La vita in cella: dove la dignità è calpestata muore la giustizia di Agnese Pini La Nazione, 23 luglio 2023 A lasciarci in un silenzio che dovrebbe suggerire sofferta incredulità, sono le parole di un detenuto: “Se non ti tagli le braccia, nessuno ti ascolta”. A lasciarci in un silenzio che dovrebbe suggerire sofferta incredulità, prima ancora che indignazione, non sono le pareti sporche di vomito, non sono le blatte e la sporcizia, gli odori molesti e talvolta insopportabili, le infiltrazioni di umido, il caldo soffocante, gli occhi svuotati, le braccia penzolanti piene di cicatrici. Sono invece le parole di un detenuto: perché quelle parole più di tutto disvelano la disumanità del carcere. “Se non ti tagli le braccia, se non provi a impiccarti, nessuno ti ascolta”. Sollicciano, luglio 2023. Il carcere di Firenze, a pochi chilometri dal centro storico, ha i corridoi disegnati a forma di giglio dall’architetto che li progettò. Gaia Tortora è entrata a visitare quei corridoi e le loro celle fatiscenti, inchiodando nelle sue parole l’inaccettabile quotidianità che vi si consuma - condivisa da carcerati e carcerieri - ogni giorno e ogni notte, ogni ora, nel doloroso e importante reportage che potete leggere in queste pagine. C’è, nel suo racconto e nelle testimonianze che ha raccolto, il senso di una gigantesca e troppo spesso rimossa vergogna: lì dove il carcere diventa inferno, muore anche la giustizia, muore il suo senso più alto e profondo. Sollicciano è solo un caso, non certo l’unico, è la fotografia emblematica di un cortocircuito tra pena e giustizia spesso denunciato dalle associazioni e talvolta dalle inchieste che portano alla luce sevizie e torture. Insieme all’inadeguatezza delle strutture, al sovraffollamento, al degrado, alla mancanza di igiene. Nelle carceri italiane si muore venti volte di più che non nel mondo libero. Solo nel 2022 si sono contati 87 suicidi. Quasi la metà dei detenuti non ha l’acqua calda e vive in celle che mettono a disposizione meno di tre metri quadrati a testa. Non siamo in Egitto, nelle temute prigioni di Al Sisi, non siamo in Libia e neppure in Russia. Siamo qui, in Italia: sotto i nostri occhi, accanto alle nostre case. Il Garante dei detenuti: “Penitenziari dimenticati. Sono discariche sociali” di Alessandro Farruggia La Nazione, 23 luglio 2023 La denuncia di Anastasia (Lazio): le carceri non sono una priorità per i nostri governi. “La maggior parte dei reclusi potrebbe scontare la pena fuori. Ma mancano i sostegni”. Stefano Anastasia, garante per i detenuti del Lazio ed ex presidente di Antigone, come mai le carceri italiane sono perennemente sovraffollate, indegne di un paese civile, e nessun governo se ne preoccupa davvero? “Sostanzialmente perché non si riescono a trovare soluzioni alternative per le condizioni di marginalità sociale che riempiono le carceri italiane. E questo perché non è una priorità. Noi abbiamo una maggioranza di detenuti in carcere per reati minori, che potrebbe accedere a forme alternative se avesse un qualche sostegno. Ma non ce l’hanno e così restano dentro. La realtà è che il carcere è diventata la ruota di scorta delle politiche sociali”. Una sorta di discarica sociale? “Si, è una espressione forte ma ormai abbastanza in uso”. Avere carceri sovraffollate quanto incide sulla possibilità di rieducazione e recupero del condannato? “Enormemente. Se le risorse a disposizione dell’amministrazione penitenziaria sono limitate, anche le possibilità di studio e di lavoro sono molte di meno. Lo stesso lavoro finisce per essere, in oltre l’86% dei casi, lavoro interno al carcere, tipo pulizia degli spazi comuni o distribuzione dei pasti, poco qualificato e poco professionalizzante, un lavoro nel quale non c’è prospettiva di continuità oltre il fine pena. Ed è inutile una volta che si esce”. Per moltiplicare le opzioni alternative alla detenzione han lavorato diversi Guardasigili, ultimo il ministro Cartabia. È possibile fare di più? “I numeri delle alternative al carcere sono ormai importanti. L’esecuzione della pena esterna ormai è oggi nei numeri equivalente e forse anche maggiore dell’esecuzione in carcere. Il problema vero è che queste offerte alternative si rivolgono fatalmente a chi ha una rete di relazioni sociali esterne. Lo zoccolo duro di chi finisce in carcere e non ha una rete di conoscenze che gli crei delle opportunità, purtroppo ha maggiori probabilità di restare in carcere anche per pene di pochissimo conto. Per questo dico: la prima cosa da fare è lavorare alla capacità di accoglienza esterna. E poi bisogna continuare nella decriminalizzazione dei reati minori”. Il rapporto 2022 di Antigone dice che lo scorso anno è stato un anno con molti suicidi in carcere, ben 85. Come mai? “L’affollamento incide, ma credo che lo sorso anno abbia pesato tanto anche l’uscita dal Covid. I detenuti hanno sofferto come tutti le restrizioni della pandemia ma l’anno scorso quando noi siamo tornati a una vita normale loro hanno visto approfondire il solco tra mondo libero e no. E troppi non hanno retto. Credo che nel dato drammatico dello scorso anno ci sia anche questa disperazione”. Povertà ed emarginazione autostrade per il carcere di Marco Chiavistrelli* L’Unità, 23 luglio 2023 Ho lavorato trent’anni dentro una fabbrica e l’opinione diffusa era che la delinquenza fosse un fatto soggettivo, una questione di indole personale, le classiche mele marce in un canestro di mele buone da scartare e buttare nella spazzatura. Sono convinto che se anche gli operai sfruttati la pensano così, la maggior parte della popolazione considera coloro che finiscono dentro come “altro da sé”, quasi qualcosa di misterioso, di nato male, di cattiva genia. E parrà strano, ma in certe cittadine, paesi abitati da popolazione occupata anche di reddito non ricchissimo ma stabile, si contano sulle dita di una mano gli individui che incorrono nella giustizia. Ma se le cose stessero così, se fosse davvero una questione di “cattiva genia”, gli abitanti delle galere cambierebbero casualmente ogni anno per ceto, istruzione, quartiere, estrazione sociale, preparazione culturale, tipo di famiglia di appartenenza: per cui ecco che quest’anno finiscono dentro tanti ingegneri, quest’altro anno tanti operai, ecco il turno dei banchieri, ma guarda che pieno di parrucchieri questo altro anno, oh ecco i liceali. il mese dopo invece chi ha fatto solo le elementari. E anche l’estrazione geografica idem: quest’anno trionfa il nord, ecco il centro. Ma non è così, le statistiche, in modo crudele, ripetono ogni anno che delinquono gli stessi soggetti: poverissimi e poveramente istruiti, soprattutto meridionali in percentuale molto superiore al numero effettivo, moltissimi stranieri emarginati e indigenti anche qui in percentuale maggiore del loro numero. Tutti accomunati dalla classe sociale e dalla mancanza di istruzione, la povertà ogni anno produce le sue vittime dal suo serbatoio relativamente piccolo di pochi milioni di persone che vivono sotto la sua soglia che quasi sempre si associa a una preparazione culturale molto carente. La delinquenza è istradata dalla formazione culturale e dalla condizione sociale di partenza. Ci sono autostrade già asfaltate che portano al carcere e modelli psicologici valoriali identificativi che nei quartieri, centri, zone, territori più poveri accolgono i nuovi nati in una ripetizione all’infinito di miseria incultura e devianza, carcere e poi recidiva senza sbocchi e sostegni e rieducazioni possibili. Lo stesso ambito scolastico, foriero se funzionante di potente allontanamento dalla devianza, mostra la gravità di situazioni di svantaggio sociale economico e psicologico, zone emarginate, quartieri bassi, famiglie disastrate, assenza di interventi statali di sostegno culturale e ricreativo, redditi infimi soprattutto femminili, miseria strutturale, possibilità economiche assenti per studiare, fare sport, crescere come personalità nuova e dinamica. Un test sociologico mostra meglio di qualsiasi discorso cosa siano la povertà, lo svantaggio, la delinquenza. Tratto da un famoso testo di sociologia utilizzato nei concorsi ufficiali dello stato italiano. Siamo in Scozia negli anni 60. Nascono due gemellini identici subito abbandonati. Allora si poteva fare un abominio simile: si dà in affidamento il primo a una famiglia colta, borghese, benestante inseritissima nella società che conta. Il secondo si dà a una famiglia molto povera, culturalmente a zero, anzi potenzialmente portata all’arte di arrangiarsi riguardo alla legge. Poi si guardano a 15 anni. Orbene, se la delinquenza fosse soggettiva potrebbe essere delinquente anche il primo fratello, e se l’intelligenza fosse innata potrebbe essere un asino il primo fratello e un genio il secondo. No signori che sparate teorie sul delinquente nato male e sul bravo a scuola genietto innato, i risultati furono altri. A 15 anni il primo gemellino era uno scolaro bravissimo, educato e competente, inserito in un giro di amicizie altolocate. E il secondo? Il secondo era completamente fallito scolasticamente senza il sostegno di fondo della famiglia. Senza lo studio iniziava a frequentare brutte compagnie e cominciava a fare capolino un possibile futuro di devianza, illegalità, arrangiamento. Dell’eguaglianza originale non restava nulla, i destini si erano divaricati come le due famiglie di provenienza. Al figlio buono un futuro di lauree, matrimoni riusciti e successo nella vita. Al figlio cattivo un curriculum vitae fatto di riformatori, carceri minorili, carceri veri e propri. Delinquenti non si nasce, ma si diventa e inesorabilmente si finisce nello stesso posto: il carcere. Dove buttiamo gli scarti della società. Dove una comunità virtuosa fa la sua raccolta differenziata, di separazione del male dal bene. *Cantautore In morte di Fakhri Marouane, che aveva visto (e denunciato) tutto sul pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere di Graziella Di Mambro articolo21.org, 23 luglio 2023 Quando accadde, quando il detenuto Fakhri Marouane si era dato fuoco nel tentativo (allora fallito) di suicidarsi nel carcere di Pescara, la sua storia non fu ritenuta di quelle strappalacrime degne di risalire la china fino ad arrivare in tutte le prime pagine. Ed è dunque rimasta sulle edizioni locali. Fakhri Marouane però non era solo l’ennesimo detenuto che cerca di ammazzarsi in una cella delle prigioni italiani, il che già è grave perché i casi sono di un numero esorbitante. Lui è stato uno dei testimoni chiave delle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020 e due mesi fa, a soli 30 anni, ha cercato di darsi fuoco; per via delle ustioni gravissime era stato trasferito presso il Policlinco di Bari dove due giorni fa è morto. La notizia è stata data dal suo legale, l’avvocato Lucio Marziale. Marouane era uno dei molti detenuti aggrediti e pestati quel tremendo pomeriggio di tre anni fa, una vicenda su cui è in corso un difficile processo davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Era considerato uno dei testimoni chiave che, adesso, non potrà dire più nulla. La sua storia da subito è stata considerata emblematica dell’accaduto, fu, in quelle ore terribili, tra i detenuti che subirono le maggiori “attenzioni” di alcuni agenti della polizia penitenziaria ritenuti responsabili dei pestaggi sia in base ad alcune immagini video che per molte testimonianze. Lui fu uno di quelli costretti a muoversi sulle ginocchia, venne colpito alla testa con un manganello quando rimase solo in una della stanza delle torture, venne persino costretto ad inginocchiarsi davanti a un agente. I dettagli di questa storia sono emersi già negli atti del rito abbreviato scelto da due agenti imputati (poi assolti), carte incentrate sulle lesioni procurate al giovane marocchino che aveva anche reso due testimonianze alla Procura che ha indagato sul caso del carcere sammaritano, interrogatori risultati poi determinanti ai fini della richiesta del giudizio per i poliziotti picchiatori. Marouane disse pure ciò che aveva subito a partire dal 10 marzo, giorno in cui