Nordio vuole un civilista meloniano come Garante dei detenuti di Liana Milella La Repubblica, 24 luglio 2023 D’Ettore è ordinario di diritto privato a Firenze: non si è mai occupato di carcerati. Tutti uomini, innanzitutto. Per Nordio le donne non esistono. E non le prevede neppure nel futuro vertice dell’ufficio del Garante delle persone private della libertà. Dove sono tuttora, nella misura di due su tre posti, Emilia Rossi e Daniela De Robert. Ma dove scompariranno, nonostante le precise indicazioni dell’Onu che considera tassativa la parità di genere. Ignorando anche la candidatura di Rita Bernardini, che certo di carceri ha ampia esperienza, ma in via Arenula le contestano delle vecchie condanne penali. Nelle mani del capo dello Stato - che ha visto a metà settimana - il Guardasigilli ha messo tre nomi al maschile che porterà al Consiglio dei ministri. Mentre all’attuale Garante Mauro Palma, che per sette anni è sempre stato là dove l’emergenza ne richiedeva la presenza, ha inviato lo “sfratto” attraverso il suo capo di gabinetto Alberto Rizzo, e non di persona. Troppa l’indipendenza e la visibilità che si è conquistato Palma. Ma non è certo questione di forma la scelta del nuovo Garante. Bensì questione tutta politica. Visto che ancora una volta Fratelli d’Italia gioca la carta dell’appartenenza. Perché a conquistare il posto di Garante sarebbe Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato forzista passato per Coraggio Italia e approdato in corner a FdI giusto prima delle politiche. Ordinario di diritto privato a Firenze, a compulsare gli archivi non pare sia un appassionato del dibattito sulle patrie galere. Al suo fianco Nordio vedrebbe il civilista palermitano Mario Serio, professore di diritto privato comparato, ex laico del Csm per Forza Italia nel quadriennio 1998-2002, protagonista di una recente e durissima battaglia per la pm palermitana Alessia Sinatra molestata sessualmente dall’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo (e condannata alla censura nonostante l’appassionata difesa di Serio). Ma eccoci al terzo nome, Carmine Antonio Esposito, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia e poi di Napoli, dove lo troviamo come consigliere comunale a Brusciano nelle file dei meloniani. Età avanzata la sua, siamo sugli ottant’anni, che potrebbe essere un problema visto il lavoro “sul campo” del Garante. Un ufficio che non si occupa solo delle carceri, ma anche dei migranti, con verifiche sui Cpr, sugli hotspot, sui rimpatri forzati, nonché dei servizi psichiatrici. Chi ha seguita l’attività di Mauro Palma negli ultimi anni ne ha potuto vedere gli spostamenti continui, le visite programmate, ma anche quelle a sorpresa. Tra queste ben quattro ad Alfredo Cospito, sia a Bancali che ad Opera a Milano. Un attivismo che deve aver disturbato il Guardasigilli Nordio nonché il sottosegretario alle carceri Andrea Delmastro Delle Vedove. Decisi entrambi a cambiare musica in un ufficio che conta un organico di 40 persone e detta la linea sul carcere. Adesso è ora di dire basta al troppo protagonismo garantista. “In carcere non si migliora. Le misure alternative sono l’unica soluzione” di Gaia Tortora Il Giorno, 24 luglio 2023 Rita Bernardini: “Da tempo proponiamo la liberazione anticipata di 60 giorni al semestre. E servono più investimenti”. “Non solo alternative alla detenzione, ma un investimento sul reinserimento sociale” in modo che le persone non tornino a delinquere. Per la presidente di Nessuno Tocchi Caino sono queste le due linee di intervento per affrontare il tema carceri. Perennemente in orbita da un istituto all’altro (al momento sta visitando tutti le carceri venete), l’ex segretaria radicale è una delle candidate al rinnovo del Garante nazionale di detenuti. Bernardini, lei ha letto il reportage del QN su Sollicciano. Se è vero, come diceva Voltaire, che la civiltà di un paese di misura dalle sue carceri, di dove bisogna cominciare in Italia? “Se non ripartiamo dal presupposto che il carcere dev’essere l’estrema ratio e non il luogo dove riversiamo i problemi che ci sono fuori, non andiamo da nessuna parte. L’ha detto proprio a Firenze Margherita Cassano, prima presidente di Cassazione: il carcere deve essere l’estrema razione e dare diritto alla speranza. Quindi, in primo luogo, bisogna praticare le misure alternative. Non è possibile che si siano persone malate tenute nel degrado o messe in isolamento. C’è il problema del disagio psichiatrico, che spesso coincide anche con la tossicodipendenza, ma spesso parlare con uno psicologo è un terno al lotto. E in più c’è il tema del sovraffollamento”. Che dimensioni ha? “Al 30 giugno in Italia c’erano 57.530 detenuti per 47 mila posti. A parte il dato dei suicidi, che è sconvolgente, da giugno 2022 la popolazione aumentata di 2.800 unità. L’emergenza è uguale su tutto il territorio. Quel che dovrebbe meravigliare è che si spenda solo lo 0,6% del bilancio dello stato per amministrare tutta la giustizia. Sono quasi una decina di miliardi l’anno. Di questi, neanche 6 sono per tutta l’amministrazione della giustizia penale e civile, mentre 3,2 servono per i 189 istituti penitenziari. Per le pene e misure alternative, che richiedono molto cura e evitano il carcere, spendiamo appena 280 milioni. Questo per tenere le poi le carceri e le persone nelle condizioni che avete raccontato. Quando poi escono, siccome in carcere i problemi sociali, personali, psicologici si acuiscono, senza aiuto al reinserimento spesso tornano a delinquere. Tutti i dati dicono che il carcere produce tra il 70 e l’80% di recidive. È proprio una politica sbagliata”. Il motivo qual è? La propaganda securitaria? “Sì. Perché dicendo che si butta via la chiave i cittadini si sentono più sicuri. Ma in realtà non è una sicurezza, come dimostrano le recidive, a meno di non condannare tutti all’ergastolo ostativo. Questo al netto del fatto che stiamo parlando di cittadini. Per come viene applicato in Italia il carcere è contrario al senso di umanità. A parte casi sporadici, dal 1975 a oggi non abbiamo mai attuato la parte di ordinamento penitenziario che prevede i Consigli di aiuto sociale, preposti al reinserimento”. Diverse misure alternative ci sono già. Applicarle di più e meglio quanto aiuterebbe? “Moltissimo. Il problema è che i magistrati di sorveglianza sono anche molto restii. Ci sono aree dove danno spesso i permessi premio e altre dove sconti fino all’ultimo giorno. Se fossero rafforzati gli Uffici per l’esecuzione penale esterna, anche i magistrati si sentirebbero più tranquilli nel disporre misure alternative”. Indulti e amnistia a parte, il parlamento cosa dovrebbe fare? “Come Nessuno tocchi Caino abbiamo due proposte di legge che riguardano la liberazione anticipata. Oggi si anticipano 45 giorni ogni semestre. La nostra proposta prevede di elevare da 45 a 60 giorni ogni semestre. E in più stabilisce che - a meno di problemi specifici - sia direttamente il carcere e non il magistrato di sorveglianza a stabilire lo sconto; visto che i giudici rispondono sempre con molto ritardo alle istanze, per cui a volte liberano chi è giù uscito. Poi ci vogliono investimenti: per le misure alternative, per gli educatori, per gli psicologi”. Dalla sfiducia a Santanchè alla riforma della giustizia: in Parlamento settimana ad alta intensità di Diego Pretini Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2023 Il ddl Nordio con l’abolizione dell’abuso d’ufficio, la mozione di sfiducia alla ministra del Turismo Daniela Santanchè, la proposta delle opposizioni sul salario minimo, l’autonomia differenziata che fa storcere la bocca anche a pezzi di maggioranza, la gestazione per altri. È una sintesi dell’agenda della settimana che porterà il Parlamento alla pausa estiva. Senza contare che in commissione entrerà nel vivo l’esame degli emendamenti sul decreto Fisco. Con una metafora non proprio originale si può dire che potrebbe trasformarsi in un ordine dei lavori con temperature simili a quelle fuori dalle Aule. Anche perché - a fronte di una apparente solidità - su alcuni temi è la maggioranza a ritrovarsi un po’ incerta. Il disegno di legge sulla riforma della giustizia, per esempio, vede una maggioranza non del tutto unita, in particolare proprio per l’abuso d’ufficio. Anche per questo si parla di diverse modifiche al testo nel corso dell’iter parlamentare. Per questa settimana si attende l’incardinamento del disegno di legge in commissione Giustizia del Senato. In queste ore, dalle parti dell’opposizione, si è registrato da una parte un avvertimento dei sindaci del Pd che chiedono in sostanza che - se si dovesse tornare indietro sull’abolizione - l’abuso d’ufficio non torni a essere quello vigente ora, quindi per meglio dire sostengono che una riforma comunque sempre. “Se la maggioranza decide di riaprire il dibattito sull’abuso d’ufficio e considera la possibilità di reintrodurre il reato, lo faccia in scienza e coscienza, evitando storture” ha detto ieri al Fatto Quotidiano il sindaco di Mantova Mattia Palazzi. Nel pomeriggio di martedì peraltro un secondo round sulla giustizia sarà dovuto alla discussione sulla direttiva Ue anticorruzione, riguardante proprio l’abuso d’ufficio, bocciata dal centrodestra la scorsa settimana. Ancora martedì appuntamento in commissione Lavoro alla Camera per il voto alla proposta di legge sul salario minimo presentata dalle opposizioni unite (con l’eccezione di Italia Viva). Sempre che non vi siano sorprese, considerando la recente apertura della presidente del Consiglio Giorgia Meloni al confronto. Al quale però al momento non c’è ancora stato un seguito, anche perché Fratelli d’Italia - per voce di Walter Rizzetto - ha chiarito che l’emendamento soppressivo della proposta che il centrodestra ha pronto sarà ritirato