Sette anni da Garante dei diritti seguendo il principio “non uno di meno” di Mauro Palma* Avvenire, 22 luglio 2023 “Non uno di meno”: con questo slogan veniva riassunto, alcuni anni fa l’obiettivo decisivo della scuola, per indicare un processo di inclusione, di presa in carico di ogni giovane, qualunque fosse la sua situazione soggettiva, familiare o di contesto, al fine di dare a lui o a lei la possibilità della costruzione di strumenti autonomi di consapevolezza. Perché ogni singola perdita accentua il rischio di marginalizzazione, di non autonomia delle proprie scelte e anche di divenire preda di circuiti criminali. Negli anni, però l’attenzione alla funzione dell’istruzione, quale rete essenziale nella costruzione di responsabilità ed effettiva autonomia, si è attenuata. Così come l’attenzione agli altri strumenti di regolazione sociale e agli altri ‘luoghi’ dove costruire significati personali e collettivi essenziali per ridurre le conflittualità che sempre esistono in una società complessa. Un’attenuazione che ha finito con affidare alla sola penalità una funzione regolativa: il diritto penale da strumento sussidiario è divenuto centrale, in un crescendo di richiesta di penalità come garanzia di una mai appagata sicurezza. I luoghi di privazione della libertà e, in particolare, il carcere, sono così diventati i luoghi della sconfitta sociale perché segnano il punto di arrivo dell’incapacità del sistema nel suo complesso di risolvere altrimenti le proprie difficoltà; indicano la rinuncia a perseguire l’obiettivo del “non uno di meno” esteso ai tanti aspetti che devono comporre quel dovere di solidarietà e di rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, così come ricorda la nostra Carta. Il carcere è divenuto in una sua consistente parte proprio il luogo della debolezza sociale, di soggettività difficili, di un insieme di persone che per vari motivi non accedono a quelle misure che il nostro ordinamento prevede, ma la cui effettività finisce con essere fortemente selettiva. Questo è il ‘tema’ centrale di una Istituzione quale la giovane Autorità di garanzia che ha operato negli ultimi sette anni: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dovrà continuare a esserlo ora che si prefigura un nuovo Presidente e un nuovo Collegio. Perché l’attenzione non può restringersi al pur doveroso monitoraggio della vita quotidiana in quei luoghi o all’intervento sulle singole situazioni soggettive e sugli aspetti organizzativi della vita interna. No, deve avere anche uno sguardo prospettico per individuare le cause del fenomeno dell’ampliamento del ricorso al chiudere, restringere, spesso al disinteressarsi di che è dentro. Deve anche esercitare un ruolo nella crescita della cultura diffusa su questi temi. L’estensione della modalità restrittiva e spesso detentiva, infatti, non riguarda soltanto il carcere perché coinvolge tutti i diversi settori verso cui il Garante nazionale deve dirigere la propria funzione: dal carcere ai centri per migranti, ai servizi psichiatrici. Diversità tenute insieme dalla vulnerabilità intrinseca alla limitazione della propria autodeterminazione di tempi, spazi, movimenti e, quindi, dal necessario rafforzamento della tutela dei diritti; perché i diritti non si fermano ai cancelli di una struttura chiusa. Per tutti l’attenzione non deve essere soltanto rivolta alla scrupolosa tutela dei due cardini del sistema di diritti di ogni persona, cioè la sua integrità fisica e psichica, al riparo da ogni maltrattamento intenzionale o meno, e l’altrettanto scrupolosa tutela della sua dignità. Non solo questo, perché l’analoga attenzione va rivolta al diritto all’appartenenza al contesto sociale, al non essere percepito come ‘altro’ rispetto a esso e, simmetricamente, al dovere della collettività di riconoscere concretamente tale appartenenza. Scrisse Hannah Arendt: “non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società”. Così in questo primo mandato - che è durato più di sette anni - il Garante nazionale ha declinato, seppure in un contesto diverso e più esteso, quel principio “non uno di meno” e così dovrà continuare a farlo. Con l’autorevolezza e l’indipendenza che una Istituzione di garanzia deve sempre avere, ma che è ancor più determinante nel contesto della privazione della libertà, laddove spesso si scontrano posizioni ideologiche diverse e sensibilità anch’esse diverse. Così è stato in questi anni divenendo anche una Istituzione di riferimento in ambito internazionale. Così dovrà saper continuare. *Presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale Anche le carceri nella morsa del caldo: senz’aria e a volte senz’acqua, così la pena è accanimento di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2023 L’Italia è nella morsa del caldo. Si fa fatica a camminare, a lavorare, a respirare. Gli anziani si sentono male, a volte muoiono. A Roma, la città dove si trova l’ufficio centrale di Antigone, si sono sfiorati i 42 gradi. Qualche chilometro più in là c’è il carcere di Regina Coeli. Il tasso di affollamento è al 160%: in cento posti disponibili ci vivono 160 detenuti. A Rebibbia Nuovo Complesso sono più fortunati: appena 134 presenze per cento posti. Brescia è una delle città definite nei giorni scorsi da bollino rosso a causa delle temperature. Nella Casa Circondariale cittadina di Canton Mombello l’affollamento è al 181%. Quasi due persone per ogni posto. Quasi due persone a respirare l’ossigeno di una, a contendersi quel poco di aria che arriva dalla finestra, a infilare le braccia nel lavandino della cella con l’acqua fredda che viene fatta scorrere incessantemente. Nella Casa di Reclusione di Brescia Verziano, l’altro carcere della città, l’affollamento è solo al 170%. Anche Bologna è da bollino rosso. Alla Dozza l’affollamento è al 158%. Così Latina, Viterbo, Napoli, Ancona: tutte città in allarme, con carceri che presentano tassi di affollamento rispettivamente del 157%, 135%, 125% (Poggioreale), 121%. Celle sovraffollate, dove spesso - ancor più che in inverno - si trascorrono intere giornate, se non per il poco tempo a camminare all’aria aperta in cortili infuocati. In estate il carcere si ferma. La scuola si sospende, i vari corsi (per quel poco che c’è) finiscono, i volontari si riducono, le attività si bloccano. In cella l’aria circola poco, le finestre sono spesso schermate, non c’è riscontro. Nel 56,1% delle carceri visitate da Antigone lo scorso anno c’erano stanze senza doccia: impossibile anche gettarsi addosso acqua fredda per cercare un po’ di refrigerio. Quasi seimila le persone detenute ultrasessantenni. Addirittura 1.164 di esse hanno più di settant’anni. A rischio di malori, sottoposti a una sofferenza che nulla ha a che vedere con il dettato costituzionale sulla pena. Un anno fa l’Italia è stata nella morsa del caldo: temperature record superate solo dall’anno in corso. E un anno prima ancora, e ancora e ancora. Accade ogni mese di luglio: arriva il caldo. Non era difficile prevedere che sarebbe accaduto anche questa volta e adesso sembra essere troppo tardi per fare qualcosa. L’amministrazione penitenziaria non fa in tempo a organizzarsi ma si poteva fare tre mesi fa, non ci sarebbe voluto molto. Se parlare di aria condizionata in carcere sembra fantascienza, si potevano però acquistare dei ventilatori, dei frigoriferi di sezione dove non presenti, si potevano favorire - concordando le azioni con la magistratura di sorveglianza - detenzioni domiciliari per i detenuti anziani e non pericolosi. Dall’inizio del 2023 sono state 81 le persone morte in carcere. Di queste, almeno 39 si sono tolte la vita. Più di quanto accadeva nel 2022, l’anno drammatico dei suicidi in carcere, quando al 20 di luglio erano stati 37. Se ne contarono 85 alla fine dell’anno e se ne contarono 21 solamente dal giorno di oggi fino alla fine di agosto. *Coordinatrice di Antigone Carcere, un mondo dimenticato. L’agonia dei fragili continua di Fulvio Fulvi Avvenire, 22 luglio 2023 La morte di Fakhri, 30 anni, che si era dato fuoco dietro le sbarre: sono 40 i suicidi da inizio anno. Nelle carceri italiane, dove dominano da sempre solitudine e dolore - acuiti in questa estate dall’afa che arroventa le celle - si contano ancora morti e feriti in tutte e due le parti della “barricata”: risse, ribellioni, detenuti che si uccidono al culmine della disperazione o che vengono aggrediti dai loro compagni di prigionia, agenti assaliti da chi dietro le sbarre ha perso la testa o vuole imporre la propria supremazia; sorveglianti che si accaniscono contro quegli ‘ospiti delle patrie galere” che hanno sbagliato ma dovrebbero essere aiutati, invece, a diventare cittadini per bene. Ieri, l’ultima tragedia: al Policlinico di Bari ha cessato di vivere Fakhri Marouane, 30 anni, di origini marocchine: quasi due mesi di agonia in un letto del reparto Grandi ustionati dove era stato ricoverato dalla fine di maggio, dopo essersi dato fuoco mentre era rinchiuso nell’istituto penale di Pescara per scontare una condanna definitiva. Il giovane era stato chiamato a testimoniare al maxi-processo per quella che è stata definita la “mattanza” del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Un caso di violenza inaudita avvenuto il 6 aprile del 2020, che vede alla sbarra 105 imputati tra poliziotti penitenziari, funzionari del Dap e medici della Asl. Una bruttissima storia di pestaggi a sangue, minacce, umiliazioni, connivenze e complicità a danno di un gruppo di detenuti, sulla quale i giudici della Corte d’assise vogliono fare chiarezza: il processo è partito nel novembre del 2022 e sarà lungo. Fakhri è stata una delle vittime di queste aggressioni: un video in possesso della procura mostra infatti come fu reso oggetto di manganellate in testa e costretto dai suoi aguzzini a inginocchiarsi e a camminare carponi fino alla propria cella. Un “bersaglio” facile? Di sicuro, fino a ieri, una delle parti civili del processo, un testimone che alla prossima udienza, fissata per l’11 settembre, però non ci sarà. Ma ciò che indigna di più è che anche questa morte, la quarantesima dall’inizio dell’anno di un detenuto “per mano propria” in uno dei 192 penitenziari italiani, si poteva evitare. Secondo quanto raccontano i suoi compagni di cella egli operatori della Casa circondariale “San Donato” di Pescara, dove nel frattempo era stato trasferito, Fakhri si era ripreso bene dallo choc subìto, aveva seguito con successo un percorso rieducativo, aveva studiato per prendersi un diploma ed era diventato un detenuto modello fino a guadagnarsi la semilibertà per andare a lavorare fuori. Poi, all’improvviso, la sera del 26 maggio, ritornato dietro le sbarre dopo una giornata di fatiche, è ricaduto nella depressione. Sarebbe bastato un semplice richiamo del sorvegliante per farlo ripiombare nel terrore di quei terribili giorni: è stato preso dall’angoscia e non ce l’ha fatta, da solo, a resistere all’idea di farla finita. Così, ha preso il fornelletto a gas che aveva in cella, si è disteso sul letto, lo ha acceso e se l’è buttato sopra procurandosi ustioni sul 70% del corpo. In rianimazione, fino all’ultimo respiro, poche ore fa. Appello. Rita è già Garante dei detenuti, diamole l’investitura ufficiale L’Unità, 22 luglio 2023 “Servono portatori d’acqua nel deserto dei diritti umani, specie delle persone private della libertà, per questo serve la Bernardini”. Scrivono gli oltre 80 accademici e giuristi firmatari dell’istanza. Alla vigilia della nomina della terna che dovrà presiedere l’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale c’è tutto un “mondo carcere” che con Rita Bernardini Garante dei detenuti spera si possa realizzare la perfetta corrispondenza tra l’istituzione e la funzione e tra la funzione e il suo preposto. In tutti questi anni, Rita è stata già di fatto una Garante dei detenuti, avendo girato e girando in lungo e in largo per le carceri d’Italia, letteralmente incarnando quell’opera cristiana di misericordia corporale del “visitare i carcerati”, caricandosi delle criticità e disagi non solo dei detenuti ma anche della comunità dei c.d. “detenenti”, la polizia e tutti gli altri operatori penitenziari, che vivono troppo spesso condizioni di particolare difficoltà, in carenza di organico, risorse, organizzazione, formazione. È certo che se Rita non avesse assunto in sé e nella sua vita il “mondo carcere”, i condannati, i detenuti in attesa di giudizio, la polizia penitenziaria, i direttori, gli educatori, gli assistenti sociali, i volontari e tutte le figure che vi ruotano intorno, comprese, indirettamente, le loro rispettive famiglie, il danno ambientale ed esistenziale proprio della carcerazione sarebbe senz’altro più drammatico e, forse, non più calcolabile. Sempre pronta al soccorso, al salvataggio, al conforto, all’amore verso questi condannati o detenuti in attesa di processo - anche con i suoi scioperi della fame, che ci hanno tenuti tutti in allarme per la sua vita - con la forza gentile della non violenza, ha contrastato gli effetti di un potere che può divenire il più duro, cieco, spietato. Rita Bernardini continua a essere un patrimonio della storia, non solo radicale, di Nessuno tocchi Caino, che andrebbe tutelato come bene prezioso con un dovuto riconoscimento del valore che le è proprio. Una investitura, finalmente ufficiale, consentirebbe a Rita di esercitare la funzione di Garante come ha sempre fatto e di essere quella che è sempre stata, con la visione del carcere e dei luoghi di privazione della libertà come una comunità, non una somma, un insieme di parti diverse, non contrapposte, da rispettare e conciliare. Un mondo difficile da tenere insieme, in ordine, nell’unico modo possibile: con il rispetto della legge, della regola, con il dialogo e la nonviolenza. Servono “portatori d’acqua” nel deserto dei diritti umani specie delle persone private della libertà, per questo serve Rita Bernardini. I FIRMATARI Andrea Nicolosi, Avvocato, direttivo Nessuno Tocchi Caino (estensore dell’Appello); Andrea Abbagnano Trione, Professore di diritto penale, Università del Molise; Salvatore Aleo, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Catania; Paolo Aldrovandi, Professore di Diritto penale dell’economia, Università Bicocca Milano; Alberto Alessandri, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università Bocconi Milano; Enrico Amati, Professore Associato di Diritto Penale, Università di Udine; Elena Baldi, Docente di Diritto Penale presso l’istituto italiano di Criminologia di Vibo Valentia; Antonio Balsamo, Sostituto Procuratore Generale presso Corte di Cassazione; Roberto Bartoli, Ordinario di Diritto Penale, Università degli studi di Firenze; Valentina Bonini, Professore Associato di Procedura Penale, Università di Pisa; Bruno Brattoli, magistrato, già Capo Dipartimento della Giustizia Minorile e Presidente del Tribunale di Lametia Terme; Luca Bresciani, Professore Ordinario di Diritto Penitenziario, Università di Pisa; Vittorio Bresciani, Pianista; Pasquale Bronzo, Professore Associato di Procedura Penale, Sapienza Università di Roma; Giovanni Burtone, Parlamentare ARS e Sindaco di Militello in Val di Catania; Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali Italiane; Stefano Canestrari, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna. Lina Caraceni, Professore Associato di Procedura Penale e Diritto Penitenziario, Università di Macerata; Luigi Caramiello, Professore Ordinario di Sociologia dei processi comunicativi alla Università Federico II di Napoli; Fabio Cassitta, ordinario di Procedura Penale e Diritto Penitenziario, Università di Parma; Pierluigi Castagnetti, ex parlamentare e Membro del direttivo dell’House of European History; Agata Ciavola, Professore Associato di Diritto processuale Penale, Università Kore di Enna; Annamaria Colao, Professore Ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Università Federico Il di Napoli; Santi Consolo, Garante regionale della Sicilia delle persone private della libertà personale, già Capo del Dap; Francesco Dassano, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Torino; Giovannangelo De Francesco, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Pisa; Cristina De Maglie Taruffo, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Pavia; Bruno De Maria, Professore Associato di Diritto Costituzionale, Università Federico II di Napoli; Alberto De Vita, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università Partenope, Napoli; Giuseppe Di Federico, Professore Emerito di Ordinamento giudiziario, Università di Bologna; Emilio Dolcini, Professore Emerito di Diritto Penale, Università di Milano; Massimo Donini, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Modena e Reggio Emilia; Andreana Esposito, Professore Associato di Diritto Penale, Università degli studi della Campania, “Luigi Vanvitelli”; Loredana Faraci, Professore Ordinario di Storia dello Spettacolo, Regia e Storia della Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Catania; Giovanni Fiandaca, Professore Emerito di Diritto Penale università di Palermo, già