Sulla giustizia conflitti poco utili di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 luglio 2023 Ci si azzuffa su questioni che non sembrano destinate a cambiare di molto le condizioni di salute della giustizia italiana, ma stanno innescando conseguenze difficilmente controllabili nella loro evoluzione. Il conflitto politico riaccesosi sulla “riforma della giustizia” ha raggiunto toni e confini che dovrebbero consigliare un maggiore senso della misura e della realtà. S’è detto più volte che le rinnovate diatribe di questi giorni affondano le radici in ciò che accadde in questo Paese oltre trent’anni fa, con la “rivoluzione giudiziaria” di Mani Pulite e le ricadute che ebbe sul destino della cosiddetta Prima Repubblica; compresa quella sorta di delega alla magistratura sulla selezione della classe dirigente prima favorita e poi osteggiata dai soggetti politici (vecchi e nuovi) che hanno calcato la scena della Seconda. Stavolta però ci si azzuffa su questioni che, prese una ad una, non sembrano destinate a cambiare di molto le condizioni di salute della giustizia italiana, ma al contempo stanno innescando conseguenze difficilmente controllabili nella loro evoluzione. Arrivando a lambire i rapporti tra governo, Parlamento e Quirinale. Prendiamo l’abuso d’ufficio, norma introdotta nel 1990 e già riformata nel 1997 e nel 2020, prima della proposta di totale abolizione contenuta nel disegno di legge varato un mese fa dal Consiglio dei ministri e ora approdato al Senato. A prescindere dalle riserve nel merito avanzate da più parti (in primo luogo la Lega tra le forze politiche della maggioranza, e i magistrati espressisi sia singolarmente che come Associazione) è abbastanza chiaro che si tratta di tema d’impatto più politico che reale nell’erogazione del servizio giustizia. Quasi una questione di principio, che mira ad evitare la “gogna mediatica” e carriere rovinate per gli amministratori locali denunciati, inquisiti e infine - nella stragrande maggioranza dei casi - prosciolti in istruttoria o assolti nei processi. Il che è vero, ma già la riformulazione del 2020 (che l’ha ridotto a ipotesi molto residuale, della quale non si tiene conto quando si denunciano le migliaia di procedimenti aperti a fronte di pochissime condanne) potrebbe avere risolto buona parte del problema. Che in ogni caso poco incide sulla insopportabile durata dei processi, vero male atavico da curare con interventi “di sistema”, anziché mirati su singole esigenze. Inoltre la riforma proposta dal ministro Nordio e avallata dal governo ha suscitato le perplessità del capo dello Stato che ha concesso il via libera all’iter parlamentare non prima di aver sottolineato alla presidente del Consiglio le criticità derivanti dal possibile conflitto tra la cancellazione del reato (insieme a un’ulteriore restrizione del traffico illecito di influenze) con le Convenzioni internazionali anticorruzione che l’Italia è tenuta a rispettare. Per dettato costituzionale. Ebbene, proprio mentre Sergio Mattarella trasmetteva il disegno di legge al Senato, dalla Camera arrivava un altro siluro a ciò che quelle Convenzioni raccomandano, con la bocciatura della direttiva del Parlamento europeo sugli stessi argomenti. Una coincidenza che, per quanto casuale, assume il sapore di una sfida, considerando che i vincoli europei rappresentano - in generale, non solo sulla giustizia e il contrasto al malaffare - una delle principali note dolenti per questo governo. Anche il resto delle modifiche contenute nel primo “pacchetto giustizia” sembrano più bandiere che soluzioni ai guasti del sistema, dall’irrigidimento sulla pubblicazione di intercettazioni estranee ai reati contestati (di cui non vi sono tracce da svariati anni, per ammissione dell’Autorità competente) al collegio di giudici per emettere un’ordinanza di arresto (che comunque non ci sarà prima di due anni). Infine il cortocircuito sul concorso esterno in associazione mafiosa, a cui il Guardasigilli (insieme a un pezzo di maggioranza, Forza Italia) gradirebbe mettere mano ma non Fratelli d’Italia, il partito della premier che l’ha fatto eleggere deputato e nominato ministro. Con il risultato di una pubblica sconfessione che certo non giova alla sua immagine, per provare a fermare nuove controversie e ulteriori contrasti con la magistratura. Di qui l’impressione che prima di lanciarsi in certe battaglie sarebbe meglio calcolarne la portata e le ripercussioni. Oltre che la reale incidenza sulle priorità da affrontare. Anche per non alimentare il sospetto di voler alzare l’attenzione (con annessi polveroni) su alcune questioni per distoglierla da altre, di più vasta portata ma per le quali è più difficile trovare soluzioni. Il perenne conflitto tra “i signori del diritto” di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 21 luglio 2023 L’attuale contrasto tra la magistratura e la politica, è la ripetizione di una mediocre polemica strumentalizzata dai magistrati ma in particolare dalla sua Associazione e dai rappresentanti della maggioranza di governo la quale non sa ancora se approvare le modifiche legislative del ministro Nordio che sono importanti ma non configurano una riforma della giustizia. Il contrasto tra la magistratura e il potere politico è ben altra cosa, non è una bega, né un complotto ma un problema serio delicatissimo che hanno le democrazie moderne caratterizzate da una giurisprudenza che prevale sulla legge: questo ha determinato nella storia il perenne conflitto tra i “signori del diritto”per ricordare il titolo di un libro illuminante di Ortensio Zecchino. Le proposte del ministro Nordio sono importanti ma per determinare un equilibrio istituzionale che oggi è compromesso: bisogna disciplinare un nuovo ruolo del magistrato e un rapporto diverso con le altre istituzioni. La tendenza di fondo è quella di superare in qualche modo la legge con la giurisprudenza che si è accentuata per la profonda crisi della politica che ha consentito la supplenza piena della magistratura e il superamento del dettato costituzionale che prevedeva “un ordine