entrò nel carcere casertano. Dopo lo scandalo dell’inchiesta sui pestaggi il giovane immigrato era stato trasferito nel carcere di Pescara ma a maggio 2023, dopo un richiamo disciplinare avuto qualche giorno prima, si è dato fuoco. Il fratello di Marouane ha presentato denuncia perché si faccia chiarezza sulle cause che hanno portato il detenuto a perdere il controllo nel carcere di Pescara, per verificare se ci siano state altre responsabilità. Il dibattimento sul pestaggio del 6 aprile 2020 riprenderà a settembre. Chi politicizza davvero la giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 luglio 2023 Nel Csm alcuni consiglieri laici di centrodestra rivendicano la pratica dell’ostruzionismo come in Parlamento. Com’è il ritornello? Ah sì: fuori le correnti della magistratura dal Csm, fuori la politica dalla giustizia, basta con la cinghia di trasmissione dall’Anm dentro il Csm. Tanto che lunedì scorso, durante la visita del Csm negli uffici giudiziari lombardi, il vicepresidente Csm, l’avvocato Fabio Pinelli, aveva rimarcato come “il primo passaggio sia restituire al Csm la sua funzione”, perché in passato “è stato confuso con un luogo improprio di rappresentanza politica”, e invece “è un organo che si deve fare portatore non di interesse politico ma di valori: anche per questo ha scontato un deficit di credibilità”. Auspicio impeccabile, un po’ meno lo svolgimento due giorni dopo nel plenum sul routinario collocamento fuori ruolo di un magistrato italiano selezionato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo in una rosa di nomi spettante mesi fa al Ministero della Giustizia. Per tentare di paralizzare il voto, non soltanto il braccio destro del ministro Carlo Nordio, e cioè il magistrato suo capo di gabinetto Alberto Rizzo, un’ora e mezza prima della seduta Csm invia ai consiglieri una richiesta di rinvio (non prevista dalle regole) per la generica doglianza (espressa a sua volta due ore prima in una mail di due righe) di un altro candidato non selezionato da Strasburgo. Ma, soprattutto, alcuni consiglieri Csm “laici” (cioè della quota di 10 avvocati o professori di cui la Costituzione riserva al Parlamento l’elezione sui 30 membri), e in particolare Claudia Eccher, eletta su indicazione della Lega ed ex avvocata di Matteo Salvini (cioè del leader leghista di cui il magistrato scelto dalla Strasburgo era stato gip a Palermo nel 2021 nel procedimento Open Arms), si squagliano appositamente per fare mancare il numero legale dei laici, che devono sempre essere almeno 7 su 10. Prima, dai laici di centrodestra, fioccano i motivi più creativi, come chiedere un rinvio “per cortesia”, scoprirsi di colpo non più in grado di fare il relatore della pratica, accampare a posteriori di aver dovuto accompagnare dal medico un’altra consigliera assente. E poi Eccher, rientrata su appello telefonico di Pinelli, si avventura in una rivendicazione dell’ostruzionismo “per motivi puramente estetici, non dovendo io giustificare l’assenza: l’ostruzionismo, che si concretizza in interventi fiume, applicazione letterale dei regolamenti, e assenze per fare mancare il numero legale, è da sempre ammesso fin dalla prima forma di governo parlamentare, quella inglese. In Italia con questo metodo sono state combattute le più grandi battaglie politiche, spesso in difesa di principi e libertà fondamentali: rammento a tutti che, se pur non siamo in Parlamento, comunque l’ostruzionismo è un principio costituzionalmente garantito”. Piccato tentativo di rispondere al fatto che - nell’iniziale silenzio del vicepresidente Pinelli, o preso in contropiede dall’enormità di quanto stava accadendo, o in imbarazzo per la mossa della collega votata all’epoca come lui dal Parlamento su indicazione della Lega - aveva ritenuto di intervenire persino un magistrato notoriamente di area moderata come Margherita Cassano, la prima donna presidente della Cassazione, componente anche del Comitato di Presidenza del Csm (insieme al procuratore generale Luigi Salvato e appunto al vicepresidente Pinelli) invitato a “richiamare al rispetto delle regole basilari” in “una riflessione sulla nostra funzione di tutela effettiva dell’autonomia e indipendenza della magistratura: se noi accettiamo quello che si è verificato oggi, e che già aveva rischiato di accadere un’altra volta, ossia la paralisi dell’attività del Csm per dissenso sull’esito di un voto democraticamente espresso, introduciamo un precedente gravissimo”. Alla fine il via libera al magistrato selezionato dalla Cedu arriva, e se la vicenda conquista prende qualche riga (peraltro su pochi giornali) è più che altro solo per censurare o esaltare (a seconda del loro orientamento) il “dito”, cioè il fatto che la Lega ce l’abbia con il giudice che mandò a processo Salvini. Ma è la “luna” che spicca, se si riascolta la seduta Csm su Radio Radicale: la luna nera della politicizzazione, quella vera, della giustizia. Giustizia, per la riforma Nordio è meglio non copiare gli Usa di Luigi Migliorini Corriere del Veneto, 23 luglio 2023 Il ministro Nordio in pubbliche “esternazioni” ha affermato che intende far approvare la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e Pubblici ministeri, ma che la tempistica è lunga perché occorre una modifica alla Costituzione. In realtà per la “sola” separazione non c’è nessuna necessità di riforma costituzionale: l’unico articolo della Costituzione che cita i Pubblici ministeri è il 107, “il Pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’ordinamento giudiziario”. In realtà il vero scopo - e Nordio con l’onestà intellettuale che lo caratterizza non lo cela - è intervenire sull’articolo 112: “Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Si vorrebbe trasformare l’azione penale in facoltativa, prendendo ad esempio gli Stati Uniti che, secondo me, non vanno imitati, non solo perché insistono nella pena di morte (dall’inizio dell’anno eseguite sei) ma in quanto i capi degli uffici del Pubblico ministero vengono, perlopiù, nominati a seguito di elezione popolare e si scelgono, come vogliono, i sostituti, spesso tra avvocati che così cambiano ruolo. Alcuni lustri fa, il dirigente di un’azienda agricola fu sottoposto a misura cautelare per gravi reati, immediatamente interrogato e chiarita la sua posizione fu subito liberato, ma mi disse che “disgustato” per l’accaduto aveva accettato di trasferirsi negli Usa. Dopo qualche mese ritornò in Italia e mi raccontò che una notte, alla guida di un’auto, inavvertitamente aveva tenuto un comportamento che in Italia sarebbe stato violazione del Codice della strada: lì era stato raggiunto da due poliziotti che l’avevano ammanettato e portato in cella. Il giorno dopo il suo datore di lavoro aveva pagato la cauzione e ciò gli consentì di tornare libero. Però concluse: “Meglio l’Italia!”. Faccio mia, su tutta la linea l’affermazione. Peraltro Nordio sottovaluta l’articolo 3 della Costituzione relativo ai diritti fondamentali dei cittadini, tra cui l’affermazione che “sono uguali davanti alla legge”. L’eguaglianza sarebbe lesa se, a seguito della discrezionalità dell’azione penale, di due cittadini indiziati dello stesso reato, uno fosse processato e l’altro no. Ribellarsi ai pieni poteri dei pm combattendo i reati troppo vaghi di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 luglio 2023 Il concorso esterno, l’abuso d’ufficio, il traffico di influenze o i reati contro la pubblica incolumità: per i pm d’assalto diventano strumenti utili per disporre in modo discrezionale dei propri poteri, servendosi più dei teoremi che dei fatti. Le responsabilità della politica. La settimana che è trascorsa è stata principalmente dominata dalle reazioni politiche alle parole pronunciate dal ministro Nordio sul tema del concorso esterno. La storia la conoscete. Nordio ha detto quello che pensa sul concorso esterno: “Un reato evanescente che andrebbe rivisto”. Ha aggiunto che la riforma di questo reato non è in alcun modo prevista all’interno del programma di governo. Uno dei partiti della maggioranza (la Lega) ha tenuto a far sapere (per marcare una distanza da Meloni) che il reato di concorso esterno non va toccato (cosa che Nordio non ha mai detto di voler fare). Un altro partito (Forza Italia) ha invece detto (per provare a intestarsi le battaglie sul garantismo del governo) che il concorso esterno è effettivamente un reato troppo evanescente (e anche il capo di Forza Italia, Antonio Tajani, alla fine ha dovuto dire che non è un tema all’ordine del giorno). E infine la premier, a capo del partito di cui Nordio fa parte, è stata costretta a dire che le parole del suo ministro, vecchio birbante, sono parole da magistrato, lasciando intendere dunque che Nordio è meglio che parli unicamente nella sua nuova veste, che è quella del ministro, non del magistrato e neppure quella dell’editorialista del Messaggero. Si è discusso molto dunque delle conseguenze politiche delle parole, un po’ goffe, di Nordio. Ma si è discusso poco, fuori dal mondo della politica, di un tema sottinteso nelle parole di Nordio. Un tema non di poco conto che forse non dovrebbe affrontare un ministro, d’accordo, ma che in ogni caso costituisce uno dei veri drammi irrisolti del sistema giudiziario italiano. Il riferimento fatto da Nordio alla questione del concorso esterno non è fuffa ma è un dato reale. Anni fa, proprio su questo giornale, il professor Giovanni Fiandaca spiegò quanto potesse essere pericoloso avere, in un ordinamento giuridico come il nostro, una tipologia di reato così vaga, così poco perimetrata e così soggetta a interpretazioni discrezionali. “Il principio di legalità in materia penale - scrive Fiandaca - esige non solo che i reati siano definiti dal legislatore (principio cosiddetto di riserva di legge), ma che il legislatore li definisca nella maniera più precisa possibile (principio cosiddetto di sufficiente determinatezza o precisione), onde evitare che sia il giudice a stabilire di volta in volta a sua discrezione i fatti punibili. Sotto l’aspetto del principio di legalità così concepito - dice ancora Fiandaca - un istituto come il concorso esterno nel reato associativo presenta alcune peculiarità. Ciò nel duplice senso che esso, per un verso, è privo di una previsione legislativa puntuale e specifica (a differenza ad esempio della norma sull’omicidio, sul furto, sulla violenza sessuale o sull’associazione mafiosa ecc., nessuna specifica norma penale definisce infatti il concorso esterno come tale, né tanto meno ne descrive i requisiti costitutivi) e, per altro verso, risulta abbastanza generico e indeterminato nella sua fisionomia con conseguente incertezza circa l’ambito e i confini della punibilità”. La caratteristica dei reati per così dire vaghi è quella di essere per i pubblici ministeri d’assalto degli strumenti utili per poter disporre in modo discrezionale dei propri poteri e per riuscire a portare avanti indagini anche senza aver bisogno di prove schiaccianti. Servendosi dunque più dei teoremi che dei fatti. In questo senso, il reato di concorso esterno è parte di una galassia più grande, infinitamente più grande, all’interno della quale si trovano tipologie di reati diversi. Pensate, per esempio, alle responsabilità colpose in caso di disastri naturali o di gravi incidenti (omicidio colposo, disastro colposo). Pensate, per esempio, al finanziamento illecito ai partiti o alla corruzione a fronte di contributi ricevuti in occasione di campagne elettorali. Pensate, per esempio, ai reati ambientali legati al superamento di parametri prefissati. Pensate ancora allo stesso abuso d’ufficio, che consente a un pm di portare avanti indagini anche a fronte di indizi inesistenti. Pensate, ancora, al traffico di influenze, una norma che in alcune circostanze rischia di mettere fuori legge lo stesso concreto esercizio della politica, che la stessa Cassazione, nel 2022, ha ammesso essere una norma che “non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione attualmente non ancora regolamentata”. Pensate, infine, anche a tutti i reati contro la pubblica incolumità (qual è il perimetro esatto per definire un disastro?). Pensate, come ha scritto il penalista Cristiano Cupelli sul nostro giornale, ad altre fattispecie vaghe, come la turbata libertà degli incanti (art 353 cp, norma che regola il concetto di gara d’appalto) o come la norma che regola la corruzione per l’esercizio della funzione (art 318 cp), che altro non sono che “ipotesi nelle quali l’estrema labilità del confine semantico degli elementi fondamentali delle fattispecie incriminatrici apre le porte alle distorsioni interpretative da parte della giurisprudenza”. Gli avvocati più colti chiamano questo fenomeno “il diritto penale onnivoro”, che attribuisce alla magistratura un potere estremamente invasivo. E in un formidabile saggio scritto anni fa dal professor Filippo Sgubbi, ex docente di Diritto penale all’Università di Bologna, oggi scomparso, si notò un fenomeno interessante. Drammatico. Quando il diritto penale, scriveva Sgubbi, diventa uno strumento per affermare una certa idea di etica pubblica dove le vestali della giustizia, i magistrati e i giudici, “perdono la loro tipizzazione classica per assumere un profilo diverso sempre meno tecnico e sempre più politico”. Dove “le presunzioni sostituiscono le verità e le narrazioni sostituiscono le interpretazioni”. Dove la morale pubblica si è ormai identificata con il perimetro della incriminazione penale al punto che “ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge”. Un altro esempio per capire di cosa stiamo parlando? Facile: pensate al movimento del #MeToo. “Il movimento #MeToo - ha scritto Sgubbi - ha esteso a dismisura nozioni giuridiche consolidate come il concetto di molestia, ha condizionato di fatto e in modo indebito varie forme di rapporti intersoggettivi e di ruolo sociale, ha ribaltato inevitabilmente il canone dell’onere della prova. Anzi, reclama l’irrilevanza delle prove e perfino dell’accertamento giudiziale di un fatto, con la sfrontatezza di chi ritiene che sia sufficiente soltanto la parola della sedicente vittima per scatenare effetti sanzionatori sul preteso colpevole. La salvezza dell’incolpato è impossibile: insignificante fornire la prova contraria e, di fronte a questo nuovo Sant’Officio, anche l’abiura e il pentimento sono privi di effetti”. Il magistrato è un uomo. Ha idee. Ha opinioni. Gli si può chiedere di non esprimerle in pubblico. Ma non si può evitare che la presenza di alcuni reati vaghi spinga il magistrato ad avere un ruolo che non gli dovrebbe competere. Trasformare un comportamento in un reato, per esempio. E far sì che i giudici quando scrivono le sentenze si sentano a volte più simili agli editorialisti che ai magistrati. Non perché i magistrati vogliano fare necessariamente gli scrittori (non tutti almeno) ma perché ai magistrati negli anni è stata concessa dalla politica la possibilità di mettere la loro visione del mondo a servizio più della Verità che della Legalità. E il loro potere discrezionale nasce da qui. Non da una forzatura, o quantomeno non solo da quella, ma da una possibilità oscena che il legislatore ha concesso negli anni: aumentare a dismisura i reati vaghi per coccolare i magistrati offrendo loro più pieni poteri di quelli rivendicati dai leader in mutande in vacanza al Papeete. “Il mio Pd sia garantista e sostenga l’abolizione dell’abuso d’ufficio” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 23 luglio 2023 Parla Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore dei primi cittadini dem: “Una vittoria per chi lo chiedeva da anni”. ll sindaco di Pesaro e coordinatore dei primi cittadini dem, Matteo Ricci, sull’abuso d’ufficio spiega che “ora il Parlamento dovrà colmare le contraddizioni e i vuoti normativi che si apriranno” ma la sua abrogazione nel ddl Nordio “è un passo avanti, una vittoria per chi lo chiedeva da anni”. E vede la morte di Silvio Berlusconi come la fine di un’era. “Ora la destra deve smettere di attaccare la magistratura - dice - e nella sinistra si deve aprire un ragionamento per un approccio maggiormente garantista perché in questi anni siamo stati giustizialisti con i nostri e garantisti con gli altri”. Sindaco Ricci, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il ddl Nordio sulla giustizia, che contiene anche l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Pensa che arriverà “sano e salvo” al termine dell’iter parlamentare? Da dieci anni i sindaci chiedono una riforma radicale dell’abuso d’ufficio, ed evidenziano a ogni governo l’assurdità di questo reato, che nel 97 per cento dei casi si chiude con archiviazione o assoluzione. Per gli amministratori l’abolizione è una vittoria, ora il Parlamento dovrà colmare le contraddizioni e i vuoti normativi che si apriranno, ma intanto è un passo avanti, una vittoria per chi lo chiedeva da anni. Lei parla dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio come di una vittoria dei sindaci, ma in molti nel suo partito non sembrano essere d’accordo, compresa la segretaria Schlein: c’è margine perché il partito si intensti senza pregiudizi la battaglia garantista? Sicuramente la morte di Berlusconi ha chiuso un’era. Ora, da una parte la destra deve smettere di attaccare la magistratura perché il nostro sistema è basato su un equilibrio di potere e se c’è conflitto tra esecutivo e giudiziario la nostra democrazia si indebolisce. Dall’altra la sinistra si deve aprire un ragionamento per un approccio maggiormente garantista. In questi anni siamo stati giustizialisti con i nostri e garantisti con gli altri. Il Pd nelle ultime settimane si è spaccato su diverse questioni, dal voto Asap al Parlamento europeo fino all’emendamento Magi sulla surrogata, preferendo l’uscita dall’Aula. Crede che sul ddl Nordio ci siano gli stessi rischi di spaccatura nel partito? Il Pd è un partito plurale e su alcuni temi bisogna lavorarci molto per arrivare a posizioni condivise. Sui temi della giustizia e della semplificazione nella pubblica amministrazione ci sono da anni differenze dentro il Pd tra una parte del gruppo parlamentare e gli amministratori. Serve una discussione generale sulla linea da tenere. Io credo che dobbiamo essere una forza davvero garantista. Uno dei problemi potrebbe arrivare dal diritto comunitario, visto anche il parere approvato in commissione da governo e terzo polo contro la direttiva anticorruzione Ue, la quale prevede anche norme sull’abuso d’ufficio. Come dovrebbe muoversi il Pd? Sicuramente la direttiva europea è un problema da affrontare. Credo che il Pd dovrebbe almeno proporre una riforma davvero radicale del reato d’abuso di ufficio, ottenendo lo stesso risultato ma correggendo ciò che si può. C’è molta polemica anche sulle parole legate al concorso esterno dette dal ministro Nordio, accusato di essere “troppo poco politico” e in sostanza di fare spesso il passo più lungo della gamba. Condivide? Aver messo nella discussione il concorso esterno rispetto alla mafia è stato sicuramente un errore, perché ha aperto una discussione su un tema sul quale tutta la politica deve essere unita e non si deve dividere di fronte alla lotta alla mafia ed è quantomai indispensabile tenere sempre la guardia alta. In generale spesso le dichiarazioni di Nordio danno l’idea di una destra che vuole ribaltare il gioco e prendersi le proprie rivincite, dopo anni in cui è stata sotto schiaffo della magistratura. È un atteggiamento pericolosissimo e la Meloni deve avere la forza di mettere in un cassetto questo aspetto, perché crea un danno al paese e alla sua tenuta democratica. Sequestro del cellulare equiparabile a una intercettazione telefonica: come potrebbe cambiare la legge di Paolo Pandolfini Il Riformista, 23 luglio 2023 Il sequestro di uno smartphone non è un sequestro come tanti altri essendo, di fatto, equiparabile ad una “intercettazione” telefonica. All’interno dello smartphone, infatti, sono normalmente contenute le chat attraverso i vari social che consentono di ricostruire, anche a distanza di tempo, le conversazioni intercorse fra il possessore dell’apparato e altri soggetti. Per colmare questa lacuna, la leghista Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia del Senato, ed il senatore forzista Pierantonio Zanettin, hanno presentato un disegno di legge che interviene sulla disciplina del sequestro di tali apparati, introducendo l’articolo 254 ter del codice di procedura penale (sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali). Il sequestro degli smartphone, contenendo dati altamente sensibili, “dovrebbe essere circondato da garanzie al pari delle intercettazioni e la selezione dei loro contenuti dovrebbe essere assistita da un contraddittorio tra le parti per decidere cosa sia rilevante a fini processuali, anche in relazione alla conservazione dei dati nell’archivio digitale delle intercettazioni”, affermano Bongiorno e Zanettin. La Cassazione, con la sentenza numero 17604 del 2023, ha stabilito riguardo al sequestro di tali dispositivi la illegittimità, per violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza, in caso di mancata indicazione “di specifiche ragioni a un’indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute”. L’autorità giudiziaria, con la nuova disposizione, deve indicare le ragioni che rendono necessario il sequestro “in relazione al nesso di pertinenza fra il bene appreso e l’oggetto delle indagini”, specificando le operazioni tecniche da svolgere sullo smartphone e i criteri che verranno utilizzati per selezionare, nel rispetto del principio di proporzione, i soli dati effettivamente necessari per il prosieguo delle indagini. Se vi è il sospetto che il contenuto dei dispositivi possa essere cancellato, alterato o modificato, l’autorità giudiziaria deve impartire le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne a chiunque l’analisi e l’esame sino all’espletamento, in contraddittorio con gli interessati, delle operazioni di selezione dei dati. Si procede, quindi, con la duplicazione integrale dei dispositivi su supporti informatici mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità. Entro cinque giorni dal sequestro, il pubblico ministero deve avvisare la persona sottoposta alle indagini, la persona alla quale la cosa è stata sequestrata, la persona alla quale la cosa dovrebbe essere restituita e la persona offesa dal reato e i relativi difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissato per l’affidamento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici. Sulle eventuali questioni concernenti il rispetto dei principi di necessità e di proporzione nella selezione dei dati, il pubblico ministero decide entro 48 ore con decreto motivato. Entro le 48 ore successive, il giudice per le indagini preliminari, con decreto motivato, convalida in tutto o in parte il provvedimento del pubblico ministero, eventualmente limitandone gli effetti solo ad alcuni dei dati selezionati, ovvero dispone la restituzione del dispositivo e della eventuale copia informatica nel frattempo realizzata. La memoria del G8 tra processi e troppi punti interrogativi di Mario Di Vito Il Manifesto, 23 luglio 2023 Un altro mondo era possibile. Chiusa a marzo la storia giudiziaria sui fatti di Genova, ma il resto dei fili resta confuso. Alcuni anniversari sono più uguali di altri. Il ventiduesimo del G8 di Genova, per esempio, si distingue perché è il primo che si celebra senza che qualcuno sia in carcere o sotto processo per le manifestazioni di quei giorni. La storia è finita lo scorso marzo, quando la procura di Lione ha annunciato la sua intenzione di non ricorrere in Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di non estradare in italia Vincenzo Vecchi, l’ultimo reduce sul quale pendeva ancora una condanna a dieci anni. La memoria giudiziaria del G8 e delle sue giornate ha così trovato una sua conclusione, ma il resto dei fili resta confuso in una sequenza disordinata di udienze, carte investigative, interrogatori, sentenze. Il filone principale contro i manifestanti è stato il cosiddetto “processo ai 25”. L’indagine, cominciata già nell’estate del 2001, mirava a