garante siciliano dei diritti dei detenuti; Désirée Fondaroli, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna; Gabriele Fornasari, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Trento; Alberto Gargani, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Pisa; Roberto Giachetti, Deputato, Segretario di Presidenza della Camera dei deputati; Ignazio Giacona, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Palermo; Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense; Tommaso Guerini, Professore Associato di Diritto Penale, Università Pegaso di Napoli; Gaetano Insolera, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna; Gianluca Lauro, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Nord; Alessio Lo Giudice, Professore Ordinario di Filosofia del Diritto, Università di Messina; Carlo Longobardo, Professore Ordinario di Diritto Penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II; Giuseppe Losappio, Professore Ordinario Diritto Penale, Università di Bari; Vincenzo Maiello, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Napoli Federico II; Fausto Malucchi, Prorettore dell’Istituto italiano di Criminologia di Vibo Valentia; Vittorio Manes, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna; Adelmo Manna, Professore Ordinario di Diritto penale, Università La sapienza Roma; Antonella Massaro, Professore Associato di Diritto Penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre”; Anna Maria Maugeri, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Catania; Claudia Mazzucato, Professore Associato di Diritto Penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Antonella Merli, Professore Associato di Diritto Penale, Università di Camerino; Vincenzo Mongillo, Professore Ordinario di Diritto Penale nell’Università Sapienza di Roma; Alessandro Morelli, Professore Ordinario di Diritto Pubblico, Università di Messina; Francesco Morelli, Professore Associato di Diritto Processuale Penale, Università di Bergamo; Francesco Mucciarelli, Professore Associato di Diritto Penale nell’Università commerciale “Luigi Bocconi” di Milano; Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, già Professore Ordinario di Diritto Penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Elio Palombi, già Professore Ordinario di Diritto Penale, Università Federico II, Napoli; Marco Pelissero, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Torino; Giuseppina Panebianco, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università degli Studi di Messina; Patrizia Patrizi, Professore Ordinario di Psicologia Giuridica e pratiche di Giustizia Riparativa, Università di Sassari; Claudia Pecorelli, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Milano-Bicocca; Antonio Pescapè, Professore Ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni, Università Federico II di Napoli; Bernardo Petralia, Magistrato, già Capo del Dap; Davide Pettini, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università i di Torino; Roberto Calogero Piscitello, Magistrato, Sostituto Procuratore a Marsala, già Direttore Detenuti e Trattamento Dap; Andrea Pugiotto, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale, Università degli Studi di Ferrara; Vincenzo Rapone, Titolare della cattedra di Teoria generale del diritto, Dipartimento di Scienze Politiche, Università “Federico II”, Napoli; Ezechia Paolo Reale, Segretario Generale del Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights; Eligio Resta, Professore Emerito di Filosofia e Sociologia del Diritto, Università Roma Tre; Silvio Riondato, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Padova; Lucia Risicato, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Messina; Carla Rossi, già Ordinario di statistica medica all’Università di Roma Tor Vergata, Presidente del Centro Studi Statistici e Sociali; Luigi Santini, Professore Emerito di Chirurgia Oncologica, Università Vanvitelli Napoli; Fabrizio Siracusano, Professore Ordinario di Diritto Penitenziario e di procedure penali della cooperazione giudiziaria, Università di Catania; Francesco Siracusano, Professore Associato di diritto penale presso l’Università di Catanzaro; Carlo Sotis, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università degli studi della Tuscia; Luigi Stortoni, Professore Emerito di Diritto Penale, Università Alma Mater di Bologna; Silvia Tordini Cagli, Professore Associato di Diritto Penale, Università Alma Mater di Bologna; Paolo Veneziani, Professore Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Parma; Sandro Veronesi, Scrittore; Tiziana Vitarelli, Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Messina; Roberto Zannotti, Professore Associato di diritto penale, Università di Roma Lumsa. Caso Cospito, Donzelli difende Delmastro e attacca i 5Stelle: “Loro hanno scarcerato i mafiosi” di Giusi Spica La Repubblica, 22 luglio 2023 La replica: “Bugie, si dimetta”. Alla convention di FdI a Palermo, il responsabile del Copasir rivendica il suo operato e quello del sottosegretario imputato per rivelazione di segreto istruttorio. Botta e risposta a distanza con il M5S. Scambio di accuse a distanza tra il responsabile organizzativo del Copasir, il meloniano Giovanni Donzelli, e il Movimento 5Stelle sul caso Cospito e l’imputazione coatta per rivelazione di segreto d’ufficio nei confronti del sottosegretario Andrea Delmastro. A far scattare la scintilla le parole di Donzelli alla convention organizzata da FdI a Palermo per parlare di lotta alla mafia: “Siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto difendendo il 41 bis. Furono gli amici di M5S, quando erano al governo, a scarcerare i mafiosi con la scusa del Covid”. Immediata la replica dei 5Stelle: “Solo bufale, doveva dimettersi mesi fa per aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale insieme all’amico Delmastro”. Intervenendo da Palermo, i due alfieri del partito della premier Giorgia Meloni hanno difeso il loro operato: “Quando Cospito decise scientemente con la criminalità organizzata di proseguire la guerra volta a far venire giù il carcere duro - ha detto Delmastro - qualcuno come me e l’amico Donzelli ha intravisto tutto ciò e ha osato anteporre il proprio petto. Quel qualcuno è finito processato e tutti gli altri no”. Delmastro rivendica poi il primato nella lotta alla mafia: “A proposito degli sciacalli che in questi giorni osano lambire il centrodestra - ha detto il sottosegretario meloniano - noi abbiamo onorato Paolo Borsellino col primo atto del governo Meloni: mettere in sicurezza l’ergastolo ostativo rispetto a cedimenti che arrivavano da tutte le parti”. “Per noi il carcere duro e l’ergastolo ostativo non sono misure eccessive. Il mondo intero studia il nostro carcere duro, l’ergastolo ostativo, le misure preventive come sequestri e confische. L’Italia è un esempio ed esporta la normativa antimafia e ne siamo orgogliosi”, aggiunge parlando alla tavola rotonda del convegno “Parlate di mafia”. Donzelli racconta la sua versione dei fatti sul caso Cospito: “Era più comodo stare in silenzio e girarsi dall’altra parte. Ma noi abbiamo difeso il 41 bis, la sinistra ha sollevato tanto polverone. Poi però non c’è stata più una sola persona di sinistra a metterci la faccia per difendere Cospito”. Poi la stoccata finale a M5S: “Non ci dimentichiamoci di Beppe Grillo, che quando veniva in Sicilia diceva che la mafia ha una sua morale. Non prendiamo lezioni nemmeno da parte di ex magistrati che oggi sono in politica, che quando Borsellino era morto da poche ore archiviavano l’inchiesta mafia-appalti”. E attacchi a raffica agli avversari per difendere l’amico imputato: “Per noi la vicenda Delmastro non è un vulnus e neppure per la procura che aveva chiesto l’archiviazione. Col massimo rispetto, noi andiamo avanti, siamo convinti di avere fatto ciascuno di noi le cose giuste che servivano all’Italia. Scomode per qualcuno che voleva tenere forse nascoste quelle pagine ma invece noi le abbiamo portate a conoscenza di tutti gli italiani. È giusto così”. M5S replica agli attacchi di Donzelli attraverso le parlamentari Stefania Ascari, Valentina D’Orso e Ada Lopreiato, capigruppo nelle commissioni Antimafia e Giustizia: “Oggi ripete la bufala delle scarcerazioni durante la pandemia. Il partito del presidente Meloni sta provando a nascondere le proprie responsabilità per i provvedimenti con cui sta spianando la strada dell’impunità ai colletti bianchi. Dobbiamo di nuovo ricordare a Fratelli d’Italia che ogni scarcerazione avvenuta nella primavera 2020 venne decisa in autonomia dai magistrati e sulla base di una legge del 2010 del governo Berlusconi. Dopo quelle scarcerazioni siamo intervenuti immediatamente con due decreti legge e con ispezioni ministeriali. Grazie a quegli interventi alcune scarcerazioni furono evitate e alcuni detenuti rientrarono in carcere. Anche oggi Donzelli ha perso l’occasione per rimanere in silenzio”. Sondaggio. Riforma Nordio, prevalgono i no di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 22 luglio 2023 Il 40% è contrario al ddl sulla Giustizia. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è la misura meno condivisa (47%). Ma gli italiani sono convinti dalla stretta sulle intercettazioni. Il funzionamento della giustizia si conferma tema sensibile e centrale nel dibattito politico. Lo è stato da tempo, d’altronde, e ha segnato l’ultimo trentennio. La scomparsa di Silvio Berlusconi faceva ipotizzare che ci sarebbe stato un raffreddamento del tema, che ha accompagnato tutta la carriera politica del Cavaliere. Al contrario, in queste ultime settimane, assistiamo a un re-infiammarsi della questione. Dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, dal concorso esterno in associazione mafiosa alla revisione della prescrizione, il dibattito politico si è spesso arroventato. Proprio negli ultimi giorni, il presidente Mattarella ha apposto la propria firma al ddl Nordio autorizzandone l’invio alle Camere. Abbiamo quindi interpellato gli italiani su questi aspetti. In primo luogo, abbiamo testato le quattro principali modifiche previste dalla riforma verificando se i nostri intervistati le ritenessero positive o meno. Rispetto all’eliminazione del reato di abuso di ufficio (che ha visto tra l’altro un ampio consenso tra i sindaci del centrosinistra), prevale l’idea che sia un errore. Lo sostiene il 47% degli intervistati, con punte elevatissime tra gli elettori di Partito democratico e Movimento 5 Stelle, mentre il consenso espresso dagli elettori di centrodestra non è corale: arriva al 51% tra gli elettori di Lega e Forza Italia, rimane al 48% tra gli elettori di Fratelli d’Italia. Anche sulle limitazioni delle imputazioni per il traffico di influenze e sul divieto di ricorso da parte dei pm dopo l’assoluzione di primo grado prevale, sia pur di misura, l’opinione negativa. Con la classica divisione tra le aree elettorali (centrodestra più d’accordo, centrosinistra critico) ma con apprezzabili perplessità in entrambi gli schieramenti. Solo sulla stretta alla pubblicazione delle intercettazioni prevale, di strettissima misura, l’idea che sia una scelta giusta. E nel suo insieme la riforma proposta vede il prevalere delle perplessità: il 40% infatti ritiene che alla fine le misure proposte rischino di peggiorare la condizione della giustizia in Italia, mentre il 27% pensa che al contrario migliorerà almeno in parte le cose. Se guardiamo agli orientamenti politici, gli elettori di centrodestra la approvano, ma con meno convinzione di quanto la respingano gli elettori di Pd e M5S. Più di un quarto degli elettori di centrodestra non esprime un’opinione, percentuale che scende rispettivamente all’11% e al 17% tra gli elettori di Pd e M5S. Ma questa difficoltà a esprimersi è davvero diffusa e riguarda tra un quarto e un terzo degli intervistati a seconda del tema proposto (33% per la valutazione complessiva della riforma). Si tratta di un tema ostico e difficile. È un dato che si massimizza tra i meno politicizzati, incerti o astensionisti, dove oltre il 50% non sa dare un giudizio generale sulla riforma. E vale la pena di sottolineare che, tra questi ultimi elettori, chi si esprime evidenzia una posizione negativa sulla riforma in generale e nei suoi singoli aspetti. È un elemento che può indurre ad ulteriori cautele proprio nel centrodestra, nell’ipotesi di produrre resistenze tra elettori potenziali. Abbiamo poi parlato della politicizzazione della magistratura. Nell’ambito della maggioranza si è infatti ipotizzato che, di fronte a diverse vicende (dal caso di Delmastro a quello di Santanché, sino a La Russa), vi fosse un accanimento politico dei magistrati, posizione poi rientrata. Gli italiani fanno fatica a valutare questo aspetto: 43% non sa esprimersi, 29% ritiene che i magistrati stiano esercitando un ruolo politico di opposizione al governo, 28% è in disaccordo. Possiamo quindi trarre alcune conclusioni dai dati esposti. In primo luogo, è evidente che si tratta di un tema complicato, su cui emerge una diffusa difficoltà ad esprimersi. In secondo luogo, tende a prevalere una certa resistenza nei confronti della riforma. Resistenza che, in particolare in riferimento al tema dell’abuso d’ufficio, emerge anche nel centrodestra. E, come detto, si tratta di una contrarietà che si massimizza nell’area grigia degli incerti e astensionisti, cioè l’arena di conquista dei diversi partiti. Infine, pur con alcune perplessità che abbiamo cercato di evidenziare, la questione giustizia continua a dividere i due campi politici. In attesa di una “ricomposizione” che ancora fatica a manifestarsi. Giustizia, le riforme inutili di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 22 luglio 2023 Non ha senso che il governo affolli ancora il Parlamento con progetti di legge per introdurre nuovi reati. La macchina giudiziaria va resa più efficiente e veloce. Le ultime settimane hanno visto una ripresa di attenzione, e di polemiche, su politica e giustizia. Tema delicato perché investe il rapporto tra due poteri dello Stato: declinato in termini diversi, a seconda degli assetti istituzionali e delle tradizioni, è di attualità ovunque. È di questi giorni l’attacco di Donald Trump a Jack Smith, lo special prosecutor nominato, secondo le regole di quel sistema, per indagare su eventuali reati addebitabili ai vertici dell’esecutivo. Poiché gli organi della pubblica accusa federale sono sotto il controllo dell’esecutivo, il correttivo adottato è quello di nominare di volta in volta un apposito prosecutor qualificato come independent. Questione non solo italiana dunque, ma la mediterranea fantasia vi ha aggiunto l’idea bizzarra della “giustizia ad orologeria”, che ha visto una drastica recente dilatazione, a stare a quanto dichiarato da “fonti di Palazzo Chigi”. Il timer dei nostri cellulari può essere regolato su un massimo 99 h 59’59”. Ora si deve trovare un timer regolabile su un tempo che supera l’anno, dal momento che si ipotizzano iniziative giudiziarie di qualche mese addietro, già calibrate sulle elezioni europee del 2024. In passato ci si limitava alle più prossime elezioni locali o anche nazionale. Forse la soluzione più razionale potrebbe essere un allegato alla legge di bilancio che stabilisca per l’anno successivo le “fasce protette”, calibrate su elezioni comunali, regionali etc., nelle quali non sarebbe consentito ai pm di iniziare indagini su esponenti politici. Abbiamo visto l’affollarsi di proposte per risolvere il “problema giustizia”, spesso di segno opposto a seconda dell’oscillazione del rating del momento tra garantismo e severità contro il crimine. E qui la mediterranea fantasia si è scatenata: se, come è noto, ciascun italiano è sicuro di poter svolgere il delicatissimo compito di Commissario tecnico della Nazionale di calcio, ben potrà anche avanzare le sue ricette-risolutive-sulla-riforma della- giustizia. Con una variante: qui lo sciovinismo cede all’esterofilia, Fratelli d’Italia è soppiantato da The Star-Spangled Banner. Lentezza dei processi. Ecco la soluzione: Court manager all’americana “soggetti titolari del caseflow management, cioè, della gestione dei procedimenti e del loro flusso”. Si tocca il nucleo della funzione del magistrato dirigente, giudice o Pm. Per i Tribunali la “gestione dei procedimenti e del loro flusso” deve muoversi nel delicato equilibrio tra produttività e celerità da un lato e dall’altro rispetto delle garanzie dei giudicabili, prima tra tutte quella del “giudice naturale precostituito” (art. 25 Cost.) attraverso il sistema delle “tabelle di composizione degli uffici”. Per la Procura, l’attività di indagine è inestricabilmente connessa alle scelte procedurali e gestionali del singolo magistrato nel quadro stabilito dal Procuratore nel Progetto organizzativo (e domani nel quadro delle direttive generali sulle priorità stabilite dal Parlamento). Il “trapianto” di modelli in contesti diversi per lo più ha dato risultati controproducenti. Piuttosto occorre un forte impegno del Ministero per la formazione e riqualificazione del personale amministrativo, per