autonomo e indipendente” di una magistratura “bocca della legge” e questo è superato nei fatti. Da anni sostengo che “l’autonomia” ha avuto un’assoluta prevalenza tant’è che i magistrati interpretano il Csm come l’organo di autogoverno per affermare la loro separatezza. Se si deve esaltare la indipendenza del giudice bisogna distinguerlo dal pubblico ministero, essendo una parte nel processo. Ma la politica non è allarmata da questa profonda questione istituzionale e dà vita a un contrasto che serve alla magistratura per gridare al complotto e alimentare il giustizialismo non rendendosi conto che è essa stessa a delegittimarsi. Per fare un esempio eclatante e valutare le vicende attuali dico che chiunque è minimamente avvertito di cose giudiziarie sa che “il concorso esterno alla mafia” non è disciplinato dal codice, quindi non è un reato, e da tempo si invoca una norma che prevede, esplicitamente una fattispecie precisa per configurare appunto il reato. Non avrei mai immaginato che si accendesse una polemica da parte di cultori del diritto e di magistrati. Nordio ha espresso l’esigenza di dover provvedere a questa lacuna per una più consistente lotta alla mafia: attribuirgli una volontà diversa significa non conoscere la sua storia e offenderlo a morte. L’attuale giurisprudenza sul “concorso esterno” è evanescente. In una intervista a questo giornale il professor Mariello lo ha spiegato in maniera mirabile: “si aggirano i protocolli più rigorosi di legalità giurisprudenziale… e il dispositivo è di sfuggente identità”. Infatti se le indagini su Calogero Mannino che era il campione assoluto e intelligente nel Parlamento contro la mafia, sono state sonoramente bocciate vuol dire che la mancata definizione del reato è stato deviante. Basterebbe leggere tra tutte le sentenze di assoluzione l’ultima della Cassazione per Mannino per rendersene conto e il suo contenuto sarebbe istruttivo per formulare una norma adeguata. D’altra parte la pretestuosità della trattativa tra Stato e mafia è ormai codificata da sentenze definitive. Le indagini sul “concorso esterno” non rispondono a regole precise: si fanno le indagini sulle persone e non sui reati e questa distorsione doveva essere eliminata da tanto. Il professor Fiandaca da grande giurista ha dato sempre indicazioni in proposito e ha rivelato in una recente intervista che il pm Caselli era spaventato all’idea che si potesse scrivere una norma precisa. La verità è che la indeterminatezza del reato dà grande discrezionalità al pm che non avrebbe altrimenti e il coro di dissensi è proprio la prova delle subordinazioni della politica alla “discrezionalità” assoluta della magistratura. Debbo dire che, una giustificazione “sofisticata” l’ha data l’ex magistrato Spataro, che è un fine giurista, il quale non si appella alla supplenza politica cui ho accennato, ma esalta e chiede il rispetto dovuto alla giurisprudenza. Dire poi che esercitando il potere legislativo si offenderebbe Falcone e Borsellino è una eresia, perché è proprio Falcone che utilizzando giustamente l’indicazione giurisprudenziale auspicava (l’ha detto varie volte) una presa di posizione sistematica che doveva tra l’altro riguardare i reati associativi. La premier ha detto che questo argomento non ha una priorità, ma dimentica che “il diritto” è sempre una priorità, e d’altra parte ella non tiene conto che la magistratura non vuole rinunziare alla consolidata interpretazione creativa perché ritiene di essere un “potere” e non più un “ordine”. Questo è il problema della separazione dei poteri e dello stato di diritto e quindi è una priorità. La riforma della giustizia penale dovrebbe avere un unico faro: il rispetto della dignità umana di Alfredo Roma Il Domani, 21 luglio 2023 Da un po’ di tempo la riforma della giustizia penale domina la scena politica e quella mediatica. Al progetto di riforma del ministro Carlo Nordio si sono aggiunti i procedimenti che interessano la ministra del turismo Daniela Santanchè, il vice ministro della giustizia Andrea Delmastro delle Vedove e il figlio del presidente del Senato. La riforma della giustizia, civile e penale, è urgente e importante perché richiesta dal Pnrr con lo scopo di realizzare una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta. Tuttavia, nel progetto di riforma della giustizia penale si ignora il rapporto tra la giurisdizione e l’imputato che avrebbe invece bisogno di essere rivisto. Molti studiosi del diritto parlano del processo penale come di un tunnel difficile da percorrere. Difficile e aspro: timori, confusione e incertezze scuotono la vita di chi lo attraversa. Il clima è quello del dramma. Non è un caso se letteratura, filosofia, arte e religione hanno studiato gli aspetti più problematici del processo penale che hanno a che fare con la vita del singolo. Un noto docente, Massimo Nobili, è convinto che la materia e la drammaticità della giustizia penale si intendano meglio, anche nelle parti più specialistiche, guardando i processi presi in considerazione da tanti artisti di ogni tempo. Un esempio per tutti: Max Ernst con Justitia o bottega di macellaio del 1919. Così, nell’introduzione del suo libro L’immoralità necessaria, caratterizzato da mille citazioni, Nobili scrive che “i processi sono comunque vicende che non si comprendono senza una vera consapevolezza della loro connaturata violenza”. Il lessico - E questa violenza l’imputato la può avvertire fin dai primi atti di un procedimento penale, anche attraverso il lessico della comunicazione di garanzia. Il pubblico ministero è indicato come dottor Nome e Cognome, l’imputato con Cognome e Nome. Nessun titolo (dottore o professore) anche se c’è. Mettere il cognome prima del nome può ricordare il mondo militare dove il soldato deve solo ubbidire, oltre a rappresentare una prassi non aderente alla cultura del nostro paese. Quando era docente universitario a Bologna, un giorno si presentò a Giosuè Carducci uno studente, pregandolo di volergli firmare il libretto di frequenza. “Come si chiama Lei?”, gli domandò il poeta. E quello, timidamente, “Rossi Arturo”. Bruscamente, quasi sgarbatamente, il Carducci gli restituì il libretto senza neppure aprirlo: “Le farò la firma quando avrà imparato a dire correttamente il suo nome!”