identificare quanti più manifestanti da mettere insieme in un calderone giudiziario protetto dalle insegne del reato di devastazione e saccheggio, eredità del diritto penale fascista senza eguali nei codici dei paesi democratici. È che per un’indagine su tafferugli e scontri calza a pennello: per essere accusati di una cosa del genere, infatti, non occorre necessariamente aver devastato o saccheggiato, ma basta essere stati presenti mentre altri lo facevano. Fu così che venne dato mandato alla polizia di tutta l’Italia di identificare il maggior numero possibile di volti dai video e dalle foto a disposizione. Per la procura di Genova, c’era un grande disegno alla base dei disordini avvenuti per le strade del capoluogo ligure: una parte dei manifestanti, infatti, avrebbe approfittato delle violenze commesse da altri e, dunque, andava considerata corresponsabile davanti alla legge. In un anno e mezzo di lavoro si arrivò così a quaranta nomi e, il 4 dicembre del 2002, si riuscì a procedere con 23 arresti. L’indagine però non era ancora finita e agli atti vennero messe diverse intercettazioni effettuate in carcere, con la chiusura del fascicolo che arriverà solo nel giugno del 2003. Il processo di primo grado comincerà poi il 2 marzo del 2004 e tirerà avanti fino al dicembre del 2007. In questo arco di tempo le udienze si sono consumate per lo più a colpi di testimonianze delle forze dell’ordine presenti all’epoca dei fatti e tanti tanti video. Il conto alla fine fa 110 anni di carcere per 24 imputati (su 25 richieste di condanna): dieci persone condannate per devastazione e saccheggio, tredici per danneggiamento e uno per lesioni. Gli atti di alcune testimonianze di poliziotti e carabinieri vengono inoltre trasmessi ai pm perché valutino un’accusa di falsa testimonianza, ma non ne seguirà niente. Il processo d’appello va in scena nell’ottobre del 2009 e in quindici vengono prosciolti, un po’ per intervenuta prescrizione e un po’ perché una carica dei carabinieri (quella famosa di via Tolemaide) viene giudicata illegittima e, di conseguenza, la reazione della piazza fu legittima difesa. Per i dieci condannati residui, però, le pene vengono aumentate: 98 anni e 9 mesi in totale. Nell’estate del 2012, infine, la Cassazione conferma il reato di devastazione e saccheggio per tutti gli imputati, conferma due delle condanne dell’Appello, sconta qualche mese ad altre tre, ne annulla senza rinvio una e ne rimanda cinque alla Corte di Genova perché rivaluti l’attenuante di aver agito “per suggestione di una folla in tumulto”, con l’entità della pena che verrà poi rivista al ribasso. Così comincia la caccia ai condannati: nel 2013 Francesco Puglisi viene arrestato in Spagna ed estradato, nel 2017 c’è l’arresto in Svizzera di Luca Finotti, l’8 agosto del 2019, in Francia, è la volta di Vincenzo Vecchi, che però vince tutti i ricorsi contro la sua consegna all’Italia. C’è poi un altro processo di certo meno famoso di quello ai 25 ma non meno importante: l’inchiesta contro il “Sud Ribelle”, cominciata nel 2000 e poi fiorita dopo i tafferugli avvenuti prima al global forum di Napoli del marzo 2001 e poi al G8 di Genova qualche mese dopo. Le accuse, tutte a base di associazione sovversiva e associazione terroristica, portarono all’arresto di 20 persone il 15 novembre del 2002. A processo ci andranno in tredici: tutti assolti in primo grado nel 2008, in Appello nel 2010 e in Cassazione nel 2012. Per quello che riguarda l’operato delle forze dell’ordine, definito ben oltre i limiti della legalità e dell’uso legittimo della forza da Amnesty International e pure dal parlamento europeo, i procedimenti giudiziari sono stati molto meno tortuosi di quelli contro i manifestanti. Poche condanne, nessuna di queste da considerare pesante o esemplare, e tanta gente che ha fatto carriera, come se a Genova non fosse successo nulla. Anzi, come se a Genova fosse andato tutto bene, talmente tanto da distribuire premi per l’eccellente condotta. E se alcuni stati processati (e anche condannati) per il massacro della scuola Diaz e le torture della caserma di Bolzaneto, quanto accaduto il pomeriggio del 20 luglio in piazza Alimonda a Genova non è mai arrivato in un’aula di giustizia. Un’inchiesta, per la verità, c’è stata pure, ma, dopo aver tirato in ballo tre manifestanti per tentato omicidio, i due carabinieri presenti nel Defender da cui partì il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani sono stati archiviati il 5 maggio del 2003. Mario Placanica, l’ausiliario che sparò il colpo mortale, verrà chiamato a testimoniare al processo contro i 25. Ma non risponderà mai ad alcuna domanda. Lombardia. Arriva in carcere la meditazione per detenuti e agenti: ascoltarsi per migliorare di Zita Dazzi La Repubblica, 23 luglio 2023 I corsi sono realizzati con i fondi 8 per mille dell’Unione Buddhista Italiana e vengono tenuti nei penitenziari di Lodi, Bollate, Monza e Pavia. Chi ha commesso un reato, in carcere, ha tutto il tempo per meditare sulle sue responsabilità e, alla fine per cercare di cambiare in meglio. E’ proprio il concetto che è alla base della filosofia buddhista che propone lo strumento della meditazione come percorso di sviluppo personale e di conoscenza di sé. Da qui l’idea di portare in 15 penitenziari italiani, fra i quali quattro in Lombardia, educatori capaci di insegnare quella pratica che dona una consapevolezza maggiore e uno scioglimento delle tensioni emotive e psicologiche. L’associazione Lpp (Liberation prison project) Italia offre quindi percorsi di consapevolezza all’interno delle carceri principalmente alle persone detenute, ma anche al personale (come educatori e agenti di polizia penitenziaria), a ex-detenuti e familiari. Un’attività realizzata grazie ai fondi 8 per mille dell’Unione Buddhista Italiana e basata sulla convinzione che anche nei luoghi di detenzione è possibile lavorare sul piano dell’introspezione e della trasformazione di sé, sul proprio “essere umano”. L’associazione è nata nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa di una monaca buddhista e si ispira alla filosofia buddhista quale straordinario mezzo di studio della mente, ma i percorsi - di gruppo e individuali - sono del tutto laici e riguardano l’allenamento alla consapevolezza, ovvero la centratura della mente nel “qui e ora”, l’ascolto di sé stessi, con presenza non giudicante. In Italia sono arrivati nel 2009 e ora sono sbarcati anche a Milano-Bollate e negli altri istituti dei capoluoghi lombardi. Gli operatori che conducono i percorsi di consapevolezza hanno concluso la loro formazione specifica ma sono anche addestrati per praticare dentro a quella realtà particolare che è il carcere, avendo costruito un dialogo con la direzione penitenziaria, la popolazione detenuta, i funzionari e gli agenti di polizia penitenziaria. Oggi gli operatori attivi sono in tutto 22, e tengono gruppi settimanali composti da 10-15 persone. “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati. Gli operatori, insomma, sono dei guerrieri di compassione” commenta Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia. Il percorso, fanno notare i promotori, va nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e ha tra gli obiettivi quello di contribuire a generare ambienti più pacifici, dentro e fuori dal carcere. Sardegna. La farina non ha capacità esplosive, reintrodotta nelle carceri cagliaripad.it, 23 luglio 2023 Il magistrato di sorveglianza di Nuoro ha però posto dei limiti all’acquisto: ogni cella potrà disporre di una confezione da un chilo di farina e una bustina di lievito ogni due settimane. “Le conclusioni della perizia del Nucleo artificieri del Comando provinciale dei carabinieri di Nuoro, potranno consentire al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di revocare il divieto dell’uso della farina e del lievito nelle carceri della Sardegna, in modo da evitare interpretazioni contrastanti”. Così Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti Riforme al Provveditore regionale Maurizio Veneziano con riferimento all’esito dell’esame chimico che ha escluso, salvo particolari condizioni, la capacità esplosiva della farina in commercio per confezionare pane, pasta e pizza. “Nel reinserire farina e lievito nell’elenco dei prodotti del sopravvitto - osserva Caligaris - il magistrato di sorveglianza di Nuoro Marco Bravaccini pone dei limiti all’acquisto, stabilendo che ogni cella potrà disporre di una confezione da un chilo di farina e una bustina di lievito ogni due settimane ed escludendo che i prodotti possano essere introdotti dall’esterno. Due aspetti che rispecchiano l’esigenza di garantire il rispetto della sicurezza all’interno dell’istituto”. “Confidando nella sensibilità del Provveditore Veneziano, che conosce bene la realtà degli istituti penitenziari isolani e la necessità di offrire a tutte le persone private della libertà un uguale trattamento, auspichiamo che disponga con immediatezza una nuova circolare con revoca del precedente dispositivo del 2016. Un atto che sarà particolarmente apprezzato non solo dalla popolazione detenuta ma anche - conclude l’esponente di SDR - dai volontari”. Napoli. Detenuto 71enne malato terminale, in attesa della decisione del giudice muore in carcere retesei.com, 23 luglio 2023 Un detenuto di 71 anni, Camillo Corallo, è morto nel carcere di Poggioreale: “Era malato terminale, da un mese attendeva una decisione del giudice per poter uscire e morire dignitosamente”. A sollevare il caso è il garante dei reclusi della Campania, Samuele Ciambriello, che ha incontrato i familiari del detenuto. “Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per ‘cause naturali’ nelle carceri italiane. Raramente i giornali ne danno notizia. A volte la causa della morte è l’infarto, anche difficilmente prevedibile. Altre volte sono le avvertenze di un malanno trascurato o curato male e arriva al termine di un lungo deperimento, dovuto a malattie croniche, o a scioperi della fame”, ricorda Ciambriello. Il garante sottolinea che “I tribunali valutano in maniera molto disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate (art. 146 e art. 147 cp) e, spesso, la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la malattia che lo debilita. O come nel caso di Camillo Corallo non arriva dopo un mese”. Firenze. Nell’inferno di Sollicciano: celle luride e roventi, detenuti senza speranza di Gaia Tortora La Nazione, 23 luglio 2023 Non mi era mai capitato di imbattermi in un numero così alto di detenuti con problemi psichici, caratteriali, borderline. Ogni volta che entro in un penitenziario per una visita riesco a scambiare qualche parola di riflessione, di vita, di rinascita con i detenuti e le detenute. Non questa volta, non nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Uomini rinchiusi dentro a celle fatiscenti, alcuni imbambolati, altri arrabbiati, uno lascia il cibo fuori dalla cella, è in sciopero della fame. Al femminile va un pochino meglio, le stanze sono abbellite da un tocco rosa, ma sono piccole e calde, caldissime. Se fuori fanno 42 gradi, fermatevi a pensare cosa voglia dire stare dentro senza aria, con pochi ventilatori che smuovono solo aria bollente (e questo vale anche per gli agenti che lavorano nelle stesse stanze fatiscenti). In questo racconto troverete i numeri, ma non sono i numeri il problema, non il principale, non questa volta. Questo è il viaggio all’inferno tra un’umanità malata e rinchiusa in un penitenziario che non ha dignità. Un ex detenuto mi mostra le braccia piene di cicatrici. Quelle stesse braccia che ho visto penzolare attraverso le grate e mi dice “se non ti tagli o non cerchi di impiccarti lì non risolvi niente, nessuno ti ascolta”. Attualmente i reclusi sono poco meno di 500, 225 al giudiziario, 107 al penale, 47 in infermeria, 8 in Atsm (Area di trattamento di salute mentale), 49 donne e nessun bambino. E questa è l’unica buona notizia. Ma i numeri sono persone, cattive o buone non esiste una seconda possibilità a Sollicciano, nonostante gli sforzi della direttrice Antonella