recuperare il disastro di venti anni di mancato turn over. La Scuola Superiore della Magistratura (forse non tutti lo sanno, ma i programmi sono liberamente accessibili sul sito) ormai da molti anni organizza, con il supporto di consulenti esterni esperti di organizzazione, corsi di gestione degli uffici per gli aspiranti dirigenti. Questi corsi dovrebbero essere proposti già nel tirocinio iniziale ai neomagistrati, che è bene si misurino da subito con la corresponsabilità per il risultato complessivo dell’ufficio. È un impegno di lungo periodo, che non può essere svalutato se i risultati non sono così immediati e così diffusi come tutti vorremmo. Per rimanere nel clima Star and stripes ricordiamo che alla celerità del sistema di giustizia statunitense concorrono, molto più del Court manager che esiste solo in alcune corti, ben altri fattori come la discrezionalità illimitata e senza controlli del prosecutor, la mancanza di un giudizio di appello sul merito, il verdetto, senza motivazione, della giuria. Non vi è bisogno di citare la barbarie della pena di morte e il tasso di carcerazione di dieci (non due o tre) volte superiore alla media dell’Europa occidentale per rammentare che tra i grandi meriti della gloriosa democrazia americana non vi è il sistema giudiziario. Nei giorni scorsi i passeggeri di un treno pendolare, esasperati per il ritardo, hanno aggredito il capotreno e il macchinista. Solidarizziamo con gli accaldati passeggeri, ma forse non è quella la via per risolvere i problemi. Eppure, quando si tratta di giustizia, non pochi cedono all’indicare come capro espiatorio il magistrato. “Well, nobody’s perfect”, è la celeberrima battuta finale di “A qualcuno piace caldo”. Di certo i magistrati italiani non sono perfetti. Attenzione a giocare con i numeri: Enrico Cuccia diceva che le azioni “si pesano e non si contano”, ma i numeri vanno inseriti nel quadro di sistema. Il sistema di valutazione a scadenza quadriennale dei magistrati dovrebbe essere più rigoroso, come mi è capitato più volte di auspicare e anche di cercare di praticare, quando ne ho avuto la responsabilità. È vero che i casi di valutazioni negative o non positive da parte del Consiglio Superiore della Magistratura sono percentualmente minimi (circa 3%). Mi è capitato due anni fa, in un corso alla Scuola superiore della magistratura, di ascoltare un grande esperto di organizzazione giudiziaria, il prof. Marco Fabri, il quale mostrava la statistica della Germania sulle valutazioni di professionalità. “Giudizi sui magistrati valutati: Sotto la media (0%); Soddisfacente (2-3%); Pienamente soddisfacente (40-50%); Buono (45-55%); Eccellente (5-10%)”. In sostanza, nessuna valutazione negativa e valutazione sufficiente tra 2 e 3%, percentuale del tutto simile alla somma delle nostre negative e non positive. Accusare di lassismo i cugini tedeschi… L’idea sottesa alle posizioni liquidatorie dell’attuale sistema di valutazioni sembra essere quella di stabilire tra i magistrati una graduatoria di merito assoluto. Una tale graduatoria è impraticabile, tanto diverse sono le funzioni e le specializzazioni in magistratura; si dimentica poi che l’obbiettivo da perseguire non può essere quello di selezionare un gruppetto di magistrati eccellenti, da assegnare magari agli uffici più importanti, ma quello di assicurare un livello medio diffuso di adeguata professionalità, sempre in aggiornamento. Ancora, numeri sui procedimenti disciplinare nei confronti di magistrati. Non tedio con altri numeri i lettori che abbiano resistito sin qui, ma rammento che le condanne disciplinari decise dal Csm nei confronti dei magistrati italiani sono di quasi dieci volte superiori a quelle decise dal Csm francese. Il dato incontrovertibile emerge dai rendiconti degli ultimi anni dei due Csm e il raffronto non è arbitrario data la vicinanza tra le due organizzazioni giudiziarie. La necessità di riforme per assicurare maggiore efficienza e celerità alla nostra macchina giudiziaria è sotto gli occhi di tutti. Forse varrebbe la pena di concentrarsi su questo piuttosto che affollare il Parlamento di progetti di legge concentrati su nuovi reati o su abrogazione di altri. O di andare a cercare soluzioni magiche oltre Oceano. Il governo sfida le toghe: un decreto per correggere la Cassazione di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 luglio 2023 Meloni ha annunciato un decreto legge contenente una norma d’interpretazione autentica sui reati di criminalità organizzata. Un’invasione di campo nella giurisdizione che rischia di far riesplodere le tensioni tra politica e toghe. Nell’indifferenza generale, il governo sta per sferrare uno schiaffo alla magistratura che potrebbe far riesplodere le tensioni tra politica e toghe. In apertura del Consiglio dei ministri di lunedì, infatti, la premier Meloni ha annunciato l’intenzione di adottare, d’intesa con il Guardasigilli Carlo Nordio, un decreto legge contenente una norma d’interpretazione autentica che chiarisca cosa debba intendersi per “reati di criminalità organizzata”, correggendo l’interpretazione avanzata da una recente sentenza della Corte di Cassazione. Già la sola idea che il governo voglia intervenire con un decreto per “correggere” un’interpretazione giurisprudenziale fa venire i brividi, soprattutto se si tiene a cuore il principio di separazione dei poteri. La vicenda, però, è ancora più grave, perché mira a strumentalizzare una sentenza della Corte di Cassazione di un anno e mezzo fa (altro che recente) nei giorni della commemorazione della strage di Via D’Amelio, con l’obiettivo di ripulire l’immagine del governo che si ritiene macchiata anche dalle ultime polemiche sulla riforma del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, invocata da Nordio ma esclusa dalla premier Meloni (“Non è nel programma di governo”). La sentenza nel mirino del governo è la numero 34895 del 30 marzo 2022 della prima sezione penale della Cassazione e riguarda la possibilità di eseguire intercettazioni ambientali per un omicidio aggravato da finalità mafiose. I giudici hanno bocciato la lettura fornita dalla corte d’appello di Napoli (favorevole al ricorso alle intercettazioni), richiamando la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, secondo cui per integrare la nozione di delitti di “criminalità organizzata” è indispensabile “la contestazione di una fattispecie associativa, anche comune”, mentre non possono qualificarsi come delitti di criminalità organizzata quelli non associativi, anche se commessi avvalendosi di particolari condizioni proprie delle organizzazioni mafiose o per agevolare le attività di tali organizzazioni. Tradotto: i mezzi di intercettazione particolarmente invasivi previsti per contrastare i reati di associazione mafiosa non possono essere utilizzati anche per contrastare reati comuni aggravati dalle modalità mafiose. “Sul punto vi è una giurisprudenza consolidata, che passa attraverso tre sentenze delle Sezioni unite della Cassazione, tutte convergenti nel definire l’espressione ‘criminalità organizzata’ come una clausola che si riferisce a fatti di reato commessi da soggetti inseriti in associazioni criminali”, conferma al Foglio Vincenzo Maiello, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Napoli Federico II e avvocato. Maiello non nasconde lo stupore per la scelta annunciata dal governo di fornire un’interpretazione autentica della questione: “Il legislatore può effettuare un intervento di interpretazione autentica soltanto quando esiste un perdurante contrasto all’interno della giurisprudenza e quando ritiene che questo contrasto abbia finito per privare di senso un enunciato normativo. Ma in questo caso non c’è nessun contrasto. Siamo di fronte a un errore interpretativo della corte d’appello, non a un contrasto giurisprudenziale tra due sezioni della Cassazione”. “Un intervento di interpretazione autentica - aggiunge Maiello - non potrebbe mai intervenire per sanare un contrasto tra un’interpretazione del giudice di merito e un’interpretazione del giudice di legittimità, perché è destinato a essere risolto dall’intervento del giudice di legittimità. Ciò che il legislatore può fare è approvare una nuova norma”. Insomma, nel caso in cui il governo intervenisse con l’”interpretazione autentica” saremmo di fronte a una palese invasione di campo da parte dell’esecutivo nell’ambito dell’attività giurisdizionale, che dovrebbe essere autonoma e indipendente. Con le toghe, stavolta comprensibilmente, pronte a mostrare il proprio dissenso, attraverso l’Anm e il Csm. Quella sudditanza psicologica della politica nei confronti dei pm. Lo dice il capo delle toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 22 luglio 2023 Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia critica la riforma sulla separazione delle carriere e punta il dito sul palazzo: “Evitiamo che il pubblico ministero diventi il rostro della politica nella giurisdizione”. La maggioranza di centro-destra insieme al Terzo Polo sarebbe pronta alla fine della legislatura a portare a casa la separazione delle carriere con due Csm distinti. Tra le motivazioni addotte per raggiungere l’obiettivo c’è quella di limitare il presunto strapotere della magistratura requirente. Ma siamo sicuri che l’unico modo sia questo? Siamo certi che non si tratti solo di una battaglia ideologica e che non ci sia prima un’altra strada da intraprendere? Il dubbio arriva leggendo le dichiarazioni che il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha pronunciato nel corso del convegno che Ocf e Presidenza della Commissione Affari Costituzionali della Camera hanno dedicato al tema della separazione della carriere. Il vertice della magistratura associata ha infatti evidenziato nel suo discorso una contraddizione logicamente inappuntabile: “Se oggi la politica avverte una eccessiva presenza del pm, discutiamone. Ma le cause non sono di certo nella Costituzione che è l’antidoto ad una enfatizzazione del ruolo del pm. Le pdl (le 4 incardinate in Commissione, ndr) vanno in senso opposto, ossia verso un allargamento dei poteri del pm. La politica, invece paradossalmente, sembra sedotta talvolta dalle istanze della magistratura requirente. Quando c’è stata la Sezione Unite Cavallo sulle intercettazioni, i pubblici ministeri si sono preoccupati e lamentati. Chi ha dato la risposta? La politica. Mai che succede che la magistratura giudicante si lamenti e la politica” faccia qualcosa. “Ora si discute di una sentenza della Corte di Cassazione in materia di definizione della nozione di criminalità organizzata, se ne lamentano i pubblici ministeri, e il Governo rassicura: “rimedieremo ad un errore della Corte di Cassazione”. Questi sono oggi i rapporti tra politica e Pubblico ministero. Evitiamo che il pubblico ministero diventi il rostro della politica nella giurisdizione. Questo dovrebbe interessare soprattutto l’avvocatura”. Come dire: i pm hanno diritto a lamentarsi, ma la politica non ha il dovere di “ascoltarli”. A pronunciarsi come Santalucia in merito alla sentenza Cavallo - la pronuncia aveva stabilito che i reati diversi devono essere comunque collegati a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate - , ci fu anche l’ex Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick che in una intervista fatta su Dubbio al nostro Errico Novi spiegò bene come la politica si piegò alle esigenze delle procure, soprattutto quelle antimafia. Infatti prontamente l’ex presidente del Senato Pietro Grasso propose un emendamento estensivo sull’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali sono autorizzate. Eppure disse Flick “La sentenza in questione è stata pronunciata dalla Suprema corte a sezioni unite. E appunto, tali pronunce hanno valore nomofilattico, vale a dire che è opportuno pensarci bene prima di discostarsene. I giudici difficilmente se ne sarebbero discostati”. Commentando poi le successive modifiche sulla norma riguardante le intercettazioni e i trojan, arrivando fino alla Spazzacorrotti, il presidente emerito della Corte Costituzionale commentò: “La sola possibile logica di una simile scelta normativa si spiega nella volontà di venire incontro alle spinte dei pm affinché fosse di fatto consentita la pesca a strascico dei reati tramite intercettazioni”. Adesso invece il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo e altri pm che fanno inchieste sulla criminalità organizzata puntano il dito contro una sentenza della Cassazione che, secondo loro, ha aperto le porte del carcere ai mafiosi in base ad una interpretazione stravagante del concetto di criminalità organizzata. Subito il Governo, come ha ricordato anche Santalucia, ha annunciato addirittura un decreto legge, che di solito si applica in casi di estrema urgenza, per porre rimedio e insegnare ai giudici di Piazza Cavour che la via maestra sarebbe quella dell’antimafia che il professor Giovanni Fiandaca ha definito “dogmatico-sacrale” per contrapporla a quella “laica”. Ma guardando al passato ci sono altri esempi di sudditanza della politica ai desiderata della magistratura requirente. Siamo nel 1991: presidente del Consiglio è Giulio Andreotti, Ministro della Giustizia invece è Claudio Martelli, il quale diede nome al decreto legge che, dalla sera alla mattina, riportò in carcere i 44 capimafia, rilasciati qualche giorno prima per effetto di una sentenza della Corte di Cassazione che aveva dettato criteri rigidi per il computo della custodia cautelare, ovvero la detenzione prima di aver subito una condanna definitiva. Quel decreto, predisposto dall’allora guardasigilli e numero 2 del Psi, rispose in fretta tanto all’indignazione dei magistrati antimafia, in un certo qual modo beffati dalla Cassazione, “quanto allo sbigottimento - ricorda l’Agi - dell’opinione pubblica per il ritorno in libertà di quei soggetti che si era abituata a vedere dietro le sbarre nelle gabbie della grande aula bunker dell’Ucciardone, dove si era concluso con una gragnuola di ergastoli il primo, epico, ‘maxiprocesso’ a Cosa Nostra”. Poi, come e più del decreto Conso, il decreto Biondi nel 1994 scatenò le ire del pool di Mani pulite. La norma limitava a casi eccezionali la custodia cautelare e questo portò in televisione Antonio Di Pietro, circondato dai suoi colleghi del pool, per leggere un comunicato con il quale i pm chiedevano di essere destinati ad altri incarichi perché quel decreto rendeva impossibile proseguire efficacemente le indagini. Anche in questo caso l’opinione pubblica insorse schierandosi dalla parte dei pm. Risultato? Il decreto fu ritirato. E che dire di quanto avvenuto il 10 maggio 2020 quando l’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si fece promotore di un decreto per evitare le ‘scarcerazioni’ facili dei boss mafiosi in tempo di pandemia? Solo una settimana prima era stato approvato un altro decreto che rendeva obbligatoria la richiesta del parere della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia e antiterrorismo, prima di assegnare la detenzione domiciliare. Così commentò l’Unione delle Camere Penali: il decreto “è volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di Sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo ed al controllo delle procure distrettuali antimafia”. Insomma sempre più forti i pm, sempre più deboli i giudici. Caro ministro Nordio, è blasfemo dire che il Pm è il “monopolista dell’azione penale” di Rosario Russo* Il Dubbio, 22 luglio 2023 Corsi e ricorsi storici: il pendolo della Storia e l’eterno ritorno. Anno domini 1913, per la prima volta nel Regno d’Italia, l’art. 179 del codice di rito appena promulgato statuisce che il Procuratore del Re “Se reputi che per il fatto non si debba promuovere azione penale richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto”. Il generico controllo giudiziario sull’attività dei requirenti così introdotto fu sostanzialmente disapplicato, fino a quando, insediandoti il regime fascista (che dal 1923 ebbe il pieno controllo sulla magistratura), l’art. 74 del codice Rocco (1930) restaurò l’autogestione autoritaria dell’accusa risalente al codice del 1865. Cestinino pure i pretori e i procuratori del Re la notizia criminis, fermo restando che il procuratore del Re e rispettivamente il procuratore Generale, previamente informati, hanno il potere di disporre che si proceda penalmente. Al postutto così, per tramite dei Requirenti, il Governo poteva esperire e coltivare l’azione penale pro amico o contra inimicum. Il seguito è storia vissuta: in piena guerra civile il decreto luogotenenziale n. 288 del 1944 si affretta a modificare l’art. 74 del codice Rocco; la Costituzione (art. 112) obbliga il Pubblico Ministero ad esperire l’azione penale; il nuovo codice di rito disciplina la materia (artt. 408 e 409 c. p. p.) con le modifiche introdotte dalla Riforma Cartabia. Dopo poco meno di un secolo dall’approvazione del codice Rocco allarma il recente intervento del Ministro Nordio, mai smentito: “Nel processo accusatorio il Pubblico Ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”. (La Stampa, 7 luglio 2023). Piace