l’altro detenuto in sciopero della fame e della sete, un uomo di nazionalità algerina. Quest’ultimo sosteneva che la sua pena fosse stata prolungata ingiustamente, ed era convinto che fosse già scaduta. Il dottor Consolo ha assicurato di verificare la data di fine pena e fornire i necessari chiarimenti al detenuto, coinvolgendo il magistrato di sorveglianza competente. Uno dei momenti più significativi della visita è stato quando il detenuto algerino ha accettato l’invito del Garante a bere un bicchiere d’acqua, sorseggiandola. Questo gesto ha contribuito a stabilire un dialogo positivo tra il Garante e il detenuto, dimostrando l’importanza dell’empatia e della comunicazione nel contesto carcerario. Durante la visita dell’Atsm e delle altre sezioni dell’Istituto, il Garante Consolo ha avuto modo di parlare con altri detenuti e ispezionare alcune stanze. È emerso che l’Istituto aveva implementato un progetto per il 2023 con condivisibili iniziative a favore dei detenuti. Nel contempo, alcune problematiche sono venute alla luce durante la visita. L’Atsm di Barcellona Pozzo di Gotto è l’unica operativa in tutta la regione siciliana, e necessita di un adeguato supporto di psichiatri e psicologi, poiché le condizioni mentali dei detenuti sembrano non essere soddisfacenti. L’assenza di Oss(operatori socio sanitari) e Osa (operatori socio assistenziali) è un’altra critica situazione, che comporta coinvolgere altri detenuti per garantire un minimo di igiene e assistenza. Consolo ha quindi suggerito l’affiancamento di detenuti ‘ comuni’, con attitudini appropriate, a detenuti ristretti nella sezione ‘ salute mentale’, previo un corso di formazione specifico. L’organico della Polizia Penitenziaria è risultato sottodimensionato, rappresentando un’ulteriore sfida per l’Istituto. La struttura ha bisogno di ulteriori miglioramenti, inclusa la fornitura di docce nei ‘ passeggi’ esterni e ventilatori nelle camere condivise per far fronte alla calura estiva. Secondo il garante, tale intervento, che comporta una spesa minima con impiego limitato di mano d’opera, potrebbe essere di grande sollievo per i detenuti, soprattutto durante l’attuale calura estiva. La Direttrice, nel condividere la proposta, si è impegnata a realizzarla. Ma non mancano note positive. Nonostante le difficoltà, l’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto offre opportunità formative ai detenuti, con corsi di istruzione scolastica e professionale. Progetti come Astu permettono ai detenuti di acquisire competenze nel campo della falegnameria e della lavorazione del ferro battuto, facilitando il loro reinserimento lavorativo una volta fuori dal carcere. Bologna. Carcere al collasso tra caldo e sovraffollamento, la direttrice: “Basta arrivi, siamo pieni” di Federica Orlandi Il Resto del Carlino, 25 luglio 2023 Alla Dozza stop ai nuovi ingressi lo scorso weekend. Già 300 detenuti in più della capienza massima. Il Garante: situazione insostenibile, abbiamo proposto di far circolare l’aria durante la notte. L’urlo di dolore arriva anche da chi lavora nel carcere, agenti di polizia penitenziaria in testa, oltre che dai detenuti, tramite il loro Garante. Nella casa circondariale Rocco D’Amato, a Bologna, non ci si sta più. A causa del sovraffollamento - annoso problema esacerbato dai lavori di ristrutturazione in corso che a turno interessano le diverse ali del penitenziario, con conseguente trasferimento in altri reparti dei detenuti che via via devono liberare gli spazi - e in queste settimane, naturalmente, del caldo. Sono 806 i detenuti attualmente presenti nel carcere della Dozza. La capienza massima dovrebbe essere di 502. Colpo di grazia alla tenuta, il blitz della polizia che giovedì scorso ha portato all’arresto di una banda di spacciatori (21 gli arresti disposti, ma alcuni erano già in carcere), mettendo definitivamente in crisi il sistema e in particolare la straripante sezione dei ‘nuovi giunti’. Al punto che la direttrice Rosalba Casella ha chiesto al Provveditore il nulla osta allo stop degli accessi di detenuti per sabato e domenica appena trascorsi, ottenendolo. Ma anche i reparti del giudiziario registrano in realtà il ‘tutto esaurito’. Alcuni detenuti sono costretti a restare chiusi in camera per rispettare il divieto d’incontro con altri ristretti, che però sono costretti a convivere nella stessa sezione perché non c’è posto altrove. E la tensione rischia di salire. Il Garante dei detenuti bolognesi, Antonio Ianniello, si sta battendo per migliorare le condizioni delle persone che vivono nel carcere e già a giungo aveva inviato alla direzione alcune proposte per prevenire problemi legati all’arrivo della stagione calda e delle sue ondate di temperature asfissianti. In una lunga missiva alla direttrice Casella, aveva perciò presentato la necessità di “rimodulare gli orari di permanenza all’aria aperta, evitando le ore più calde, e prevedere menù con alimenti più adatti alla stagione; aprire il blindo delle celle di notte per fare circolare l’aria e ampliare la possibilità di utilizzare frigoriferi nei reparti; implementare i punti idrici a getto o i nebulizzatori nei cortili di passeggio”. Tra le richieste, in cui compare anche quella di “intensificare la possibilità di effettuare telefonate, essendo il periodo estivo quello in cui si accentuano le situazioni di disagio per la popolazione detenuta”, ha incontrato il favore e la disponibilità della direzione quella di provvedere all’acquisto di ventilatori che rispettino le norme di sicurezza necessarie. “Siamo molto contenti di vedere questo sforzo da parte della direzione - conferma il garante Ianniello -. In passato c’erano problemi di allacciamento alla rete elettrica che impedivano di installare ventilatori, perciò avevo proposto di acquistarne di piccolini, a batteria. Ora invece pare che i lavori all’impianto abbiano risolto la questione e sia perciò possibile installarne alcuni almeno nei piani alti, quelli più vicini al tetto e che d’estate si trasformano in un forno - prosegue il garante -. Devono avere caratteristiche specifiche e rispondere a standard di sicurezza molto particolari, trattandosi di un carcere, ma confidiamo si riescano a individuare e installare al più presto”. L’insostenibilità della situazione è testimoniata anche dal sindacato che rappresenta alcuni agenti della polizia penitenziaria, la Fp Cgil: “Da tempo denunciamo la grave situazione di sovraffollamento dell’istituto bolognese - attacca il coordinatore, Antonino Soletta. Il blocco degli ingressi di nuovi giunti, anche se solo per il weekend, è una misura che condividiamo, ma che riteniamo tardiva e troppo limitata. Per noi, il periodo di sospensione va mantenuto per il tempo necessario a riportare la situazione ad adeguate condizioni di vivibilità per i detenuti e di lavoro per il personale. La situazione nel reparto infermeria è insostenibile. Servono provvedimenti decisi: allontanare qualche detenuto serve solo a liberare pochi posti letto, per poche ore”. Napoli. Il carcere di Nisida non è “Mare fuori”: detenuti adulti, sfregi e liti di Viviana Lanza Il Mattino, 25 luglio 2023 Il vero nodo è la gestione di tanti detenuti stranieri, molti con problemi psichiatrici e moltissimi trasferiti dalle strutture del Nord. Negli ultimi tre anni succede spesso: dici Nisida e il pensiero va alle scene della fortunata fiction Mare Fuori, ai suoi protagonisti e alle loro storie di amicizia e amore, di rimorsi e voglia di riscatto. Ma Nisida non è soltanto la trama di un film e la realtà incrocia quotidianamente le storie, vere e drammatiche, dei giovani