. Lo studente guardò il professore con aria interrogativa. E il Carducci, ancor più severo: “Per sua regola, si dice e si scrive sempre il nome prima del cognome. L’eccezione è ammessa solo in caso di necessità alfabetiche!”. E il libretto non fu firmato. Nel procedimento giudiziario la necessità alfabetica può esserci in caso di molti imputati, ma si usa cognome e nome anche nel caso di un solo imputato. Il magistrato inquirente ha indubbiamente poteri che permettono di violare la privacy dell’indagato sequestrando computer o intercettando le telefonate, oltre a limitarne la libertà con misure cautelari. Questi poteri devono essere esercitati con molta cautela, in modo non aggressivo, nei limiti imposti dalla legge e soprattutto indirizzati a trovare le prove del reato o dei reati attribuiti all’indagato. Troppo spesso abbiamo visto pubblici ministeri più attenti a elencare reati che a trovare le prove dei reati stessi o comunque inclini a disporre mezzi di indagine senza solidi sospetti, ma con l’auspicio di trovare prove. Peraltro, si tende spesso a dimenticare la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Il rispetto della dignità - Specialmente nella fase inquirente, ma anche nel seguito del procedimento, il magistrato deve sempre improntare la propria condotta al rispetto della dignità umana. Nella maggior parte delle Carte internazionali e nazionali dei diritti fondamentali - dalla Dichiarazione universale alla Carta europea, alla Costituzione italiana - sia pure con forme molto diverse, c’è un richiamo costante al principio e al tema dell’inviolabilità del rispetto della dignità. Questo richiamo esprime la comune appartenenza all’umanità, e pone l’accento sull’esigenza di tutelare e rispettare le persone, tutte e ciascuna in quanto tale. Nella nostra Costituzione il diritto alla dignità è ricordato in particolare nel primo comma dell’articolo 3 dove si parla di “pari dignità sociale”, in collegamento al principio di eguaglianza formale. Tale richiamo è stato letto come la proiezione del valore paritario della dignità umana su tutti i rapporti riferibili ai cittadini. Con questo, il concetto di dignità deve essere letto non soltanto in chiave di eguaglianza formale ma anche in chiave di eguaglianza sostanziale, nel senso che l’affermazione in ambito sociale della dignità umana implica che i pubblici poteri si adoperino per garantire il pieno rispetto e il pieno sviluppo della persona. La dignità si può perdere per molti motivi. Ma non si può perdere il diritto a essere trattati da chiunque con rispetto, a non subire violenza fisica o mentale. Si sa che quella dell’imputato è una posizione di debolezza, qualunque sia l’imputazione. Questo è scritto nella storia del processo penale che sottrae il presunto colpevole alla vendetta privata, prevista nella legge romana di Numa, attribuendo allo stato il potere sanzionatorio all’esito di un accertamento basato su specifiche garanzie. Anche nell’immaginario collettivo l’imputato è solo davanti alla legge, e fino a pochi anni fa lo era davvero nella fase iniziale, non potendosi avvalere di un difensore. La cultura sbagliata della pena - Questo errato atteggiamento della giurisdizione fa parte della cultura dominante della pena da infliggere al responsabile di un reato, mentre la cultura che dovrebbe guidare l’azione dei magistrati dovrebbe sempre essere quella del “in dubio pro reo” e in seguito quella dell’eventuale recupero del condannato e del suo reinserimento nella società civile, altro principio stabilito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Questo problema esiste anche in molte altre giurisdizioni europee. Si tratta dunque di un aspetto fondamentale del processo penale dal quale dipende l’andamento di tutto l’iter successivo. Una rivoluzione culturale per affermare il rispetto della dignità sancita dalla Costituzione e dalle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo. E questa rivoluzione dovrebbe avvenire prima ancora di parlare di riforme pericolose come la separazione delle carriere o la limitazione delle intercettazioni. La separazione delle carriere riparte alla Camera in Commissione “Affari costituzionali” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 luglio 2023 Il presidente Pagano: “Sarò io stesso relatore”. Greco (Cnf): “Riforma fondamentale per attuare il giusto processo”. Alla Camera il dibattito tra gli addetti ai lavori sulla riforma osteggiata dall’Anm e dalle opposizioni. “Ci sono un governo e un Parlamento eletti democraticamente, grazie anche ad un programma condiviso che abbiamo l’obbligo di realizzare. Tra gli obiettivi: la separazione delle carriere, una riforma costituzionale che per noi è una fondamentale “mission possibile”, avendo davanti altri quattro anni”. Così il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, dinanzi alla numerosa platea del convegno “Separare le carriere, unire la giustizia: una riforma necessaria”, organizzato dall’Organismo congressuale forense in collaborazione con la presidenza della Commissione Affari costituzionali della Camera. In merito ai difficili rapporti con le toghe dell’Anm ha ribadito: “Abbiamo pagato tanto, talvolta troppo, dalle lotte con la magistratura: proviamo ad aprire un dialogo che ci consenta di scrivere leggi migliori. Nessuno toccherà mai l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma dovete spiegarmi logicamente perché la distanza tra giudice e avvocato difensore non dovrebbe essere la stessa che c’è tra giudice e pm. Mettiamoci tutti intorno ad un tavolo e ragioniamo, per il presente ed il futuro. Sui niet non si costruisce nulla e si creano contrapposizioni che inevitabilmente fanno male ai cittadini. Non c’è, da parte nostra, alcuna voglia di alzare l’asticella dello scontro. Sono convinto che sempre con la partecipazione di tutti, ascoltando tutti, sia istituzionalmente necessario andare