la ribadita autonomia e indipendenza del Pubblico Ministero, per altro almeno sulla carta pienamente garantita dagli artt. 101,104 e 107 Cost., da parte lasciando (ma fino a quando?) il sistema clientelare- spartitorio confessato dal dott. Palamara, ma ancora non debellato. In ogni caso è blasfemo asserire che nel nostro ordinamento il Pubblico Ministero è il “monopolista dell’azione penale”. Niente di più aberrante, se per ‘ monopolista’ si intenda l’operatore che, anziché adeguarsi alle regole del mercato, sia in grado di imporle. In realtà, come è a tutti noto, il Pubblico Ministero non ha, e non deve avere, alcuna signoria o potestà sull’azione penale, non è maître de son action” (padrone e signore della propria funzione), essendone piuttosto servo, in quanto obbligato ad esercitarla in conformità alla legge (art. 3, 101 e 112 Cost.), proprio al fine d’impedire che la sanzione penale sia brandita pro amico o contra inimicum. Sono stati necessari diciotto anni (dal 1930 al 1948), e due sanguinose guerre di liberazione, per abrogare sul punto il codice Rocco. Né in tema è possibile apprezzare la coerenza giuridica del Ministro Nordio. Il quale invero, nell’ordine, ha scritto che “Esso [“il vituperato codice Rocco”] tanto fascista non era, visto che rimase in piedi per quarant’anni dopo la promulgazione della Carta nata “dalla resistenza”“ (Giustizia ultimo atto, 2022, cap. V); ha poi dichiarato “Riuscirò a riformare il codice di Mussolini” (La Repubblica, 5 novembre 2022); ha infine sostenuto il 7 luglio scorso che la decisione del Pubblico Ministero sull’esperimento dell’azione penale non può - e non deve - essere sindacata dal giudice, impegnandosi nella propria veste di Ministro a riformare in tale direzione l’attuale codice di rito penale. A beneficio dell’attento lettore, si impongono due precisazioni ulteriori. La prima riguarda la grammatica e il galateo istituzionale, e cioè i rapporti tra il l Governo e l’Ordine giudiziario. La riferita esternazione del Ministro non è casualmente avvenuta in un pubblico dibattito giuridico sull’archiviazione o sull’obbligatorietà dell’azione penale, ma con dichiarato riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto il suo sottosegretario onorevole avvocato Delmastro, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio. La Procura della Repubblica capitolina, accertato che l’indagato aveva rivelato un segreto d’ufficio, aveva chiesto l’archiviazione per difetto dell’elemento soggettivo, potendosi dubitare plausibilmente che l’indagato ne conoscesse la giuridica segretezza. Il Gip. ha invece disposto l’imputazione cd. coatta, ritenendo evidentemente che, esauriente essendo l’indagine svolta, gli elementi acquisiti “consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” (art. 408, 1° c. p. p.). Non è la prima volta che il dott. N. si erge pubblicamente a difesa del suo Sottosegretario. Lo aveva già fatto davanti al Parlamento. Ove, addirittura arditamente rivendicando che soltanto al suo Dicastero competeva il diritto di stabilire se fossero segreti gli atti divulgati dall’indagato onorevole Delmastro, escluse che le notizie esternate dal suo sottosegretario fossero segrete: circostanza ora smentita dalla Procura competente nel momento in cui ha chiesto l’archiviazione soltanto per difetto dell’elemento soggettivo. La mirata reiterazione non esclude, ma aggrava, l’invasione di campo. La seconda precisazione è di ordine tecnico- giuridico. Se la Procura agente potesse archiviare a proprio arbitrio, essa sarebbe libera di agire penalmente pro amico o contra inimicum, come aveva statuito il Ministro Rocco. Invece, alla stregua della Costituzione e del nuovo codice di rito, l’inazione del Pubblico Ministero è legittima soltanto se approvata dal giudice. Il quale, nella specie, ha motivatamente ritenuto che fosse ragionevolmente prevedibile la condanna in giudizio di un avvocato penalista, nonché sottosegretario alla Giustizia (con specifica delega alla trattazione degli affari di competenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), come l’onorevole Delmastro, non potendo egli plausibilmente ignorare la segretezza delle notizie propalate in una fattispecie paradigmatica, in cui di per sé lo specifico trattamento carcerario (ex art. 41 bis) presuppone ed impone il più rigoroso isolamento tra i detenuti e l’ambiente esterno. Perché a suo avviso, signor Ministro, la valutazione della Procura (tenuta ad esercitare l’azione penale) dovrebbe prevalere su quella del giudice (che ha proprio il dovere di accertare la legittimità dell’archiviazione e di rispettare la legge)? È altrettanto noto che, rigettata l’istanza d’inazione, proprio in ossequio al rispetto della separazione delle funzioni e del modello accusatorio, secondo cui il giudice non può procedere d’ufficio, egli non può imporre, e non impone, alla Procura di chiedere il rinvio a giudizio, lasciandola libera di scegliere l’imputazione più conforme a legge (si rinvia sul punto alla sent. delle Sezioni Unite n. 4319 del 2013). E per finire, Signor Ministro, in quale direzione vuole proporre la sua riforma delle anzidette disposizioni? *Già sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Per la Consulta il voto della Camera è “carta straccia”: si può usare il trojan contro i parlamentari di Paolo Comi L’Unità, 22 luglio 2023 Tutto regolare. Per la Corte Costituzionale, presidente Silvana Sciarra, il voto del Parlamento è “carta straccia”. Con una sentenza che sicuramente passerà alla storia della Repubblica, la Consulta ha deciso che la Camera si era sbagliata quando aveva votato contro l’autorizzazione, avanzata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, ad utilizzare le intercettazioni effettuate con il trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara e che coinvolgevano Cosimo Ferri. Per la Consulta, relatore il giudice Stefano Petitti, storica toga di Magistratura democratica, Ferri, all’epoca parlamentare di Italia viva, venne intercettato in maniera del tutto ‘casualè da parte del Gico della Guardia di finanza su ordine della Procura di Perugia. La Camera, a gennaio del 2022, con 227 voti a favore e solo 86 contrari (M5s e Alternativa) aveva invece approvato la relazione della Giunta per le autorizzazioni con la quale vietava al Csm di utilizzare queste conversazioni nel procedimento disciplinare nei confronti di Ferri. Per il Parlamento vi era stata una macroscopica violazione della legge da parte degli inquirenti, un “regolamento di conti interno alla magistratura nel quale i deputati non devono entrare”, secondo il deputato Andrea Delmastro e ora sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia. Per il relatore Pietro Pittalis (FI) era evidente che già dal mese di febbraio 2019, quindi prima della cena all’hotel Champagne del 9 maggio successivo, gli inquirenti fossero a conoscenza che Palamara incontrava Ferri, il cui nome compariva quasi 400 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche. “Appare plausibile - disse Pittalis a proposito di Ferri - che egli sia stato un chiaro bersaglio delle indagini, che erano in concreto indirizzate anche ad accedere nella sua sfera di comunicazioni”. Come era infatti emerso dagli atti, gli investigatori della Guardia di finanza avevano contezza che si sarebbe svolto l’incontro all’hotel Champagne e che vi avrebbero partecipato non uno ma ben due deputati (l’altro era il dem Luca Lotti, ndr) “ma non hanno avuto cura di interrompere un’attività investigativa che non poteva essere effettuata con quelle modalità”. La captazione del 9 maggio non poteva, dunque, “minimamente essere ritenuta casuale e, conseguentemente, non lo sono nemmeno le successive”. Tra il giorno della captazione e quello dell’ascolto di tutti i progressivi delle captazioni prima e dopo l’incontro, inoltre, i pm di Perugia avevano anche dato istruzioni al Gico di non effettuare registrazioni nel caso in cui ci fosse la consapevolezza della presenza di un parlamentare. Dunque, non solo quelle intercettazioni non dovevano essere effettuate, “come da nota del pm”, ma, se effettuate, non potevano essere ascoltate, cosa che non è però avvenuta. A favore della tesi di Pittalis, sia Federico Conte (LeU) che Alfredo Bazoli (Pd). Per la ‘casualità’, prima della Consulta a guida Sciarra, solo il M5s. Crimini nazisti, la Consulta: legittima l’estinzione dei risarcimenti verso la Germania Il Dubbio, 22 luglio 2023 Per i giudici la tutela delle vittime è compensata dalla costituzione del Fondo previsto dal decreto del governo Draghi. “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 43, comma 3, del decreto legge numero 36 del 2022 sollevate, in riferimento agli articoli. 2, 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma in una procedura per esecuzione forzata su beni della Germania per il risarcimento dei danni per crimini di guerra e contro l’umanità, commessi durante la Seconda guerra mondiale”. È quanto ha stabilito la Corte Costituzionale in relazione al decreto risalente al governo Draghi e pensato per evitare che la Repubblica Federale di Germania subisse la perdita di un assetto immobiliare nell’ambito di un pignoramento fissato dal tribunale di Roma in un caso di risarcimento di vittime del Terzo Reich. Il provvedimento impone allo Stato italiano di ritenere indenne la Germania dalle pretese delle vittime italiane degli eccidi nazisti e di pagare tutti i risarcimenti al posto dello Stato tedesco attraverso un fondo appositamente costituito dal decreto ed istituito per decreto attuativo (pubblicato a inizio luglio in Gazzetta ufficiale) dal ministero dell’Economia e delle finanze del governo Meloni, di concerto con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e di quello della Giustizia “con una dotazione di euro 20.000.000 per l’anno 2023 e di euro 13.655.467 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026”. La quarta Sezione civile del Tribunale di Roma aveva paventato una possibile violazione degli articoli 2, 3, 24 e 111 della Costituzione, dando così nuovamente la parola alla Corte Costituzionale. Il caso - Gli eredi di alcuni deportati in campi di concentramento avevano ottenuto la condanna al risarcimento dei danni provocati dal Terzo Reich per il trattamento disumano durante il periodo di internamento e avevano pignorato beni immobili della Repubblica Federale della Germania. Al fine di ristorare i danni per crimini di guerra commessi nel periodo dal primo settembre 1939 all’8 maggio 1945, il censurato articolo 43 ha istituito un Fondo speciale in continuità con il precedente Accordo di Bonn del 1961 tra Italia e Germania, che già aveva riconosciuto indennizzi in favore di cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste. Tale norma ha stabilito che può accedere al Fondo e domandare il previsto ristoro chi ha ottenuto, o ottiene, una sentenza passata in giudicato, avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni, a seguito di azione giudiziaria avviata alla data di entrata in vigore del decreto legge numero 36 del 2022 o comunque promossa entro il termine di decadenza da ultimo prorogato fino al 28 giugno 2023. Il Fondo è operativo secondo le modalità regolate da un recente decreto interministeriale, così come previsto dallo stesso decreto legge. La medesima norma (articolo 43) ha poi previsto che i giudizi di esecuzione già intrapresi e pendenti sono dichiarati estinti e non possono essere iniziate o proseguite procedure esecutive. Con la sentenza numero 159 depositata oggi (redattore il giudice Giovanni Amoroso) la Corte ha affermato che nelle procedure esecutive opera l’immunità (cosiddetta ristretta) degli Stati, come già riconosciuto in favore della Germania dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, e ha ritenuto che l’estinzione di diritto delle procedure pendenti è compensata dalla tutela introdotta con l’istituzione del Fondo “ristori”, di importo pari alle somme liquidate con sentenze passate in giudicato. Ha affermato la Corte che la disposizione censurata realizza un non irragionevole equilibrio tra la tutela giurisdizionale di chi abbia ottenuto una sentenza passata in giudicato e l’obbligo del rispetto dell’Accordo di Bonn del 1961 sugli indennizzi spettanti alle vittime dei crimini di guerra. Sicilia. Garante dei detenuti: “Avviare iter per la nomina nei comuni dove ci sono le carceri” blogsicilia.it, 22 luglio 2023 La Democrazia Cristiana ha iniziato le interlocuzioni affinché venga avviato l’iter per la nomina dei garanti dei detenuti ad Agrigento, Augusta, Catania, Enna, Piazza Armerina, Gela, Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Noto e Ragusa, comuni in cui insistono gli istituti penitenziari siciliani. “Quella del carcere è una esperienza dall’odore incancellabile, c’è il dolore in tutta la sua sacralità - dichiara il segretario nazionale della Dc, Totò Cuffaro -. Il carcere non è storia di corpi, ma storia di anime che vivono la paura e lunghi sensi di colpa in pochi istanti ripetuti. Pochi si rieducano, molti pagano solo un pedaggio alla propria coscienza, troppi scelgono di togliersi la vita. La sicurezza degli istituti penitenziari deve tornare ad essere urgentemente argomento di interesse pubblico e, aggiungo, anche politico”. “La nostra comunità è stata straziata nei giorni scorsi da due suicidi di giovanissimi, uno dei quali avvenuto in un luogo deputato all’espiazione di una pena, ma anche alla rieducazione e al reinserimento nella società - dichiara il deputato regionale della Dc, Ignazio Abbate -. Chi arriva a questo punto è perché si sente solo, senza una via d’uscita. Difficile capire quando e come intervenire ma è nostro dovere morale provarci. È nostro dovere mettere in campo tutte le armi possibili per combattere questa guerra di solitudine che troppe vite porta via con se. Sappiamo che la strada per migliorare le condizioni di vita dei detenuti è lunga e tortuosa, ma abbiamo la ferma volontà in percorrerla per evitare il ripetersi di altri episodi simili”. “La politica italiana non esiste all’interno delle carceri del nostro Paese, ed esistono pochi politici che partecipano autenticamente al cordoglio per un detenuto morto anche se quel detenuto, come è avvenuto a Ragusa, è un ragazzo di 25 anni, padre di tre figli che sceglie di morire in cella, anziché pensare alla speranza di una vita fuori dalla galera - dichiara Eleonora Gazziano, responsabile Dc diritti umani art.3 e 27 della Costituzione -. I dati dei suicidi in carcere in tutta Italia sono in costante aumento e, come sostengono il nostro segretario nazionale Cuffaro e l’onorevole Abbate, occorre impegnarsi per la nomina del garante dei detenuti negli istituti penitenziari che oggi ne sono privi. Anche grazie al nostro impegno, siamo riusciti a far sì che fosse nominato a Palermo, adesso occorre che venga esteso anche agli altri comuni. Accanto a ciò, occorre che il governo nazionale produca atti concreti, senza troppe filosofie che ne rallentino l’applicazione. Il carcere non può essere interpretato e mantenuto come un luogo di morte, perché questo è il senso di marcia opposto a quello immaginato e voluto dei nostri padri costituenti”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Un testimone-chiave dei pestaggi è morto suicida di Francesco De Felice Il Dubbio, 22 luglio 2023 Fakhri Marouane non potrà più testimoniare al processo per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, del 6 aprile 2020. È morto al Policlinico di Bari dove era ricoverato dal 27 maggio scorso per le ustioni riportate nel carcere di Pescara. Dopo quasi due mesi di agonia alla prossima udienza prevista per l’11 settembre Fakhri Marouane, 30enne marocchino, non ci sarà. Era parte civile nel procedimento penale avviato, nel novembre scorso, per accertare le responsabilità sugli episodi denunciati nel carcere sammaritano. Il processo vede imputate 105 persone tra agenti polizia penitenziaria, vertici del Dap e medici dell’Asl campana. Marouane avrebbe dovuto testimoniare, anche perché dai video delle violenze, dalle indagini e dalle prime fasi del processo (partito a novembre 2022), è emerso che fosse stato tra i detenuti maggiormente coinvolti nei pestaggi presi di mira” dagli agenti penitenziari responsabili dei pestaggi. Dai video, mostrati nelle scorse udienze, si vede che fu costretto a muoversi sulle ginocchia a piccoli passettini per raggiungere il suo posto nell’area socialità del carcere; rimasto solo dopo che gli altri detenuti erano stati portati via, fu colpito con il manganello in testa, quindi fatto alzare e inginocchiare nuovamente ad altezza di un agente, e alla fine riportato in cella tra i poliziotti che continuavano a pestarlo. Dopo la drammatica esperienza di Santa Maria Capua Vetere Fakhri Marouane era stato trasferito a Pescara, dove aveva iniziato un percorso di rieducazione, diplomandosi e ottenendo la semilibertà. Poi l’inizio del processo per le mattanza nel carcere sammaritano, probabilmente ha fatto riaffiorare nella sua mente quei momenti di terrore. Ricordiamo che per 12 agenti è contestato