solo se le minoranze accetteranno di rinviare il dibattito a settembre. Le opposizioni da parte loro vedono il rischio di un bluff, anche perché a settembre di solito siamo già alle battute preliminari sulla legge di Bilancio che verrà: un ottimo motivo per dire che non c’è tempo per parlare di altro. Al Senato, in Aula, mercoledì finirà in discussione una mozione sui “profili critici del processo di attuazione dell’autonomia differenziata” e qui occhi puntati sulla tenuta della maggioranza. Il caso riguardante la ministra del Turismo, Daniela Santanchè - indagata per bancarotta e falso in bilancio della sua società Visibilia - sarà in programma mercoledì, quando è prevista la discussione in Aula al Senato della mozione di sfiducia presentata dal Movimento 5 Stelle. Insieme al M5s voteranno a favore della sfiducia Pd e Avs, mentre Azione, ha dichiarato Carlo Calenda negli scorsi giorni, si asterrà e uscirà dall’Aula pur ritenendo la ministra incompatibile con il ruolo che svolge. Sarà interessante capire come voterà Italia Viva, il cui leader in questi giorni sembra più interessato del solito a farsi vedere accondiscendente con il centrodestra. Sempre mercoledì, in questo caso alla Camera, si voterà la proposta di legge che dichiara reato universale la maternità surrogata: qui le divisioni riguardano semmai le opposizioni e il Pd, in particolare su un emendamento di Riccardo Magi (+Europa) che regolamenta la maternità surrogata solidale. Nel frattempo, già da inizio settimana è prevista la discussione sul cosiddetto decreto Giubileo, negli ultimi giorni oggetto di polemiche a causa della presentazione di un emendamento riguardante il Centro sperimentale cinematografia di Roma. Secondo i deputati del M5s in commissione Cultura, la maggioranza vorrebbe trasformare il centro “in una articolazione del governo sottraendogli autonomia e mettendone la governance alla mercé dei ministri”. Alla protesta degli studenti del centro e alla presa di posizione dei pentastellati si sono uniti Pd e Avs, mentre alcuni artisti del cinema italiano hanno mandato una lettera in supporto degli allievi. “Nordio ora faccia il politico: le riforme siano graduali” di Simona Musco Il Dubbio, 24 luglio 2023 Per l’avvocato Gaetano Pecorella una caratteristica fondamentale di un politico è “non solo la prudenza, ma anche la coerenza. Altrimenti corriamo il rischio che un ministro sia giudicato garantista per le cose che dice, anche se le cose che fa non sono per nulla garantiste”. “Bisogna mettere nella posizione di ministro non solo una persona che conosce il diritto, ma anche una persona che capisca cos’è la politica. E Nordio, che sicuramente conosce bene il diritto, non sta ragionando da politico”. A dirlo, al Dubbio, è Gaetano Pecorella, penalista e già presidente della Commissione Giustizia alla Camera. Nordio è intervenuto sul concorso esterno, scatenando un putiferio e ricevendo un “rimprovero” da parte di Meloni. Che ruolo ha in questo governo? Il Guardasigilli è un’entità autonoma all’interno del governo, infatti è l’unico di cui parla la Costituzione. Credo che qualunque governo, ogni volta che fa una scelta, debba lasciare la mano libera a via Arenula, perché la riforma della Giustizia non deve costituire una scelta di campo, ma una scelta coerente con la Costituzione e necessaria per far funzionare la giustizia. Capisco il senso politico di queste polemiche, ma dovrebbero restare interne al governo e non investire il Paese. Il fatto che Nordio abbia autonomamente rappresentato la necessità di una norma sul concorso esterno è legittimo, perché si tratta di una costruzione dottrinale della Cassazione che è cambiata molte volte, il che incide sulla certezza del diritto e anche sulla legalità. Ma essendo un settore particolarmente sensibile, può costituire un problema di immagine per un governo, per cui capisco anche la risposta di Meloni. Ma su questi argomenti si può ragionare o legiferare sulla base dell’emotività o da tifosi, anziché in termini giuridici? La politica ha necessità del consenso popolare e bisogna essere estremamente prudenti. Se, ad esempio, su un argomento come la separazione delle carriere non c’è più niente da giustificare, altre situazioni, come quelle che riguardano la mafia, incidono sul consenso. E in questi casi il modo di muoversi senza rischio è pensare prima che tipo di norma si vuole introdurre, concordandola col governo e possibilmente con l’opposizione, e poi esporla al pubblico. Altrimenti, con un’espressione generica, si rischia di far pensare a chi non è addetto ai lavori di voler eliminare, per esempio, la responsabilità di quei politici scesi a patti con la mafia, con una norma che restringe il campo di azione. Da qui nascono i problemi di Nordio. Aveva ragione Meloni, dunque, a dire che dovrebbe parlare di meno e farlo da politico e non da magistrato? Direi che bisognerebbe parlare come un soggetto che ha una responsabilità di fronte a milioni di persone. Questo vuol dire fare politica. Bisogna mettere nella posizione di ministro non solo una persona che conosce il diritto, ma anche una persona che capisca cos’è la politica. E Nordio, che sicuramente conosce bene il diritto e ha toccato dei temi che da anni richiedono un intervento, non sta ragionando da politico. Altra polemica: la separazione delle carriere. C’è chi dice che così si darà troppo potere al pm e chi dice che, invece, lo stesso finirebbe sotto il controllo del potere politico. Dove sta la verità? Il pm diventerebbe una parte e questo coinvolge l’obbligatorietà dell’azione penale, che andrebbe rivista. Come avviene in tutti i Paesi in cui questo è già realtà, come negli Usa, deve fare riferimento a qualcuno che fa scelte politiche. E costui può essere un soggetto eletto dal popolo oppure il ministro della Giustizia, il procuratore capo, il procuratore generale o un soggetto eletto dal Parlamento. Ma anche con questa riforma temo si parta al buio, senza sapere dove si vuole andare. Bisogna prima discuterne politicamente, anche con le opposizioni, altrimenti non ci sono i numeri per fare due Csm. Il presidente dell’Anm ha sottolineato che la politica tende a correre in soccorso ai magistrati quando questi lamentano un’interpretazione non gradita delle norme da parte della Cassazione. Sta accadendo anche adesso, con Meloni pronta ad intervenire in materia di criminalità organizzata. Cosa ne pensa? Non è di certo la scelta giusta farsi dire dalla Cassazione che leggi fare, come accade sempre più spesso. Ma non è nemmeno giusto non riflettere su quello che dicono i giudici della Suprema Corte, altrimenti avremmo una legge che non si applica quella scritta dal Parlamento - e una che si applica - quella scritta dalla Cassazione. Perché la politica può dire quello che vuole, ma poi è la Cassazione che decide, com’è successo con il concorso esterno. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio è al centro delle discussioni: anche l’Europa non ha gradito il ddl Nordio. È la scelta giusta? È una norma teoricamente a tutela dei cittadini, per evitare che il funzionario pubblico possa approfittare della propria situazione di potere danneggiando il privato. Ma la norma è scritta oggi in modo molto generico e può essere utilizzata per atti persecutori. Forse la cancellazione non è la strada migliore. La mia impressione è che per apparire come colui che ha cambiato la giustizia radicalmente, questo ministro si muova per grandi passi, mentre il cambiamento deve avvenire per piccoli passi. Ritiene che sia più vicino al modello di giustizia di Forza Italia o che sia a casa sua in FdI, sicuramente più giustizialista rispetto alle idee di Nordio? Quello che oggi il ministro sostiene e vorrebbe fare è quello che ha sempre sostenuto fosse necessario per cambiare la giustizia. Non sta seguendo, secondo me, una linea anziché un’altra, ma le sue convinzioni. C’è una coincidenza con quello che ha sempre sostenuto Forza Italia, ma Nordio ha una sua idea della giustizia. Da un punto di vista tecnico non fa una piega, perché non è pensabile un processo accusatorio se il giudice non è terzo ed equidistante. Segue uno schema, il modello ideale del processo accusatorio che è in Costituzione. Qui si ha un po’ l’impressione che siano norme manifesto. Ma se vai avanti per la tua strada senza avere dietro il Paese hai già perso. Nordio ha sempre detto che introdurre nuovi reati non è la scelta giusta. Ma il suo primo provvedimento è stato esattamente questo: punire i rave, spiegando che a volte serve mandare un messaggio politico. Non è una contraddizione? Credo che una caratteristica fondamentale di un politico sia non solo la prudenza, ma anche la coerenza. Altrimenti corriamo il rischio che un ministro sia giudicato garantista per le cose che dice, anche se le cose che fa non sono per nulla garantiste. Questo va assolutamente evitato. Non si può essere garantisti a parole e poi punire i ragazzini che bevono la birra in compagnia di altri 50 coetanei. Ma il partito di cui fa parte è di estrema destra, non garantista. Sarebbe davvero il colmo considerarlo tale. Milano. A San Vittore celle sovraffollate, caldo e quattro telefonate al mese di Gaia Tortora Il Giorno, 24 luglio 2023 Il 70-80% dei detenuti nel penitenziario milanese sono stranieri spesso irregolari. Quasi la metà degli ospiti ha problemi di droga o dipendenza da alcol. D’estate diventa un inferno. Il vecchio carcere di San Vittore, aperto nella seconda metà dell’800 nel cuore della città, ospita in media 900 persone nei 700 posti effettivi di cui dispone. Due reparti chiusi da più di vent’anni per motivi strutturali, il sovraffollamento che con il caldo rende l’atmosfera irrespirabile. Si può comprare Il ventilatore da tenere in cella, non fosse che costa. E a San Vittore, che