avanti, senza esitazioni, per portare a termine le riforme”. A rassicurare che la questione non cadrà nell’oblio ci ha pensato anche il presidente della Commissione Affari costituzionali, Nazario Pagano: “La separazione delle carriere è un tema di grande attualità e rilevanza, non a caso ho voluto incardinare le quattro proposte di legge che riguardano l’iter di modifica della Costituzione proprio a inizio legislatura per dare, da subito, un’impronta alla materia e consentire ampi margini di discussione a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Ho nominato me stesso relatore di questo provvedimento per l’attenzione che ripongo nella materia e, voglio rassicurare tutti: il cammino si è arrestato solo temporaneamente perché, negli ultimi due mesi, ci siamo occupati di cinque decreti ma riprenderà subito dopo la pausa estiva. Voglio così rispondere alle sollecitazioni che mi sono arrivate, in tal senso, anche dai colleghi Costa e Giachetti”. La separazione delle carriere, “a distanza di tanti anni dall’introduzione del giusto processo, è un qualcosa di inevitabile ed è un tema che non deve essere ancora trattato come un tabù” ha proseguito Mario Scialla, Coordinatore Ocf: “essendo però l’argomento delicato, è importante approcciare allo stesso con l’animo sgombro da pregiudizi di natura ideologica, senza farne un terreno di scontro o di rivendicazione politiche. Pertanto è fondamentale che si tenga conto di tutte le obiezioni e che il dibattito si arricchisca di idee e valutazioni diverse. Deve essere trovata una formula che rafforzi la terzietà del Giudice, senza pregiudicare in alcun modo il ruolo e la funzione del pubblico ministero” ha concluso. È intervenuto all’incontro anche il presidente del Cnf, Francesco Greco: “La separazione delle carriere dei magistrati è oggi una necessità che si può sintetizzare in un concetto: il principio costituzionale del giusto processo e la vera attuazione del modello accusatorio si potrebbero realizzare se nel processo ci fossero tre estranei: il giudice, il pm e l’avvocato. Oggi, invece, ci sono due colleghi e un estraneo. I due colleghi sono il giudice e il pubblico ministero, l’estraneo è l’avvocato. Se si volesse dare completa attuazione al principio della terzietà del giudice rispetto alle altre parti del processo stabilito dall’articolo 111 della Costituzione risulta evidente la necessità di separare le carriere, poiché il processo è influenzato dalla struttura organizzativa della magistratura”. Per l’Anm ha parlato il presidente Giuseppe Santalucia che ha evidenziato: “Le pdl in discussione guardano alla terzietà del giudice solo nella prospettiva della magistratura ordinaria e non ampliano lo sguardo a tutti i tipi di processo, la terzietà non è solo del giudice ordinario. Mi guardo bene dal sollecitare riforme delle magistrature speciali ma questo è il sintomo di come i proponenti abbiano una visione parziale del problema e mi permetto di dire a questo punto anche distorta”. Ha poi messo in luce una contraddizione: “Se oggi la politica avverte una eccessiva presenza del pm, discutiamone. Ma le cause non sono di certo nella Costituzione che è l’antidoto ad una enfatizzazione del ruolo del pm. Le pdl vanno in senso opposto, ossia verso un allargamento dei poteri del pm. La politica, invece, paradossalmente, sembra sedotta talvolta dalle istanze della magistratura requirente: basti pensare a come si è reagito da parte del governo che ha annunciato subito un provvedimento d’urgenza per rimediare assertivamente ad una sentenza della Cassazione in materia di criminalità organizzata”. Tra i politici intervenuti la vice presidente dem del Senato, Anna Rossomando, che ha stigmatizzato il fatto che “nell’attuale dibattito politico il governo sta usando questo tema come una clava e una minaccia nei confronti della magistratura”. Per parlare di separazione delle carriere, ha aggiunto, “occorre farlo in maniera laica, ossia fare i conti con l’oggi. Siamo sicuri che tale riforma possa ad esempio porre un freno alle derive di spettacolarizzazione di alcune inchieste? Piuttosto il rischio concreto è che il pm diventi un super poliziotto magari molto sensibile al consenso popolare. È questo l’antidoto al populismo giudiziario? Nell’oggi c’è quanto ottenuto anche grazie al nostro intervento con la Cartabia: nella riforma del Csm abbiamo previsto un solo passaggio da una funzione all’altra, il voto degli avvocati nei consigli giudiziari, il fascicolo di performance dei magistrati, l’obbligo di non richiedere il rinvio a giudizio senza ragionevole previsione di condanna ed è stata poi approvata la direttiva sulla presunzione di innocenza. E potremmo fare anche di più, come l’Alta Corte”. In collegamento il responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa: “Credo che il dibattito in Parlamento con il governo garantisca un equilibrio migliore. Non vorremmo correre il rischio che la separazione, come riforma costituzionale, passi in secondo piano e non si faccia per dare spazio a quella del presidenzialismo”. Ha preso poi la parola Antonino La Lumia, tesoriere Ocf e presidente del Coa di Milano: “Una riforma organica della Giustizia non può tralasciare un serio approfondimento sull’opportunità di separare le carriere dei magistrati; è un tema che compare sistematicamente sul tavolo della discussione, dentro e fuori le aule parlamentari, coinvolgendo l’opinione pubblica. Già questo è segno evidente di interesse, ma anche di delicatezza della questione che - come tutti i problemi che attengono a profili essenziali dell’ordinamento democratico - deve essere affrontata con pragmatismo ed equilibrio”. Per Accursio Gallo, segretario dell’Ocf, moderatore del convegno, “la presenza al convegno di importanti cariche istituzionali, che ringrazio, è la dimostrazione che si può finalmente raggiungere un importante traguardo. Non capisco la resistenza da parte delle associazioni rappresentative dei magistrati. Se fossi un giudice, sarei lieto che ci fosse una netta distinzione tra giudicante e requirente”. Sono poi seguiti