il reato di cooperazione in omicidio colposo relativo alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, morto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto per giorni in isolamento. Proprio per quest’ultimo caso inizialmente la Procura aveva scelto di contestare il reato di “morte come conseguenza di altro reato”, bocciato dal Gip Sergio Enea che la classificò come suicidio. La decisione del Gip è stata però impugnata dalla Procura che ha provveduto a integrare il quadro accusatorio. Per gli agenti e funzionari le accuse sono a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso. Sul tentativo di suicidio di Fakhri Marouane del 27 maggio scorso che lo ha portato alla morte il fratello ha presentato una denuncia per fare chiarezza sull’episodio. Secondo una ricostruzione fornita da alcuni agenti sindacalisti, operativi al San Donato di Pescara, il “detenuto, 40 anni originario del Marocco, si sarebbe dato fuoco. Sembrerebbe che alla base dell’insano gesto del detenuto, con una pena definitiva da scontare ed ammesso al lavoro all’esterno, vi sia stata la contestazione per un rapporto disciplinare avuto qualche giorno prima. Il detenuto ha quindi chiesto più volte di parlare con il comandante e, nel momento in cui questi si recava presso il reparto semiliberi, il detenuto si è dato fuoco. Tempestivamente è stato allertato il 118 che lo ha trasportato all’ospedale civile di Pescara - ma le condizioni del recluso - sono apparse subito gravi - per questo Marouane è stato - trasportato con l’elicottero per il ricovero presso la struttura grandi ustionati dell’ospedale di Bari”. L’episodio di quel giorno è descritto in una nota, del 27 maggio scorso, diramata dal Sindacato autonomo della polizia penitenziaria. La morte di Fakhri Marouane fa salire a 40 il triste conteggio dei suicidi in carcere e a 83 le morti dall’inizio dell’anno. “Il suo suicidio è - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - l’ennesimo fatto tragico che interessa le carceri italiane e prosegue nella scia di quello registrato nel 2022, quando furono 85 le persone a togliersi la vita in un istituto di pena. Ancora una volta l’arrivo dell’estate sta facendo registrare un aumento di questi episodi. Dall’inizio di giugno se ne contano già 11. L’anno scorso, solo il mese di agosto furono 16. Per questo c’è bisogno di provvedimenti immediati e urgenti: riempire la vita nelle carceri di attività anche in questi mesi, garantendo l’accesso di volontari; dare alle persone detenute la possibilità di effettuare telefonate e videochiamate ogni giorno con i propri cari; contro il caldo garantire la presenza di ventilatori e frigoriferi nelle celle. Il grande numero dei suicidi registrato lo scorso anno aveva acceso l’attenzione sul mondo delle carceri, c’è bisogno di tornare a parlarne e garantire che, questa volta, le buone intenzioni si trasformino in atti concreti”, conclude il presidente di Antigone. Reggio Emilia. Pestaggio in carcere, agente rompe il silenzio “L’ho solo tenuto fermo. Non è stato picchiato” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 22 luglio 2023 Ieri gli ultimi interrogatori di garanzia per i 14 poliziotti penitenziari indagati. A fornire la sua versione, quello che avrebbe bloccato un piede del detenuto. Uno degli agenti penitenziari finiti sott’inchiesta per il presunto pestaggio al detenuto in carcere, datato 3 aprile, ha deciso di rispondere alle domande del giudice. L’unico a farlo, tra tutti i colleghi indagati. Ieri, durante l’interrogatorio di garanzia di fronte al gip Luca Ramponi, ha respinto gli addebiti. Lui, un giovane, è uno degli otto uomini indagati per l’ipotesi di tortura e sospesi per un anno dai pubblici uffici. Per altri due lo stop dura dieci mesi. Tra loro, cinque sono stati raggiunti anche dall’obbligo di firma. Gli uomini sott’inchiesta sono in tutto quattordici. Così il pm ha descritto una delle fasi della contestata aggressione, immortalata nel video: “Un agente si inginocchia con tutto il proprio peso sulla parte bassa della schiena del detenuto, riverso a terra in posizione prona. Un altro mette il piede destro sulla sua caviglia sinistra, mentre un terzo agente gli blocca la caviglia con la mano sinistra. A quest’ultimo, un poliziotto graduato fa cenno di mettere la propria scarpa sul piede del detenuto: l’agente provvede”. Il poliziotto che ieri ha rotto il silenzio è colui che, nella descrizione, ha messo il piede sulla caviglia del 40enne e poi la scarpa sul suo piede. In un altro punto dell’ordinanza cautelare, è indicato come colui che “tiene fermo il piede destro del detenuto mentre viene colpito a terra con calci e pugni”. Davanti al gip ieri l’agente ha parlato per mezz’ora, dicendo di essersi trovato lì mentre era di passaggio. “Non ho commesso alcuna violenza - sono i concetti da lui espressi -. Non l’ho mai picchiato, né offeso. Quando ho appoggiato la scarpa, non ho usato la forza. E mentre l’ho tenuto fermo, con modi regolari, nessuno lo ha aggredito”. Il suo avvocato difensore Sinuhe Curcuraci sostiene che il video “è stato interpretato male” e ha chiesto al gip la revoca della misura interdittiva, sostenendo che non vi siano esigenze cautelari. Sette, in tutto, gli agenti sfilati ieri davanti al gip: a parte il giovane, tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, così come i tre che erano stati convocati lunedì. L’avvocato Federico De Belvis assiste tre poliziotti comparsi ieri in tribunale: “Mi riservo di ricorrere al Riesame”. Uno è seguito dall’avvocato Alessandro Conti, un altro suo collega dall’avvocato Carmen Pisanello che rimarca un dettaglio del video: “Alla fine del filmato si vede il detenuto estrarre dalla bocca un oggetto che non si capisce cosa sia e che lui appoggia sull’inferriata della chiusura della cella. Ritengo sia un elemento importante perché in carcere talvolta succede che alcune cose siano nascoste nei posti più impensabili: è dunque possibile che quell’oggetto fosse stato ben inserito dentro la sua bocca. In questa vicenda non si parla di una lametta intera, e comunque a volte i detenuti si procurano pezzetti di metallo da bombolette spray, che poi conservano. È dunque importante studiare tutti gli atti nel dettaglio e valorizzare quest’elemento in modo adeguato”. Brescia. Emergenza carcere, “Rotto il patto di fiducia tra operatori e detenuti” di Mara Rodella Corriere della Sera, 22 luglio 2023 Per Carlo Alberto Romano, docente e anima dell’associazione Act, rinsaldarlo è l’unica strada. Ma “serve aiuto per gestire psichiatrici, tossicodipendenti e stranieri”. Quel filo sottile che dovrebbe legare la città e il “suo” carcere. I cittadini dentro e quelli fuori, “accecati” dalle mura e dal filo spinato, a convincersi sia un mondo a sé. Da quando è nata, ormai 26 anni fa, l’associazione Carcere e Territorio lavora proprio per e con le persone private della libertà, nella logica di una relazione partecipata verso la riabilitazione. A fondarla fu Giancarlo Zappa, magistrato e giudice di sorveglianza, antesignano del volontariato in carcere. “Ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del diritto penitenziario italiano e forse a Brescia nemmeno ci rendiamo contro di quanto sia stato illuminato e prezioso”, ricorda il presidente, Carlo Alberto Romano, docente di criminologia a Unibs. Recuperandone il pensiero: “Non può esistere l’esecuzione penale avulsa dalla comunità nella quale ha luogo. Penso al carcere, che troppo spesso dimentichiamo ne faccia parte, ai percorsi esterni, alle misure alternative, che raggiungono il proprio obiettivo, costituzionale, se la comunità è attenta e partecipe”. Perché succeda, però, “occorre sviluppare la cultura della pena, intesa come strumento per recuperare una vita degna di chiamarsi tale”. Anche facendo riflettere i ragazzi: con gli incontri, i confronti, l’arte. Servono le misure alternative. Perché “il carcere, da solo, non ce la fa”: per i numeri, la gestione, le presenze “di persone che in carcere non dovrebbero stare, come dimostrano, anche a Canton Mombello, i sempre più numerosi episodi di aggressività lamentati, giustamente, anche dalla polizia penitenziaria”. Perché per Carlo Alberto Romano, la vera emergenza di Canton Mombello non è data da un sovraffollamento ormai cronico, che sfiora il 100%. “Il problema principale a mio modo di vedere è la rottura del patto fiduciario dentro il carcere: fino a una ventina di anni fa, operatori dell’area educativa, detenuti e penitenziaria riuscivano a lavorare insieme costruendo percorsi trattamentali grazie ai quali i reclusi capivano quale avrebbe potuto e dovuto essere la loro strada e si avviavano con consapevolezza e fiducia verso il raggiungimento di questi obiettivi”. Oggi, invece, “purtroppo questo è quasi venuto meno”, lasciando il passo a “una contrapposizione che poi si riverbera nella violenza. Dobbiamo recuperare il senso del lavorare insieme perché l’esistenza di ciascuno è interesse di tutti: in termini di sicurezza, tutti noi vogliamo abbattere le recidive e fare in modo che i reati calino, e perché tanti ragazzi, uomini e donne, sprecano l’esistenza nel circuito penitenziario e nella recidiva”. Eppure i progetti per l’inserimento lavorativo non mancano, come dimostra il recentissimo accordo siglato tra gli Istituti di Pena, la garante dei detenuti e il Tribunale di Sorveglianza di Brescia. “È fondamentale. Perché dimostra che questa è la strada: la comunità, che interviene e mette a disposizione risorse. Brescia è fertile e vogliamo continuare in questo solco, ma serve più presenza collettiva nei percorsi di esecuzione della pena, o andremo incontro a situazioni molto complicate”. Anche a causa di chi si trova dentro una cella, ma avrebbe bisogno di un aiuto diverso. Per Carlo Alberto Romano, tre categorie necessiterebbero di particolare attenzione: “I tossicodipendenti, che dal carcere non traggono alcun giovamento e hanno bisogno di risposte legate alla loro condizione; le persone con disagi psichici (presenze accentuate dal passaggio dagli Opg alle Rems che non hanno ancora capacità ricettiva sufficiente) per le quali la polizia non è formata così come non è attrezzata l’area sanitaria che si trova a gestire molti più casi rispetto a dieci anni fa, e gli stranieri”, che sono circa il 70%. E in carcere “vivono una condizione di particolare fragilità dovuta a una serie di ragioni come la capacità di reinserimento, di relazione o di trovare poi un lavoro o un alloggio” ma per il professor Romano bisogna concentrarsi su un aspetto base: quello verbale. “In cella c’è un gap linguistico spaventoso. Molti degli episodi di violenza si potrebbero evitare semplicemente se si riuscisse a comunicare almeno in una lingua ausiliaria, per evitare molte esasperazioni aggressive”. La via da seguire, per chi lavora in carcere, è una: “Svuotarle e usare molto di più la comunità che ha capacità riabilitative e relazionali in grado di produrre risultati o il sistema collasserà”. Brescia. Un murale sul muro della scuola Carducci per riflettere: “La pena nella comunità” di Mara Rodella Corriere della Sera, 22 luglio 2023 L’opera realizzata dall’artista Nicolò Belandi, alla scuola di viale Piave, “nel solco del dialogo”. Sulla parete di sinistra, guardando l’ingresso, le “Geometrie dell’anima”, incastri di linee rette a creare forme. Su quella di destra, ecco un’altra opera d’arte, a rappresentare “Il ruolo della comunità nell’esecuzione della pena”. È il murale realizzato sui muri esterni della scuola Carducci di viale Piave dall’artista bresciano Nicolò Belandi (grazie al confronto con il collettivo TQ), con l’idea di “rappresentare il senso dell’intervento della giustizia che può recidere un’esistenza, se non ben irrorata dalla riabilitazione”, spiega Carlo Alberto Romano, presidente di Carcere e Territorio, che celebra i suoi quasi 26 anni. Verde, azzurro, marrone i colori prevalenti. Sulla sinistra, i “simboli” storici della giustizia: bilancia e spada. Che da soli non servono, però. A terra, i rami secchi. E una brocca, con l’acqua che disseta e nutre i germogli: cioè “la nuova vita che nasce lontano dal carcere”. Ma dentro la città. Nessun riferimento antropomorfo, ma due sezioni: nel primo quadro una giustizia appunto armata, che rischia solo di spezzare il percorso di un “arbusto” fragile, nel secondo le gocce salvifiche, a incarnare il valore della relazione nella comunità. Intesa proprio come giustizia riparativa. Orgoglioso il dirigente dell’Istituto comprensivo Centro 1, Enzo Manno, che quel murale lo osserva attentamente sottolineando la “sensibilità artistica” che anima questa scuola da sempre. “È l’inizio di un percorso di educazione civica per i ragazzi, da settembre, su giustizia e riabilitazione. Un percorso in cui dai piccoli semi nascono piante con radici ben piantate nel terreno, il territorio, e chiome folte verso il cielo”. Un’opera d’arte che vuole far riflettere, includere e partecipare, e fa parte “di una pianificazione più ampia per questa zona, che vorremmo far diventare una grande piazza” commenta l’assessore comunale ai Lavori Pubblici e alla Partecipazione Valter Muchetti. Fausto Cavalli, presidente del Consiglio di quartiere Porta Venezia, non ha alcuna intenzione di fermarsi con il progetto “Viale Piave a colori”: le piantumazioni, il nuovo piazzale, i murales, appunto. “Geometrie dell’anima è stato realizzato un anno fa. Mi accorgo ora di quanto queste due opere dialoghino, in un incontro metafisico allargato” che coinvolge tutti. E già si pensa al prossimo. Sondrio. I Radicali visitano il carcere: “Allarme tossicodipendenza” Il Giorno, 22 luglio 2023 Una delegazione di 11 persone ha fatto visita ai detenuti del carcere di Sondrio, nell’ambito della campagna “Devi Vedere” organizzata dai Radicali Italiani che hanno accompagnato 7 persone comuni, al termine di un percorso di formazione, alla scoperta dell’istituto di pena. “La campagna “Devi Vedere” si pone l’obiettivo di portare la cittadinanza dentro gli istituti di reclusione italiani - spiegano Nicola Morawetz e Marco Ferrario coordinatori in Lombardia della campagna di Radicali Italiani - per permettere di conoscere in prima persona la realtà del carcere, andando oltre ai pregiudizi e alla disinformazione”. “Alla casa circondariale di Sondrio abbiamo trovato una situazione positiva - proseguono gli attivisti - nonostante le carenze strutturali e di organico: ad esempio la direttrice il comandante e l’educatrice sono costretti a supplire alle carenze adempiendo al loro lavoro in più carceri diverse. Il dato di Sondrio, che è equiparabile a quello di altre carceri, è relativo all’elevato numero di popolazione tossicodipendente: su 32 detenuti, 20 sono in questa condizione. Il problema dell’aumento del consumo di sostanze è tangibile sia all’esterno sia all’interno delle mura carcerarie, segno che è necessario sviluppare una nuova socialità ed una politica della conoscenza”. “Tutto passa tranne il tempo, questo ci ha detto un detenuto oggi - spiega Marco Papi, uno dei ragazzi esterni che hanno partecipato alla visita - Quella carceraria è una realtà di cui si dovrebbe parlare di più, per capire il senso di questo luogo: così come lo abbiamo visto non ha alcun senso”. Brescia. Accordo con Confindustria per il reinserimento dei detenuti lavocedelpopolo.it, 22 luglio 2023 È stato siglato nei giorni scorsi - nella sede di Confindustria Brescia - il terzo accordo di collaborazione tra l’Associazione di via Cefalonia, gli Istituti di Pena Bresciani, la Garante dei Detenuti e il Tribunale di Sorveglianza di Brescia, volto a potenziare le iniziative di reinserimento sociale dei detenuti. Alla firma sono intervenuti Franco Gussalli Beretta (presidente Confindustria Brescia), Silvia Mangiavini (vice presidente Confindustria Brescia con delega a Legalità e Bilancio di Sostenibilità), Luisa Ravagnani (Garante dei detenuti), Francesca Paola Lucrezi (direttrice delle carceri di Brescia) e Monica Cali (presidente Tribunale di Sorveglianza). L’accordo precedentemente sottoscritto nel 2022 ha finalizzato l’abilitazione di 15 detenuti alla conduzione dei carrelli elevatori e l’avvio di un tirocinio di reinserimento sociale, ad oggi in corso. Parallelamente, il Carcere di Canton Mombello ha ospitato una riunione del direttivo dei Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia: l’incontro ha rappresentato un importante momento di confronto tra mondo dell’impresa e carcere. L’accordo odierno - che avrà durata biennale - si basa sui buoni risultati dei precedenti e si concentra su iniziative di formazione lavorativa in carcere, sull’avvio di tirocini di reinserimento sociale e sul rafforzamento del dialogo tra carcere e imprese. In questa nuova fase spiccano importanti novità in tema di lavoro digitale: per rispondere alle esigenze del mercato, saranno avviati corsi specifici per consentire ai detenuti l’acquisizione di competenze in campo informatico, nell’ottica di approdare all’inserimento lavorativo in tale ambito. Il nuovo accordo - che si colloca nel solco dell’instaurata collaborazione tra Confindustria