Tuoni e degli educatori (8 e un mediatore culturale) e degli stessi agenti (340) costretti ogni giorno ad ingaggiare una lotta psicologica per evitare gesti pericolosi per i detenuti e per loro stessi. Le persone con disturbi psichici sono terribilmente in aumento in tutti i penitenziari, ma a Sollicciano tutto si scontra con una struttura fatiscente, indegna per un paese civile. Gli scarafaggi passeggiano nei corridoi, sporcizia, infiltrazioni, umidità, cedimenti strutturali, intonaco che si sbriciola rendendo anche più facile il ‘lavoro’ di chi preso dalla rabbia devasta la cella. Cammino per i lunghi corridoi a forma di giglio (nelle intenzioni di chi l’ha costruito doveva rappresentare il simbolo di Firenze, il giglio appunto) accompagnata dalla direttrice e dal comandante. Il 70% dei reclusi sono stranieri, giovani, con cumuli di pena per reati spesso legati alla droga, tempo medio di permanenza 3/4 anni per loro. Incrocio una donna su una sedia a rotelle con evidenti problemi di deambulazione. Chiedo: “Come fa a letto? Dovrebbe avere un alzamalati, un letto adatto con le sponde”. Domanda inutile, risposta scontata: “È il carcere, la burocrazia, le richieste”. Gli spazi comuni o di socialità non esistono se non un bellissimo Giardino degli incontri dove il dentro e il fuori possono mescolarsi anche per piccoli eventi ma non è così semplice, né frequente. Gli spazi comuni sono i passeggi. Alcune aree sono in ristrutturazione. K. è l’unico toscano che ho incontrato. Ma non è un uomo. È un animale chiuso in una caverna buia. K. ha una cinquantina di anni, da più di due passa da una cella all’altra come fossero stanze di albergo. K. ha seri problemi psichici, oggi è in versione ‘cucciolo’ (in buona) ma quando esplode distrugge, allaga la cella e persino dà fuoco. Così oggi ‘cucciolo’ chiede di essere spostato alla 15. Un uomo ridotto ad animale che nulla potrà ottenere di meglio in quelle condizioni. Quello non dovrebbe essere il suo posto. Riprendo il cammino e penso a quanto ci siamo giustamente indignati per Zaki nelle carceri egiziane, ma credetemi qui l’Egitto lo abbiamo in casa. Però a nessuno importa. Qui, quando arriva lo psichiatra, spesso dice che il soggetto è normale e così la partita si chiude. Ci spostiamo, altra sezione. Ci avvertono che L. è nervoso, urla da stamattina, forse è meglio non entrare. La direttrice inizia a parlargli, lo conosce bene, sono anni che è a Sollicciano, entra, esce, ritorna... . L. non si fida. È arrabbiato. Anche lui ha le braccia tagliate. Chiede una cella pulita una scopa e una ramazza, ce l’ha con tutti. La direttrice non ha paura e la chiave è proprio questa. L. tira fuori un pezzo di ceramica dalla tasca e la allunga alla direttrice. È il segnale, quel gesto vuol dire ‘mi fido’. Le porte si aprono, entriamo e L continua il suo monologo disperato. Ancora celle sporche, odore di vomito, pareti lerce, volti con lo sguardo lontano. Di solito, quando in carcere si effettua una visita, i detenuti chiedono sempre chi sei e ti consegnano le loro parole cariche di speranza. Ecco a Sollicciano non esiste più neanche la speranza. Sollicciano è la nostra indifferenza, la nostra impotenza, la nostra sconfitta. La nostra vergogna. Modena. Garante diritti persone senza libertà: domani l’elezione in consiglio comunale modena2000.it, 23 luglio 2023 L’elezione del Garante per il Comune di Modena dei diritti delle persone private della libertà personale è tra i temi principali dell’ultima seduta, prima della pausa estiva, del Consiglio comunale di Modena, in programma lunedì 24 luglio, in cui verranno presentati anche gli studi di fattibilità su trasporto pubblico locale e Hub intermodale, nell’ambito del Piano urbano della mobilità sostenibile (Pums). La seduta inizia alle 15 direttamente con l’appello, in quanto non sono previste interrogazioni. Segue la discussione di quattro delibere tra cui, appunto, l’elezione del Garante per il Comune di Modena che opererà (per cinque anni) per i diritti dei detenuti e per chi è privato o limitato nella libertà personale. Le tre candidate al ruolo sono la criminologa Giovanna Laura De Fazio, 59 anni, docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, autrice di numerosi studi anche sulle carceri e sull’ordinamento penitenziario; l’attivista Alice Miglioli, 39 anni, impegnata nel comitato “Verità e giustizia per i morti di Sant’Anna” e nello Sportello detenuti e familiari dei detenuti, laureata in Lettere e diplomata in Archivistica; l’ex funzionaria della Ragioneria generale dello Stato Grazia Prampolini, 70 anni, laureata in Economia, già revisore dei conti per enti pubblici, impegnata in associazioni di volontariato. Napoli. “Lo skateboard è una cura, sogno un’Academy affinché nessuno faccia i miei errori” di Rossella Grasso L’Unità, 23 luglio 2023 “Nello Skateboard trovo la mia massima espressione di libertà, quando salgo sulla tavola mi sento veramente libero. Sfoghi e canalizzi tutto il carico che ti porti addosso nella vita, è come una cura”. Ed è proprio dallo skateboard che Gianluca Foti, 33 anni, è ripartito. Il progetto che porta avanti con altri ragazzi si chiama “Clean Clean skateboard Academy” e vuole costruire una realtà che non è solo un posto fisico ma un luogo di unione dove si pratica non solo lo sport, dal 2020 inserito tra le discipline olimpioniche, ma anche tutto ciò che è connesso ad esso e alla sua filosofia come il videomaking, la grafica, la fisioterapia e l’allenamento. “Voglio solo che chi rischia di ricadere nei miei stessi errori non ci cada - dice Gianluca - E se stiamo insieme, creiamo un ambiente dove si condividono le passioni, ognuno si sente compreso, questo non succede”. E quanti ragazzi a Napoli si vedono in giro nelle piazze a praticare skateboard senza però avere strutture organizzate? Dal sogno dello skate al carcere - Gianluca è un ragazzo di Napoli, nato e cresciuto nel quartiere Pianura. Il primo amore per lo skatebord ad appena 12 anni quando dietro a un campetto da basket vide un gruppo di ragazzi saltare e fare acrobazie sulla tavoletta con quattro ruote. “Capì che era quello che volevo fare anche io assolutamente”. Così la nascita di un sogno: “Vedevo di avere le potenzialità, volevo farne il mio lavoro, la mia vita. Davvero credevo di poter fare di quella mia passione il mio futuro. Ma avevo molte cose contro e non ero compreso fino in fondo come forse ancora oggi molti ragazzi di Napoli che vogliono praticare lo skate in maniera professionale ma non sono presi sul serio. Poi oggi come allora non ci sono le strutture adatte. E non per tutti è facile recuperare i soldi per partecipare a competizioni importanti. È capitato anche a me quando ero ragazzo. Trovatomi di fronte a tante difficoltà e incomprensioni, in un contesto complicato, sono caduto nelle droghe e così sono cominciati i casini”, racconta Gianluca. “Forse era la via più facile, così com’è anche per la criminalità: entrare in un contesto criminoso è più semplice di entrare in un contesto lavorativo. Non per tutti è facile dire no. E quella vita mi ha portato ad allontanarmi dal mio sogno”. Furono quelli anni tremendi per Gianluca, che si era perduto in un contesto che non gli apparteneva. La sua mamma è sorda e sin da piccolo ha sviluppato una sensibilità fuori dal comune, un’attenzione per i dettagli e ogni piccolo movimento che gli fa comprendere tante cose soprattutto delle persone. Confuso e smarrito quando aveva 19 anni ha commesso un reato. Condannato a 16 anni di carcere, ne ha scontati 13 per buona condotta. Quando è uscito aveva 32 anni. Fortemente deciso a non gettare via quel tempo sospeso, si è messo a studiare: Prima il diploma di terza media, poi il liceo, ha portato a termine il percorso di studi all’interno del carcere, compresa l’Università. “Non sono state le mura a cambiarmi - dice - Ma la cosa positiva è stata che ho capito che era importante studiare e leggere. Così ‘evadevo’ dal carcere. Mi immergevo in storie che mi portavano via da lì, ero libero”. Il percorso di studi in carcere e il paradosso del reinserimento - Gianluca ama leggere e così ha deciso di iscriversi anche all’Università, al corso di Laurea in Lettere Moderne. “In carcere ho fatto 8 esami nel Polo Universitario dell’Istituto - continua il racconto - Avrei anche continuato dopo, ma una volta uscito non mi è stato possibile. Mi è molto dispiaciuto”. E qui Gianluca spiega un paradosso del sistema del reinserimento della Giustizia italiana: “Quando ero in misura alternativa mi veniva complicato andare avanti e indietro da casa al penitenziario per continuare gli studi: materialmente non avevo i soldi per comprare il biglietto e chiedere a casa i soldi a 30 anni non mi andava. Paradossalmente rischiavo già così di infrangere la legge, prendendo l’autobus senza biglietto. Ho dovuto così mollare l’Università per mettermi a lavorare. Non è stato semplice nemmeno trovare un lavoro da ex detenuto. Alla fine ho iniziato a fare volontariato. Avevo davvero tutti i migliori propositi per riprendermi la mia vita in mano, andare avanti, soprattutto per i miei cari. Ma non è stato affatto facile. A volte mi sembrava che mancasse proprio l’interesse da parte dello Stato a reinserire nella società le persone che hanno sbagliato e anche pagato. Ho visto programmi stilati dall’area educativa anche per altri ragazzi che erano in carcere con me, che non erano fattibili praticamente. Ho visto in carcere ragazzi che dovevano spendere molti soldi per raggiungere il posto di lavoro che poi magari era volontariato o il cui compenso era esiguo. E questo poi li ha portati a commettere ancora reati”. E chissà se dopo tanta sofferenza in carcere, se avessero potuto, avrebbe scelto di nuovo quella strada. Gianluca ha scontato tutto quello che doveva, ha saldato il suo debito con la Giustizia, 12 anni in carcere e uno in semilibertà. Anche in carcere continuava a pensare allo skateboard, anche se non poteva praticarlo. Si è anche tatuato un piccolo skate sul braccio. “Quando sono uscito subito sono risalito sulla tavola”. Tanto è bastato per riaccendere in lui il sogno e ricominciare da dove aveva lasciato. “Ho visto che negli anni nulla era cambiato: il Centro Direzionale restava la nostra unica skate plaza anche se è una colata di cemento nel nulla. Non abbiamo strutture e pratichiamo uno sport olimpionico senza alcuna tutela o sicurezza. E non so perché ma nessuno continua a crederci in questo potenziale. Ho riallacciato i rapporti con i miei amici con cui condividevo la passione, qualcuno si era allontanato ma io l’ho convinto a tornare. E ora penso al nostro progetto che si chiama ‘Clean Clean Skateboard Academy’ che intende creare una realtà nuova a Napoli. Può essere una bella situazione che dà un posto a molte persone vicine a questo mondo: oltre a chi pratica lo skateboard, penso ai videomaker, ai fotografi. La immagino come una struttura al chiuso che permetta di svolgere tutte le attività che riguardano lo skateboard, anche palestra, fisioterapia, perché praticando questo sport capita spesso di farsi male anche. A breve abbiamo intenzione di fondare un’Associazione che ci permetterà di partecipare a dei bandi e mettere su il nostro sogno”. Gianluca sogna un posto dove chi condivide la sua stessa passione possa sentirsi libero di farlo e compreso. Dove tutti i ragazzi di Napoli, anche quelli che si sentono più smarriti e soli, possano trovare punti di riferimento sani come lo sport. Cassino (Fr). Dal carcere alla tesi, il riscatto di Fabio a 60 anni di Elena Pittiglio Il Messaggero, 23 luglio 2023 Lo studio e il lavoro in Comune per ricostruirsi una vita dopo una condanna pesante. Camicia bianca, pantaloni blu e una carica emotiva altissima. Così Fabio (nome di fantasia) si è presentato nell’aula Magna “Federico Rossi” della Folcara, davanti alla commissione presieduta dal professor Francesco Scalia, ex presidente della Provincia ed ex senatore della Repubblica, nonché relatore del candidato. Fabio, nel gruppo di studenti che ieri hanno tagliato il traguardo della laurea a ciclo unico