gli interventi del professore Alfonso Celotto (ordinario di Diritto costituzionale) e della professoressa Carla Bassu (ordinaria di Diritto pubblico comparato). Avvocati: la separazione delle carriere non sia un tabù - Sisto: “È nel programma” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2023 L’allarme dell’Anm: è forte il rischio di intrusione del potere esecutivo. Il confronto questa mattina nel corso di un convegno organizzato dall’Ocf in collaborazione con Commissione Affari costituzionali della Camera. Per la magistratura associata nella separazione delle carriere si annida un pericoloso rischio: la sottoposizione del Pm al controllo politico. Per gli avvocati invece si tratta di sanare un vulnus completando la riforma del rito accusatorio mettendo sullo stesso piano accusa e difesa davanti ad un giudice terzo. Se n’è discusso questa mattina nel corso di un partecipato convegno dal titolo: “Separare le carriere, unire la giustizia: una riforma necessaria” organizzato dall’Organismo congressuale forense in collaborazione con la Presidenza della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, alla presenza di Francesco Paolo Sisto, vice ministro della Giustizia e del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Per Nazario Pagano, deputato di Forza Italia e presidente della commissione Affari Costituzionali di Montecitorio: “La separazione delle carriere è un tema di grande attualità e rilevanza”. “Non a caso - prosegue - ho voluto incardinare le quattro proposte di legge che riguardano l’iter di modifica della Costituzione proprio a inizio legislatura per dare, da subito, un’impronta alla materia e consentire ampi margini di discussione a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento”. “Voglio rassicurare tutti - ha poi aggiunto -, il cammino si è arrestato solo temporaneamente perché, negli ultimi due mesi, ci siamo occupati di cinque decreti ma riprenderà subito dopo la pausa estiva”. Per Mario Scialla, coordinatore dell’Organismo congressuale forense: “La separazione delle carriere, a distanza di tanti anni dall’introduzione del giusto processo, è un qualcosa di inevitabile ed è un tema che non deve essere ancora trattato come un tabù. Essendo però l’argomento delicato, è importante approcciare allo stesso con l’animo sgombro da pregiudizi di natura ideologica, senza farne un terreno di scontro o di rivendicazione politiche. Pertanto è fondamentale che si tenga conto di tutte le obiezioni e che il dibattito si arricchisca di idee e valutazioni diverse. Deve essere trovata una formula che rafforzi la terzietà del giudice, senza pregiudicare in alcun modo il ruolo e la funzione del pubblico ministero. Solo così, come ricorda il titolo del convegno, si potrà separare le carriere per unire, ancor di più, la giustizia”. Sul punto torna il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco. “La separazione delle carriere dei magistrati - afferma - è oggi una necessità che si può sintetizzare in un concetto: il principio costituzionale del giusto processo e la vera attuazione del modello accusatorio si potrebbero realizzare se nel processo ci fossero tre estranei: il giudice, il pm e l’avvocato. Oggi, invece, ci sono due colleghi e un estraneo. I due colleghi sono il giudice e il pubblico ministero, l’estraneo è l’avvocato. Se si volesse dare completa attuazione al principio della terzietà del giudice rispetto alle altre parti del processo stabilito dall’articolo 111 della Costituzione risulta evidente la necessità di separare le carriere, poiché il processo è influenzato dalla struttura organizzativa della magistratura”. Diametralmente opposta la posizione dell’Associazione nazionale magistrati. “Il tema della separazione delle carriere - afferma il Presidente Giuseppe Santalucia - vede un passo verso la sottoposizione al controllo politico. Inoltre c’è una proliferazione di organi di governo autonomo” che stanno “ridimensionando il principio di autonomia della magistratura”. “Un legislatore con uno spettro molto parziale - prosegue - pone il problema della terzietà di fronte al giusto processo declinandolo solo sul giudizio penale, ma il legislatore costituzionale non può intervenire per risolvere un problema solo di giustizia penale, perché non ti stai ponendo un problema se non per il pm: questo è il sentiero che io vedo tracciato da chi porta avanti questo disegno istituzionale”. “Abbiamo pagato tanto dalle lotte nella magistratura - ha proseguito Santalucia -, proviamo a fare pace e ad aprire un dialogo che ci consenta di scrivere leggi migliori. Perché non fare una riforma che dia al pubblico ministero il giusto peso? Mettiamoci ad un tavolo e ragioniamo. Sui niet non si costruisce nulla e si creano contrapposizioni che fanno male ai cittadini. Non c’è alcuna voglia di alzare l’asticella dello scontro, abbassiamo il livello dello scontro e avanti tutta con le riforme. Abbiamo bisogno della partecipazione di tutti”. A ribadire però che la riforma è nel programma di governo è il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Le leggi - afferma - le scriverà il Parlamento: c’è un governo e un Parlamento eletti democraticamente, un programma condiviso che va realizzato e tra questi temi c’è la separazione delle carriere. Bisogna ascoltare tutti ma quando si passa dal confronto al Parlamento decide quest’ultimo: il dibattito non può e non deve interferire sulle scelte del Parlamento. Una riforma costituzionale per noi è una ‘mission possibile’, abbiamo davanti a noi altri 4 anni. Vogliamo scrivere riforme fortemente costituzionali con grande determinazione, che servono a risolvere problemi del Paese reale che sono dei cittadini. E nessuno toccherà mai l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. La maggioranza contro l’Ue sulla direttiva che impone l’abuso d’ufficio di Giulia Merlo Il Domani, 21 luglio 2023 La maggioranza in commissione Affari europei (più Italia viva) approva un parere che definisce “palesemente in contrasto con il principio di sussidiarietà e di proporzionalità” la norma della direttiva