Brescia, Istituzioni e Carcere - rappresenta un ulteriore passo avanti significativo nella promozione dell’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, aprendo a nuove e concrete opportunità per il loro reinserimento. “Lo scopo del progetto è instaurare un canale di dialogo stabile tra mondo del lavoro e mondo carcerario - commenta Silvia Mangiavini, vice presidente Confindustria Brescia con delega a Legalità e Bilancio di Sostenibilità -. In particolare, il nostro obiettivo è fornire ai detenuti strumenti di reinserimento da spendere nel mondo del lavoro, per costruire una loro dignità e trovare realizzazione in un’attività legale. Ci auguriamo che il progetto funzioni e, magari, possa essere replicato anche in altre realtà territoriali”. In particolare, Confindustria Brescia si impegna, con la collaborazione e il monitoraggio delle altre parti coinvolte, a: * Realizzare un corso di formazione in carcere avvalendosi delle strutture formative di Fondazione AIB. La formazione sarà progettata d’intesa con l’Ufficio del Garante dei detenuti e con la Direzione degli Istituti di pena bresciani, tenendo conto dei bisogni formativi della popolazione carceraria e della domanda del mercato del lavoro del territorio. * Sensibilizzare i propri iscritti ad ospitare tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento finalizzati all’inclusione sociale e all’autonomia delle persone in esecuzione penale presso la Casa Circondariale Nerio Fischione e la Casa di Reclusione di Verziano, valutate idonee dall’Equipe trattamentale del Carcere e dal Tribunale di Sorveglianza di Brescia. I tirocini si svolgeranno nelle aziende associate che liberamente daranno la propria disponibilità, sotto la diretta responsabilità formativa dei tutor individuati dalle aziende stesse, nel rispetto della L.R. n. 22/2006, della Delibera di Regione Lombardia n. 5451/2016 e successive modifiche, e della Normativa penitenziaria pertinente. * Sviluppare progetti nel campo della formazione e del lavoro digitale con l’implementazione di percorsi sviluppati in collaborazione con esperti del settore. * Con la finalità di sviluppare forme di dialogo tra il carcere e il mondo del lavoro, il gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia porterà all’interno delle carceri di Brescia una riunione del proprio Comitato Direttivo, che verrà aperto alla popolazione carceraria, agli educatori e alle parti sottoscrittrici del presente Accordo. Temi, data e modalità dell’incontro verranno concordati con la Direzione del Carcere e con la Garante dei detenuti. * Sensibilizzare le Aziende associate a donare generi di prima necessità a favore dei detenuti degli Istituti di pena bresciani. A tal fine, aderirà alla richiesta di collaborazione del Garante dei detenuti, divulgando alle proprie imprese l’elenco dei generi più necessari. Torino. Riapre il bar del Tribunale: darà lavoro a 12 persone tra detenuti, ex detenuti e migranti La Stampa, 22 luglio 2023 Chiuso per vicende giudiziarie, sarà gestito dalla cooperativa Pausa Caffè. A settembre la caffetteria del Tribunale di Torino riaprirà. Balzata all’attenzione della cronaca giudiziaria per sospetta infiltrazione ‘ndranghetista della cooperativa sociale Liberamensa, che aveva in carico la struttura, sarà gestita ora da un’altra cooperativa, Pausa Caffè. Il primo passo è stato l’avvio quest’inverno, grazie a un progetto finanziato dalla Comunità europea, di una caffetteria mobile, un piccolo chiosco che serve in media 300 caffè al giorno. “Questo luogo ha una storia travagliata, ma meglio di nessun altro è in grado di esprimere il valore costituzionale della pena come strumento di inclusione per un ex detenuto. Se l’attenzione della malavita è costante è proprio per il suo valore simbolico. Una ragione in più per tutelarlo come presidio di legalità”, spiega Marco Ferrero, presidente di Pausa Caffè che opera nel campo dell’inclusione sociale dal 2004 e, dopo avere vinto il bando, ha firmato a maggio il contratto per la gestione del bar di Palazzo di Giustizia. “Vogliamo farlo diventare un luogo aperto alla città, con un piccolo dehors accessibile anche senza passare dall’interno. Avrà una pasticceria e un pastificio, che utilizzeranno materie prime di qualità. I posti di lavoro saranno dodici tra ex detenuti, detenuti con permesso di lavoro esterno, richiedenti asilo e migranti. L’altro grande obiettivo è farne un luogo di sperimentazione per l’economia circolare e la cucina circolare, con filiere corte, riduzione degli sprechi e uso di materiali compostabili per l’asporto. Sarà un luogo di inclusione sociale, ma anche di sperimentazione”. Bergamo. “Insegno ai detenuti a scrivere per riscoprirsi” di Elisa Roncalli L’Eco di Bergamo, 22 luglio 2023 Adriana Lorenzi tiene un laboratorio di scrittura nel carcere di Bergamo: “Con i racconti scavano in se stessi, una via per redimersi”. Forse non tutti sanno che nella Casa circondariale di Bergamo è attivo da molti anni un laboratorio di scrittura creativa. Intitolato “Spazio - Diario aperto dalla prigione” e coordinato dalla scrittrice, insegnante e formatrice Adriana Lorenzi, mira a dimostrare come la letteratura e la scrittura all’interno di un contesto detentivo possano essere una sorta di strumento di rieducazione e redenzione. Per certi versi anche un modo di esprimere quel senso di libertà altrimenti non consentito. Tutt’altro che mero intrattenimento o occasione per distrarsi, perché le parole possono aiutare a vivere, o anche solo a sopravvivere meglio. Per usare alcuni versi di Emily Dickinson, “Una parola è morta / quando è pronunciata, / ci dice qualcuno. / Io dico invece / che incomincia a vivere / proprio quel giorno”. Tra le cinque volontarie bergamasche che prestano servizio in carcere, dedicando tempo e attenzione ai corsisti che prendono parte a questa esperienza, troviamo Anna Lanfranchi. “Mi sono affacciata a questo mondo per fare ricerca in vista della mia tesi di laurea” ci racconta. E aggiunge: “Lì ho avuto modo di toccare con mano quanto la scrittura possa costituire un fortissimo strumento curativo”. Ma lasciamo la parola alla coordinatrice Lorenzi. Come nascono questi laboratori? “I miei laboratori chiedono ai partecipanti di trasformare gli eventi della propria vita in racconti. Uso la scrittura autobiografica, memoriale… anche piccoli frammenti vanno bene. A marzo 2002 avevo già raccolto storie di persone anziane, e mi venne chiesto di coinvolgere le detenute del carcere di Bergamo. Andai a spiegare quanto avevo fatto con le anziane e le detenute mi dissero che le loro storie erano più interessanti. Così a ottobre - ormai ventuno anni fa - iniziai con il primo laboratorio di dieci incontri. Da questa esperienza è nato il libro “Voci da dentro. Storie di donne dal carcere”, pubblicato dalle Edizioni Lavoro. L’intento era restituire agli occhi distratti di chi vive fuori dal carcere immagini di donne fragili nell’errore e coraggiose nel momento del riscatto”. Come si è sviluppata poi l’attività laboratoriale? “È passata dalla sezione femminile a quella maschile perché la percentuale di donne è bassa, mentre c’è una grande popolazione maschile. I laboratori di scrittura adesso durano tutto l’anno, si tengono una volta a settimana, il lunedì, per un paio d’ore. Ci sono due gruppi distinti: uno per la sezione circondariale e l’altro per la sezione penale. In tutto partecipano più di trenta detenuti”. Cosa scaturisce da questi incontri? “Durante il corso partiamo da spunti letterari, leggiamo e scriviamo. I testi elaborati vengono pubblicati sul giornale del carcere che si intitola come il laboratorio. È un modo per far conoscere la realtà carceraria, preservando una memoria all’interno e non facendola dimenticare fuori dalle sue mura”. Che risposta arriva dai detenuti? “Positiva. Si percepisce il loro bisogno di espressione, la loro voglia di raccontarsi e collaborare a qualcosa che abbia poi un’uscita pubblica. Il giornale comunque ha un seguito e i detenuti hanno modo di esporsi riscoprendo cose su loro stessi che prima magari non avevano mai voluto raccontare. Raggiungono grandi livelli di introspezione e questo aiuta il loro percorso di presa di coscienza”. Un’ultima domanda. Lei ha recentemente pubblicato il volume “Dalla parte sbagliata”, con il marchio editoriale “Sensibili alle Foglie”. Pagine dove si avvertono interrogativi esistenziali e che mostrano come, grazie alla scrittura, possano farsi resistenza, esame di coscienza, progetto di una vita diversa… “Sì, è così. È un libro in cui racconto la storia di una maestra di scrittura che guida un gruppo di detenuti, esattamente come faccio io. In questo caso, però, mi sono presa la libertà di far parlare il carcere: gli scritti dei detenuti non sono farina del loro sacco; li ho utilizzati per la mia narrazione e sono intervenuta liberamente. Insomma, è un mio prodotto con una dimensione romanzesca, dove i personaggi sono anche degli emblemi”. Pavia. La bellezza entra anche in carcere con le opere della “Cracking art” di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 22 luglio 2023 La nuova direttrice della casa circondariale di Pavia ha presentato l’installazione. L’artista del gruppo: “Da 30 anni proponiamo un linguaggio chiaro per tutti”. Lei si chiama Agata ed è una rondine rossa gigante. Loro due - i maschi- sono Rocco e Raffaello, due bei gattoni blu. E da ieri sono ufficialmente le installazioni colorate della casa circondariale di Torre del Gallo che popolano le due aree verdi dei colloqui con i figli delle persone detenute, i comuni e la sezione protetti. Sono opere realizzate dagli artisti del movimento Cracking Art. “Dopo avere visto le opere esposte per le vie e negli spazi aperti di Desenzano - spiega la direttrice del carcere Stefania Mussio - siamo rimasti colpiti dalla bellezza di queste installazioni che rappresentano animali colorati che rendono vivi gli ambienti. Abbiamo scoperto che ogni animale ha un suo significato in un’arte libera e in movimento che rigenera materiale considerato di scarto”. Dare una nuova vita alla plastica rappresenta di per sè un gesto di benessere e rinnovamento che rispetta la natura e genera benessere. E ci è sembrato un messaggio perfettamente adatto a un istituto di pena”. All’inaugurazione di ieri era presente Kicco, che fa parte del collettivo ed è tra i soci fondatori del movimento. “Il movimento Cracking Art nasce nel 1993 e ha cercato di creare un linguaggio artistico nuovo, comprensibile alla maggior parte delle persone -ha raccontato Kicco- il collettivo degli artisti ha reso protagonista la plastica in installazioni che raffigurano animali, che hanno colorato le più importanti città del mondo. Siamo orgogliosi di essere entrati in questa casa circondariale, per dare un po’ di colore e allietare il momento degli incontri familiari. Le opere permanenti in un istituto penitenziario sono una assoluta novità e noi siamo molto contenti”. Anche la scelta degli animali risponde a uno studio ben preciso e a un lavoro culturale. La rondine infatti -come recita anche la spiegazione accanto all’installazione- simboleggia la rinascita e la rigenerazione e si è scelto di rappresentarla a terra e non in volo proprio per farla sentire più vicina alle persone. I gatti invece sono animali di straordinaria bellezza, ma dal carattere vivace e mai totalmente addomesticabili. A preparare in maniera impeccabile tutte le aree per l’installazione -aggiungendo anche gli alberi donati dagli Amici dei Boschi- è stato un gruppo di venticinque detenuti. “Abbiamo lavorato un mese per rendere la zona pronta ad accogliere queste opere -raccontano- così attrezzata ora è veramente gradevole. E siamo contenti di poter offrire uno spazio adeguato alle nostre famiglie, in particolare ai bambini che così potranno divertirsi”. Alla cerimonia di inaugurazione, per cui ha fatto naturalmente gli onori di casa la direttrice Stefania Mussio, erano presenti tra gli altri il prefetto Francesca De Carlini, Giuseppe Bufalino (capo di gabinetto in Provincia), la vice-comandante e dirigente aggiunta della polizia penitenziaria Giuseppina De Felice, il Rettore del Borromeo Andrea Lolli e l’educatrice Daniela Bagarotti. Ritorno a Camaldoli: il codice che fondò la rinascita italiana ispira una politica attenta alla persona di Aldo Torchiaro Il Riformista, 22 luglio 2023 Il centro monastico in provincia di Arezzo ha dato il suo nome a quell’appello che è passato agli annali come Codice di Camaldoli. Un testo che aveva rimesso il mondo del cattolicesimo democratico al centro della vita politica italiana. Camaldoli, Arezzo, dove la storia incrocia la spiritualità, ieri è stata Capitale per un giorno. Accolti dai monaci benedettini - e da filari di cipressi secolari che il Solleone non riesce a piegare - si sono raccolti in una giornata di studio e di contemplazione il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi e una decina tra i più autorevoli rappresentanti delle università italiane. Il centro monastico in provincia di Arezzo ha dato il suo nome a quell’appello che è passato agli annali come Codice di Camaldoli. Un testo che aveva rimesso - in quella tempestosa estate di “transizione” del 1943 - il mondo del cattolicesimo democratico al centro della vita politica italiana. L’appuntamento di ieri è stato la grande occasioni per celebrare gli ottanta anni del documento ‘Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento socialè. È considerato l’atto fondativo dell’impegno dei cattolici per ridare al Paese, allora dilaniato dalla guerra voluta dal regime fascista, l’ossatura di una organizzazione pre-politica legata ai valori della libertà e della democrazia. La prima sottoscrizione, nero su bianco, di una chiamata alla mobilitazione civica. A firmarla fu un gruppo di intellettuali cattolici, molti dei quali furono poi padri costituenti. È al loro lavoro, pietra miliare nella costruzione della democrazia, che si è indirizzato il Presidente Mattarella: “A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti - afferma il capo dello Stato -. Ecco allora che il testo ‘Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento socialè, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli. Da qui venne la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato - con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica - da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi”. Ed è proprio Mattarella a offrirci uno specchietto utile per preservare la memoria: “Dal cosiddetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle ‘idee ricostruttive della Democrazia Cristiana’, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata”. Anche il cardinale Zuppi è intervenuto sulla pace in Europa: “Dobbiamo constatare che la pace non è mai un bene perpetuo neanche in Europa”. E poi ha risposto senza giri di parole al tema dell’impegno politico dei cattolici: “Uno dei problemi di oggi - ha proseguito - è il divorzio tra cultura e politica, non solo per i cattolici, consumatosi negli ultimi decenni del Novecento, con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno, con poche visioni, segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati, molto polarizzati”. “Dovremmo diffidare di una politica così - ha aggiunto -, ma spesso ne finiamo vittime, presi dall’inganno dell’agonismo digitale che non significa affatto capacità, conoscenza dei problemi, soluzione di questi. Cioè, il tradimento della politica stessa!”