detenuti e le criticità, ancora difficili da risolvere, del sistema penitenziario minorile. Il vero nodo, ultimamente, è la gestione di tanti detenuti stranieri, molti con problemi psichiatrici e moltissimi trasferiti dalle strutture del Nord Italia. Tutto questo rischia di rendere Nisida, che è comunque un istituto che funziona e offre diversi percorsi di recupero ai ragazzi che ospita, una polveriera. Sabato scorso un detenuto ha appiccato un incendio in cella e domenica c’è stata un’aggressione tra due giovani stranieri. Sono 14 i giovani detenuti arrivati, a settembre dello scorso anno, nel carcere minorile di Nisida. Provengono dagli istituti di Milano, Torino e Treviso temporaneamente svuotati a causa di lavori di ristrutturazione (la struttura di Treviso è stata addirittura chiusa e il trasferimento in questo caso ha interessato non solo 10 detenuti ma anche alcuni agenti della polizia penitenziaria) e in quattro casi si tratta di trasferimenti per motivi disciplinari. Sradicare un giovane detenuto da un carcere del Nord per trasferirlo a Napoli significa calarlo in un ambiente del tutto nuovo, a mille chilometri dalla propria famiglia che nella stragrande maggioranza dei casi non ha le possibilità economiche per affrontare il viaggio e fare i colloqui. Significa anche interrompere tutto d’un tratto i rapporti umani e le relazioni di fiducia con educatori e volontari che sono molto spesso la vera chiave del successo di un percorso di rieducazione e responsabilizzazione del minore che delinque. Tutto questo (e l’esempio di Nisida lo dimostra) genera tensioni nei giovani detenuti che per mesi chiedono e attendono di essere trasferiti in carceri più vicine alla loro regione e alle loro famiglie. A settembre prossimo, tra poco più di un mese quindi, i venti detenuti arrivati dal Nord dovrebbero fare rientro nelle strutture di Milano, Torino e Treviso e questo è già un primo dato. Restano altre criticità. Carcere minorile di Nisida, clima di tensione: “Troppi detenuti maggiorenni”. La convivenza in carcere non è facile, e non lo è in un carcere minorile come Nisida che in Italia ospita il più alto numero di detenuti (57 di cui due in semilibertà, a inizio 2023). Stando alla relazione annuale sullo stato delle carceri stilata dal garante campano Samuele Ciambriello, circa la metà dei detenuti di Nisida è straniero. In particolare, su 27 detenuti tra i 14 e i 17 anni 9 sono stranieri, su 9 detenuti tra i 18 e i 20 anni ci sono 6 stranieri e su 5 tra i 21 e i 25 anni di età uno è straniero. Tirando le somme, su 41 detenuti, 14 sono adulti e 16 sono stranieri. E allargando la lente sulla situazione in Campania, degli 85 giovani reclusi in strutture penali minorili 40 sono stranieri. Il garante Ciambriello sottolinea quindi la necessità non solo di più mediatori linguistici e culturali, ma anche di intervenire affinché sia rispettato il principio della territorialità evitando che un detenuto sia costretto a scontare la pena a migliaia di chilometri dalla propria città di provenienza. Il garante, inoltre, mette in guardia da un possibile allarme che potrebbe verificarsi in autunno perché nell’istituto minorile di Airola sono in programma lavori di ristrutturazione per dodici milioni di euro: “Si eviti di chiudere la struttura e trasferire i detenuti dall’altra parte dell’Italia”, afferma Ciambriello. Anche il coordinatore regionale del Sappe, Federico Costigliola, pone l’accento sulle criticità legate a questi trasferimenti: “Troppe difficoltà legate alla quotidiana gestione dell’utenza straniera proveniente da istituti del Nord Italia. La situazione nel distretto minorile campano sta prendendo una brutta piega. L’istituto di Treviso ha appena riaperto, perché a questo punto non accelerare i trasferimenti dei giovani detenuti?”. C’è, infine, un altro numero su cui soffermarsi: sono già 6 i reclusi di Nisida e Airola che appena compiuti i diciotto anni hanno fatto richiesta di essere trasferiti in un carcere per adulti. “È un fallimento per il sistema penitenziario minorile. Su questo dato va fatta un’attenta riflessione”, dice il garante. Livorno. “Mio padre sta morendo in carcere”: l’appello della figlia di Antonio Fedele di Monica Dolciotti La Nazione, 25 luglio 2023 “A 81 anni ha bisogno di cure, non riesce più a resistere in carcere”. Alessandra Fedele, figlia di Antonio Fedele, ha scritto a “La Nazione” per segnalare la situazione del padre, detenuto in carcere a Livorno dopo avere ucciso l’ex genero Massimiliano Moneta lo scorso 11 aprile nelle campagne di Vada (nel Comune di Rosignano Marittimo) sparandogli. Il 7 aprile Antonio Fedele si costituì presentandosi alla Stazione dei Carabinieri di Rosignano Solvay dopo una settimana di latitanza. “Mio padre è detenuto nella casa circondariale di Livorno. - ricorda nella lettera Alessandra Fedele - Non ho mai voluto parlare con i giornalisti perché ritenevo non fosse opportuno anche per proteggere i miei figli ancora minorenni. Adesso però la situazione è molto grave, mio padre è in fin di vita e non viene né scarcerato, né portato in ospedale. Il garante dei detenuti di Livorno (Marco Solimano, ndr) ha scritto all’avvocato Giuseppe Cutellè che difende mio padre, per comunicare la sua situazione critica, ma nessuno fa niente. Mio padre ha 81 anni e la sua età è incompatibile con il regime carcerario, in più da più di 10 giorni non mangia e non beve, non prende le medicine, è depresso e non sappiamo quanto potrà reggere”. Raggiunta al telefono, Alessandra Fedele ci riferisce: “Mia madre si recherà in carcere domani (oggi, ndr) per provare a vedere mio padre, che negli ultimi tempi ha rifiutato di ricevere visite. Ci andrà anche l’avvocato Cutellè. Mio padre ha parlato al telefono con mamma questa mattina (ieri ndr) sollecitandola a chiedere aiuto anche tramite i media. Mio padre ha commesso un gravissimo reato e lo ha confessato. Ma per le sue condizioni e per la sua età non può restare in carcere. L’unica cosa da fare è portarlo in ospedale perché soffre di diabete, problemi cardiaci e disfunzioni alla tiroide. Se il Giudice lo permettesse, chiediamo che sia poi trasferito a casa agli arresti domiciliari. Se deve morire che avvenga tra le mura di casa. Dal carcere hanno fatto sapere all’avvocato Cutellé che mio padre è guardato a vista in isolamento, perché sono state trovate delle lettere scritte da lui che hanno fatto temere potesse compiere atti di autolesionismo. Ma quando l’avvocato si è rivolto al giudice Mario Profeta chiedendo gli arresti domiciliari per mio padre, la risposta è stata che le indagini non sono concluse, perciò deve restare in carcere. Intanto stamani (ieri, ndr) il nostro medico e il medico nominato dal Tribunale si sono recati da mio padre per verificarne le condizioni. L’avvocato Cutellè spera di avere subito la relazione medica”. Roma. Carcere, “il trauma dell’uscita” di Lucandrea Massaro romasette.it, 25 luglio 2023 Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale: “Pochissime strutture per le misure alternative”. La vita in cella? “Patogena”. Per moltissime ragioni la popolazione carceraria è cambiata nel corso del tempo e i numeri ciclicamente salgono ma “solo il 10% della popolazione carceraria ha commesso reati di elevata pericolosità sociale, il resto ha commesso reati minori con pene molto brevi, molte persone sono straniere e non hanno un domicilio e una residenza fuori dal carcere e quindi hanno difficoltà ad accedere alle misure alternative”. A sottolinearlo è Valentina Calderone, nominata nel marzo scorso dal Campidoglio Garante delle persone private della