europea che impone l’obbligo per i paesi membri di prevedere il reato di abuso d’ufficio, che il governo punta ad abolire in Italia con il ddl Nordio. Nel giorno della commemorazione della strage di via D’Amelio, rischia di aprirsi un nuovo fronte in materia di giustizia. In commissione Affari europei, infatti, è stato approvato il parere di maggioranza che contesta duramente la direttiva europea anticorruzione, che recepisce i contenuti della convenzione Onu di Merida e prevede l’introduzione obbligatoria in tutti gli stati membri - tra gli altri - del reato di abuso d’ufficio. Il contesto - Il consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge Nordio, che prevede l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio e la rimodulazione di quello di traffico di influenze illecite. Il ddl non è ancora arrivato in parlamento, è ancora fermo al Quirinale che deve dare l’autorizzazione alla presentazione. Prima ancora di venire approvato, però, il testo presenta elementi di dubbia costituzionalità. Secondo i critici, anche dell’accademia, l’abolizione completa del reato di abuso d’ufficio sarebbe in contrasto con le previsioni dei trattati internazionali e in particolare con la convenzione Onu di Merida, che l’Italia ha sottoscritto e che prevede gli strumenti di contrasto alla corruzione. Inoltre, il Ue è in discussione una direttiva europea anticorruzione che prevede espressamente il reato di abuso d’ufficio per tutti gli stati membri. Queste considerazioni sono ben note al Quirinale, che dovrà promulgare la legge una volta approvata in parlamento. Tuttavia cambiare il testo del ddl proprio nella sua parte più caratterizzante sarebbe un passo indietro molto complicato per il governo, proprio ora che era riuscito a trovare una non facile convergenza tra gli alleati (la Lega era contraria) sull’abrogazione. Il parere in commissione - Il parere votato in commissione firmato dall’onorevole Antonio Giordano di FdI è molto critico. Secondo la maggioranza, nella proposta “non risultano adeguatamente né la necessità né il valore aggiunto della stessa” e “non è accompagnata da alcuna valutazione di impatto ma soltanto da una mera ricognizione del lavoro istruttorio” . Il vero attacco, però, viene mosso sull’indicazione che tutti gli stati prevedano il reato di abuso d’ufficio. “La convenzione Onu prevede un’incriminazione meramente facoltativa per quanto riguarda l’abuso d’ufficio”, quindi “l’intervento normativo unionale, obbligando alla criminalizzazione di fattispecie valutate in maniera diversa a livello internazionale, corre il rischio di porre su uno stesso piano dogmatico veri e propri obblighi convenzionali insieme a semplici raccomandazioni”. In altre parole: l’Ue vuole rendere obbligatorio un reato che l’Onu prevede come facoltativo. Per questo la proposta di direttiva “esorbita dalla base giuridica richiamata a suo fondamento” e in ogni caso risulta “palesemente in contrasto con il principio di sussidiarietà e di proporzionalità”, perchè detta “una disciplina pervasiva che incide profondamente su normative che tengono conto delle specificità dei sistemi e delle culture giuridiche” dei singoli paesi. “Valutiamo positivamente le misure preventive e l’istituzione di organismi specializzati nella prevenzione e della repressione della corruzione” contenuti nella direttiva Ue, ha specificato Pietro Pittalis, di Forza Italia, ma la direttiva “sull’abuso d’ufficio nel settore pubblico, ma anche per il settore privato, sarebbe contrastante con la Convenzione di Merida”.Contro il parere si sono espressi il M5S e il Pd, mentre il Terzo polo - favorevole all’abolizione dell’abuso d’ufficio - ha votato con la maggioranza. Enrico Costa di Azione ha definito la direttiva europea “follia pura”, che “potrebbe alimentare il rischio di squilibri in termini di proporzionalità del sistema”. Il rigetto è sì un’indicazione all’Ue ma suona come un segnale indiretto anche al Colle: la maggioranza non sarebbe intenzionata a cambiare il ddl Nordio sull’abuso d’ufficio. Le “presunzioni” Ue: prima d’innocenza, poi di colpevolezza di Errico Novi Il Dubbio, 21 luglio 2023 L’assurdo voltafaccia europeo, che rinnega la direttiva garantista con quella proposta ora, che punta a disciplinare la “lotta alla corruzione”. Novembre 2020: l’ostinazione di un deputato con una singolare, forse unica, attenzione ai temi della giustizia, Enrico Costa, costringe l’allora maggioranza giallorossa a occuparsi di un dossier fino ad allora misconosciuto, di più, ignorato: la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. I 5 Stelle del premier Giuseppe Conte e del guardasigilli Alfonso Bonafede rispondono picche: il principio, dicono, è già sancito in Costituzione, quindi la disciplina europea può essere recepita seccamente, non c’è bisogno di introdurre puntualizzazioni nella legislazione italiana. Invece un anno dopo, a premier (Mario Draghi) e guardasigilli (Marta Cartabia) mutati, la direttiva Ue 343 sulla presunzione d’innocenza entra nel nostro ordinamento penale, con modifiche stringenti che cambieranno per sempre il rapporto fra magistratura e comunicazione. Tutto è bene quel che finisce bene, seppur con solenne ritardo: la disciplina garantista era stata emanata dall’Europa ben 5 anni prima, nel 2016. Nel Paese dell’ossequio alle Procure debordanti nessun partito o parlamentare, prima di Costa, si era preoccupato di prenderla in considerazione. Cambio inquadratura. Siamo nel 2023, a sette anni di distanza dall’emanazione della direttiva garantista. Ce n’è una nuova, non ancora varata dalla Commissione di Bruxelles ma elaborata e sottoposta agli Stati membri da Parlamento di Strasburgo e Consiglio europeo. È una “proposta di direttiva” che punta a disciplinare la “lotta alla corruzione”. Contiene sollecitazioni ai Ventisette affinché introducano nei loro ordinamenti penali nuove fattispecie di reato sul malffare, ivi compreso l’abuso d’ufficio in via d’abrogazione dalle nostre parti. Non solo. Dopo fiumi di pronunce della Corte dei diritti dell’uomo con cui per decenni i singoli