in Giurisprudenza e del corso di laurea triennale in Servizi giuridici per il lavoro, Pa, sport e Terzo settore, è stato il protagonista d’eccezione. Fabio è un uomo di 60 anni con una storia alle spalle pesante. Una vita segnata dal carcere; da una pena detentiva lunga che sta scontando presso la casa circondariale di Cassino per concorso in omicidio di cui si è sempre dichiarato estraneo ai fatti. Fabio, da ieri alle 13, è anche il primo neo dottore dell’ateneo di Cassino e del Lazio meridionale laureatosi durante la detenzione nella casa circondariale. L’abnegazione, la determinazione e la forza hanno fatto in modo che Fabio coronasse il suo sogno, nato in una cella del carcere. Diplomato al Tecnico Commerciale, nel 2019 decide di iscriversi all’università grazie all’apertura del Polo universitario penitenziario Unicas nella casa circondariale. Seguito dalla dottoressa Sarah Grieco, responsabile del Polo in carcere, il 60enne inizia questo nuovo percorso di studi “disturbato” soltanto dalla pausa pandemica. Ieri, alla presenza degli affetti più cari, del direttore del carcere Francesco Cocco e dei vertici accademici ha discusso la tesi sulle Comunità Energetiche Rinnovabili preparata con la cattedra di Diritto amministrativo. La proclamazione in dottore triennale in Servizi Giuridici per le Imprese con la votazione di 95 su 110 è stata accompagnata da un caloroso applauso da parte di tutti i presenti, in particolare del sindaco Enzo Salera, dell’assessore Luigi Maccaro, del consigliere Rosario Iemma e del dirigente ai Servizi sociali Pasqualino Matera. La presenza di parte degli amministratori ha una motivazione precisa. Fabio da un anno presta servizio due volte a settimana negli uffici dell’assessorato ai Servizi sociali. “È un nostro detenuto - sottolinea il direttore Cocco lavorante in art. 21 con un’associazione che collabora con il Comune”. Dopo la proclamazione nell’Aula 002 si è tenuta la seconda parte della cerimonia dedicata a Fabio. La commissione, insieme al rettore Marco Dell’Isola e alla direttrice del Dipartimento di Economia e Giurisprudenza, Enrica Iannucci, in tempi record, gli ha consegnato la pergamena di laurea. Con la voce rotta dal pianto ringrazia tutte le persone che, a vario titolo e in vari modi, gli hanno permesso di completare il percorso di studi. Si tratta di un primo percorso, perché considerata la determinazione sembra che potrebbe arrivare una seconda corona di alloro, la magistrale. È quanto si augura anche Enrica Iannucci quando, nel consegnargli la pergamena insieme al rettore Dell’Isola, gli dice: “Ti aspettiamo per la Magistrale”. “Il nostro neodottore è stato uno dei primissimi iscritti. Non posso nascondere la mia emozione nel vedere come un uomo che, nonostante la lunga pena detentiva che ancora lo aspetta, si è rimboccato le maniche e, grazie allo studio, sta ricostruendo la sua vita e il suo futuro” ha riferito Sarah Grieco. “Per tutti noi è una giornata di festa” ha commentato il sindaco Salera. Pisa. Pet therapy nel carcere: così i detenuti addestrano i cani di Francesca Romana Ajale nonsprecare.it, 23 luglio 2023 Un progetto della Fondazione Don Bosco in collaborazione con l’associazione DoReMiao. I carcerati sviluppano utili competenze e creano relazioni. Il progetto di Pet therapy, realizzato dalla Fondazione Don Bosco in collaborazione con l’Associazione DoReMiao nella Casa Circondariale di Pisa, offre ai detenuti l’opportunità di addestrare i cani e di contribuire alla loro riabilitazione e al loro reinserimento nella società. L’addestramento dei cani nel carcere di Pisa offre ai detenuti un’opportunità concreta di riscatto e di reinserimento nella società. I cani addestrati possono essere utilizzati come cani da assistenza per persone con disabilità, ma anche come cani antiproiettile per le forze dell’ordine. Il progetto ha un impatto positivo sulla vita dei detenuti coinvolti, ma anche sulla vita dei cani addestrati. Grazie all’addestramento, i cani diventano più socievoli e imparano a svolgere compiti utili per la società. Il mondo del carcere è fortemente deprivato di emozioni. L’ingresso dei cani è sempre una festa per i detenuti. Le due ore a settimana che i detenuti possono trascorrere con i cani passano molto velocemente. L’obbiettivo però è quello di fare in modo che l’esperienza serva a mantenere il legame con la parte di sé propositiva e affettivamente genuina. Inoltre molti istituti di pena in Italia stanno riscontrando i benefici di tale scelta finalizzata a ridurre il rischio di recidività da parte del detenuto, una volta rientrato nella società. I nostri anziani fragili e soli. Facciamo subito qualcosa di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 23 luglio 2023 Per assicurare la dignità delle persone di età avanzata, e non solo l’assistenza quando la salute comincia a cedere, sono necessari una presa di coscienza individuale e un salto culturale. Le immagini del funerale delle sei vittime dell’incendio nella “Casa dei coniugi”, in un Duomo di Milano semideserto, hanno suscitato una profonda tristezza. E non solo per quelle vite perdute ma anche per la teatrale rappresentazione del senso di solitudine che pervade l’esistenza di molti anziani. In una società, che purtroppo invecchia sempre di più, il crescere della fragilità si accompagna alla perdita della dignità, alla cancellazione della cittadinanza. Ed è intollerabile, specie dopo la tragedia del Covid. Il numero degli anziani non autosufficienti è ormai di tre milioni. Crescerà a dismisura come effetto della diffusione delle malattie croniche legate all’età. Non è una previsione, è una certezza. Carlo Maria Martini sosteneva che, negli ultimi anni della nostra esistenza, diventiamo tutti mendicanti. Abbiamo sempre più bisogno degli altri. A patto che ci siano, però. Una società civile non dovrebbe far sentire gli anziani dei mendicanti. A maggior ragione se hanno una condizione economica disagiata, vivono soli e lontani dai parenti (spesso assenti). A Milano - ma l’esempio vale per altre città e paesi - la metà dei nuclei familiari è composta da un’unica persona, spesso molto avanti con l’età. Sul piano più generale dell’assistenza agli anziani, il 21 marzo è stata approvata dal Parlamento, una legge delega. Vi hanno proficuamente collaborato 59 associazioni aderenti al Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza. La riforma dovrà essere finanziata (ci vogliono a regime dai cinque ai sette miliardi l’anno) con la prossima manovra di bilancio. La strada è giusta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede che entro il gennaio prossimo vengano emanati i decreti attuativi. L’amara realtà è che della riforma ci siamo già dimenticati. Le priorità sono altre. Per assicurare la dignità dell’anziano, la piena consapevolezza e l’esercizio in libertà dei propri diritti, e non soltanto l’assistenza quando la salute comincia a cedere, sono necessari una presa di coscienza individuale e un salto culturale. In altri Paesi europei, con una condizione demografica migliore di quella italiana, esiste il mandato di protezione per futura incapacità, previsto peraltro da una convenzione internazionale dell’Aia del 2000, che noi non abbiamo ancora ratificato. Esistono è vero, nel nostro ordinamento, misure pubblicistiche come la tutela e la curatela, ormai in disuso, e la nomina da parte di un giudice di un amministratore di sostegno. Ma ciò avviene quando ormai l’anziano ha perso la propria capacità cognitiva. Non decide lui, decide e non sempre con la tempestività necessaria, un giudice per lui. Meglio pensarci prima. Come? Nominando un mandatario che si occupi - un po’ come avviene con il testamento biologico o la legge del “Dopo di noi” per i disabili gravi - dei propri averi e delle necessità contingenti. Ma solo nel momento in cui il mandante non potrà più farlo. Il mandatario è una persona (anche giuridica) di fiducia, un professionista, non necessariamente un familiare. Non interferisce nei diritti degli eredi, casomai li garantisce. Il giudice, in questo caso, sorveglia solamente. Riconoscere la possibilità di un decadimento del proprio fisico e della propria mente è esercizio civile di saggia preveggenza. Rispetta la libertà di autodeterminazione. Contribuisce a togliere la condizione del fine vita e il rischio di un decadimento delle nostre facoltà da quella “zona grigia” del senso comune che oscilla tra superstizione, fatalismo e vergogna di mostrarsi “non più come prima”. Prevenire la fragilità è un gesto di forza. Significa dire agli altri: “Io deciderò di me stesso anche nel caso in cui non sarò più in grado di farlo”. “Viviamo in un Paese - spiega Arrigo Roveda, tra gli autori di una proposta del Notariato in tal senso - nel quale solo l’11 per cento delle successioni è regolato da un testamento. Non ci si pensa. Ma quando si perde la capacità cognitiva chi decide della nostra esistenza? Anche solo per pagare banalmente una badante, per gestire al meglio la casa e la condizione di chi ci vive. A volte, però, ci sono di mezzo imprese, con azionisti e lavoratori”. Roveda è il notaio che ha raccolto il testamento di un anziano e noto signore il cui funerale, nel giugno scorso, ha riempito il Duomo e la piazza. “In altri Paesi, il mandato non solo esiste ma è promosso, incoraggiato, e ciò mette in luce tutto il nostro ritardo culturale - è l’opinione di Pietro Franzina, ordinario di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano - solo in Germania sono già stati registrati 5 milioni e 650 mila mandati. Il paradosso è che noi abbiamo 6 milioni di italiani che vivono all’estero e il loro mandato - se decidono, come accade frequentemente, di sottoscriverlo - non vale nel nostro ordinamento, infliggendo così un danno ingiusto, non solo all’anziano, ma anche a chi gli sta accanto. Purtroppo il decadimento cognitivo conserva da noi una sorta di stigma che porta alla rimozione della realtà. Accettarlo vuol dire affrontare lo scorrere inesorabile degli anni a testa alta, a difesa della propria dignità di persona”. Senza scadere nella dimensione del mendicante di cui parlava Martini o peggio - come ha detto sconsolato nella sua omelia al funerale delle vittime dell’incendio l’arcivescovo Mario Delpini - diventare solo il fascicolo di una pratica. Figli per la patria. Quant’è fasullo quel mito fascista di Franco Corleone L’Espresso, 23 luglio 2023 La costruzione del regime si fonda su miti e menzogne che devono diffondere paura e orgoglio. Un impasto di glorificazione del passato e di accanimento contro stili di vita e comportamenti del presente. Una paccottiglia di mediocre ideologia, legata alla concezione dello Stato etico e all’approvazione di leggi che devono punire il diverso, con l’ambizione di imporre una nuova egemonia culturale. Il decreto anti-rave e la crociata antidroga sono due esempi eclatanti, ma altre scelte del governo Meloni sono ancora più eloquenti per il loro legame con la retorica del fascismo. Il ministero dell’Agricoltura ora è stato ribattezzato con la dizione della Sovranità alimentare, che non può che richiamare teoria e prassi dell’autarchia: almeno il ministro Francesco Lollobrigida potrebbe riconquistare il nome Tocai per il vitigno autoctono costretto, per compiacere l’Ungheria, a chiamarsi Friulano con grave danno d’immagine! Eugenia Roccella, dopo un passato radicale e di militante abortista, è a capo del ministero per la Famiglia e la Natalità. Non ha stupito, quindi, la convocazione degli “Stati generali della natalità” sulla scia dei tanti “Family day” per diffondere l’incubo delle culle vuote. L’invito a fare bambini è pressante, ma ovviamente rispettando le regole tradizionali, pena la cancellazione dei genitori. La campagna per l’incremento demografico della “nazione” sotto il fascismo aveva come motto “il numero è potenza” e nel 1927 fu istituita l’imposta sul celibato. Ancora non è stata ideata la tassa sui single, ci si limita a produrre norme di agevolazione per famiglie numerose. Molti statistici hanno seminato il terrore per le sorti dell’Italia (tra questi l’ex presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo) per il preteso basso numero di nascite; terrorismo che si è tradotto rozzamente nella paventata sostituzione etnica. Come appaiono lontani gli anni Settanta, quando un grande scienziato come Adriano Buzzati Traverso, di cultura laica, sul Corriere della Sera scriveva un’inchiesta su “I figli che l’Italia non può mantenere” e articoli con il titolo “La tessera per avere figli” e “Bisogna evitare un baby boom”. Non era solo a esprimere questa preoccupazione: sulle stesse colonne, Cesare Zappulli icasticamente affermava l’esistenza di “dieci milioni d’italiani di troppo”. La tesi di Buzzati Traverso era che l’Italia aveva una popolazione di 56 milioni di abitanti e, calcolando il territorio montuoso, si manifestava una densità di popolazione assai preoccupante. Elencava i problemi assillanti, dal traffico all’inquinamento, dalla distruzione degli ambienti naturali alla deturpazione delle città, dai conflitti sociali alla violenza nelle case e nelle strade, e poneva l’interrogativo: “È mai possibile che nessuno o quasi si renda conto che se invece di essere 56 milioni fossimo 35, tali problemi non esisterebbero o si presenterebbero in termini ben più facilmente controllabili?”