libertà personale, impegnata da 15 ani sul tema dei diritti umani e civili. Quella del Garante è una figura che esiste in città da oltre vent’anni e che nel tempo ha affinato e aumentato le proprie competenze: infatti non si occupa solo di detenuti ma di tutti coloro che vengono privati della libertà personale, come ad esempio i migranti in attesa di espulsione nei centri per i rimpatri, le persone in trattamento sanitario obbligatorio e in tutti quei luoghi e condizioni in cui una persona non è libera di muoversi come vuole. Chi resta in carcere spesso non ha alternative, ed è un problema che colpisce spesso le persone in condizione di fragilità dovuta all’anzianità e alle condizioni di salute, alle tossicodipendenze e ai disturbi mentali. Tutte condizioni che il più delle volte il carcere aggrava. valentina calderone “Il 40% circa dei detenuti ha almeno una diagnosi di questo tipo” dalle più alle meno gravi, ma “il carcere è patogeno”, dice ancora la Garante. “Se entri sano sicuramente esci con qualche patologia, dalla cosa più semplice come il peggioramento della vista perché vivi in una condizione di assenza di punti di fuga, a tutte le patologie dell’adattamento a quel tipo di ambiente, oltre ad amplificare quelle esistenti”. Ma cosa succede quando una persona esce di prigione? “Spesso non ci pensiamo - afferma Calderone - ma il momento più traumatico non è quello dell’ingresso in carcere, o almeno non solo, ma è quello dell’uscita. Statisticamente i suicidi in carcere avvengono o nei primi momenti dopo l’ingresso oppure a ridosso dell’uscita di prigione”. Un problema, quello della salute mentale che solo da poco, dopo il Covid, è entrato nell’orizzonte del discorso pubblico, che naturalmente riguarda tutti e non solo chi esce dal carcere, e che è parte integrante della cura della persona. Ma cosa succede quando chi esce, anche temporaneamente grazie ai permessi premio o perché non può scontare la pena in carcere, non ha dove andare? Chi si occupa di queste persone? “Ci sono pochissime strutture purtroppo - sottolinea Calderone -. Un po’ se ne occupa il Terzo settore, in particolare quello di matrice cattolica, che aiuta nel reinserimento con case di accoglienza, con l’affidamento in prova”, ma i posti sono pochi e questo è un problema, specie per gli stranieri che così sono costretti a fare più carcere di quanto il loro percorso richiederebbe”. E per chi è malato? “Lì interviene direttamente la Asl, e le persone non autosufficienti vengono inserite nelle Rsa. Il Comune - ammette Calderone - ha dei posti ma sono sicuramente pochi, andrebbero aumentati e tarati per le diverse esigenze di cui abbiamo accennato. Se c’è un impegno che sento di voler prendere - aggiunge - è proprio quello dell’integrazione sociosanitaria di questi servizi, è essenziale far dialogare le strutture di accoglienza con le Asl, proprio per i problemi che abbiamo detto, cioè che molto spesso chi esce dal carcere è mediamente meno in salute rispetto al resto della popolazione e allora va accompagnato anche in questo aspetto del reinserimento. Ne stiamo discutendo con l’assessore e con il Garante regionale, ma è l’unico percorso che vale la pena di fare”. Roma. Per il reinserimento dei detenuti la parola chiave è “accoglienza” di Lucandrea Massaro romasette.it, 25 luglio 2023 Le testimonianze degli operatori di Volontari in carcere, che lavora per aiutare i detenuti nella fase conclusiva della loro esperienza, tra pregiudizi e ostacoli della burocrazia. Maurizio De Pillis, operatore dell’associazione Volontari in carcere (Vic), una realtà che nasce dall’esperienza di un gruppo di volontari della Caritas di Roma, lavora nella casa di accoglienza del Vic a Montesacro, un luogo che accoglie soprattutto detenuti in permesso premio, persone che restano quindi pochi giorni e non hanno altre possibilità di un luogo dove appoggiarsi. Alcuni restano per la fine della pena ai domiciliari. Lui è un insegnante e ha nella cura del prossimo la sua vocazione, una parola che torna spesso nel nostro colloquio. È col Vic dai tempi del Covid: “Il nostro è un lavoro di accoglienza, che significa andare incontro alle questioni più pratiche come l’organizzazione della casa, fino all’incontro con loro, per costruire uno scambio normale e per non farli sentire “diversi”, ma aiutarli nel loro reinserimento”. “Noi non giudichiamo, non ci riguarda spiega ancora -. E questo atteggiamento da parte nostra è di grande aiuto per loro”. Sono tante le difficoltà che chi è nella fase conclusiva della sua esperienza carceraria deve affrontare, dal pregiudizio verso i detenuti fino a questioni personali e di salute. L’accompagnamento è anche rispetto agli ostacoli della burocrazia perché “molto spesso sono persone che vengono da ambienti disagiati, con poca istruzione, e hanno bisogno di aiuto per far valere i propri diritti o ottenere un documento”. La casa di accoglienza è una opportunità di progressiva responsabilizzazione per i detenuti, a cui viene lasciata autonomia pur se supervisionata. “Osserviamo con discrezione”, afferma Maurizio sorridendo. A volte è un lavoro difficile: “Noi siamo sempre a contatto col dolore, sono persone con un passato difficile, che hanno subìto la privazione della libertà”. E le persone più anziane, quelle con più anni alle spalle, sono le più difficili da gestire. Ivana Figliomeni invece è una volontaria che ogni settimana va al carcere di Rebibbia rendendosi disponibile “per parlare con loro, dando così una possibilità di sfogo” e “anche reperire vestiario per i detenuti che non hanno la famiglia vicina. Ricordo - racconta - un ragazzo con la famiglia in gravi difficoltà economiche formata da lui, dalla madre malata di Alzheimer e dal fratello che viveva al nord, e lui si era ritrovato a fare rapine per occuparsi di questa madre malata. Ma tanti ringraziano il carcere perché senza, raccontano, chissà che fine avrebbero fatto”. Bolzano. Per il nuovo carcere ancora un nulla di fatto di Elisa Brunelli salto.bz, 25 luglio 2023 Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, in visita a Bressanone, ha tenuto una lectio magistralis all’università e firmato un protocollo di intesa con la Regione. Un lungo excursus nei meandri della storia ebraica, romana e dell’antica Grecia per analizzare i cambiamenti dei concetti di giustizia, indulgenza e legalità, per concludere poi sull’importanza di migliorare le condizioni del carcere affinché possa tornare ad avere la propria funzione rieducativa garantita dalla Costituzione. Questa la lectio magistralis del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, arrivato ieri nella sezione brissinese dell’Università di Padova in occasione dell’inaugurazione dei corsi estivi. Piccola contestazione da parte del Movimento 5 Stelle, che ha accolto il ministro con striscioni e cartelloni rispetto al tema della riforma della giustizia, la depenalizzazione del reato d’ufficio e le contestate dichiarazioni, poi ritrattate sull’abolizione del concorso esterno per associazione mafiosa. “Dobbiamo far capire al Ministro che noi non ci siamo dimenticati delle sue parole contro le intercettazioni ai mafiosi, e del suo tentativo di riformare la giustizia anziché di applicarla”, ha spiegato Diego Nicolini, consigliere provinciale M5S. La contestazione al ministro Nordio del Movimento 5 Stelle: “Non ci siamo dimenticati delle sue parole” - Poco prima, nella sala consiliare del comune di Bressanone, con il presidente della Regione Maurizio Fugatti e il vice Arno Kompatscher, è stato firmato un protocollo operativo sulla gestione uffici giudiziari della