è una casa circondariale dove ogni giorno entrano 10-15 persone appena arrestate, arriva soprattutto chi non ha un euro da spendere. La maggior parte dei detenuti, il 70-80%, è fatta di stranieri spesso irregolari. Sempre di più finiscono dietro le sbarre giovani tra i 18 e i 25 anni, 250 in media. E quasi la metà dell’intera popolazione del carcere ha problemi di droga o dipendenza da alcol, molti hanno crisi legate all’abuso di farmaci, troppi sono quelli con disturbi di tipo psichiatrico. “Oltre agli ospiti con problemi diagnosticati - spiega Francesco Maisto, Garante per le persone private della libertà del comune di Milano - ci sono quelli con disturbi della personalità e addirittura quelli che il giudice ha valutato incapaci di intendere e volere ma attendono in carcere, dove non dovrebbero stare, che si liberi un posto in una Rems, le residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari”. “A peggiorare le cose - spiega l’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano - c’è stata anche l’indicazione dei vertici del Dap (il dipartimento carcerario) a rientrare nella norma regolamentare che ammette un massimo di 4 telefonate al mese da 10 minuti per ogni detenuto. Durante la pandemia questa possibilità era stata molto ampliata senza creare alcun problema e ora il passo indietro contribuisce ad aggravare le tensioni”. Intervenendo al programma Radio carcere su Radio radicale, il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano ha spiegato che, nonostante il sovraffollamento cronico, lo spazio dei tre metri quadri a testa in ogni cella viene rispettato. Grazie anche agli ‘sfollamenti’ periodici di detenuti (destinati ad altri penitenziari) dato che in una casa circondariale ci deve sempre essere posto per i nuovi arrivi giornalieri. “Ma il vero problema non è tanto il rispetto formale degli spazi - ha ammesso Siciliano - quanto la difficoltà di garantire a chi è dentro una certa qualità della detenzione. A San Vittore cerchiamo di avere attenzione per le persone, ma c’è anche un problema di spazi per le attività, che spesso non si riesce a risolvere”. Però in carcere esiste anche un reparto come ‘La nave’, che da vent’anni ottiene buoni risultati con un gruppo, sia pur ristretto, di detenuti con problemi di tossicodipendenza. “Il carcere è il servizio pubblico che si ritrova a dover gestire tutto quello che negli altri non ha funzionato - ripete Siciliano - e andrebbe finanziato adeguatamente”. “Il fatto che San Vittore si trovi in centro città ha senza dubbio degli aspetti positivi - osserva don Marco Recalcati, da dieci anni cappellano -. Permette la partecipazione del territorio, quella rete di operatori e di volontari che altrove non esiste”. E di loro c’è un gran bisogno anche in relazione all’utenza, per dir così. “Per quelli che entrano, spesso è la prima volta: c’è una sofferenza particolare legata all’inizio di un percorso carcerario, c’è il senso di colpa verso se stessi e i familiari. Molti hanno problemi di dipendenza, altri sono senza fissa dimora, ci sono stranieri soli che non hanno colloqui o telefonate da fare”. Firenze. Suicidi dietro le sbarre, un dramma. Bagni e celle fatiscenti, il carcere cade a pezzi di Barbara Berti La Nazione, 24 luglio 2023 Antigone denuncia la struttura fatiscente: “Inaccettabile”. Cruccolini: “Lavori per sette milioni di euro”. L’ultimo suicidio è di appena dieci giorni fa. Un detenuto tunisino di 47 anni che si impicca nella sua cella, e già prima aveva provato a ingerire delle pile per colmare quell’insofferenza di vivere. È il sesto caso in appena 19 mesi. E Firenze, nell’impietosa classifica del Garante nazionale dei detenuti (relazione depositata in Parlamento il 15 giugno), è il quinto carcere italiano per uomini e donne che decidono di farla finita, appena dopo l’Ucciardone di Palermo. Perché lì dentro ci si ferisce per spaccare il silenzio e far sentire la propria voce, come ha rivelato un detenuto a Gaia Tortora durante la sua visita a Sollicciano: andata e ritorno all’inferno. Un girone dantesco con circa 550 reclusi stretti in una struttura che cade a pezzi: il 66% stranieri, la metà tossicodipendenti, tanti, troppi, malati psichici. Antigone, da sempre attenta alla vita dietro le sbarre, calcola in 375 i casi di autolesionismo, 28 i tentati suicidi, 100 le aggressioni di cui la metà nei confronti di agenti, l’altra contro altri detenuti. E solo per il 2022. E parla di “situazione inaccettabile”. “In molte celle piove, fa freddo, mancano le luci e anche i sanitari hanno spesso problemi di funzionamento”. Senza parlare di spazi comuni. “Non ci sono”. Si sta fuori solo al cosiddetto passeggio. “Oltre alle inaccettabili carenze dal punto di vista infrastrutturale, l’offerta è inadeguata anche dal punto di vista di lavoro e formazione”. L’associazione ha visitato il penitenziario a febbraio: “C’era un solo corso di formazione e un solo detenuto che lavora per datori esterni e 80, a turnazione mensile per l’amministrazione penitenziaria”. Di solito in cucina, come accade in tutte le carceri d’Italia per mettergli qualche soldo in tasca e strapparli a un niente che, nella peggiore delle ipotesi, uccide. Nelle settimane scorse quando il problema era la pioggia, mentre adesso il caldo che soffoca, una ventina di detenuti aveva preso carta e penna e scritto direttamente al magistrato di sorveglianza. Perché la pena è già la privazione della libertà. Non ci sarebbe bisogno di altro. “Ciascuno da fine agosto è costretto a convivere con periodiche infiltrazioni d’acqua piovana dalle mura e con la presenza correlata di pozze, allagamenti e muffe”. E la mattina la sveglia è con “le ciabatte che galleggiano”. Era stato anche il presidente della Corte d’appello, Riccardo Nencini, nella relazione sul sistema giustizia in Toscana a puntare il dito contro Sollicciano e i detenuti presi a morsi dalle cimici. “La detenzione nel carcere cittadino” è “particolarmente gravosa se non, in casi sempre più frequenti, contraria ai principi di umanità della pena per i condannati”. Servivano - aveva scritto - interventi drastici. Da qualche settimana i lavori sono iniziati. Sette milioni di euro di investimento per rifare il cappotto della struttura, le celle e, finalmente, nuovi bagni (attualmente non sono nelle celle ma obsoleti e comuni). Eros Cruccolini, il garante dei detenuti di Firenze cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. “Sono in corso lavori per migliorare le condizioni nelle celle e negli spazi e si concluderanno a dicembre. Miglioreranno le condizioni strutturali. Sa, era venuto anche il ministro e si era detto ‘buttiamolo giù’, poi si è pensato di ristrutturarlo anche con fondi europei. Non è una struttura modello, ci mancherebbe ma stiamo facendo di tutto per migliorarla e migliorare anche le attività educative e formative con l’aiuto delle istituzioni, dalla Regione ai comuni di Firenze e Scandicci”. Napoli. Carcere minorile di Nisida, clima di tensione: “Troppi detenuti maggiorenni” di Viviana Lanza Il Mattino, 24 luglio 2023 La protesta degli agenti penitenziari dopo l’incendio di una cella. Si indaga sulle ragioni e sulla dinamica del gesto del detenuto che sabato pomeriggio ha dato fuoco alla sua cella nell’istituto minorile di Nisida. Ha appiccato il rogo utilizzando un materasso, dei vestiti e uno stendibiancheria in plastica. In pochi minuti l’incendio è divampato, l’intero reparto detentivo si è riempito di fiamme e fumo nero ed è stato dichiarato inagibile, tutti i detenuti sono stati allontanati dalle celle avvolte da un’aria irrespirabile e tre agenti della polizia penitenziaria sono rimasti intossicati (per loro sette giorni di prognosi). Accanto alla solidarietà per gli agenti feriti sta montando la polemica sulla presenza, nelle carceri minorili, di molti detenuti cosiddetti “giovani adulti”, giovani cioè che, come nel caso dell’autore dell’incendio nella cella di Nisida, pur avendo superato i diciotto anni di età, hanno la possibilità di scontare la pena in strutture per minori. È Giuseppe Di Carlo, segretario generale della Federazione Sindacati Autonomi Cnpp, a chiedere “all’amministrazione centrale di attivare immediati interventi in considerazione di una buona parte di utenza detentiva con serie problematiche, alla luce delle diverse vicissitudini che si stanno registrando, da tempo, nell’istituto partenopeo”. “È stato grazie al pronto intervento del personale di polizia penitenziaria in servizio si è riusciti ad evitare il peggio”, sottolinea, a proposito dell’incendio a Nisida, Federico Costigliola, coordinatore regionale per la Campania del Sappe. “La promiscuità tra i detenuti stranieri, quelli provenienti dal Nord Italia e quelli napoletani diventa un mix esplosivo che inficia, tra l’altro, la progettualità trattamentale propria della giustizia minorile”, affermano, in una nota congiunta, i sindacati Uspp e Uil della polizia penitenziaria. “Chiediamo che i detenuti stranieri non vengano dislocati nelle carceri campane - aggiungono i due sindacati - e, inoltre, che i detenuti maggiorenni protagonisti di eventi critici gravi vengano trasferiti in strutture detentive per adulti, secondo quanto previsto dal nuovo ordinamento penitenziario minorile”. Aurelio Grimaldi gira “La rieducazione” nel carcere mai utilizzato di Gangi di Ivan Mocciaro La Repubblica, 24 luglio 2023 Il regista si rifà alla propria esperienza di insegnante nell’istituto penale minorile Malaspina di Palermo. In cantiere una serie tv basata su “Mery per sempre”. Vulcanico, eccentrico, unico, mai sopra le righe, ma anche travolgente sul set. È il regista e scrittore Aurelio Grimaldi, divenuto popolare con il suo romanzo d’esordio “Meri per sempre” e autore di numerose pellicole come “Il macellaio” e “Il delitto Mattarella”, in