. Davvero stimolante l’appello al governo per promuovere ricerche per stabilire quale potesse essere la popolazione sostenibile per l’Italia senza realizzare un irreparabile scempio. Buzzati Traverso concludeva con l’auspicio che ai cittadini di domani si garantisse un tenore di vita magari inferiore in termini consumistici, ma “più piacevole, umano e compatibile con la libertà”. Migranti, il summit della discordia di Francesco Moscatelli La Stampa, 23 luglio 2023 Oggi a Roma il vertice sull’immigrazione. La premier: “Più cooperazione”. Polemiche le opposizioni per la presenza del leader tunisino Kais Saied. “The Rome process”, la conferenza su Sviluppo e Migrazioni che si svolge oggi alla Farnesina e che rappresenta l’embrione della nuova politica estera euro-mediterranea del governo Meloni, rischia di provocare un duplice effetto boomerang. E questo al di là delle intenzioni della stessa premier che ieri sera, al Tg1, ha spiegato di “voler fermare definitivamente l’immigrazione illegale” e che per farlo “c’è bisogno di cooperazione internazionale”. Ma anche al di là delle risorse, poche o tante si vedrà, che verranno messe sul piatto per raggiungere gli ambiziosi obiettivi del vertice: governare il fenomeno migratorio, contrastare il traffico di esseri umani e promuovere lo sviluppo economico con progetti dedicati ad agricoltura, energia, infrastrutture, educazione, sanità, acqua e igiene. Il primo mattoncino di quel “Piano Mattei” che Giorgia Meloni vuole presentare alla Conferenza Italia-Africa di novembre. Perché se è vero che l’asse Palazzo Chigi-Farnesina è reduce da un periodo di sbandierati successi, la firma del memorandum fra Ue e Tunisi fortemente voluto proprio da Roma e la grazia concessa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi a Patrick Zaki, è altrettanto vero che il vertice in programma alla Farnesina alla presenza di quattro gruppi di partecipanti - i Paesi europei interessati dagli sbarchi (Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro), i Paesi africani (in primis Tunisia, Algeria, Egitto e Libia, ma anche Etiopia e Niger), i Paesi d’area medio orientale e arabica e le istituzioni internazionali (a cominciare dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel) - pone due ordini di problemi. Il primo problema è d’immagine e ha a che vedere con il fatto che i partner accolti come ospiti d’onore a Roma, ovvero il presidente tunisino Kais Saied e il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly, non finiscono di suscitare critiche da parte dell’opposizione e della società civile per il trattamento riservato ai migranti. La foto di una donna morta di sete assieme alla sua bambina alcuni giorni fa in mezzo al deserto libico, dopo essere stata respinta alla frontiera tunisina, è solo l’ultimo e il più terribile degli esempi. Ieri la segretaria del Pd Elly Schlein ha parlato senza mezzi termini di “rapporto cinico” con la Tunisia e di un “approccio che dimentica la violazione dei diritti fondamentali delle persone”. Altrettanto dure le Ong. Ventisette sigle internazionali, dall’Egyptwide for Human Rights ad Amnesty International, si dicono “profondamente preoccupate per le conseguenze sui diritti umani che i partenariati sulla gestione delle frontiere, appena firmati o in via di definizione, tra l’Ue e governi non democratici potrebbero provocare”. Medici senza frontiere sostiene che l’incontro di oggi non è altro che “un’ulteriore tappa nella strategia di esternalizzare a Paesi terzi il controllo delle frontiere esterne dell’Europa”. “Refugees in Libya” e “Mediterranea saving humans”, invece, hanno organizzato un contro-summit allo Spin Lab di Roma per “contrapporre alla narrazione governativa sul Mediterraneo e sull’Africa, basata sul sistematico occultamento della violazione dei diritti umani”. A fare da corollario a queste critiche ci sono quelle sul cambio di atteggiamento di Giorgia Meloni verso le monarchie del Golfo. Da “semplice” leader di Fratelli d’Italia le criticava duramente. Oggi Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Kuwait saranno in prima fila come possibili partner finanziari nello scenario del “Mediterraneo allargato”. Ma fin qui, dicevamo, si tratta soprattutto d’immagine. Il secondo rischio è di natura più politica. E si intreccia con la grande partita del voto europeo del 2024 e con la ridefinizione degli equilibri fra forze politiche e Paesi Ue. “Sarebbe interessante sapere anche se la Commissione europea firmerà un documento o se sarà piuttosto presente in qualità di osservatore” si chiede l’eurodeputato di Renew Sandro Gozi. Che poi sottolinea: “La mancata partecipazione di esponenti di governo francesi e il mancato invito della Germania denotano un metodo poco pragmatico che indebolisce molto la conferenza stessa”. Sullo sfondo, poi, c’è anche un po’ di battaglia politico-elettorale tutta italiana. Chissà cosa ne pensa il segretario della Lega e vice premier Matteo Salvini di questo protagonismo, su un tema per lui sensibilissimo come l’immigrazione, della premier Giorgia Meloni e del suo ormai “omologo” di Forza Italia Antonio Tajani. Tunisia. I migranti restano nel limbo ma sulla loro sorte è calato il silenzio di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 23 luglio 2023 Mentre a Roma si tiene l’attesa conferenza internazionale sulle migrazioni, dove la prima ministra Giorgia Meloni avrà il presidente della Repubblica tunisina Kais Saied come ospite speciale, nel paese nordafricano si assiste a uno dei drammi umanitari più intensi della sua storia recente. Da quando il 2 luglio scorso sono iniziate vere e proprie deportazioni di massa da Sfax, la seconda città della Tunisia e uno dei punti strategici per le partenze lungo la rotta centrale del Mediterraneo, si stima che più di 1.200 persone di origine subsahariana abbiano vissuto per giorni senza cibo né acqua lungo il confine algerino e libico. “Guarda questo neonato di sette mesi - raccontava una settimana fa al manifesto Ibrahim (nome di fantasia, ndr) in uno dei centri dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) di Médenine - ha vissuto cinque giorni senza bere una goccia d’acqua. Com’è possibile tutto ciò ?”. Dubbi che sono destinati a rimanere senza risposta. Mentre l’Ue, con l’Italia in testa, è impegnata nella missione di ridurre le partenze dalla sponda sud e mantiene un enigmatico silenzio su quanto sta succedendo nel piccolo Stato nordafricano, nel paese non arrivano più informazioni dalla zona militarizzata alla frontiera con la Libia. È accessibile solo alla Croce rossa internazionale, impegnata a fornire un aiuto ridotto e prelevare le persone per portarle in luoghi sicuri. Al momento ci sarebbero ancora centinaia di persone che continuano a trovarsi in un limbo all’apparenza senza soluzione. Anche perché chi prova a rientrare in Tunisia segnala di essere respinto a colpi di proiettili e gas lacrimogeni. Tra chi non potrà mai fare ritorno nel paese ci sono una mamma e sua figlia, morte di stenti abbracciate in quella zona desertica, in una delle immagini più crude che sono riuscite a bucare il muro di gomma delle autorità tunisine. Un muro eretto anche nei confronti della società civile locale. Organizzazioni come il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), Human Rights Watch, Alarm Phone e Avocats sans frontières non hanno mai smesso di denunciare quello che sta avvenendo. Sia per quanto riguarda la constatazione di non poter considerare la Tunisia un paese terzo sicuro, sia per la richiesta di una chiara presa di posizione da parte dell’Unione europea, sulla carta da sempre impegnata al rispetto dei diritti umani. Rivendicazioni che Saied, da parte sua, non vuole ricevere. Impegnato da due anni a immettere la Tunisia in un percorso istituzionale sempre più autoritario, ha prima accusato le Ong di lavorare solo attraverso comunicati stampa e di non aver fornito un aiuto concreto rispetto a questa situazione e poi si è impegnato a lanciare un chiaro messaggio a chiunque non fosse d’accordo con le sue azioni: “I social network si sono trasformati in piattaforme di diffusione di fake news, rumori e diffamazioni contro gli alti responsabili dello Stato. È ora di mettere fino a tutto questo”, ha dichiarato pochi giorni fa. Non è un caso, quindi, che le ultime mobilitazioni a Tunisi siano andate pressoché deserte. Libia. “Ci chiamano schiavi”: uno sguardo all’interno dei centri di detenzione di Eleonora Cavazzana Gazzetta di Malta, 23 luglio 2023 “Voglio tornare a casa, voglio solo andarmene da questo posto”, dice una ragazza di circa 12 anni ai documentaristi. Una madre racconta emotivamente il tentativo della sua giovane figlia di impiccarsi mentre un uomo descrive come un compagno detenuto è stato colpito alla testa così tante volte che non ha potuto parlare in seguito. “Ci chiamano schiavi… Siamo in un terribile stato di paura”, ha detto. Un altro descrive come uno dei prigionieri fosse un uomo di corporatura possente quando arrivò al centro, ma a causa della tortura e della malnutrizione era diventato magro, coperto di lividi e traumatizzato. “Se ti parlassi di ciò che ha sofferto, perderesti la testa”, ha detto. Nel filmato mostrato durante un documentario di un’ora presentato all’inizio di questo mese, i detenuti hanno parlato con i registi delle condizioni all’interno dei famigerati centri di detenzione. La visione era privata, aperta solo ai media, alle ONG e agli individui che lavorano in prima linea nella crisi migratoria in Europa. I registi hanno chiesto di rimanere anonimi per paura che non sarebbe stato loro consentito in futuro l’accesso ai detenuti per rappresaglia. Se ti parlassi di ciò che ha sofferto, perderesti la testa L’età dei detenuti varia da bambini molto piccoli di età pari o inferiore a cinque anni a quelli di 60 o 70 anni, anche se la maggior parte sono giovani uomini di età inferiore ai 25 anni. Le loro testimonianze includevano episodi di routine di pestaggi, lavori forzati, sfruttamento sessuale, torture e uccisioni. Hanno riferito di una mancanza di accesso a medicine e scarse scorte di cibo e acqua, con un uomo che descrive piccole porzioni di cibo come “non abbastanza per un gatto”. Le provviste fornite possono essere viste nel documentario che vengono fatte scivolare sotto porte di ferro chiuse a chiave in stanze non ventilate che ospitano un gran numero di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e altri prigionieri accampati su materassi sul pavimento. La malattia è diffusa all’interno dei centri, con condizioni come la tubercolosi diffuse in condizioni non igieniche. Come finiscono le persone lì? Mentre alcuni detenuti finiscono nei centri di detenzione dopo essere stati rapiti o arrestati dalla polizia dell’immigrazione libica, molti altri arrivano dopo