Regione. Stando al documento, sarà la Regione provvedere al potenziamento dell’organico sulla base della Legge regionale. Attraverso il protocollo sono stati concordati diversi aspetti per quanto riguarda la gestione del personale regionale assegnato agli uffici giudiziari regionali, dalle piante organiche, all’orario di lavoro,fino alle procedure da applicare in caso di trasferimento. È stato inoltre stabilito che, al fine di assicurare la funzionalità degli uffici giudiziari, per sopperire a temporanee esigenze di uffici aventi sede nel distretto, è possibile disporre l’applicazione di personale di un altro ufficio giudiziario. Al 1° gennaio 2018 i dipendenti negli uffici giudiziari della Regione erano 35, mentre le attrezzature, gli arredi ed i beni mobili strumentali sono stati trasferiti in capo alla Regione alla fine del 2019. Negli ultimi 5 anni la dotazione organica complessiva del personale regionale ha visto un aumento di 76 unità, di cui 7 funzionari linguistici C1 (6 unità assegnate a Bolzano ed una unità a Trento), 50 assistenti giudiziari B3 (19 unità assegnate a Bolzano e 31 unità assegnate ad uffici giudiziari in provincia di Trento), 19 ausiliari A1 (5 unità assegnate a Bolzano e 14 unità assegnate ad uffici giudiziari in Trentino). A breve saranno inoltre ricoperti anche i 25 posti messi a concorso (10 per gli uffici giudiziari di Bolzano e 15 per gli uffici giudiziari della provincia di Trento) relativamente alla nomina degli operatori giudiziari B1. Soddisfatto, con riserva, il presidente della Provincia di Bolzano, Arno Kompatscher: “Da una gestione provvisoria, si passa finalmente a una gestione effettiva sulla base di un controllo vero che ripartisce le competenze. Abbiamo sollecitato nuovamente per la costruzione del nuovo carcere, è urgente convocare un tavolo e iniziare con i lavori al più presto”. Secondo il Ministro Nordio, questo protocollo farà da apripista anche per le altre regioni: “Sarà un esempio pilota di come possono essere risolti i problemi di assunzione personale. Ne faranno seguito altri in altre regioni d’Italia, compatibilmente ai loro statuti. Sono grato a Bressanone, che diventa oggi una città simbolica: attraverso questo criterio di assunzione di personale amministrativo si possono ridurre le criticità della giustizia che non risiedono solo nella carenza di magistrati ma soprattutto del personale ausiliario”. Rispetto al nuovo carcere, nonostante gli auspici ribaditi in università sulla funzione rieducativa della pena, per Bolzano ci sarà ancora molto da aspettare. L’impegno rinnovato dall’ex Ministra Marta Cartabia giunta lo scorso anno in visita a Bolzano sembra infatti sfumare ancora una volta. “Conosco il carcere di Bolzano da quando mi occupavo della Mala del Brenta e vi trasferivo i detenuti particolarmente pericolosi per tenerli lontani dal loro ambiente - rimarca il Ministro -. Allora c’erano già problemi ma temo che la situazione sia diventata ancora più critica. La questione del nuovo carcere è all’apice della nostra attenzione ma qui mi fermo, perché ci sono problemi di natura giuridica ed economica”. Airola (Bn). Il Garante campano dei detenuti in visita all’Ipm di Anna Liberatore Il Mattino, 25 luglio 2023 Ciambriello che è stato accolto dalla direttrice, Marianna Adanti, ha chiesto più opportunità lavorative per i ristretti. “Le criticità degli istituti minorili, di Airola e Nisida, ci sono state perché nell’ultimo anno dalle carceri di Milano, Torino, Treviso, sono arrivati minori del Nord. Fortunatamente sono terminati i lavori nel carcere di Treviso, quindi rientreranno sia gli agenti di polizia penitenziaria distaccati in Campania sia i detenuti appoggiati momentaneamente a Nisida ed Airola”. Lo ha dichiarato il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, in visita questa mattina presso l’istituto penitenziario minorile di Airola. “La territorialità della pena - ha aggiunto - è un diritto per ogni diversamente libero, il diritto alla familiarità, al reinserimento lavorativo, alla difesa legale. Diritti costituzionali ed elementari che non riescono ad essere interpretati dalla politica sul tema carcere. Quelli che sia ieri che precedentemente sono stati protagonisti di eventi critici lo hanno fatto per ricevere attenzione sul fatto che erano detenuti al Nord e sono stati invece trasferiti a Nisida ed Airola. Ho pregato anche il sindaco di Airola, Vincenzo Falzarano, affinché qualche artigiano e commerciante locale, possa prendere con un lavoro da tirocinio alcuni di questi ristretti. Le borse lavoro sono una grande opportunità per i ragazzi, per ricevere un minimo contribuito per reinserirsi a poco a poco nella società”. Ciambriello è stato accolto dalla direttrice Marianna Adanti e dalla responsabile della Summer School, Raffaella Vitelli. Dopo Airola, il garante si è recato presso la Comunità Emmanuel di Faicchio che ospita 20 tossicodipendenti. A riceverlo è stata suor Raffaella Letizia, che insieme ai suoi collaboratori si impegna quotidianamente per dare una seconda opportunità a chi ha avuto problemi con la droga e con la giustizia. Una favola, una speranza, un’evasione recensione di Giovanna Baldini* Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2023 Il libro “Il mondo dei bambini” è una favola e l’autore, Castrenze Bonanno, un sognatore. Una favola che anche gli adulti possono leggere, perché sognare non fa male a nessuno e il sogno può essere costruttivo e ispirare “a egregie cose”. Nel racconto si trovano tutti gli ingredienti delle storie per ragazzi. Appare Dio, affacciato alle nuvole, corrucciato, perché l’Uomo, la sua più alta creatura, è in procinto di distruggere se stesso e gli altri, ossessionato dalla smania di potere. E ci sono anche le personificazioni più comuni dell’immaginario infantile, il Sole, il Mare, la Luna, figli di Dio. Pure loro addolorati e impotenti di fronte allo spaventoso disastro che la mano dell’uomo va perpetrando sulla Natura. Con un intreccio più emotivo che razionale, l’Autore trova la soluzione della salvezza del pianeta attribuendo a Dio una decisione quanto meno fuori dall’ordinario. Egli metterà il governo del mondo nelle mani dei bambini, esseri puri e ingenui, scevri da ogni malizia, sicuro che sia la cosa giusta da fare portando, così, la favola al suo lieto fine. L’inquinamento si riduce, così come il buco nell’ozono, e i disastri ambientali diminuiscono; e tacciono anche le armi, che portano con sé massacri e stragi provocati da mezzi bellici sempre più micidiali e costosi: i bambini hanno ridato alla terra lo splendore dell’Eden con i colori e i profumi del mondo primigenio. Il libro si svolge sotto forma di dialogo tra una madre e una figlia. La madre racconta e la bambina, che ascolta attentamente, spesse volte la interrompe e le chiede notizie, commenti e riflessioni personali, astraendosi dal testo e riportando il discorso all’attualità. Che si arricchisce, quindi, di approfondimenti su temi scientifici come quello dell’evoluzione della specie umana o su alcuni processi chimici riguardanti i cambiamenti climatici. L’Autore dimostra di avere molti interessi e di essere riuscito a mettere a frutto il suo tempo, costretto in una lunga detenzione. Condizione che non gli ha impedito, però, di coltivare la passione per lo studio e la scrittura e nemmeno la capacità di sognare. Un piccolo libro, ma importante. Perché permette al Lettore di condividere il mondo fantastico dell’Autore, che a una grande immaginazione, unisce, nel suo raccontare, riflessioni e conoscenze sempre alla portata dei bambini. Castrenze Bonanno, “Il