queste settimane impegnato nel post produzione del film “La rieducazione”. Film girato interamente nel carcere di massima sicurezza (mai utilizzato) di Gangi. “Questo ultimo mio lavoro nasce da un’esperienza autobiografica - dice Grimaldi - nella vita “precedente” ho lavorato come insegnante nell’istituto penale minorile Malaspina di Palermo, a compimento di una formazione psicopedagogica fortemente centrata sulla devianza criminale, soprattutto di base sociale, e finalizzata alla cosiddetta rieducazione, al reinserimento del reo”. “Con questo mio film realizzo un mio sogno di gioventù - dice il regista - che risale a quando misi piede in un carcere, fresco vincitore di concorso”. Un docufilm impegnativo che ripropone un tema impegnativo come l’emergenza carceraria e l’urgenza della riforma del sistema. Protagonista è il “signor Salvatore” (alias Totò Riina), un violento ergastolano al 41 bis, autore dei peggiori omicidi di mafia, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. A interpretarlo è Tony Sperandeo, l’attore palermitano, faccia cattiva del cinema italiano, con più di sessanta film all’attivo, che ha vinto anche il David di Donatello nel 2001 come migliore attore non protagonista nel film “I cento passi”. “Il cinema è sogno ma anche realtà - continua Grimaldi - ed eccomi alle prese, anni e anni dopo, come psicopedagogista, in un carcere di massima sicurezza, con il boss dei boss di Cosa nostra per una necessaria, mai attuata, rieducazione”. Una storia che racconta il primo anno del progetto rieducativo messo in atto dal professore Dario Di Vita (interpretato da Aurelio Grimaldi) dopo la formale approvazione ministeriale e con l’adesione del “signor Salvatore”. Il professore crede rigorosamente, scientificamente, umanamente, che anche il “capo dei capi”, pluriassassino e stragista, possa tornare a essere interiormente e civilmente un essere umano, un cittadino, persino un fratello. “Quando lo accuso della morte di Placido Rizzotto - racconta Grimaldi - il signor Salvatore mi prende per la gola durante uno dei colloqui, poi però se ne pente: i risultati, appunto, della rieducazione. Io, da professore, gli ricordo sempre che è uno stragista, lo accuso duramente, e qui sta la differenza tra la scienza e la fede. La scienza interviene scientificamente, anche con atteggiamenti provocatori, la fede invece con una semplice pacca sulla spalla”. Il regista originario di Modica ha in cantiere anche una serie televisiva su “Mery per sempre”: “Già ci sto lavorando. Il giovane Natale (nome che non cambia mai) si scaglierà violentemente contro il suo professore rieducatore colorandogli braccia e volto. Il professore accetta passivamente le provocazioni fino a quando questo porterà Natale a pentirsi di quello che ha fatto”. “La rieducazione”, prodotto da Arancia Cinema, aiuto regista Emma Cecala, ha un cast di ottimo livello: assieme a Sperandeo, l’attrice siciliana Elena Pistillo, Gino Bonanno (il cappellano del carcere) e due poliziotti penitenziari, “guardie” vere e proprie in servizio nel carcere di Termini Imerese, l’ex Cavallacci oggi ribattezzato “Burrafato”: sono Emilio Cilfone, ispettore superiore, e Paolo Imburgia, assistente capo. La fotografia è stata curata dallo studio Greco di Palermo, direttore della fotografia è Marco Greco. L’allestimento delle scene è di Roberto Tedesco. “Gangi si conferma location per la produzione di film d’autore - dice il sindaco, Giuseppe Ferrarello - Il maestro Aurelio Grimaldi ha scelto il nostro comune per girare un film che affronta un tema attuale come quello della rieducazione nelle carceri. E la nostra struttura, mai utilizzata, è stato il luogo ideale dove girare senza bisogno di richiedere autorizzazioni all’amministrazione penitenziaria”. La storia dell’Italia attraverso i documenti dei più importanti processi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 luglio 2023 Coinvolti i ministeri della Giustizia e della Cultura, il Consiglio superiore della magistratura, la Cassa delle Ammende e l’Archivio Flamigni. E il Consiglio Nazionale Forense ha promosso la digitalizzazione della “Biblioteca del Consiglio”. La conoscenza della storia dell’Italia passa anche attraverso la consultazione degli archivi in cui sono contenuti i documenti dei più importanti procedimenti giudiziari. Anche per questo motivo mercoledì scorso, presso il ministero della Giustizia, si è tenuta la prima riunione del tavolo istituito nell’ambito del protocollo d’intesa, rinnovato di recente, per l’individuazione di progetti di digitalizzazione dei processi di valore storico. L’obiettivo, condiviso dalle istituzioni coinvolte (i ministeri della Giustizia e della Cultura, il Consiglio superiore della magistratura, la Cassa delle Ammende e l’Archivio Flamigni), è molto chiaro: consentire la fruibilità massima per l’utenza, con gradi di accesso qualificato, alle carte giudiziarie che costituiscono la fonte prioritaria per lo studio della storia dell’Italia repubblicana. Le tematiche di riferimento sono il terrorismo, la violenza politica e la criminalità organizzata. Fondamentale il gioco di squadra. Al progetto infatti possono aderire gli uffici giudiziari, gli istituti penitenziari e gli archivi di Stato competenti per territorio. Un altro ambizioso traguardo si intende raggiungere. Riguarda il coinvolgimento dei detenuti, che, attraverso l’avvio di percorsi professionalizzanti, avranno modo di realizzare il loro reinserimento sociale. Il legame tra l’attività dei detenuti e la trasformazione digitale delle carte giudiziarie assume un valore altamente simbolico per l’attività del ministero della Giustizia. Nelle intenzioni di via Arenula si intende preservare la memoria in chiave moderna con il contributo del lavoro di chi, non senza difficoltà e con impegno, sta ricostruendo il proprio rapporto con la società civile. Il recupero delle carte giudiziarie che permetteranno di ricostruire meglio alcuni periodi della storia del nostro paese è iniziato già da qualche anno. Le attività connesse al protocollo d’intesa, risalente al 2015, tra il ministero della Giustizia e il ministero dei Beni, delle Attività culturali e del turismo, arricchitosi nel tempo con la partecipazione del Csm, della Cassa delle Ammende e dell’Archivio Flamigni, sono state incrementate dopo il primo progetto, dedicato ad Aldo Moro, avviato nel 2017, nel carcere di Rebibbia. La mole di documenti sul rapimento e sull’assassinio del leader della Dc è stata digitalizzata e sta riguardando anche i procedimenti del Moro bis, ter e quater. Inoltre, a Roma, sono attivi sia il progetto sulla strage di Ustica che quello relativo al processo ai Nuclei armati rivoluzionari. Fondamentale sarà la collaborazione degli altri uffici giudiziari. Quelli di Milano e Firenze sono stati già coinvolti. Il ministero della Giustizia auspica che l’opera di digitalizzazione delle carte giudiziarie di interesse storico posso riguardare tutta l’Italia. Il protocollo d’intesa del 2015 prevede, tra le varie cose, la ricognizione dei fascicoli presenti presso gli archivi di deposito dei Tribunali e delle Corti di assise, in materia di terrorismo, criminalità organizzata e violenza politica. È prevista l’adozione di misure che consentano una tenuta della documentazione giudiziaria conforme ai principi archivistici e alla conservazione di lungo periodo, nel caso di documentazione su supporto elettronico. È altresì previsto che per sostenere la riconversione e la valorizzazione di sedi non utilizzate dal ministero della Difesa, con particolare riferimento alle ex caserme dismesse, vengano realizzate nuove sedi degli archivi di Stato. Un ruolo importante per recuperare i documenti dei procedimenti giudiziari che hanno fatto la storia del nostro Paese lo svolge l’Archivio Flamigni con sede a Roma. Fin dalla sua nascita il centro di documentazione ha voluto creare un collegamento diretto tra realtà interessate allo studio e alla documentazione della storia italiana recente, con una attenzione particolare rivolta alla stagione delle stragi e del terrorismo. Questa intensa attività, che verte pure sul coinvolgimento delle scuole e dell’università, ha portato alla creazione della “Rete degli archivi per non dimenticare”. Il portale è stato inaugurato il 9 maggio 2011. In quella occasione l’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sottolineò l’importante mission per “fare chiarezza, perché l’Italia non dimentichi ma tragga insegnamenti e forza dalle tragedie che si sono abbattute sul nostro paese”. Di qui anche la realizzazione del portale all’interno del Sistema archivistico nazionale (San) per valorizzare e rendere disponibili per un ampio pubblico le fonti documentali esistenti sugli eventi che si sono succeduti in Italia soprattutto dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso. La Rete oggi comprende più di sessanta archivi, soprintendenze archivistiche, centri di documentazione e associazioni, che lavorano per conservare e rendere accessibili documenti di varia natura. Le associazioni e i centri di documentazione aderenti alla Rete, evidenziano dall’Archivio Flamigni, “sono in molti casi realtà decentrate, espressione di partecipazione dal basso e di sensibilità storica e politica, che favoriscono l’incontro e il dialogo tra pratiche diverse di salvaguardia e diffusione della memoria”. La storia dell’Italia è, sotto molti versi, anche la storia dell’avvocatura e viceversa. Ecco perché il Consiglio Nazionale Forense ha promosso la digitalizzazione della “Biblioteca del Consiglio” per far conoscere protagonisti e storie di chi, indossando la toga, ha scritto pagine importanti del nostro paese e ogni giorno difende i diritti costituzionalmente garantiti. Sul sito del Consiglio nazionale forense (nella pagina “Collana