tentativi falliti di attraversare il Mediterraneo in barca. Tali traversate - organizzate dai trafficanti - hanno fatto notizia a Malta negli ultimi anni, con accuse di imbarcazioni in difficoltà ignorate dalle autorità maltesi o, in alcuni casi, riportate in Libia in collaborazione con la guardia costiera libica. Un esempio famoso si è verificato la domenica di Pasqua del 2020, quando le autorità maltesi sono state accusate di aver coordinato il respingimento di 52 migranti in Libia dopo essere stati avvisati della barca dalla ONG Alarm Phone. I migranti sono stati successivamente inviati in un centro di detenzione. Nel frattempo, all’inizio di questo mese, alla nave mercantile San Felix è stato presumibilmente ordinato da Malta di lasciare una barca in difficoltà che trasportava circa 250 migranti, secondo l’ONG Sea-Watch International. In una registrazione pubblicata su Twitter, si sente il capitano della nave mercantile dire alla ONG via radio che le autorità maltesi gli avevano detto che “avrebbero gestito questo caso … sono al top”. L’ONG ha poi pubblicato che la barca era stata intercettata dalla guardia costiera libica. È un crimine secondo il diritto internazionale per gli Stati rimandare i richiedenti asilo in un paese in cui rischiano di affrontare persecuzioni. I detenuti hanno anche parlato con i registi delle condizioni strazianti a bordo delle piccole imbarcazioni che tentano di attraversare l’Europa, tra cui mancanza di rifornimenti, sovraffollamento, malattie, instabilità mentale e morte. Un uomo che aveva tentato il viaggio ha detto che a quelli a bordo era stata fornita pochissima acqua e aveva ricevuto solo un piccolo pezzo di croissant ciascuno. Un altro ha raccontato come lui e altri erano stati costretti a bere acqua di mare per quattro giorni dopo che la scorta di acqua dolce della barca si era esaurita, con alcuni che diventavano isterici e deliranti come risultato. Un migrante ha detto ai registi che una perdita del motore aveva causato la fuoriuscita di benzina nel mezzo del gommone su cui stava attraversando. “Ci ha bruciato la pelle… L’acqua salata ha peggiorato le cose”, ha detto. Molti nel documentario hanno descritto come le loro barche sono state filmate e fotografate da aerei - sospettati di essere dell’agenzia di frontiera dell’UE Frontex - poco prima dell’arrivo della guardia costiera libica. La guardia costiera libica è stata ampiamente criticata negli ultimi anni per i suoi legami con gruppi di milizie indipendenti, ma continua a beneficiare di milioni di euro di finanziamenti dell’UE come parte degli sforzi del blocco per frenare la migrazione illegale. Come si fa a lasciare i centri di detenzione? Coloro che gestiscono i centri di detenzione chiedono denaro per rilasciare i detenuti, con somme che vanno dall’equivalente di centinaia a migliaia di dollari USA. La maggior parte dei detenuti non può permettersi tali somme, avendo già pagato ingenti somme ai trafficanti, spesso con l’aiuto delle loro famiglie e persino delle loro intere comunità. “Se abbiamo lasciato i nostri paesi senza soldi, come possono aspettarsi che paghiamo?” ha chiesto un detenuto. Un altro ha descritto come anche avere accesso a tali fondi non sia garanzia di libertà. Coloro che pagano l’intera tassa in anticipo sono spesso venduti ai contrabbandieri o ad altri centri di detenzione a scopo di estorsione sul presupposto che le loro famiglie possano procurarsi più soldi, ha spiegato. Nel frattempo, altri sono tenuti per l’uso nel lavoro forzato, costretti a saldare i loro debiti per mesi o addirittura anni. I tentativi di fuga sono affrontati con forza mortale. “Siamo corsi e hanno iniziato a spararci… otto persone sono state uccise intorno a me ma, per volontà di Dio, sono sopravvissuto”, dice un uomo che è stato rapito di nuovo poco dopo essere fuggito da un centro. Alcuni che non sono in grado di pagare vengono giustiziati. Si stima che circa 5.000 persone siano detenute nella rete di centri di detenzione della Libia, con molti detenuti cittadini stranieri provenienti da paesi come Camerun, Eritrea, Etiopia, Sudan, Egitto e Bangladesh, tra gli altri. I centri di detenzione libici sono stati fortemente criticati da organizzazioni come le Nazioni Unite e Amnesty International. Israele. La marcia degli 80mila contro la riforma della giustizia. Ma Netanyahu non cambia idea di Davide Frattini Corriere della Sera, 23 luglio 2023 I manifestanti hanno marciato per quattro giorni, ma il primo ministro, ricoverato per l’installazione di un pace maker, potrebbe ora licenziare la procuratrice che si è opposta al suo “golpe”. L’appuntamento è a piazza della Democrazia, l’indirizzo non esisteva fino a sette mesi fa, la maggior parte degli israeliani sa come arrivarci. Tra via Kaplan e viale Begin da quasi 30 settimane partono le manifestazioni per protestare contro il piano giustizia del governo di destra-estrema destra, a Tel Aviv i cortei sono i più numerosi, creativi e organizzati, così il sindaco Ron Huldai, laburista, ha voluto dare un nome all’incrocio dove oltre al traffico i dimostranti vogliono fermare quella che considerano una svolta autoritaria, un rischio per la democrazia. Per sette mesi i manifestanti si sono presentati davanti alle case dei ministri, hanno urlato slogan e ripetuto la parola che è diventata un ritornello: “Vergogna”. Da oggi la sfida di sguardi è diretta. In 80 mila hanno marciato per quattro giorni, un corteo lungo chilometri, a piedi sulla corsia d’emergenza dell’autostrada - per i partecipanti è l’emergenza più grande dalla nascita di Israele nel 1948 - e da ieri notte si sono accampati dalle parti del parlamento a Gerusalemme. Dove tra domani e dopo si votano i due passaggi finali della legge che toglie alla Corte Suprema uno dei suoi poteri: respingere decisioni amministrative del governo - nomine di funzionari o ministri, interventi sulle procedure - considerati “irragionevoli”. Se le norme dovessero essere approvate, com’è probabile, il primo ministro Benjamin Netanyahu potrebbe licenziare la procuratrice generale dello Stato che si è opposta al suo “golpe” e reintegrare Aryeh Deri come ministro, la nomina era sta bocciata perché il leader ultraortodosso aveva evitato la galera per frode fiscale con la promessa ai giudici, solo un anno fa, di ritirarsi dalla politica. All’inizio della settimana più caotica delle ultime 30, gli israeliani hanno anche scoperto che il breve ricovero del premier sabato scorso per “disidratazione” e “un colpo di calore” è in realtà qualcosa di più grave: a Netanyahu è stato installato nella notte un pace make r, problemi cardiaci, resta per ora in ospedale. Così saltano il consiglio dei ministri della domenica e quelle riunioni urgenti richieste dallo Stato Maggiore: la ribellione tra i riservisti diventa sempre più ampia, oltre mille aviatori hanno firmato una lettera in cui annunciano il rifiuto di presentarsi all’addestramento e al servizio attivo, tra loro 513 piloti, di fatto l’aviazione - spiegano gli analisti - ha perso la sua operatività. Quelli che i ministri - e perfino Netanyahu, che dovrebbe saperne di più - sbeffeggiano come “inutili, possiamo trovarne migliori di voi” - sono in realtà essenziali, rappresentano l’élite delle forze armate. E sono sostenuti da un altro documento presentato da ex generali e capi dei servizi segreti che denunciano il piano giustizia come un “colpo fatale alla sicurezza del Paese” e la “rottura del contratto sociale durato 75 anni tra lo Stato e le migliaia di soldati, riservisti, comandanti”. Haiti, violenza sovrana. E l’Onu pensa a una task force internazionale armata di Claudia Fanti Il Manifesto, 23 luglio 2023 Port-au-Prince. Il paese ostaggio di bande criminali create dai partiti e dall’élite per i propri scopi. Giustizia penale e rete elettrica in tilt, fame, colera. Gli Usa continuano a sostenere Henry. All’ospedale di Medici senza Frontiere a Tabarre, comune dell’arrondissement di Port-au-Prince, le visite ambulatoriali sono riprese, ma, fa sapere l’organizzazione, per il ritorno alla normalità ci vorrà tempo. Tutte le attività mediche per la cura di traumi e ustioni sono state infatti sospese da quando, nella notte tra il 6 e il 7 luglio, circa 20 uomini armati hanno fatto irruzione all’ospedale per portarsi via un paziente con ferite di arma da fuoco che si trovava ancora in sala operatoria. “C’è un senso di disprezzo per la vita umana e una tale violenza a Port-au-Prince che nemmeno le persone vulnerabili, i malati e i feriti vengono risparmiati. Come possiamo noi, operatori sanitari, continuare a fornire un supporto in questo clima?”, ha dichiarato il responsabile dei programmi di MSF ad Haiti Mahaman Bachard Iro. Ma gli attacchi alle strutture mediche neanche sorprendono più in un paese in buona parte controllato dalle bande criminali, le quali, create dai partiti e dalle famiglie dell’élite per i propri scopi, vivono ora di vita propria, seminando morte e terrore tra la popolazione. E alla violenza si aggiunge tutto il resto: metà degli haitiani soffre la fame; c’è stata una nuova epidemia di colera; l’accesso all’elettricità è minimo; non c’è più un sistema di giustizia penale funzionante; molte persone non hanno neppure un documento di identità. Lo stato brilla per la sua assenza. Quel che restava delle istituzioni democratiche ci ha pensato a smantellarlo il presidente (non eletto) e primo ministro ad interim Ariel Henry, succeduto a Jovenel Moïse dopo il suo assassinio - mai chiarito - nel 2021 e ampiamente e ripetutamente ripudiato dalla popolazione haitiana, che anche venerdì è scesa in strada per chiedere le sue dimissioni. Per consolidare il suo potere, a Henry è stato sufficiente elaborare insieme ai suoi alleati, nel dicembre del 2022, un “Documento di consenso nazionale per una transizione inclusiva ed elezioni giuste” che di consensuale non aveva nulla, lasciando fuori importanti attori politici e le principali organizzazioni di diritti umani. Alla comunità internazionale - Usa, Francia e Canada in testa - il documento è bastato tuttavia per continuare a sostenere e a finanziare il presidente, malgrado i suoi vincoli con uno dei principali sospettati dell’omicidio di Moïse, Joseph Felix Badio, oggi latitante, da cui aveva ricevuto due telefonate la notte dell’omicidio. Come se non bastasse - secondo quanto ha rivelato sul New York Times del 13 luglio il ricercatore del Center for Economic and Policy Research Jake Johnston - quando l’ex procuratore capo delle indagini sull’assassinio, Bed-Ford Claude, lo aveva citato per un interrogatorio, Henry non solo lo aveva ignorato, ma aveva ordinato al ministro della Giustizia Rockefeller Vincent di dargli il benservito. Quindi, al rifiuto di quest’ultimo, “aveva licenziato entrambi”. Ciononostante, il 5 luglio, il segretario di Stato Usa Antony J. Blinken, durante un incontro con Henry in Trinidad e Tobago, gli ha ribadito il fermo sostegno degli Stati uniti in termini di assistenza umanitaria, economica e militare, concordando con lui sull’urgenza di dispiegare una task force multinazionale autorizzata dall’Onu per aiutare a combattere la violenza e alleviare la crisi umanitaria nel paese. E allo stesso modo, il 14 luglio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite si è espresso a favore dell’invio di una forza internazionale, incaricando il segretario generale António Guterres di presentare entro un mese un rapporto dettagliato con “lo spettro completo di azioni di sostegno che l’Onu potrebbe offrire per migliorare la situazione della sicurezza”. Di un intervento armato, però, la società civile haitiana, memore delle nefaste conseguenze di quelli realizzati dal 1994 in poi, non vuole neanche sentir parlare: secondo l’Alleanza nera per la pace, per esempio, l’invio di una forza militare straniera punterebbe solo a legittimare il governo antidemocratico di Henry. Al contrario, le organizzazioni chiedono un governo di transizione legittimo, di cui facciano parte anche rappresentanti della società civile, in vista di elezioni realmente libere e trasparenti.