mondo dei bambini”, Edizioni La Grafica Pisana, 2023, Bientina (Pi) *Volontaria dell’associazione Controluce, di Pisa “Io lotto”: i giovani e l’impegno di Michele Brambilla La Repubblica, 25 luglio 2023 Don Luigi Ciotti e la volontaria di Libera Maria Joel Conocchiella a confronto sul valore della testimonianza civile. Quanti sono i figli spirituali di un uomo di Dio? “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”, disse il Signore ad Abramo. I figli spirituali di don Luigi Ciotti non saranno numerosi come le stelle del cielo, ma contarli è ugualmente complicato. Per dire: sono tremila solo i ragazzi che si sono prenotati per lavorare quest’estate nei campi di Libera in giro per l’Italia. Uno di questi ragazzi, anzi una di queste ragazze, si chiama Maria Joel Conocchiella, una bella e forte venticinquenne calabrese che dedicherà l’estate all’amore per la sua terra, che vuole orgogliosa e libera dal giogo dalla ‘ndrangheta. Si è laureata pochi giorni fa. E niente, non va in vacanza per staccare. Passerà l’estate in un carcere, come racconterà, per incontrare gli uomini che hanno scelto il male ma che, non per questo, vanno abbandonati. Don Luigi Ciotti è a Torino e chiama la sua figlia spirituale che sta a Briatico, provincia di Vibo Valentia, vicino a Tropea. Don Luigi Ciotti: “Ciao Maria Joel, dove sei?”. Maria Joel Conocchiella: “A Briatico, nella mia terra”. DL “So che oggi sei stata in un carcere, fra persone che hanno sbagliato ma che devono comunque avere la possibilità di un incontro, di un’altra vita”. Maria Joel, tu fai parte di Libera e solitamente i ragazzi come te lavorano nei “campi”. Che cosa sono? MJ “I campi sono proprietà e beni confiscati alle mafie. I ragazzi ci lavorano facendo di tutto: dalle cose pratiche - tipo la gestione dei campi, lavori di manutenzione, riverniciature - alla cura dei rapporti con la gente del territorio. Io ho fatto la campista a Crotone e con altri amici andavo in giro a portare pacchi alle persone bisognose. Sono aiuti materiali, ma non solo: perché partono dalla conoscenza del territorio”. DL “In questo momento ci sono cinquanta campi in tutta Italia. Circa tremila ragazzi si sono prenotati per trascorrere i mesi estivi in queste realtà”. MJ “Vogliamo scrivere una storia diversa della Calabria e i campi sono un valore aggiunto perché permettono una contronarrazione che smentisca i tanti stereotipi”. DL Cioè la Calabria assoggettata alla ‘ndrangheta e in fondo un po’ complice? MJ “Esatto. Nei campi si parte dalle ferite. La ‘ndrangheta c’è e ha fatto male a tante persone. Ma c’è anche chi resiste, chi si ribella. Ci sono famiglie che denunciano i congiunti che fanno parte delle ‘ndrine, ci sono imprenditori che si rifiutano di pagare il pizzo e vanno dai carabinieri. Grazie ai campi la comunità prende consapevolezza che la Calabria è anche altro. È soprattutto altro”. DL Però tu quest’anno non stai nei campi. MJ “Quest’anno ho iniziato un’esperienza nuova. Abbiamo organizzato, nel carcere di Vibo Valentia, il Cineforum “Pellicole Scomode” con i detenuti dell’alta sicurezza”. DL “E com’è stare in carcere in compagnia di uomini che hanno fatto la scelta sbagliata?”. MJ “Ogni volta che si chiudono le porte dietro di te, e senti il rumore delle sbarre, è un’emozione forte. Nei campi c’è il bene mafioso confiscato; in carcere c’è l’uomo mafioso. Noi veniamo dal dolore innocente delle vittime, e avere a che fare con i colpevoli di quel male è un impatto molto forte. Le mafie sono una subcultura”. DL Qual è l’ultimo film che hai visto con i detenuti? MJ “Liberi di scegliere, un film del 2019. Il protagonista è un giudice dei minori che cerca di strappare i ragazzi alla ‘ndrangheta. Ma sono tutti temi forti”. DL “La confisca dei beni è uno schiaffo alla violenza criminale, ma quello che ha permesso a Libera di incontrarci è l’uso sociale di quei beni, restituiti alla collettività. Maria Joel, come hai vissuto questo fermento?”. MJ “Quando entri in queste proprietà confiscate alle mafie ti senti parte di qualcosa di fortissimo. Capisci che puoi dare il tuo contributo anche solo passando uno straccio per pulire. I beni confiscati hanno una portata simbolica enorme. Erano, sul territorio, il simbolo visibile della potenza mafiosa: e ora sono diventati il segno tangibile del riscatto, della speranza. Simbolo, segno ma anche concretezza, perché grazie a quei beni confiscati si dà lavoro”. DL “La legge sui beni confiscati alle mafie è partita dal basso, raccogliendo le firme. E la confisca vuol dire trasformare in valore sociale, in democrazia, in giustizia quello che era il profitto di un crimine. Le mafie avevano confiscato la vita di tante persone. E oggi c’è bisogno di recuperare. Per voi ragazzi, Maria Joel, è un’esperienza forte uscire dal formalismo”. E dalla rassegnazione. Chiedo a tutti e due: quanto è stata importante, e quando è cominciata, la rivolta delle donne? DL “Tantissimo. È uno dei più segni più significativi del cambiamento. Il mio primo contatto fu con don Italo Calabrò, una delle più belle figure di questa terra, un sacerdote per cui è stato aperto il processo di beatificazione. Era vicario generale della diocesi di Reggio Calabria e parroco di un piccolo paese dell’Aspromonte. Mi disse che aveva conosciuto la ‘ndrangheta in confessionale, da tante donne che si sentivano minacciate. Mi mandò a Torino tanti ragazzi. Maria Joel, tu stai vivendo lo stesso coraggio di quelle donne, ti stai mettendo in gioco. Pensa a questo: i giovani dai 16 ai 29 anni, in tutto il mondo, sono un miliardo e 800 milioni. Poco meno di un quarto dell’umanità. È l’età in cui si cerca il senso della vita. Ora io ti chiedo, Maria Joel: che cosa senti che dovete fare, voi giovani?”. MJ “Dare un contributo. Te lo dico così, con questa sintesi semplice. Tantissimi ragazzi vogliono dare un contributo. I rischi, per noi giovani, sono l’indifferenza e la disillusione”. DL Voi di Libera dove trovate la forza per non arrendevi alla disillusione? MJ “Nelle nostre radici: perché quella della Calabria è una storia di ribellione, di coraggio. Noi dobbiamo farci carico di questo patrimonio e testimoniarlo. Non è facile, perché viviamo in una società che ci sta bombardando di altre cose. Ma il senso del sociale ci dà il bello dello stare insieme. Dobbiamo lavorare sulla bellezza, sulla meraviglia del senso di comunità”. DL Dicevi che uno dei frutti concreti che vengono dai campi confiscati è il lavoro. MJ “Sì, ed è fondamentale, perché purtroppo ancora tanti ragazzi se ne vanno dalla Calabria per necessità. Io non dico che sia obbligatorio restare qui: ma andare via deve essere una scelta, non una costrizione. Però sono positiva, perché vedo molti giovani pronti a impegnarsi. Anche molti che ritornano e portano a noi l’esperienza che hanno vissuto altrove”. DL “Ma è importante che non siate soli. Il dialogo fra generazioni è fondamentale. Voi avete bisogno di essere presi sul serio, ascoltati, considerati. Non è vero che i giovani non ci sono. Quando siete ascoltati, voi esplodete”. MJ “Libera ci ha dato questa possibilità: di essere ascoltati”. DL Maria Joel, vorrei sentire anche da te qualcosa sulla rivoluzione femminile della Calabria. MJ “Ci sono tantissime storie di donne che si ribellano. Figlie e mogli di boss: anche andando indietro nel tempo. Molte non ci sono più, perché hanno pagato con la vita. Ma grazie a loro oggi molte donne hanno trovato la forza. Chiedono aiuto allo Stato, si affidano allo Stato. La mafia si nutre molto del controllo sulle donne, e questa rivoluzione femminile la mette in difficoltà”. DL “Maria