Paesi, e l’Italia per prima, sono stati sanzionati per l’eccessiva durata dei processi; dopo che l’erogazione dei fondi per il Pnrr è stata subordinata a riforme, poi realizzate da Cartabia, che riducessero il “disposition time”, nientedimeno la nuova “bozza di direttiva europea” dispone che, per certi reati, sempre di corruzione, la prescrizione si allunghi. È finita qui? Macché. Tra i tanti input ultrarestrittivi che improvvisamente l’Europa sente il bisogno di trasmettere ai singoli governi c’è persino una simil-legge Severino, peggiore e più contraria allo Stato di diritto, e alla presunzione d’innocenza, di quanto non sia la Severino vera, la nostra: si prevede l’incandidabilità non solo per i condannati ma anche per gli “incriminati”; cioè, per adattare la cosa al nostro sistema, per chi è solo accusato, da un pm, di corruzione o, al più, è stato rinviato a giudizio, senza che sia mai stata emessa una condanna. È - lo si può dire senza tema di smentita - una direttiva sulla presunzione di colpevolezza. Ora, in Italia, contro questa incredibile euroinversione di marcia su garanzie e diritti, la maggioranza parlamentare, mercoledì scorso, ha di fatto votato contro. Più precisamente, e come riportato sul Dubbio di ieri, ha approvato un parere critico proposto, in commissione Affari europei alla Camera, dal deputato Antonio Giordano, di Fratelli d’Italia. Una prova di coesione del centrodestra, anche nel suo partito maggiore e più incline a sterzate intransigenti sulla giustizia. Il tutto con il sostegno anche del Terzo polo, che ha votato insieme alla coalizione di governo. Si apre una paradossale e interessantissima sfida sul garantismo, tra Italia e Unione europea. In cui non siamo soli, come ricordato dall’onorevole Giordano ai colleghi: persino la civilissima Svezia ha espresso in Parlamento un parere negativo, ad esempio, sull’incandidabilità degli incriminati. C’è di mezzo l’ingerenza, la violazione del “principio di sussidiarietà”, in base al quale l’Ue “legifera” solo su materie per le quali gli Stati membri non adottano discipline autonome. Nel caso della corruzione non è così, certamente non è cosi per l’Italia, come ricordato da Carlo Nordio all’eurocommissario Reynders. E sarà interessante vedere se Roma riuscirà a condurre fino in fondo la propria campagna contro l’incredibile voltagabbana comunitario, che neppure lo pseudo trauma del Qatargate può giustificare. La verità sul voto sulla direttiva europea contro la corruzione di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 luglio 2023 “La proposta di direttiva europea contro la corruzione è in contrasto con il principio di sussidiarietà e di proporzionalità”, spiega al Foglio Antonio Giordano, deputato di Fratelli d’Italia relatore del parere votato mercoledì. “Il centrodestra boccia la direttiva europea contro la corruzione e l’abuso d’ufficio”. E’ questo il messaggio che gran parte dell’informazione e dei partiti di opposizione hanno fatto passare dopo il voto espresso mercoledì dalla commissione affari europei della Camera sul parere relativo alla direttiva proposta da Parlamento europeo e Consiglio Ue sulla lotta contro la corruzione. Come spesso accade, le cose stanno diversamente e sono più complesse di come appaiono. “La proposta di direttiva europea contro la corruzione è in contrasto con il principio di sussidiarietà e di proporzionalità”, spiega al Foglio Antonio Giordano, deputato di Fratelli d’Italia relatore del parere votato mercoledì. “La direttiva detta, senza che sia dimostrata la necessità e il valore aggiunto dell’intervento a livello unionale - aggiunge Giordano - una disciplina pervasiva che incide profondamente su normative, quali quelle contenute nei codici penali e di procedura penale, che tengono conto delle specificità dei sistemi, dei dati statistici e delle culture giuridiche, economiche e sociali, nonché dell’ordinamento costituzionale e delle Pubbliche amministrazioni di ciascuno stato membro”. “Una cosa folle”, prosegue Giordano, spiegando che la direttiva si spinge a individuare fattispecie di reato, a definirne le pene minime, persino i termini di prescrizione. “Ci sono dei reati per i quali sono stati previsti termini di prescrizione di 22 anni. Come si sposa questo con l’efficienza della giustizia?”, si chiede il deputato FdI. “Siamo sicuri che la lotta alla corruzione si faccia meglio con questa azione devastante, della quale non sono indicati i costi e i benefici, anziché continuando con la strada che abbiamo intrapreso?”, si domanda ancora Giordano, ricordando che “l’Italia ha già aderito alla procura europea e si è dotata di una autorità indipendente anticorruzione, l’Anac”. “Faccio notare peraltro - continua Giordano - che anche la Svezia ha eccepito il mancato rispetto della sussidiarietà da parte della direttiva, in quanto prevede l’incandidabilità dell’incriminato per corruzione, il che vuol dire incidere sui sistemi di elettorato passivo di tutti gli stati”. Anche Azione mercoledì ha deciso di votare il parere elaborato dalla maggioranza. La proposta di direttiva è stata definita “una follia pura” da Enrico Costa, vicesegretario di Azione, perché “arriva al punto di prevedere sanzioni penali non solo per l’abuso d’ufficio nel settore pubblico, ma anche per il settore privato in caso di ‘esecuzione’ o ‘omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo’”. “Ciò determina un’implementazione del controllo delle procure nella vita interna delle imprese, quando per i casi più gravi già sono presenti ipotesi di reato, dalla truffa all’appropriazione indebita”, ha concluso Costa. Per queste ragioni, Costa ha annunciato di aver chiesto formalmente al presidente della commissione Giustizia, Ciro Maschio, un esame di merito della proposta di direttiva sulla corruzione: “Potranno essere ulteriormente dettagliate dal punto di vista giuridico le criticità del testo già emerse dal parere della commissione Politiche Ue e ciò sarà utile anche a fornire al governo tutti gli elementi per sostenere la sua posizione in sede negoziale”. “Il nostro