Storia dell’avvocatura italiana”) è possibile consultare decine di libri in formato digitale. Tutti, non solo avvocati e giuristi, possono entrare in contatto con testi che rischiavano di rimanere dei gioielli nascosti tra gli scaffali delle biblioteche. Il compito della politica non è venderci il futuro ma aiutarci a immaginarlo di Gabriele Segre Il Domani, 24 luglio 2023 Chiederci oggi un sacrificio per qualcosa che ci tornerà utile tra 50 anni sembra una pessima strategia di marketing, ma è una scelta che ci viene presentata spesso. Di fronte all’offerta del futuro ci troviamo inoltre con due opposti modelli di “acquirenti”: da un lato chi considera il progresso come un orizzonte inesorabile, dall’altro chi ne ha paura perché colpito dalle privazioni insopportabili che esso può causare. Dovremmo ricordarci però che il progresso non è “inesorabile”, ma plasmato da noi e allo stesso tempo costruirlo prestando ascolto ai timori di coloro che si sentono minacciati. Sareste disposti a fare un sacrificio oggi per qualcosa che vi tornerà utile tra 30-50 anni? La risposta dipende probabilmente da molte variabili: la vostra età, il prezzo richiesto e, non ultimo, se avete a chi lasciare gli eventuali profitti di un investimento così a lungo termine. In ogni caso una simile proposta non si presenta come una strategia di marketing particolarmente indovinata, specie se chi la avanza non è in grado di offrire garanzie puntuali sul risultato, ma in compenso vi assicura che i sacrifici saranno immediati. È comprensibile come a molte persone possano sorgere dubbi analoghi quando si delinea la necessità di porre un freno al nostro modello di sviluppo per fermare la catastrofe ambientale verso cui corriamo. Allo stesso modo non stupisce che la nuova legge europea sul Ripristino della natura abbia spaccato in due l’emiciclo del parlamento europeo nei giorni passati. Il progetto di ripristinare tutti gli ecosistemi terrestri e marini dell’Unione europea entro il 2050 è un proposito tanto ambizioso quanto condivisibile, ma è accompagnato da inevitabili dissensi di parte dei cittadini che rivendicano l’utilizzo di quelle aree per la loro sussistenza. Solidarietà vs sostenibilità - In realtà, alla base delle perplessità, c’è una contesa molto più antica dell’emergenza climatica, un bivio che la politica deve affrontare ogni qual volta esamina questioni di lungo termine: scegliere se privilegiare la solidarietà nel presente oppure la sostenibilità nel futuro. Di fronte ad una crisi economica, è meglio applicare rigidi protocolli tecnici che permetteranno di rimettere in sesto la nazione anche se a scapito di gravosi oneri sociali, oppure considerare che anche il benessere immediato delle persone contribuisce al suo sviluppo? In medicina, applicare rigidamente una “cura” senza valutare ogni altra condizione del paziente rischia di guarirlo dalla malattia solo per ucciderlo per le conseguenze del trattamento. Elemento determinante per convincerci ad accettare una “ricetta per il futuro” diventa dunque la fiducia in chi ce la propone. Esercizio ancora più complesso se si ha a che fare con due opposti modelli di “acquirenti”: da un lato chi considera il progresso come un orizzonte inesorabile che è nel destino dell’umanità, dall’altro coloro che quello stesso progresso lo guardano con disagio e diffidenza, così intimoriti o colpiti dalle privazioni insopportabili da esso causate, da non riuscire a immaginarsi in alcun modo ricompensati in un domani incerto. Immaginare il futuro - È difficile persuadere due prospettive così differenti ad optare per la medesima scelta. Chiunque intenda presentarci un sacrificio come inevitabile per il futuro dovrà prima di tutto riuscire a conciliare le opinioni di chi, nel bene o nel male, è destinato a viverlo. In primo luogo, ricordandoci che il progresso non è mai “inesorabile”: si tratta piuttosto di un’aspirazione che ci appartiene collettivamente e che modelliamo attraverso le nostre scelte. Allo stesso tempo prestando ascolto ai timori di coloro che da quel processo si sentono minacciati e alle rivendicazioni di chi, a causa di esso, ha già perso tutto. È necessario guardare all’orizzonte con la consapevolezza che stiamo tutti percorrendo il medesimo viaggio e persino chi lo affronta con timore o con dolore può offrire il proprio contributo su come compierlo. Forse comprenderemo come la scelta che ci è stata posta dinanzi non proviene da altri se non da noi stessi. È chiaro allora come la politica non dovrebbe avere il compito di “venderci il futuro”, ma piuttosto di metterci nelle condizioni di immaginarlo insieme, dandoci l’opportunità di confrontare idee e identità, ascoltando le voci sia di chi vede in un avvenire di progresso un favoloso processo inarrestabile, sia di chi sente piuttosto il bisogno di concentrarsi sull’urgenza del presente. Allora quella che consideriamo una richiesta di sacrificio può trasformarsi in una preziosa risorsa, capace, ancora una volta, di tracciare un percorso diverso attraverso cui salvarci. L’educazione al patrimonio culturale di Vincenzo Trione Corriere della Sera, 24 luglio 2023 Sin dalle scuole medie si potrebbero riservare alcune ore di insegnamento a una materia trasversale, capace di disegnare i confini mobili all’interno dei quali ambiti non contigui scoprono finalità e significati comuni. Si fa presto a dire Italia. Ma - occorre chiedersi - in che modo è davvero possibile conoscere il nostro Paese? Vorrei avanzare una proposta. In via sperimentale, sin dalle scuole medie inferiori, si potrebbero riservare alcune ore di insegnamento a una materia trasversale, capace di disegnare i confini mobili all’interno dei quali ambiti non contigui - storia dell’arte, storia, letteratura, filosofia, scienze e religione - pur salvaguardando differenze e tensioni reciproche, si co-appartengono e scoprono finalità e significati comuni: l’educazione al patrimonio culturale. Un campo del sapere inedito, al quale Tomaso Montanari ha recentemente dedicato un appassionato libro, che ha il tono di “un’orazione civile in un piccolo teatro di provincia” e, insieme, di “una preghiera a voce bassa in una chiesa amica” (Se amore guarda, Einaudi). Si tratta di un’alta forma di educazione civica. Che insegna a misurarsi in maniera rispettosa con la potenza di quella che i latini chiamavano civitas: i monumenti, le architetture, i quadri, le sculture, le iconografie, la storia e le storie che ci attraversano. Ma educa anche a entrare in risonanza con la meraviglia diffusa dell’urbs, la città dell’uomo che è esito del talento di un’infinità di uomini senza nome: borghi, vie, selciati, ruderi, pietre. È come una lingua viva, che ogni italiano dovrebbe studiare sin da bambino, per “avere coscienza intera della propria nazione” (per riprendere le parole di Roberto Longhi). Siamo dinanzi a una disciplina umanistica non a circuito chiuso, che ha il valore di un autentico baluardo civile. Invita ad adottare una specifica postura fisica e mentale, per interagire con gli spazi che abitiamo e che ci abitano. Anche grazie all’educazione al patrimonio, i nostri ragazzi potrebbero diventare cittadini responsabili, consapevoli della nostra civiltà millenaria, fino in fondo coscienti dell’identità porosa dell’Italia, che è stata plasmata da figure provenienti da culture, da tradizioni e da geografie lontane. Cogliere l’unicità di quella prodigiosa stratificazione di natura, architettura e arte che è l’Italia. E acquisire i mezzi per difendere (e per curare) il corpo martoriato del nostro Paese, ferito da violenze senza rimorsi e da scempi senza scrupoli, indignandosi per il degrado delle città e dei paesaggi, frutto di un’incultura generalizzata e di un’indifferenza delittuosa. Ma l’educazione al patrimonio ha soprattutto una valenza spiritualistica, metafisica. In una società governata dal culto dell’intrattenimento, dello svago e del disimpegno, suggerisce un dialogo problematico con i fenomeni. Fondamento della coscienza critica, stimola l’intelligenza creativa; aiuta a elaborare il senso della perdita; collega il reale e l’immaginario. Inoltre, fornisce strumenti per stare diversamente nel mondo; per emanciparsi dalla dittatura dell’hic et nunc; per avviare un conflitto fecondo con il presente; per trascendere le nevrosi, le ansie e le fatiche delle nostre giornate. E ancora: indica sentieri possibili per non aderire allo stato delle cose; per riconquistare il potere degli sguardi lunghi e lenti; per attribuire un senso inatteso al visibile; infine, per rimettere in moto frammenti dove la storia sembra essersi arrestata, ponendo in connessione “questo” tempo con “altri” tempi. “Come in certi quadri del Medioevo e del Rinascimento in cui il sepolcro accoglie un Cristo vivo, così appare ai nostri occhi ciò che chiamiamo patrimonio culturale, il luogo-tempo in cui sono vivi coloro che ci hanno preceduto”, scrive Montanari. Ecco: l’educazione al patrimonio apre i nostri occhi e il nostro cuore a una dimensione ulteriore. E fa sfiorare, quasi con amore, la sacralità immanente e concreta nascosta nei dipinti che osserviamo, nei monumenti che ammiriamo, nelle strade che percorriamo, nelle pietre che calpestiamo. In fondo, è un modo per non smettere di interrogare la bellezza intenzionale e inintenzionale che ci circonda. Fino a entrare in contatto con quella che un grande scrittore russo, Vasilij Grossman, ha chiamato la “forza dell’umano nell’umano”. Le pubblicità governative non funzionano. Lo spot contro la droga? Un flop pazzesco di Bruno Ballardini* Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2023 Fa un caldo bestia e bisognerebbe almeno cercare di non incazzarsi. Però, per un pubblicitario, è dura: escono campagne sempre peggiori. Prima fra tutte quella del dipartimento per l’Editoria della presidenza del Consiglio dei ministri, contro la droga. Di norma, le pubblicità governative hanno tutte uno stesso problema, non funzionano. Perché lo Stato ripropone il solito atteggiamento top down, paternalistico, e pretende che la sua parola sia sufficiente a indirizzare i cittadini verso le buone pratiche. Ma c’è dell’altro. Insomma, c’è Roberto Mancini che all’improvviso dice: “Le droghe? Tutte le droghe fanno male”, come se stesse rispondendo a un intervistatore. Stacco su un gruppo di bimbiminkia drogati dai social, di quelli che passano il tempo a guardare il telefonino seduti su una panchina. Appena vedono Mancini si entusiasmano e condividono subito il video pavlovianamente. Mancini lo riceve all’istante (qui ci sono problemi di logica nella sceneggiatura, ma vabbè) ed esclama: “Bravi fatelo girare! Se ne può uscire, vivete le emozioni, quelle vere!”