Joel, ti faccio vedere questa croce. Sono due assi di legno presi dal barcone affondato a Cutro tra il 25 e il 26 febbraio scorso. Sono morti in cento, a cento metri dalla tua terra. Questa croce sentila anche un po’ tua”. MJ “Deve essere un monito per tutti noi. In quella croce sono inchiodati i sogni e le vite di tanti esseri umani che hanno avuto la sola colpa di nascere dalla parte sbagliata del mondo. Con gli altri ragazzi di Libera, siamo andati su quella spiaggia a chiedere scusa”. Migranti. Un patto e un Fondo per fermarli di Marina Della Croce Il Manifesto, 25 luglio 2023 Alla conferenza voluta dalla premier Meloni i capi di Stato e di governo di 21 paesi del Mediterraneo. Con l’incognita Libia e Tunisia. I diritti umani restano sullo sfondo, tanto che quando le si fa notare che in Tunisia, paese che ha appena firmato un memorandum di intesa con Bruxelles, i migranti muoiono nel deserto al confine con la Libia, Giorgia Meloni taglia corto: “Parlatene con l’Unione europea. L’accordo è tra l’Ue e la Tunisia”, dice la premier dimenticando di essere stata proprio lei uno dei principali sponsor di quell’intesa. Del resto non erano i diritti umani la questione principale della conferenza internazionale su sviluppo e immigrazione che si è tenuta domenica alla Farnesina su iniziativa italiana. Presenti, oltre ai vertici delle istituzioni europee, 21 paesi (assente la Francia, non invitata) che nelle intenzioni di Palazzo Chigi dovrebbero diventare i principali interlocutori di una nuova collaborazione con la sponda sud del Mediterraneo nonché l’avvio di quello che è stato chiamato il “Processo di Roma”, una sorta di proseguimento del sempre annunciato ma finora mai visto Piano Mattei per l’Africa con in più l’istituzione di un Fondo per creare investimenti nei paesi di origine. “L’obiettivo dei nostri lavori deve essere anche il reperimento delle risorse necessarie per realizzare iniziative di sviluppo”, spiega la premier nel suo intervento introduttivo della conferenza. Un Fondo per l’Africa nel quale l’Italia sarebbe pronta a impegnare quasi un miliardo di euro in attesa di una conferenza dei Paesi donatori da tenersi nel prossimo autunno. Senza far mancare una nota sovranista nella promessa che saranno i paesi destinatari dei finanziamenti a decidere quanti e quali investimenti fare. Quattro, comunque, i filoni sui quali lavorare e che riguardano il contrasto all’immigrazione illegale con un maggior coordinamento tra le varie polizie, i rimpatri, la migrazione legale attraverso il decreto flussi e corsie preferenziali per i paesi che collaborano nell’accelerare il rimpatrio dei propri cittadini e, infine, il sostegno a profughi e rifugiati anche attraverso aiuti ai Paesi più prossimi come, ad esempio, Libano e Giordania. La conferenza è l’ultima tappa del percorso avviato da Meloni da quando le è stato chiaro che gestire le migrazioni è qualcosa di più complicato degli spot lanciati quando era all’opposizione. Come testimoniano gli 86.132 sbarchi registrati dal primo gennaio al 24 luglio, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2022. O la decisione di mettere almeno temporaneamente da parte la guerra alle navi delle ong, chiamate ormai a dare una mano nelle operazioni di soccorso anche se i porti di destinazione restano lontani. Meglio quindi spostare l’attenzione sull’altra sponda del Mediterraneo, provando a portarsi dietro l’Unione europea. Manovra finora riuscita, visto che ancora domenica la presidente del Commissione Ue Ursula von der Leyen parlava dell’intesa raggiunta con la Tunisia come un “modello” da esportare anche in altri paesi. Proprio Kais Saied del resto è stato uno dei protagonisti principali della conferenza, accolto da Meloni con tutti gli onori. Cosa che non ha impedito all’autocrate tunisino di ribadire di non avere nessuna intenzione, come invece vorrebbe Bruxelles, di trasformare la Tunisia in un punto di raccolta dei migranti che hanno attraversato il paese e sono entrati illegalmente in Europa. Così come non pensa di avviare le riforme economiche chieste da mesi dal Fondo monetario internazionale per sbloccare u prestito da 1,9 miliardi di dollari che darebbe un po’ di ossigeno alle casse del paese. Una sfilza di no conclusa con la richiesta fatta all’Onu di un nuovo Fondo al quale attingere. Una linea che Saied condivide anche con il premier libico Abdel Hamid Al Dbeibah e che rischia di allungare un’ombra pesante su quelli che potrebbero essere gli sviluppi reali del summit di domenica. Vertice sui sistemi alimentari: nuovo equilibrio per combattere la fame di Maurizio Martina* Corriere della Sera, 25 luglio 2023 L’impalcatura multilaterale nata dopo la seconda guerra mondiale ha certamente bisogno di cambiare e migliorare per svolgere al meglio il proprio ruolo nel tempo che stiamo vivendo. Si sta svolgendo a Roma presso la FAO (24/26 luglio 2023) il vertice sui sistemi alimentari promosso dalle Nazioni Unite e dall’Italia. Si tratta di un appuntamento molto rilevante, con l’ambizione di fare compiere alla comunità internazionale un salto di qualità operativo nelle azioni per combattere la fame e sostenere sistemi alimentari più equi, resilienti e sostenibili. Le modalità di lavoro del vertice dovrebbero aiutare a entrare nello specifico di alcuni nodi strategici della questione aperta di fronte a noi. Pensiamo troppo poco al fatto che mancano solo sette stagioni di raccolta nei campi da qui al 2030, l’anno di riferimento dell’agenda internazionale per lo sviluppo sostenibile. In questi anni, l’impegno per il diritto al cibo si è fatto ancora più complesso e senza un cambio di passo sostanziale, le proiezioni ci dicono che nel 2030 avremo ancora 600 milioni di persone affamate. Il cambiamento climatico che stiamo vivendo ormai quotidianamente sta sfidando alla radice la tenuta dei sistemi agricoli e alimentari a ogni latitudine, colpendo prima di tutto i territori più fragili come nel caso drammatico del Corno d’Africa. Tenere uniti il contenimento della temperatura a 1.5 gradi e l’obiettivo fame zero impone una coerente strategia d’azione, di mitigazione e adattamento, tutt’altro che scontata. Le guerre e i conflitti rimangono la principale causa della fame nel mondo, e certamente il conflitto in Ucraina ha ulteriormente aggravato la situazione, stante il rapporto strettissimo da sempre esistente tra le produzioni agricole dei territori coinvolti e le importazioni di tanti paesi in via di sviluppo, fortemente dipendenti per le forniture di cereali e fertilizzanti essenziali per la tenuta delle comunità e delle produzioni agricole. Gli stessi effetti socioeconomici della pandemia si stanno ancora facendo sentire. La combinazione di questi shock multipli ha portato a pesanti incertezze sui mercati, aumenti radicali dei costi di produzione dovuti alla crisi energetica e impennate dei prezzi delle materie prime alimentari. L’inflazione alimentare rimane assai elevata anche da noi e tocca percentuali impressionanti altrove: dal Venezuela (450%) al Libano (304%) all’Argentina (118%). La speculazione è sempre in agguato. Complessivamente, rispetto al periodo pre pandemico, oltre 122 milioni di persone in più soffrono di insicurezza alimentare portando a oltre 730 milioni le persone a rischio fame cronica. La situazione in Asia e America Latina non è peggiorata mentre in Medio Oriente, Caraibi e sopratutto in Africa le condizioni alimentari si sono aggravate. Pandemia, crisi climatica e guerre ci hanno fatto riscoprire le fragilità e le storture dei sistemi alimentari e al tempo stesso hanno fatto emergere anche