. Poi è tornato sul vuoto di rappresentanza, sempre più evidente. ‘‘La disaffezione dalla politica non può non interrogarci’’, ha richiamato Zuppi. “C’è chi chiede alla Chiesa di favorire incontri dei cattolici sui temi civili. Capisco l’esigenza e sono disponibile ad aiutare iniziative di questo tipo, proprio perché senza interessi immediati, personalistici o di categoria”. Secondo Zuppi, “i credenti devono avere il coraggio, nel rispetto delle diverse sensibilità, di interrogarsi dialogando e ascoltandosi”. “Lo devono fare singolarmente, ma anche insieme, perché solo attraverso un lavoro comune possono mettere a fuoco ‘principi dell’ordine socialè, per usare il linguaggio del Codice”, ha sottolineato. E poi il suo appello: “Oggi la democrazia appare infragilita e in ritirata nel mondo. Ecco un campo cui i cristiani devono applicarsi, interrogandosi su come deve essere la democrazia nel XXI secolo, vivere quell’amore politico senza il quale la politica si trasforma o si degenera”. Richiami alti, ai quali i primi chiamati a rispondere sono gli interlocutori del mondo accademico. Il primo a intervenire con una relazione ieri è stato il professor Tiziano Torresi, dell’Università Roma Tre. Oggi parleranno Alberto Guasco, dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea - CNR, Angelo Maffeis, Presidente dell’Istituto Paolo VI, Marta Cartabia, dell’Università Bocconi, Alessandro Angelo Persico, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel pomeriggio spazio ai contributi di Francesco Bonini, rettore dell’Università Lumsa, Marialuisa Lucia Sergio, dell’Università degli Studi Roma Tre, Daria Gabusi, dell’Università “Giustino Fortunato” di Benevento. L’ultima sessione, domani, prevede le riflessioni di Sebastiano Nerozzi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Enrica Chiappero Martinetti, dell’Università degli Studi di Pavia, Paolo Acanfora, dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza. L’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha raccomandato attenzione a un Pd che invece si allontana sempre più - si veda la posizione della Schlein sulla Gpa - dalle sensibilità cattoliche. Per il capogruppo Iv al Senato, Enrico Borghi: “Le indicazioni e le riflessioni che ci giungono da Camaldoli, nel ricordo del “Codice” che fondò la rinascita italiana, ci parlano del recupero di una politica attenta alla persona, al pensiero, alla riflessione, ai valori. Sono aspetti che ci trovano attenti e interessati”. Sarà il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, a celebrare domenica la messa conclusiva del convegno. Una riforma dei comportamenti per recuperare la credibilità di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 luglio 2023 Per ritrovare funzioni e prestigio, leader e partiti dovrebbero applicare l’articolo 54 della Costituzione, che richiede “disciplina e onore” a chi svolge funzioni pubbliche. Nei primi anni Cinquanta, in una cena al Quirinale con la redazione del Mondo di Pannunzio, Luigi Einaudi chiese tra lo stupore generale chi dei commensali volesse dividere con lui una pera troppo grande, per non sprecare nulla: l’episodio venne narrato più avanti, nel suo “Taccuino notturno” sul Corriere , da Ennio Flaiano, cui era toccata la metà del frutto presidenziale. Sessant’anni dopo, una filiera di inchieste della magistratura è stata battezzata dalla stampa col brutto neologismo di Rimborsopoli, poiché verteva sui rimborsi di spesa per l’attività politica che circa trecento consiglieri regionali, dal Piemonte alla Calabria, usavano quale personalissimo argent de poche ; in prevalenza, si trattava di vicende poco più che bagatellari dal punto di vista penale ma assai significative in termini reputazionali: gli eletti dal popolo in quegli organismi, le Regioni, che Meuccio Ruini vedeva come “un ingrandimento della persona umana”, pagavano coi soldi del contribuente regali per amici e amanti, mutande verdi, manuali erotici, videogiochi per i figlie, chi ne ha più ne metta, perfino un campanaccio per le vacche. Vent’anni dopo Mani pulite, insomma, il balzo nazionale verso il relativismo morale era bell’e compiuto. Le cronache dell’ultimo decennio non hanno fatto che confermare questa semplice constatazione, il prolasso dell’etica pubblica è moneta corrente: esso s’accompagna, per contrappasso paradossale, all’esondazione sempre più vistosa della magistratura. Alla politicizzazione delle toghe corrisponde, come osserva Sabino Cassese, la torsione giudiziaria della politica, talché a ogni progetto di cambiamento in materia di giustizia viene imposto da anni il severo scrutinio delle correnti organizzate dentro l’Anm: un esame che alla fine si traduce quasi sempre in un veto cui i politici si adeguano. Saremmo, adesso, di nuovo al punto cruciale. Il Ddl contenente la prima, e molto parziale, riforma proposta dal guardasigilli Carlo Nordio su temi come l’abuso d’ufficio o il traffico di influenze (per ora, si badi, assai lontani dal cuore del problema, ovvero le carriere dei magistrati e l’obbligatorietà dell’azione penale che richiederebbero un complesso percorso di revisione costituzionale) è stato inviato alle Camere dopo l’autorizzazione di Mattarella. L’iter sarà accidentato, opposizione parlamentare e opposizione togata scaldano i muscoli. Ma, tra una rissa estiva e l’altra, la politica dovrebbe meditare su una riforma a costo zero, bipartisan, propedeutica a tutte le altre. Una riforma che non sta nei codici ma nei comportamenti: il recupero della propria credibilità. Guardando alla guerriglia dei trent’anni che ha paralizzato il Paese, Nordio ha osservato giustamente come sia “erroneo confondere il cosiddetto passo avanti fatto dalla magistratura con il passo indietro fatto invece dalla politica”, la cui “abdicazione miserevole” ha creato un vuoto poi occupato dalle toghe. C’è però una strada sola per leader e partiti in fondo alla quale recuperare funzioni e prestigio. Tale strada passa per un precetto che non va inventato, perché è già sotto i nostri occhi dal 1° gennaio del 1948, e dunque va soltanto applicato: è l’articolo 54 della Costituzione il quale, nel suo secondo comma, richiede “disciplina e onore” a chi sia chiamato a svolgere funzioni pubbliche. Nulla di più lontano da scenari di Stato etico o autoritario. E, tuttavia, un invito esplicito che possiamo intendere esteso a una gamma di soggetti molto ampia, non circoscrivibile solo a chi “sia investito di diretta responsabilità politica perché esercita funzioni di governo o è membro di assemblee rappresentative”, osservava Stefano Rodotà anni or sono. Diciamo che la Costituzione ci invita a tornare allo spirito di Einaudi e alla sua frutta condivisa. Il problema è che le opposte fazioni di giustizialisti forcaioli e garantisti pelosi sono ormai così irrigidite da esporre chiunque citi l’articolo 54 ad accuse di moralismo e giacobinismo: come se non esistesse la via del buonsenso; come se fosse normale, al netto di risvolti penali tutti da dimostrare, avere un ministro in palese conflitto di interessi con aspetti non chiariti della propria professione; o un sottosegretario che sveli con leggerezza al room-mate delicati dettagli appresi nell’esercizio del suo ufficio da usare come clava contro gli avversari politici. Non tutto può stare nella sfera giudiziaria, l’intervento della magistratura dovrebbe essere l’ultima ratio. Ma la polemica determina un cortocircuito nocivo, poiché toglie forza alle ottime ragioni della riforma e a un vento del cambiamento che potrebbe spingersi persino più in là. Di recente Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente (la corrente moderata dell’Anm), ha lanciato un grosso sasso nello stagno: chiedendosi se in un “dialogo costruttivo” tra politici e toghe non sia il caso di riflettere “sull’efficacia di soluzioni passate, come quella dell’immunità parlamentare che per quarant’anni ha risolto il problema”. L’istituto, alto e nobile nelle motivazioni previste dall’articolo 68 della Costituzione, fu mutilato nel 1993 sotto la spinta perversa di due fattori: l’abuso che ne avevano fatto negli anni i politici, proteggendo con esso fior di mascalzoni, e la spinta massimalista della piazza di Tangentopoli, che terrorizzava deputati e senatori. Se l’effetto di quella cattiva riforma è stato consegnare il destino politico dei parlamentari ai pubblici ministeri (e non sempre per ragioni inattaccabili), una controriforma andrebbe valutata seriamente. Ma al tavolo potrebbe sedersi solo una politica dotata di disciplina e onore, articolo 54 alla mano: dalla reputazione irreprensibile. Sicché, alla fine, si torna sempre a quella mezza pera che, come Einaudi ben sapeva, pagavamo noi cittadini. La storia dell’Italia attraverso i documenti dei più importanti processi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 luglio 2023 La conoscenza della storia dell’Italia passa anche attraverso la consultazione degli archivi in cui sono contenuti i documenti dei più importanti procedimenti giudiziari. Anche per questo motivo mercoledì scorso, presso il ministero della Giustizia, si è tenuta la prima riunione del tavolo istituito nell’ambito del protocollo d’intesa, rinnovato di recente, per l’individuazione di progetti di digitalizzazione dei processi di valore storico. L’obiettivo, condiviso dalle istituzioni coinvolte (i ministeri della Giustizia e della Cultura, il Consiglio superiore della magistratura, la Cassa delle Ammende e l’Archivio Flamigni), è molto chiaro: consentire la fruibilità massima per l’utenza, con gradi di accesso qualificato, alle carte giudiziarie che costituiscono la fonte prioritaria per lo studio della storia dell’Italia repubblicana. Le tematiche di riferimento sono il terrorismo, la violenza politica e la criminalità organizzata. Fondamentale il gioco di squadra. Al progetto infatti possono aderire gli uffici giudiziari, gli istituti penitenziari e gli archivi di Stato competenti per territorio. Un altro ambizioso traguardo si intende raggiungere. Riguarda il coinvolgimento dei detenuti, che, attraverso l’avvio di percorsi professionalizzanti, avranno modo di realizzare il loro reinserimento sociale. Il legame tra l’attività dei detenuti e la trasformazione digitale delle carte giudiziarie assume un valore altamente simbolico per l’attività del ministero della Giustizia. Nelle intenzioni di via Arenula si intende preservare la memoria in chiave moderna con il contributo del lavoro di chi, non senza difficoltà e con impegno, sta ricostruendo il proprio rapporto con la società civile. Il recupero delle carte giudiziarie che permetteranno di ricostruire meglio alcuni periodi della storia del nostro paese è iniziato già da qualche anno. Le attività connesse al protocollo d’intesa, risalente al 2015, tra il ministero della Giustizia e il ministero dei Beni, delle Attività culturali e del turismo, arricchitosi nel tempo con la partecipazione del Csm, della Cassa delle Ammende e dell’Archivio Flamigni, sono state incrementate dopo il primo progetto, dedicato ad Aldo Moro, avviato nel 2017, nel carcere di Rebibbia. La mole di documenti sul rapimento e sull’assassinio del leader della Dc è stata digitalizzata e sta riguardando anche i procedimenti del Moro bis, ter e quater. Inoltre, a Roma, sono attivi sia il progetto sulla strage di Ustica che quello relativo al processo ai Nuclei armati rivoluzionari. Fondamentale sarà la collaborazione degli altri uffici giudiziari. Quelli di Milano e Firenze sono stati già coinvolti. Il ministero della Giustizia auspica che l’opera di digitalizzazione delle carte giudiziarie di interesse storico posso riguardare tutta l’Italia. Il protocollo d’intesa del 2015 prevede, tra le varie cose, la ricognizione dei fascicoli presenti presso gli archivi di deposito dei Tribunali e delle Corti di assise, in materia di terrorismo, criminalità organizzata e violenza politica. È prevista l’adozione di misure che consentano una tenuta della documentazione giudiziaria conforme ai principi archivistici e alla conservazione di lungo periodo, nel caso di documentazione su supporto elettronico. È altresì previsto che per sostenere la riconversione e la valorizzazione di sedi non utilizzate dal ministero della Difesa, con particolare riferimento alle ex caserme dismesse, vengano realizzate nuove sedi degli archivi di Stato. Un ruolo importante per recuperare i documenti dei procedimenti giudiziari che hanno fatto la storia del nostro Paese lo svolge l’Archivio Flamigni con sede a Roma. Fin dalla sua nascita il centro di documentazione ha voluto creare un collegamento diretto tra realtà interessate allo studio e alla documentazione della storia italiana recente, con una attenzione particolare rivolta alla stagione delle stragi e del terrorismo. Questa intensa attività, che verte pure sul coinvolgimento delle scuole e dell’università, ha portato alla creazione della “Rete degli archivi per non dimenticare”. Il portale è stato inaugurato il 9 maggio 2011. In quella occasione l’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sottolineò l’importante mission per “fare chiarezza, perché l’Italia non dimentichi ma tragga insegnamenti e forza dalle tragedie che si sono abbattute sul nostro paese”. Di qui anche la realizzazione del portale all’interno del Sistema archivistico nazionale (San) per valorizzare e rendere disponibili per un ampio pubblico le fonti documentali esistenti sugli eventi che si sono succeduti in Italia soprattutto dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso. La Rete oggi comprende più di sessanta archivi, soprintendenze archivistiche, centri di documentazione e associazioni, che lavorano per conservare e rendere accessibili documenti di varia natura. Le associazioni e i centri di documentazione aderenti alla Rete, evidenziano dall’Archivio Flamigni, “sono in molti casi realtà decentrate, espressione di partecipazione dal basso e di sensibilità storica e politica, che favoriscono l’incontro e il dialogo tra pratiche diverse di salvaguardia e diffusione della memoria”. La storia dell’Italia è, sotto molti versi, anche la storia dell’avvocatura e viceversa. Ecco perché il Consiglio Nazionale Forense ha promosso la digitalizzazione della “Biblioteca del Consiglio” per far conoscere protagonisti e storie di chi, indossando la toga, ha scritto pagine importanti del nostro paese e ogni giorno difende i diritti costituzionalmente garantiti. Sul sito del Consiglio nazionale forense (nella pagina “Collana Storia dell’avvocatura italiana”) è possibile consultare decine di libri in formato digitale. Tutti, non solo avvocati e giuristi, possono entrare in contatto con testi che rischiavano di rimanere dei gioielli nascosti tra gli scaffali delle biblioteche. La lotta per Assange tutela il giornalismo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 22 luglio 2023 Il documento di Mario Serio e di Armando Spataro di cui La Stampa ha dato notizia e che circola su varie mailing list raccogliendo decine e decine di firme di giuristi, riguarda il caso di Julian Assange, detenuto da tre anni in Inghilterra in vista della sua possibile estradizione negli Stati Uniti. Secondo il governo americano avrebbe violato l’Espionage Act del 1917, con la possibilità di condanna a una pena fino a 175 anni di reclusione. Cosa ha fatto Assange di così tremendo, con la sua organizzazione WikiLeaks? Nel 2010 ha reso pubblica sul web una massa di documenti americani, la cui veridicità non è in discussione e che anzi sono ritenuti pericolosi da parte delle autorità statunitensi proprio perché veri: comunicazioni interne alla amministrazione americana, alle sue forze armate in Irak e Afganistan e a diverse ambasciate degli Stati Uniti nelle loro comunicazioni con il governo. Da quei documenti emerge il profondo scarto esistente tra la versione pubblica ufficiale e la realtà di fatti e valutazioni segretamente scambiati tra gli uffici e le ambasciate e risultano uccisioni di civili, abusi e violenze che non sono stati fatti oggetto di indagine e punizione. Fatti gravi, contrastanti con l’immagine ufficiale che veniva presentata di quelle guerre, del loro andamento, del loro scopo. La loro pubblicazione da parte di Assange, rompendo il segreto, ha portato a conoscenza della opinione pubblica internazionale fatti, tanto rilevanti per il dibattito pubblico, quanto lo è stata la distorsione indotta dal segreto che su di essi era stato imposto. La vicenda giudiziaria e quella politica governativa britannica si trascina, con alterne decisioni - anche riguardanti la compatibilità dello stato di salute di Assange con la severità del processo e della carcerazione che lo attendono negli Stati Uniti - e paiono vicine alla decisione esecutiva. Ed è proprio quest’imminenza che ha spinto gli autori del documento di cui si è detto a presentarlo pubblicamente. Il documento non è isolato, ma è stato preceduto da altri simili nel corso del tempo. Non è però per questo meno utile. Procedure a lungo trascinate, come quella di cui si rendono responsabili ora le autorità britanniche, possono avere l’effetto di diluire fino all’oblio l’attenzione pubblica. Dall’inizio vi è stata la pandemia, poi la guerra in Ucraina e i drammi dei migranti, eccetera, eccetera. Legittimamente si pensa ad altro. Ma occorre invece mantenere la massima vigilanza e non cessare di condannare la crudele vicenda di cui è protagonista e vittima il giornalista Assange, con la detenzione in Inghilterra e la possibile condanna negli Stati Uniti. Essa è di grande importanza generale di principio per tutti e ciascuno di noi, in ogni società democratica in cui sia garantita la libertà di informare e di essere informati sulla condotta dei governi. Essa è affermata in Europa fin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e poi da tutte le Costituzioni e dalla Convenzione europea dei diritti umani. E analogamente dalla Costituzione degli Stati Uniti. Comunque si concluda, come frutto anche delle contingenze politiche nel rapporto tra Regno Unito e Stati Uniti, quel che Assange ha già subìto e quel che rischia di subire, ha fin da ora un effetto grave, su uno dei pilastri della libertà e democrazia di cui spesso facciamo vanto in Europa. Si tratta della libertà di informare l’opinione pubblica sui fatti di interesse per il dibattito pubblico. Inutile legare la democrazia alle elezioni di parlamenti e governi, se chi vota non conosce i fatti rilevanti e si orienta sulla base di disinformazione. I fatti che Assange ha portato a pubblica conoscenza e che i governi avrebbero voluto seppellire nel segreto hanno un alto contenuto di portata politica. La loro segretezza ha comunque esaurito ogni potenziale