. Purtroppo, da che mondo è mondo, la pubblicità non può educare ma solo informare. Altrimenti si chiama propaganda. E temo che il mondo politico continui a ignorare la differenza che c’è fra le due cose. Ma poi, anche mettendoci sul piano della propaganda, come può uno Stato, che ha già di suo un’immagine corrotta dalla corruzione politica, dare lezioni di etica? È un po’ lo stesso problema della Chiesa. Il problema è lo svuotamento dei valori, che ormai nella società attuale restano “valori” soltanto a parole. E così chi usa la comunicazione a fini educativi finisce per attribuirgli una funzione “magica”. Purtroppo, non “basta la parola”, come recitava tanti anni fa una pubblicità per un lassativo. Anzi non serve nemmeno, visto che la pubblicità prodotta dallo Stato fa cagare regolarmente. E quali sarebbero dunque le “emozioni vere”? Fare sport (idea tipicamente fascista), oppure far girare un video sui social (perché evidentemente i giovani non sanno fare altro). E con un messaggio del genere si pretende di far cambiare idea a una moltitudine di aspiranti cocainomani? Prevedibili le risposte del social, tra cui spicca: “Mancini mi ha fatto venire voglia di drogarmi davvero”. Un flop pazzesco, ma tanto alla presidenza del Consiglio che gliene frega? Possono sempre raccontarsi di “aver fatto qualcosa”. Così però si buttano miliardi per niente, quando invece si potrebbe sostenere chi davvero è in prima linea nella lotta alla droga e nel reinserimento delle persone, come ad esempio la Fondazione Villa Maraini, organismo della Croce Rossa Italiana che, a fronte dell’immenso lavoro portato avanti, da molti mesi non ha abbastanza fondi per pagare lo stipendio ai dipendenti. Loro non hanno soldi e il governo si diverte a fare spot inutili. Già un po’ meglio la campagna di Autostrade per l’Italia, promossa nello stesso periodo dalla Polizia di Stato sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica. Trama: verso l’ora di cena, un giovane annuncia a sua madre che esce e che non tornerà. Lei gli chiede perché, e lui risponde: “Fra mezzora sarò vittima di un incidente stradale”. Lei, senza scomporsi, risponde “Ah”, come se fosse la cosa più normale del mondo. Lo speaker a quel punto interrompe: “3100 incidenti all’anno non è normale, ma è quello che sta succedendo. Non chiudere gli occhi. La sicurezza stradale riguarda anche te”. E chi li chiude gli occhi? Forse li chiude il governo verso la droga, le cui cifre sono ben più rilevanti: oltre duemila incidenti stradali all’anno sono causati dall’uso di sostanze psicotrope, la cocaina ha una diffusione ormai capillare a tutti i livelli, dall’operaio al manager d’azienda, e si sta diffondendo fra i giovani anche l’abitudine di drogare le ragazze per riuscire a fare sesso. Altro che “emozioni vere”. Quindi avrei preferito una campagna con Mancini che invita la presidenza del Consiglio dei ministri a smettere di drogarsi con una comunicazione sbagliata, tagliata con forti dosi di propaganda, spacciandola per pubblicità. Avrebbe accettato? Sentite, fa caldo, lasciatemi sognare. *Esperto di comunicazione strategica, saggista Integrazione, la corsa a ostacoli di quei tre milioni e mezzo di “stranieri-italiani” di Enzo Riboni Corriere della Sera, 24 luglio 2023 Quadro poco confortante dagli ultimi dati: un nato all’estero su 3 si sente discriminato. Lingua, lavoro e pregiudizi tra gli ostacoli. Sacche di povertà, le donne più penalizzate.Occupazioni al di sotto delle competenze. Non è facile, per gli immigrati, l’integrazione in Italia: handicap di varia natura, infatti, rendono arduo il traguardo dell’appartenenza. Dalla lingua all’acquisizione di cittadinanza, dall’ottenimento di un’occupazione alla qualità del lavoro, dalla difficoltà della condizione femminile alla diffusione di pregiudizi e sentimenti di razzismo. Sono questi gli ostacoli che emergono dall’ultimo rapporto Inapp: “Indicatori di integrazione dei cittadini con background migratorio”. In Italia, al primo gennaio 2022, i cittadini di Paesi terzi residenti erano circa 3 milioni e 500mila, in aumento rispetto al 2021 di quasi il 6%. Tra gli immigrati residenti la percezione di essere discriminati risulta più forte tra chi è nato fuori dall’Unione europea: quasi uno su tre, il 30,6% dei casi. Si riduce invece a meno di uno su cinque (19,2%) in chi proviene dalla Ue e solo al 3,5% in chi è nato in Italia. All’interno del gruppo dei nativi extra Ue sono gli uomini a sentirsi più discriminati, con uno scarto rispetto alle donne di quasi 10 punti percentuali. Per quanto riguarda l’ottenimento della cittadinanza, l’ultimo dato (2021) parla di 55.542 acquisizioni per residenza, che corrisponde al 68% del totale, contro il 32% delle acquisizioni per matrimonio. Secondo il Ministero dell’Interno nel 2022 ai primi posti nella concessione della cittadinanza per matrimonio risultano, nell’ordine, le nazionalità marocchina, brasiliana, albanese, argentina e rumena. Il canale matrimoniale nell’acquisizione della cittadinanza risulta molto più diffuso tra la componente femminile. Ma è la condizione socio-economica di chi è nato all’estero che risulta più penalizzante. “È decisamente peggiore - chiarisce il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda - rispetto ai nati in Italia. Tra i primi, infatti, il tasso di povertà relativa è del 30%, contro il 18% dei nativi”. Una condizione dei residenti immigrati che è conseguenza anche della possibilità o meno di trovare lavoro. Nell’anno di rilevazione dell’indagine, il 2021, il tasso di disoccupazione medio dei cittadini stranieri, sia comunitari che extra, si attesta attorno al 15%, a fronte di quello dei cittadini italiani che è di quasi il 9,5%. Questa differenza, più marcata al Nord, va sfumando mano a mano che si scende verso le realtà meridionali e delle Isole. Nei tre gruppi osservati (cittadini italiani, comunitari ed extra Ue), la componente femminile presenta ovunque tassi di disoccupazione sensibilmente maggiori. Ma la più ampia differenza si riscontra tra i cittadini non Ue, dove il tasso di disoccupazione femminile sopravanza di più di quattro punti percentuali quello maschile. Anche per chi riesce a trovare lavoro, però, lo svantaggio degli stranieri non Ue appare evidente se si va a vedere il tipo di contratto lavorativo ottenuto. A livello nazionale, infatti, la quota di contratti a termine tra i lavoratori extraeuropei raggiunge il 27,8%, contro il 22% rilevato tra gli stranieri comunitari e il 16% tra i lavoratori di cittadinanza italiana. A livello geografico, da Nord verso Sud aumenta l’incidenza dei lavoratori a termine, fino a raggiungere, per i non comunitari, una percentuale del 43,5%. I contratti atipici sono però molto più marcati tra gli uomini rispetto alle donne, con picchi in Basilicata e Calabria, dove i contratti a termine riguardano il 61% dei lavoratori extra Ue maschi. Fortemente penalizzante per gli immigrati residenti è poi il fenomeno della cosiddetta sovraqualificazione lavorativa, ossia la condizione di individui altamente istruiti impiegati in occupazioni a medio-bassa qualificazione. C’è da dire che in Italia la sovraqualificazione è un problema strutturale che coinvolge anche molti cittadini nativi italiani, ma raggiunge livelli altissimi tra gli stranieri extra Ue. Basti pensare che nel 2020, sulla base dei dati elaborati nell’ambito del rapporto Inapp, il tasso di sovraqualificazione tra gli stranieri non comunitari ha toccato quota 71,8, con un divario rispetto a quello dei cittadini italiani del 54,1%, differenza che nelle Isole e nel Nord-Est supera addirittura il 60%. “È molto probabile - conclude Fadda - che molti stranieri non comunitari non solo abbiano più difficoltà, culturali e linguistiche, ma, ancorati a necessità impellenti, abbiano anche aspettative inferiori nella ricerca di un lavoro e siano quindi maggiormente disposti a lavorare e a svolgere mansioni che sono al di sotto del livello di competenze e del livello scolastico che hanno in dote. Insomma, il problema dell’integrazione è una sfida da affrontare non solo per ragioni di giustizia e di equità, ma anche per la coesione sociale, il progresso economico e il benessere dell’intera popolazione”. La fobia dello straniero nell’Italia che muore di Lucio Caracciolo La Stampa, 24 luglio 2023 Il governo parla di incubo invasione ma la nostra malattia è lo spopolamento. Basta finanziare i regimi arabi per chiudere i confini: è l’unica cura possibile. Alla grande conferenza di Roma su sviluppo e migrazioni i governanti europei, a cominciare dai nostri, non parlano che di fermare i migranti irregolari. Comprensibile e persino commendevole, magari cominciando a rendere meno impossibile approdare in Italia e in Europa per via regolare, come assicura Meloni. Finora pare non si riesca a inventare nulla di meglio che finanziare regimi arabi mediterranei perché sbarrino la