la loro assoluta centralità in termini geopolitici. Perché anche in un mondo globalizzato, veloce e interconnesso occorre capire dove e come si produce cibo sano, sicuro e sufficiente. Il fatto è che la comunità internazionale ha ancora un’agenda agricola e alimentare piena di sfide da condividere e gestire. Abbiamo già detto, prima di tutto, della rivoluzione climatica in atto che sta cambiando le condizioni degli ecosistemi. Ma si pensi, conseguentemente, anche al rischio di nuove zoonosi e pandemie. O alle tendenze che ci indicano che entro il 2050 ben sette persone su dieci vivranno nelle aree urbane del pianeta. Di fronte a tutto questo, scienza e innovazione, se ben calibrati al servizio di tanti e non solo di pochi, possono certamente aiutarci a produrre meglio, consumando meno. Possiamo avere colture più resistenti alle crisi idriche, sprecare meno acqua, usare meno input chimici. Ma sono essenziali anche nuove regole internazionali, a partire dai mercati. Apertura e regole comuni rimangono leve importanti per sostenere in particolare le economie (anche agricole) emergenti. Al fondo, il tema della sostenibilità sociale ed economica nell’accesso al cibo — ovvero del grado di equità ed eguaglianza del sistema — rimane il centro della sfida insieme alla sua sostenibilità ambientale. Ancora oggi, il continente africano rappresenta il cuore del dramma della fame e il Mediterraneo è sempre di più un crocevia dei mutamenti più direttamente connessi alla insicurezza alimentare di milioni di persone. All’Italia tocca un compito assai rilevante. Ci può essere una diplomazia agricola e alimentare mediterranea utile a rafforzare cooperazione e sviluppo in particolare in questo quadrante del mondo, favorendo la gestione comune delle grandi sfide del nostro tempo. Ce n’é abbastanza per impegnarsi per una nuova visione multilaterale. La storia degli ultimi anni ci dovrebbe insegnare che non tutti i paesi vengono colpiti allo stesso modo dagli shock globali, ma nessuno può bastare a se stesso per uscirne. Sorprende fino ad un certo punto rileggere oggi alcune pagine di storia e scoprire la similitudine del dibattito che i paesi aprirono agli inizi degli anni ‘50 del secolo scorso attorno all’idea di strumenti comuni per immagazzinare e gestire beni agricoli primari per fare fronte alle crisi. Oggi, un po’ ovunque, si ragiona anche di autonomia strategica alimentare. È chiaro che l’impalcatura multilaterale nata dopo la seconda guerra mondiale ha certamente bisogno di cambiare e migliorare per svolgere al meglio il proprio ruolo nel tempo che stiamo vivendo. La sua essenza rimane straordinariamente attuale e il tema della governance globale ha acquistato un significato ma ancora più rilevante. Di certo, per battere la fame c’è bisogno di costruire un nuovo equilibrio. Ambientale, economico e sociale. Le risposte per arrivare a questo migliore equilibrio ci sono e ci possono essere, ma occorre la volontà di volerle perseguire, qui e ora. Roma ospita un vertice il cui obiettivo primario dovrà proprio essere quello dell’implementazione operativa di soluzioni nei territori. C’è davvero da impegnarsi a fondo perché questo avvenga con la massima forza. *Vicedirettore Generale FAO Francia. “Niente carcere per gli agenti”, la sparata del capo della polizia che imbarazza Macron di Carmine Di Niro L’Unità, 25 luglio 2023 Torna a infiammarsi in Francia il clima sulla polizia, sul suo ruolo e sul rischio di una impunità degli agenti. Impunità che chiede a gran voce Frédéric Veaux, direttore generale della polizia nazionale, che nella giornata di domenica ha chiesto la liberazione di un agente della brigata Bac di Marsiglia, finito in custodia cautelare nell’ambito di un’inchiesta sulle violenze perpetrate dalla polizia nell’ambito delle rivolte urbane seguite alla morte di Nahel, il diciassettenne ucciso da un poliziotto il 27 giugno, durante un controllo stradale a Nanterre, alle porte di Parigi. “Un poliziotto non dovrebbe andare in prigione”, ha detto Veaux, sostenendo che “prima di un eventuale processo, un poliziotto non debba andare in carcere, anche se ha commesso sbagli o errori gravi nell’ambito del suo lavoro”. Parole che hanno messo in grave imbarazzo il governo e il presidente Emmanuel Macron. Contro il capo della polizia si è scagliato il segretario del partito socialista, Olivier Faure, che si è chiesto se “nel governo ci sia qualcuno che ricordi qualche nozione elementare del diritto” al capo della polizia. Quindi è toccato a Jean Luc-Mélenchon, leader della France Insoumise, che ha invitato la polizia al “rispetto delle istituzioni repubblicane” mentre la capa degli ecologisti, Marine Tondelier, vede in queste dichiarazioni la radice di una “crisi istituzionale maggiore”. Una sfilza di dichiarazioni e accuse che hanno spinto il presidente Macron a ricordare che, se da una parte capisce “lo stato d’animo” dei poliziotti dopo le recenti rivolte urbane seguite alla morte di Nahel, dall’altra parte non può non ricordare che “nessuno nella Repubblica può essere al di sopra delle leggi”. Macron non cita mai direttamente il capo della polizia Frédéric Veaux, ma è evidente il destinatario della sua reprimenda. In ogni caso l’inquilino dell’Eliseo dalla Nuova Caledonia, dove si trova da oggi in visita per diversi giorni, ha ribadito la necessità di fermezza contro le rivolte scoppiate dopo la morte di Nahel. Macron ha invocato “ordine, ordine, ordine” e “ripristino dell’autorità ad ogni livello” dopo le violenze urbane sorte in più parti del Paese lo scorso mese. Rivolte e violenza che, ha ricordato il presidente francese, “ha condotto ad incendiare municipi, palestre, biblioteche”, ma da cui Macron dice di aver tratto una lezione: “ordine, ordine, ordine”. Macron ha inoltre criticato i social network, invocando “un ordine pubblico del digitale che consenta di prevenire queste derive”. Palestina, diario da Nablus. La scuola riaccende i sogni contro il buio della violenza di Mirella Riccardi* Corriere della Sera, 25 luglio 2023 L’impegno nei territori occupati per il supporto psicologico, psichiatrico e sociale rivolto alla comunità palestinese. I piani di contingenza e il futuro. Mirella Riccardi psicologa di Medici Senza Frontiere durante una seduta di salute mentale nell’aprile di quest’anno con Jinan, la cui casa è stata distrutta dalle forze armate israeliane, a Douma Siamo a Nablus, città bianca, un labirinto di viuzze compone il centro storico, larghe strade e vertiginose curve si dipanano verso i quartieri sui colli. Mi ricorda Napoli. È gennaio, ore otto: attraverso le strade frastornate dai clacson all’ora di punta mi dirigo verso la nostra clinica di salute mentale. Sono appena arrivata. In Palestina. Da questo primo giorno e per i prossimi nove mesi di questo 2023 il mio lavoro, in collaborazione con i colleghi palestinesi, sarà quello di coordinare le attività di supporto psicologico, psichiatrico e sociale per Medici senza Frontiere rivolte alla comunità palestinese che vive nei territori occupati in Cis-Giordania. Febbraio 2023 - Il mio arrivo è scandito da una escalation di violenza. In un attacco militare nella città vecchia perdono la vita oltre dieci persone. I colleghi palestinesi mi raccontano che questo accade spesso ma che non ci sia abitua al dolore e al lutto. Viviamo e lavoriamo in uno stato di allerta costante. Prepariamo i piani di “contingenza”, quelli per garantire le cure durante i giorni particolarmente instabili. Il tempo scorre, l’occupazione sembra invadere non solo le strade e le città, ma anche la psiche individuale e