giustificazione, se non quella del segreto per il segreto. Il segreto per garantire ai governi che, qualunque cosa facciano, non lo si saprà mai. Nelle democrazie come nelle dittature. Il diritto alla conoscenza è invece fondamentale nelle società democratiche. In ballo non è solo e nemmeno tanto il diritto di pubblicare, forzando divieti che confliggono con i diritti delle opinioni pubbliche, quanto il diritto di sapere. Perché il segreto non sia impropriamente utilizzato è indispensabile l’opera del giornalismo di investigazione. La persecuzione di Assange ha già attualmente l’effetto di ammonire e impaurire i giornalisti. Colpirne uno per impaurirne cento, perché ciò che egli ha fatto non abbia mai più a ripetersi. Si tratta di quello che la Corte europea dei diritti umani chiama chilling effect, l’effetto di gelo che colpisce la professione giornalistica tutta insieme, ben oltre il caso specifico. È vero che il giornalista è soggetto a doveri e responsabilità. Ma il senso di quanto viene imposto ad Assange, da lungo tempo e allo stesso modo dai vari governi americani e britannici che si sono succeduti, è l’avviso di star lontani dai segreti che scottano. Il Potere vuol essere sicuro che certe azioni non siano conosciute, né subito né mai, perché la narrazione ufficiale e la propaganda non siano messe in crisi. E così il vanto dell’Occidente della protezione delle libertà abbia agio di dispiegarsi nell’innocuo gossip sugli amori di calciatori ed attrici. Lasciando stare le cose serie. Soldi e caccia ai migranti, cosa c’è dietro la grazia a Patrick Zaki di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 22 luglio 2023 L’autocrate egiziano ha concesso la grazia al ricercatore dietro precise garanzie: chiede all’Ue 6 miliardi per fare il gendarme del Mediterraneo. L’aria limpida e salubre della libertà ritrovata. E l’olezzo nauseabondo dell’autocrate “magnanimo” che si appresta a passare all’incasso, già domenica prossima quando Abdel Fattah al-Sisi sarà a Roma per la Conferenza sul Mediterraneo fortemente voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Un grazie a Bologna, un grazie all’Università, al rettore, a chiunque lì, alla mia gente a Bologna. Sono parte della comunità di Bologna, appartengo a loro, sicuramente”, dice ai giornalisti Patrick Zaki subito dopo essere stato rilasciato. “Sono veramente contento per quello che hanno fatto per me da anni”, ha aggiunto. “Hanno dimostrato un vero impegno nei confronti del mio caso e adesso sono libero”, ha detto ancora Patrick, che si è lasciato andare ad un lungo abbraccio con la madre dopo l’uscita dalla struttura penitenziaria. Ma nessuno, al Cairo come a Roma, fuori dalle dichiarazioni ufficiali e dalle veline di palazzo, crede che l’autocrate egiziano abbia concesso la grazia, per un reato inesistente, senza contropartite. “Nessun baratto, nessuna trattativa sottobanco. Il governo è stato in grado di far tornare in Italia un giovane ricercatore che rischiava di stare ancora un po’ di tempo in carcere. Noi siamo riusciti a ottenere questo risultato. Poi si può dire ciò che si vuole. Siamo persone serie, non facciamo baratti di questo tipo”, assicura il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Radio 24 su un presunto baratto tra la liberazione di Patrick Zaki e il caso Regeni. “La grazia a Patrick Zaki è una bella notizia. In tante e tanti ci siamo mobilitati in questi anni per la sua libertà. Speriamo di riabbracciarlo presto e continueremo a lottare anche per le altre persone ingiustamente imprigionate e la piena verità e giustizia per Giulio Regeni”, dice la Segretaria del Pd, Elly Schlein. Una linea condivisa da tutte le forze di opposizione. Ma se non è questo il “baratto”, smentito a l’Unità da autorevoli fonti diplomatiche, in cosa consisterebbe il do ut des tra Roma, sostenuta da Bruxelles (Ue) e Il Cairo? La moltiplicazione dei memorandum “modello Turchia” e ora anche Tunisia. Ed Egitto. Per fare il “gendarme del Mediterraneo”, al Sisi chiede soldi, tanti (non meno di quelli, 6 miliardi di euro, che l’Europa ha garantito ad Erdogan), via libera totale alla vendita di armamenti, soprattutto navi e aerei da combattimento, e il riconoscimento palese, formale, del suo ruolo di player stabilizzatore del Mediterraneo. Tutto questo gli è già stato riconosciuto da Giorgia Meloni. Con l’Egitto si replica il “modello tunisino”. Al-Sisi come Kais Saied. “Non c’è nulla di reale nelle dichiarazioni di rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani e della dignità delle persone, contenute nelle poche pagine del Memorandum of Understanding siglato il 16 luglio scorso tra l’UE e la Tunisia di Kais Saied”, denuncia in una nota congiunta il Tavolo Asilo e Immigrazione, che unisce le più importanti Ong, associazioni, sindacati italiani. “Così come è già successo con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie, l’UE, per cercare di contenere gli arrivi sulle coste italiane e d’Europa, finanzia un regime che ha cancellato le garanzie democratiche al proprio interno. E lo fa senza porre alcuna concreta condizionalità sul rispetto dei diritti umani fondamentali, al di là della consueta formula nel testo che ormai risuona più come un vuota clausola stilistica, quando il quadro in cui si opera ha recentemente visto il presidente Saied sciogliere il Parlamento tunisino, scatenare una vera e propria caccia allo straniero nei confronti dei migranti sub-sahariani, e infine deportare illegalmente ai confini con la Libia e con l’Algeria centinaia di persone in transito verso l’Europa, causando la morte di molte di loro, incluse donne e bambini, e violando quel diritto internazionale che lo stesso Memorandum richiama. Niente di tutto ciò sembra essere stato preso in considerazione dalla presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni e dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen […]. Questo accordo rappresenta un colpo durissimo al futuro dell’UE, ai diritti di migliaia di persone che fuggono da guerre, violenze, cambiamenti climatici e insicurezza alimentare, alla solidarietà e alla civiltà del diritto. Per questo chiediamo al Parlamento italiano e a quello europeo di condannarlo con fermezza”. Cosa che di certo non avverrà nella Conferenza di Roma. Tappeti rossi per il “magnanimo” autocrate egiziano. Anche per lui è pronto un memorandum miliardario. Quanti profughi sono morti e quanti scomparsi negli ultimi 10 anni, le statistiche dell’IOM di Iuri Maria Prado L’Unità, 22 luglio 2023 Continuiamo a indugiare sul numero dei migranti, crescente ogni mese, morti nel tentativo di fuggire dai Paesi di provenienza. Decine di migliaia, ormai, solo negli ultimi dieci anni. Ma si tratta di statistiche indulgenti. Studi dell’International Organization for Migration (IOM) calcolano infatti che i morti recuperati rappresentano soltanto una quota rispetto a un totale ben più corposo: trentamila contro quasi il doppio, cinquantottomila. La qualifica: “missing”, scomparsi. Varrebbe la pena di prenderne nota: bisogna moltiplicare per due i numeri che suscitano le nostre deplorazioni. Quelli come stracci intorno ai gusci ribaltati dei carnai galleggianti; quelli maciullati come polpi contro i nostri scogli; quelli in catasta sui barconi trainati verso il porto dai militari, lentamente, perché in quel carico non ci sono residui superstiti; quelli che infiliamo nei sacchi di plastica implotonati sulle nostre spiagge; tutti quelli che insomma recuperiamo morti, dopo non averli salvati, non sono neppure la metà di coloro che partono senza arrivare. Ma la contabilità effettiva è arricchita di dati anche più interessanti. Uno è talmente noto che passa per scontato: circa metà di quei quasi sessantamila è concentrata qui, nel mediterraneo. Ripugnante è poi il profilo dettagliatamente macabro di quelle rilevazioni. Settecento sono morti per causa “accidentale”. Novemila per combinazione di fattori o causa sconosciuta. Cinquemila per incidente stradale o per l’uso di mezzi di trasporto “azzardati”. Tremilacinquecento per “violenza” (aggressione, assassinio, ecc.). Tremilatrecento per avversità metereologiche o per mancanza di rifugio, cibo o acqua. Millecinquecento per mancanza di assistenza medica. Infine, il numero prominente: trentacinquemila affogati. Pressoché tutta roba nostra, quest’ultima, gente cioè affogata nel pozzo mediterraneo tra le nostre coste e quelle dirimpettaie di partenza. Chissà a quale gruppo apparteneva il ragazzo preso dal terrore, che scavalcando i cadaveri dei compagni sul ponte della nave si buttava in acqua e scompariva. Affogato per impazzimento. Chissà in quale casella statistica è finita la bambina siriana ridotta a una cosa disidratata nelle braccia della madre, mentre la piccola sorella si abbeverava di mare credendo in quel modo di salvarsi. Categoria: “mancanza d’acqua”, ma l’immagine concreta è meno protocollare. Chissà in quale posta di quel bilancio è finito il bambino di un paio d’anni che un’altra madre ha composto prima di affidarlo alla corrente. Morto di freddo: ma la classificazione “lack of shelter”, mancanza di riparo, rischia la vaghezza. E l’uso di mezzi di trasporto azzardati: non un’automobile sovraccarica finita in un fosso, ma il carrello di un aereo che stritola il ragazzino che vi si era nascosto, o la stiva che ne restituisce un altro surgelato a quarantacinque gradi sotto zero. Rendono meglio l’idea, questi fatterelli. Intanto il mare porta verso il Regno Unito l’ultima invenzione per risolvere il problema: un enorme carcere galleggiante per i migranti, cinquecento posti-carcere nell’attesa del disbrigo delle pratiche di deportazione. Stati Uniti. Il piano della Corte suprema contro i diritti civili di Luca Celada Il Manifesto, 22 luglio 2023 Dall’affirmative action al primato della fede sulla libertà della comunità Lgbtq. Un anno di sentenze dei sei giudici reazionari. Le sentenze con cui la Corte Suprema ha chiuso l’anno giuridico a Washington, disegnano la deriva conservatrice del massimo tribunale americano, blindato da Trump con tre nomine durante il suo mandato. La Corte sta prevedibilmente funzionando come congegno reazionario al centro della politica e della società americane, e come una forza primaria di divisione in una nazione già in crisi polarizzante. L’ABISSO culturale che divide il paese è stato incarnato dalla sentenza che un anno fa ha abolito le protezioni federali al diritto di abortire. Su questa scia anche quelle che il mese scorso hanno sancito il primato della fede religiosa sui diritti Lgbtq, annullato il condono dei debiti per gli studenti ed abolito la “affirmative action” - il sistema di agevolazioni per minoranze nelle iscrizioni universitarie, istituito inizialmente sessant’anni fa, sotto John F. Kennedy. Le decisioni rappresentano nuovi tasselli nel progetto originalista, il termine con cui la destra ama definire la dottrina integralista che vede la Corte come interprete letterale della costituzione del 1787. La dottrina, avanzata dalla destra reazionaria, ammanta di purezza costituzionale il progetto per azzerare sessant’anni di progresso su diritti civili. Come l’aborto, la affirmative action in particolare è stata a lungo nel mirino dei conservatori, attaccata come sistema di quote razziali ed anatema per la meritocrazia pura assurta a tema fisso della retorica populista. Di fatto le quote come tali erano già incostituzionali ma nel determinare l’accesso alle iscrizioni gli atenei (come molte imprese per le assunzioni) avevano facoltà di prendere in considerazione la razza come uno dei fattori nel determinare l’ammissione degli studenti. Da ora questo non è più consentito. Alla radice della questione vi è il concetto di legittimo riequilibrio di una società caratterizzata da storiche e sistemiche iniquità ed il ruolo istituzionale nella loro correzione. La sentenza inverte la rotta su un processo storico intrapreso fin dopo la guerra civile. Dopo la sconfitta degli stati schiavisti, il Nord intraprese una vasta operazione di riforma, concedendo il voto agli schiavi liberati ed implementando una serie di norme ed iniziative volte ad integrare la popolazione nera. Le profonde riforme sociali, note come Reconstrution non vennero mai completate. In seguito all’accordo politico fra riformisti repubblicani (il partito di Lincoln) e democratici bianchi del sud, gli stati ex confederati vennero lasciati liberi di istituire un regime di apartheid e di terrore che avrebbe insanguinato la storia con cento anni di linciaggi, violenze e segregazionismo. Le discriminazioni istituzionalizzate dai regimi noti come Jim Crow non cominciarono ad essere abolite che un secolo più tardi con il movimento per i diritti civili degli anni 50 e 60 del novecento. Il fermento di quella stagione ed il movimento guidato da Martin Luther King, ristabilirono il ruolo del governo nel sanare fratture sistemiche derivanti dal retaggio discriminatorio. Paradigmatica, ad esempio, la spinta per integrare le scuole mediante il busing, il trasporto di studenti da quartieri disagiati a distretti più privilegiati nell’interesse comune di scolaresche più rappresentative delle effettive percentuali etniche e di classe. Non furono allora solo le amministrazioni Kennedy e Johnson a presumere un valore pubblico nel riequilibrio, ma anche quella di Nixon e le successive. L’attuale recrudescenza conservatrice mira ad invertire la rotta e smantellare l’impianto liberale di cui allora furono poste le basi. La prima avvisaglia si è avuta nel 2013 quando la Corte Suprema invalidò, non a caso, alcune componenti fondamentali proprio del Voting Rights Act. Tolte le garanzie federali, molti stati ex confederati ripresero immediatamente l’antico copione, imponendo ostacoli procedurali, volti ad inibire l’afflusso di votanti in distretti neri ed ispanici, tradizionalmente favorevoli ai democratici. L’avvento del trumpismo ha in seguito permesso l’accelerazione del processo. La Costituzione prevede che i togati della Corte vengano nominati a vita dai presidenti in carica, l’alternanza politica dovrebbe garantire sul lungo termine un equilibrio ideologico nelle sentenze. La “conquista” conservatrice del massimo tribunale è iniziata con il boicottaggio repubblicano di una nomina che spettava ad Obama, quella per sostituire il reaganista Antonin Scalia nel 2016. Trump ha successivamente potuto invece selezionare ben tre nominativi dalla lista compilata dalla Federalist Society, associazione che funge come una sorta di “opus dei” della magistratura, stilando una lista di candidati dalle comprovate credenziali conservatrici, da cui da anni hanno attinto i presidenti repubblicani per le nomine dei togati. I sei giudici che compongono l’attuale super maggioranza della Corte appartengono tutti a quella associazione. La presa di posizione sempre più politica della Corte ha precipitato la crisi di credibilità del tribunale come organo costituzionale super partes, per il modo proditorio con cui è stata conquistata la super maggioranza conservatrice nonché per una serie di scandali che hanno di recente coinvolto alcuni dei togati più estremisti. Una dettagliata indagine del consorzio di giornalismo investigativo Pro Publica, ha rivelato ad esempio che il giudice Clarence Thomas è stato ospite di vari esotici viaggi all-inclusive a bordo di aerei privati, lussuosi yacht e in tenute offerte da Harlan Crow miliardario e professato “anti-marxista” di Dallas. Alcune immagini (compreso un grande ritratto ad olio) ritraggono Thomas in compagnia di Leonard Leo - il fondatore della Federalist Society. Il collega Samuel Alito, affidabile autore delle sentenze più reazionarie, ha ugualmente accettato “passaggi” su jet privati offerti gentilmente da Paul Singer, mecenate repubblicano titolare di un fondo di investimenti coinvolto i più di una questione passata al vaglio degli stessi togati. La Corte così composta ricopre un ruolo sempre più importante nell’involuzione politica del paese, guidando una rottamazione commissionata dagli interessi economici dell’oligarchia e sdoganando istanze di matrice integralista (tutti e sei i togati conservatori sono di professata fede cattolica). Al contempo i sondaggi rivelano che il ridimensionamento dei diritti è regolarmente contrario all’opinione pubblica (i 61% ad esempio favorisce il ripristino del diritto ad abortire). È questo il terreno su cui è destinato a svilupparsi lo scontro politico in vista prossime elezioni, con il potere giudiziario e la Corte suprema in un ruolo primario di ago della bilancia, un ruolo ingigantito dallo stallo in cui versano i poteri esecutivi e legislativi. In questo ambito la Corte promette di ricoprire un ruolo di forza retrograda come non ha fatto dai tempi in cui ostacolava le riforme del New Deal. Allora, Franklin Roosevelt tentò una riforma radicale che avrebbe raddoppiato il numero di togati (e lasciato a lui la maggioranza delle nomine). È una soluzione che molti a sinistra guardano anche oggi. È altamente improbabile, tuttavia, che una simile “opzione nucleare” possa essere implementata da Joe Biden.