loro frontiera terrestre con l’Africa profonda, facendo leva sul diffuso disprezzo per i neri. Il caso tunisino è modello. Morire pugnalati nel Sahara come alternativa ad affogare nel Mediterraneo? Confidiamo che persuasione morale e incentivi economici del nostro governo nei confronti del presidente Saied - non più né meno dittatore di quasi tutti i suoi colleghi nordafricani - migliorino il clima a Sfax e dintorni. Eppure la grande nuvola mediatica alimentata da esponenti e ministri della destra continua a battere sull’incubo dell’invasione. E anche a sinistra ogni tanto uno squillo rimbomba. Fino a scivolare nel puro complottismo, evocando il mostro della “sostituzione etnica”. Sempreverde teoria per cui misteriose élite cosmopolitiche organizzerebbero la liquidazione della razza bianca per imporre il dominio di neri e alieni vari nel Vecchio Continente. Italia in testa. Come se noi italiani, per fortuna uno dei popoli più “impuri” al mondo, fossimo gli eredi diretti di Giulio Cesare o i greci discendessero da Pericle. Fin qui classico razzismo. Ma colpisce il tentativo di mettere insieme migrazioni e complotto anti-italiano in un Paese che ha nel declino demografico il suo tallone di Achille. La nostra priorità dovrebbe consistere in robuste politiche di sostegno alla famiglia e alla natalità insieme a costanti flussi migratori, regolari e gestiti per quote con Paesi stranieri, per evitare la desertificazione del Belpaese. Altro che sostituzione etnica: qui rischiamo lo spopolamento, con una popolazione anziana di proporzioni insostenibili, sufficienti a sovvertire l’equilibrio sociale. Oggi un italiano su quattro ha almeno 65 anni, fra vent’anni sarà uno su tre. Le classi scolastiche si svuotano - i ragazzi fra i 3 e i 18 anni sono oggi 8 milioni e mezzo, saranno 7 fra vent’anni - e le iscrizioni alle università calano di brutto. Bassa natalità e invecchiamento della popolazione ci spingono verso un drastico declino, non solo economico. E noi ci preoccupiamo del colore della pelle di chi abita lo Stivale? Forse converrebbe spendere almeno parte delle energie con cui alimentiamo la paura dei migranti per studiare e combattere la vera emergenza nazionale. Né possiamo ridurla alla dimensione economica e sociale, che pure pesa. È un’emergenza culturale che riguarda il nostro modo di (non) convivere, la concentrazione autistica su se stessi, quasi fossimo noi lo scopo della nostra vita. La miscela fra emergenza demografica e fobia del migrante - o dell’altro in genere - può innescare circuiti culturali devastanti. I movimenti estremisti violenti e razzisti che hanno insanguinato l’Europa nella prima metà dello scorso secolo sono fioriti sulla narrazione dell’aggressione aliena contro una minoranza minacciata, che intanto dominava il mondo e colonizzava Afriche e Asie. Per tacere del segregazionismo americano, tutt’altro che domato. È difficile affrontare con piglio propositivo questioni esistenziali di tanto calibro, coscienti come siamo di non poterle risolvere nel breve periodo. Ma per poterle gestire e curare non con magie improbabili ma via terapie da affinare è meglio concentrarci sulla realtà. E scacciare i fantasmi. Specie in tempo di guerra. Meloni e il patto sui migranti da Von der Leyen a Saied: “Uniti contro i trafficanti” di Federico Capurso La Stampa, 24 luglio 2023 Giorgia Meloni avrà evitato l’argomento “blocco navale” con gli ospiti della prima conferenza internazionale sullo sviluppo e l’immigrazione che si è tenuta ieri alla Farnesina, a Roma. Erano presenti Capi di Stato e primi ministri di molti Paesi africani e del Medio Oriente, oltre ai vertici europei, di istituzioni bancarie e di organizzazioni internazionali. Con loro la premier ha preferito mettere in soffitta la vecchia propaganda e rilanciare invece “il modello del partenariato”, “il rafforzamento dei flussi legali di immigrazione” e, soprattutto, l’idea di creare “un fondo di sviluppo con risorse che tutte le nazioni partecipanti mettono a disposizione “, attraverso il quale puntare su investimenti in infrastrutture, “perché è la via più duratura per fare cooperazione”. L’incontro dà il via a quello che Meloni battezza come “Processo di Roma”. Non un “intervento spot”, assicura più volte, “ma un percorso” che avrà un seguito già nel prossimo autunno, perché tra due mesi dovrebbe tenersi la prossima conferenza in Tunisia o negli Emirati Arabi Uniti, i due paesi che - a quanto risulta a La Stampa - hanno già dato disponibilità alla premier. A questo fondo, che “ha un orizzonte di medio termine” per la sua realizzazione, Meloni vuole però anche dare un tocco sovranista e propone quindi che “le nazioni che ricevono i finanziamenti debbano essere anche quelle che decidono come spenderli”. Per la premier, i sei settori principali di investimento dovrebbero essere “agricoltura, energia, infrastrutture, educazione, sanità e acqua”, ma non sono direzioni obbligate, perché - ribadisce - “è fondamentale in un rapporto da pari a pari”. L’accordo con la Tunisia “è un modello per tutta l’Europa sul fronte energetico”, dice la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Su quello di controllo dell’immigrazione clandestina, invece, ha già dato prova di essere frutto di violenze crudeli nei respingimenti al confine, ma Meloni si mostra fredda di fronte all’ipotesi di vincolare gli aiuti economici a Tunisi a una garanzia di rispetto dei diritti umani: “Dobbiamo cercare di accompagnare queste nazioni per avvicinarle ai nostri standard, ma la Tunisia - sottolinea la premier - è una nazione in estrema difficoltà e non va abbandonata perché sarebbe pericoloso. Lo sviluppo crea democrazia”. Questo atteggiamento non si traduce però nel voler mettere in un cassetto anche la questione Regeni: “Non penso affatto che sia un caso archiviato. Continuo ad occuparmene come ho fatto con Zaki, senza parlarne con voi”, dice ai giornalisti in conferenza stampa. Quattro i filoni affrontati durante i lavori della conferenza. Innanzitutto, contrastare l’immigrazione illegale e i trafficanti, che destabilizzano i Paesi in cui operano. Poi, il rafforzamento della cooperazione tra forze di polizia e giudiziarie, amalgamando le legislazioni che si occupano di questa materia, ma anche migliorare la gestione degli strumenti di rimpatrio e aumentare i flussi di immigrazione legale, con corsie preferenziali per nazioni che collaborano nella lotta i trafficanti e quote aggiuntive per chi fa formazione al lavoro Di questi temi, che hanno un risvolto sulla stabilità politica e sociale del continente africano e, indirettamente, anche dell’Europa, Meloni annuncia che ne parlerà anche con il presidente Usa Joe Biden: “Il tema dell’attenzione sulle risorse allo sviluppo e la stabilità come elemento di sicurezza - dice - è un tema che deve interessare i nostri alleati”. E si discuterà anche di Cina (ma non della via della seta), che in Africa svolge un ruolo centrale nello sfruttamento delle risorse di molti Paesi africani. Summit sull’Africa, la delusione dei rifugiati: “Così la Ue paga i dittatori e favorisce i trafficanti” di Fabio Tonacci La Repubblica, 24 luglio 2023 Nello spazio occupato di Spin Time Labs riuniti egiziani, sudanesi, gambiani, eritrei: “Gli accordi non fermeranno le partenze”. Dovrebbero essere i veri protagonisti del vertice internazionale alla Farnesina sulle migrazioni ma poiché i governi non hanno interesse ad ascoltare la loro voce, i rifugiati africani si sono fatti un proprio controvertice. Per dire, anzi per urlare, che il “modello Tunisia” di gestione dei flussi, molto simile al già fallimentare “modello Libia”, non è la soluzione. “Perché non fermerà le partenze dall’Africa”, “perché non tutela i diritti umani”, e, infine, “perché il denaro dell’Europa finirà nelle mani sporche di pochi, come già accaduto a Tripoli”. Tra la Farnesina e l’auditorium dello Spin Time Labs, spazio sociale occupato al quartiere Esquilino dove è stato organizzato il controvertice, ieri c’erano anni luce di distanza. “Quelli che i Paesi europei stanno firmando con gli stati del Nord Africa non sono veri accordi di sviluppo”, sostiene David Yambio, sudsudanese di 25 anni arrivato lo scorso anno in Italia su un barcone e portavoce del movimento Refugees in Libya. “I memorandum prevedono, come premessa, di fermare il transito dei migranti, che è già di per sé una limitazione della nostra libertà: così facendo spingeranno sempre più persone ad affidarsi ai trafficanti. L’Italia e l’Ue hanno di recente stanziato per la Tunisia più di 100 milioni di euro, che non finiranno alla gente ma ad aziende private e a politici corrotti. Come è successo in Libia, dove la missione indipendente ha scoperto che i fondi Ue finanziano le milizie responsabili di abusi e violazione dei diritti umani. Il sostegno economico dovrebbe andare ai Paesi di origine dei migranti, per rendere possibile una vita dignitosa lì”. Refugees in Libya e la piattaforma civica Mediterranea Saving Humans hanno organizzato il controvertice, che non va pesato dal numero dei partecipanti (una cinquantina, tra cui rifugiati egiziani, sudanesi, gambiani, egiziani, eritrei), ma dalle parole che dicono. “Dare soldi in cambio del contenimento dei migranti e dei respingimenti è disumano”, interviene don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea. “Proprio mentre si siglano questi accordi, le milizie tunisine deportano e intrappolano i migranti in zone desertiche e alcuni di loro sono già morti di sete. Lo ha denunciato anche Papa Francesco all’Angelus, dopo che venerdì lo abbiamo incontrato e gli abbiamo fatto vedere le foto degli uomini e delle donne abbandonati nel deserto della Tunisia”. Il Paese governato dal controverso presidente Kais Saied è al centro del dibattito, sia per il recente