collettiva, compresa la mia. Mi avvio all’incontro con il danno psichico che l’occupazione provoca. Marzo 2023 - Io sono una “expat”, cioè una operatrice umanitaria italiana espatriata. Il mio passaporto mi offre il privilegio di poter attraversare le strade e le città. Il mio visto e la mia nazionalità mi consentono liberi spostamenti. Il colore delle targhe è verde per i palestinesi, giallo per gli israeliani. Strade specifiche per gli uni e per gli altri. Muri e fili spinati. Tutto è imprevedibile, deputato al controllo altrui, circondato da un muro tanto fisico quanto invisibile. Psiche occupata. Maggio 2023 - Qui a Nablus, la città principale della Cisgiordania, ci sono università, scuole, ospedali, palestre, bistrot e caffè. Tuttavia ogni cosa che esiste è avvolta da un velo, un senso amaro di presente e spesso una mancanza di fiducia nel futuro. Dei sogni. Quali sogni possono sopravvivere in un giovane palestinese di fronte a questa insostenibile incertezza? Lavoriamo per rintracciarli e fargli spazio. Giugno 2023 - Tradurre il dolore in parole, fare spazio ai sentimenti più incastrati: è il nostro mestiere qui. Nel mezzo di un disagio collettivo, lavoriamo per rintracciare e dare spazio alla specificità individuale. I nostri pazienti sono adulti, bambini, giovani. Ognuno con una sofferenza specifica. Ognuno con i propri pezzi di sogni che proviamo a salvare tra le macerie. Lasciamo che prendano il loro spazio, delicatamente nelle vite di ognuno, in una forma unica e specifica per ciascuno. Non possiamo modificare l’esterno, ma provare a rimarginare ferite invisibili resta il nostro atto di cura. Luglio 2023 - Sono da sei mesi qui, ho svolto riunioni internazionali, letto rapporti, articoli, libri, e non trovo una ragione alla inumanità di queste vicende. La miseria umana si manifesta con tutta la sua forza. Nuovi sfollati, un tempo già rifugiati. Nuove dimore distrutte, altri pezzi di vita sopravvissuti, forse da rimarginare. Una storia infinita di dolore, rabbia e violenza. Dinnanzi agli occhi silenziosi del mondo. Ieri come oggi. Quale è, allora, oggi, l’antidoto contro l’indifferenza? Non l’ho capito bene. 20 luglio - Sono le 9.30 del mattino del 20 luglio, oggi è finito l’anno scolastico. Sono appena stati diffusi i risultati degli esami. Questo momento era atteso da giorni. La città è sommersa da fuochi d’artificio. I clacson attraversano le strade. Giovani festosi gioiscono. I genitori tirano un respiro di sollievo e soddisfazione. I knafeh sono pronti da mangiare. Pausa da ogni attività. È il tempo della speranza, della gioia, dei sogni realizzati e di quelli che verranno. La forza della cultura! I mesi che verranno - Questa pagina è ancora tutta da scrivere. Non so cosa accadrà, ma se continueremo a tendere la mano alla flebile e audace speranza che malgrado tutto sopravvive, se continueremo ad interrogarci, anche a perturbarci, dinnanzi a tali vissuti allora, forse, potremo fare spazio ad una umanità - alla deriva - ma non del tutto scomparsa. La riforma che divide Israele. Il primo sì in un clima di guerra di Davide Lerner Il Domani, 25 luglio 2023 Cancellata la “clausola della ragionevolezza” nel primo passo per indebolire la Corte Suprema. I manifestanti denunciano l’utilizzo del “metodo spezzatino” per imporre la riforma contestata. Il parlamento israeliano ha approvato in seconda e terza lettura la cancellazione della cosiddetta “ilat hasvirut”, o “clausola di ragionevolezza” (da “savir”, ebraico per “saggio”, “assennato”), una norma che permetteva fino a lunedì alla Corte suprema di intervenire laddove considerasse “irragionevole” una scelta del governo o di altri organismi amministrativi. Per esempio, poco dopo l’insediamento del nuovo governo, l’Alta corte ha costretto il primo ministro Benjamin Netanyahu a rescindere la nomina a ministro dell’alleato ultraortodosso Aryeh Deri, obiettando che le sue condanne definitive per corruzione ed evasione fiscale la rendessero inopportuna. Il primo passo - È il primo di una serie di interventi legislativi volti a indebolire il ruolo della Corte suprema fortemente voluti dal governo, che hanno però scatenato il movimento di protesta più esteso, tenace e determinato della storia del paese. Lo stesso voto di lunedì si è svolto mentre i manifestanti si scontravano fuori dal parlamento con la polizia, e mentre proteste di varia natura andavano in scena in tutto il paese. “La clausola di ragionevolezza è una norma molto importante che la Corte utilizza solo raramente quando si tratta di casi di irragionevolezza estrema. È uno strumento fondamentale per mantenere vitale una democrazia come Israele, sottoposta a pressioni di tipo politico, securitario, ambientale e non solo”, dice Shlomo Cohen, ex numero uno della influente associazione degli avvocati israeliani. “Quanto è avvenuto è ancora più importante perché è il primo passo di una rivoluzione costituzionale imposta dalla destra fascista e religiosa al paese. Ma, sorprendentemente, dopo vent’anni, quella Israele naïf e addormentata [delle opposizioni] si sta svegliando, e si sta ribellando: il genio è uscito dalla bottiglia, e non ha nessuna intenzione di tornarci”, conclude Cohen, alludendo al movimento di protesta. Metodo spezzatino - Da sette mesi gli israeliani scendono in piazza per dire no alla riforma, considerata una minaccia per la democrazia in quanto rimuoverebbe gli argini legali alle azioni delle maggioranze di governo (non aiuta il fatto che quello attuale abbia tendenze piuttosto illiberali). Espressioni sempre più radicali di dissenso hanno interessato anche le fila dei militari, con decine di migliaia di riservisti decisi a non servire nell’esercito a meno che la riforma non venga accantonata. La levata di scudi della società civile è culminata a fine marzo, quando pur di riportare l’ordine nel paese Netanyahu ha accettato di interrompere l’iter legislativo fino alla sessione estiva della Knesset, quella attualmente in corso (si conclude alla fine del mese). Come temevano i critici delle misure, tuttavia, si trattava solo di una pausa tattica: Bibi è tornato alla carica con quello che gli israeliani chiamano shitat hasalami, il metodo spezzatino (letteralmente: “metodo del salame”), cioè quello di far passare un pezzettino di riforma alla volta. La clausola di ragionevolezza è il primo di questi pezzettini. Il voto di 64 deputati a favore e nessuno contro alla Knesset, il parlamento israeliano, non deve insomma trarre in inganno: il divario è dovuto alla scelta delle opposizioni di boicottare il voto in segno di sdegno, dal momento che la maggioranza di governo avrebbe avuto comunque i numeri per passare la misura in plenaria. Non è stato uno schiacciante sostegno per la misura. Le giornate politiche ad alta tensione di Israele sono state anche segnate dal caso della salute di Netanyahu. Poco più di una settimana fa il premier era stato ricoverato per quello che aveva liquidato come “un colpo di sole”, rimediato durante una gita al lago di Tiberiade: “Ho bevuto poca acqua e non ho messo il cappello”, aveva spiegato Bibi. Ben presto, però, è emerso che non si trattava di una semplice insolazione. Domenica, all’ospedale Sheba di Tel Hashomer, Netanyahu è stato sottoposto a un’operazione per l’inserimento di un pacemaker. La stampa di opposizione ha criticato i medici per aver inizialmente assecondato le richieste Bibi - sempre interessato a proiettare di sé un’immagine di forza e solidità - di sminuire il suo primo ricovero derubricandolo a un malessere dovuto al caldo. Invece fin da subito erano state rilevate le aritmie cardiache.