memorandum firmato anche dalla premier italiana sia per la consistenza delle partenze (il 50 per cento circa degli 83 mila sbarchi sulle coste italiane nel 2023). “In Tunisia non c’è più democrazia né libertà”, racconta Majdi Karbai, parlamentare tunisino costretto a fuggire in Italia dalla persecuzione giudiziaria causata dalle sue critiche al presidente. “Ci sono arresti arbitrari di giornalisti, di attivisti, di chi ha sognato la rivoluzione. Non si può neanche manifestare. Ecco perché la gente scappa. Quello di Saied è un regime dispotico, e nonostante ciò l’Europa gli dà aiuti per mantenerlo solido ed esternalizzare così il controllo delle sue frontiere. Questa è una forma di neocolonialismo”. La repressione cresce in tutto il mondo: si riducono gli spazi civici, avanzano l’autoritarismo e la violenza La Repubblica, 24 luglio 2023 L’intervento della relatrice speciale delle Nazioni Unite sul diritto di associazione e di riunione pacifica. “Centinaia di attivisti e manifestanti sono stati arbitrariamente detenuti, torturati, sottoposti a violenza sessuale e di genere, fatti sparire con la forza e uccisi”, ha detto Clément Nyaletsossi Voule, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti legati alla riunione pacifica e all’associazione. Per Voule le vittime raramente hanno ricevuto giustizia, mentre gli autori dei reati non vengono sottoposti a procedimenti giudiziari e hanno il potere di continuare a reprimere i diritti e le libertà altrui”. Cresce la repressione. Nel suo ultimo rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Voule ha evidenziato l’aumento della repressione e le gravi violazioni dei diritti umani commesse contro manifestanti e attivisti in tutto il mondo. Ha sollecitato misure solide e urgenti per invertire la rotta ed evitare che l’impunità di chi abusa del proprio potere diventi la regola. Vittime senza giustizia. Secondo la relatrice speciale, alle vittime di abusi dei diritti umani è stata negata la giustizia, mentre gli autori beneficiano sistematicamente dell’impunità, e questo atteggiamento abbastanza comune in tutti i Paesi fa in modo che non venga mai messa la parola fine alle violazioni e alla violenza. “L’impunità endemica per gravi abusi dei diritti umani ha generato cicli di repressione. Ogni volta possiamo notare che dove lo spazio civico è minacciato, avanzano autoritarismo e conflitti”, ha spiegato Voule. Le minacce al diritto di riunione e di associazione. Nel suo rapporto, l’esperta ha rivelato che centinaia di persone hanno subito lesioni, a volte al limite della disabilità, che gli hanno cambiato la vita. Viene fatto un uso improprio o addirittura un abuso delle cosiddette “armi non letali” durante le proteste, ma si tratta di strumenti che lasciano comunque il segno. E le vittime sono state spesso lasciate sole nella richiesta di giustizia e di risarcimenti. La relatrice speciale denuncia la diffusa mancanza di volontà, da parte degli Stati, di garantire che gli autori dei reati vengano effettivamente processati. La tendenza ormai è che prevalgono un po’ ovunque politiche volte a giustificare l’uso eccessivo della forza per punire e criminalizzare chi si riunisce, anche pacificamente. Il ruolo degli Stati. Gli Stati dovrebbero concentrarsi sulle indagini, perseguire e condannare i colpevoli piuttosto che prendere di mira attivisti e manifestanti - denuncia Voule. “Garantire alla giustizia i responsabili delle violazioni contro le persone che esercitano il diritto di riunione pacifica e di associazione è parte integrante della responsabilità degli Stati di rispettare, proteggere e consentire l’esercizio di tali diritti”, ha concluso. I risarcimenti. Secondo l’esperta gli Stati dovrebbero adottare un approccio alla responsabilità olistico, ovvero incentrato sulle vittime e attento al genere, perché è loro compito affrontare i bisogni delle vittime, fornire risarcimenti e garantire che le violazioni dei diritti non si ripetano. Una nota a parte va fatta poi a proposito dei risarcimenti che vengono concessi ogni volta che vengono acclarati gli abusi: gli indennizzi non devono essere utilizzati per eludere la responsabilità ma per integrare i procedimenti legali. La funzione della comunità internazionale. Pur riconoscendo il ruolo primario degli Stati nel perseguire gli autori di reato, l’esperta ha sollecitato la comunità internazionale, in particolare il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, a intervenire quando i singoli Paesi non riescono a garantire giustizia alle vittime delle violazioni dei diritti di riunione pacifica e di associazione. L’Onu e gli errori sulla fame nel mondo: adesso fermi davvero le multinazionali di Carlo Petrini La Stampa, 24 luglio 2023 Più di due miliardi di persone vivono senza il cibo, che è un diritto. Il vertice delle Nazioni Unite al via oggi a Roma non “venda” i più poveri. Per sfamare otto miliardi di persone, e in prospettiva dieci, la strada è tanto chiara quanto rivoluzionaria: smettere di inseguire il profitto e cominciare a difendere la produzione alimentare, la terra da cui essa dipende e le persone che la coltivano. Il cibo dev’essere un diritto, non un bene da scambiare in Borsa; una priorità universale non una commodity grazie alla quale arricchirsi a scapito di qualcun altro, della salute del pianeta e del futuro dell’umanità. Queste dovrebbero essere le premesse - non negoziabili - alla base del secondo Vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari sostenibili che si terrà dal 24 al 26 luglio nel quartier generale della Fao a Roma, per dare seguito agli impegni presi durante l’analogo incontro che si tenne nel 2021. Oggi come allora la visione e gli obiettivi del vertice sono però ben lontani da quanto auspicato. Due anni fa oltre 9 mila persone appartenenti a organizzazioni della società civile - tra cui Slow Food - hanno organizzato una mobilitazione in parallelo al vertice ufficiale, esprimendo forti riserve sulla sua struttura, sull’orientamento politico e sul processo di organizzazione che, fin dall’inizio, non ha promosso un multilateralismo democratico, inclusivo e partecipativo, bensì ha messo al centro i potenti dell’agribusiness. Legittimare ai più alti livelli delle Nazioni Unite gli interessi degli attori privati è molto pericoloso perché normalizza un modello di governance in cui il bene pubblico e la tutela di un diritto universale si piegano al volere delle multinazionali. L’incontro che si appresta a iniziare probabilmente non farà che confermare questo approccio, “vendendo” soluzioni di natura puramente tecnologica e economicamente poco accessibili, come trasformative e risolutive delle attuali distorsioni dei sistemi alimentari. Eppure le crisi continue e sistemiche che da anni a questa parte ci troviamo a vivere e che hanno portato a una esacerbazione delle disuguaglianze, sono largamente imputabili al crescente potere delle lobby all’interno degli spazi politici. Per questo la contro-mobilitazione di molte organizzazioni della società civile, di popoli indigeni, di contadini, pastori e pescatori continua anche nel 2023. Gli ultimi dati contenuti nel report della Fao sullo stato della sicurezza alimentare nel mondo restituiscono dati allarmanti. Nel 2022 735 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la fame e sebbene il numero a livello globale si sia fermato tra il 2021 e il 2022, alcuni luoghi vertono in condizioni tragiche a causa anche degli effetti ormai lampanti della crisi climatica. È il caso dell’Africa con il 20% della popolazione del continente che soffre la fame, più del doppio della media globale. Andando oltre alla fame, il rapporto rileva anche che circa il 29,6% della popolazione globale, pari a 2,4 miliardi di persone, vive in condizioni di insicurezza alimentare, a significare che almeno uno dei quattro pilastri (disponibilità, stabilità, uso e accesso del cibo), su cui si fonda questo concetto, non sempre è garantito. Infine al giorno d’oggi si parla molto dell’importanza di adottare diete sane e sostenibili, eppure solo il 58% della popolazione mondiale ha la capacità economica di potervi accedere. Per il benessere delle persone e del pianeta abbiamo urgentemente bisogno di una trasformazione dei sistemi alimentari che non può che passare da un cambio di paradigma strutturale. Questo può avvenire mettendo al centro i diritti umani e i beni comuni per la risoluzione di ogni forma di ingiustizia, tutelando la biodiversità, e riconoscendo l’agroecologia come modello produttivo capace di restituire la sovranità sui sistemi alimentari alle comunità locali. Non sto parlando di utopie, ma di realtà che già esistono nel mondo e che a livello di Nazioni Unite trovano rappresentanza e espressione nel Comitato per la sicurezza alimentare mondiale (Cfs). Il Cfs è il più importante spazio internazionale e intergovernativo per i soggetti interessati a lavorare per garantire la sicurezza alimentare e la nutrizione per tutti. Serve quindi gli interessi delle persone e non delle multinazionali e non a caso è stato messo al margine del Vertice sui sistemi alimentari. Un antico proverbio contadino tedesco dice: non affidare alla capra il ruolo di cura del giardino. Come la capra che in un giardino mangia tutto indistintamente, analogamente le multinazionali se non controllate finiranno per distruggere i sistemi alimentari. Un vero cambiamento dei sistemi alimentari richiede da parte delle Nazioni Unite un approccio democratico multilaterale vero e profondo; dove ogni voce trova libertà e legittimità di espressione. I produttori alimentari di piccola e media scala non solo nutrono il mondo, ma fanno anche progredire i diritti umani fondamentali e proteggono l’ambiente. La politica quando inizierà a ascoltarli e a fornirgli un sostegno adeguato?