Parlamento, infatti, non è un notaio che deve solo recepire acriticamente le volontà dell’Ue - ha aggiunto Costa - Si tratta di ricercare un equilibrio che nella proposta della direttiva europea contro la corruzione era del tutto assente, e ciò è rafforzato dal fatto che essa contrasta con il disposto della Convenzione di Merida”. Umbria. L’appello del Garante dei detenuti: sovraffollamento e caldo record La Nazione, 21 luglio 2023 Il Garante dei detenuti dell’Umbria chiede urgenti interventi per ridurre gli effetti del caldo record nelle carceri umbre, tra cui spostamento delle ore d’aria, eliminazione di schermature, presenza di menù giornalieri più adeguati e incremento della corrispondenza telefonica. Non bastassero i problemi di sovraffollamento e di sicurezza nelle carceri umbre, si aggiunge anche il grande caldo di questi giorni a rendere la condizione dei detenuti ancora più estrema. Per questo, il garante dei detenuti dell’Umbria, Giuseppe Caforio, chiede che in maniera urgente “vengano adottati interventi volti a ridurre gli effetti del caldo record in carcere e ad alleviare il pesante disagio delle persone ristrette, tenuto conto anche dell’assenza di docce nelle camere detentive di alcuni reparti e istituti umbri e del maggiore sovraffollamento”. Nella missiva di Caforio, rivolta alla Procura generale, al presidente del Tribunale di sorveglianza, a quello della Regione, ai direttori delle carceri e all’assessore regionale alla Sanità “si chiede che venga favorita l’attuazione di misure specifiche: lo spostamento delle ore d’aria nel tardo pomeriggio; la rimodulazione degli orari di permanenza all’aria aperta; l’apertura delle porte blindate delle camere detentive di notte per implementare la circolazione dell’aria e ottenere maggior refrigerio; l’eliminazione di schermature e pannelli in plexiglass sulle porte di accesso delle camere detentive o sulle sbarre delle finestre esterne; il collocamento eo il potenziamento, nei cortili di passeggio, di punti idrici a getto o di nebulizzatori; la possibilità di acquistare ventilatori a batteria di dimensioni ridotte; la possibilità di fare la doccia anche di notte”. Tra i provvedimenti richiesti dal garante ci sono “interventi suppletivi per la carenza di acqua; la presenza di menù giornalieri con alimenti più adeguati alla stagione; l’ampliamento della possibilità di utilizzare frigoriferi nei reparti detentivi; l’incremento della corrispondenza telefonica quale forma di prevenzione a fronte di situazioni di rischio legate al maggiore disagio psicologico”. Pescara. Si diede fuoco nel carcere, morto uno dei detenuti vittime di pestaggi abruzzoweb.it, 21 luglio 2023 Dopo un’agonia di quasi due mesi è deceduto al Policlinico di Bari il 30enne detenuto marocchino Fakhri Marouane, ricoverato a fine maggio dopo essersi dato fuoco nella propria cella nel carcere di Pescara ed essersi procurato ustioni su quasi tutto il corpo. A dare notizia il suo avvocato, Lucio Marziale. Marouane era tra i reclusi vittime dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020, e si era costituito parte civile nel maxi-processo in corso all’aula bunker dello stesso carcere a carico di 105 imputati tra agenti penitenziari, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e medici dell’Asl. Marouane avrebbe dovuto testimoniare al dibattimento, anche perché la sua vicenda era tra quelle ritenute più gravi dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere; dai video delle violenze, dalle indagini e dalle prime fasi del processo (partito a novembre 2022), è emerso infatti come Marouane fosse stato tra i detenuti maggiormente “attenzionati” dagli agenti penitenziari responsabili dei pestaggi. In particolare dai video mostrati nelle scorse udienze, si vede che Marouane, durante i pestaggi, fu costretto a muoversi sulle ginocchia a piccoli passettini per raggiungere il suo posto nell’area socialità del carcere sammaritano; rimasto solo dopo che gli altri detenuti erano stati portati via, fu colpito con il manganello in testa, quindi fatto alzare e inginocchiare nuovamente ad altezza di un agente, e alla fine riportato in cella tra i poliziotti che continuavano a pestarlo. La storia del detenuto di origine marocchina Marouane emerse in tutta la sua drammaticità nel corso di un altro processo, quello a carico degli unici due agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere che avevano scelto il rito abbreviato, e che poi sono stati assolti il 20 giugno scorso. Nel corso di quelle udienze la Procura e la difesa di Marouane raccontarono, sulla base dei due interrogatori resi dal detenuto ai pm nelle settimane successive ai pestaggi, ciò che il 30enne aveva subito dal 10 marzo 2020, quando era entrato nel carcere casertano, al 6 aprile, fatti che ancora lo terrorizzavano, disse il detenuto, e che lo avevano fatto cadere in una forte depressione. Dopo l’esperienza a Santa Maria Capua Vetere, Marouane fu poi trasferito al carcere di Pescara, dove pareva essersi ripreso; lì aveva infatti intrapreso un percorso rieducativo concreto, diplomandosi e ottenendo la semilibertà, ma quest’anno, con l’inizio dei processi per i pestaggi del 6 aprile 2020, Marouane ha probabilmente rivissuto il terrore ricadendo in quello stato depressivo da cui forse non era mai guarito del tutto. A Pescara Marouane sembra che sia andato in tilt per un richiamo, fino a minacciare di darsi fuoco, cosa poi effettivamente successa; il fratello del detenuto, che vive a Isola Liri, ha presentato denuncia perché si faccia chiarezza sulle cause che hanno portato Marouane a perdere il controllo nel carcere di Pescara, e dunque a verificare se vi siano altre responsabilità. Al riavvio del processo per i fatti dell’aprile del 2020, la prossima udienza è prevista l’11 settembre, Marouane non ci sarà; si capirà nelle prossime settimane se i familiari del detenuto vorranno andare avanti col processo. Milano. Accordo Giustizia-FS: detenuti al lavoro nelle stazioni ferroviarie di Marco Belli gnewsonline.it, 21 luglio 2023 Accordo Ministero della Giustizia-Ferrovie dello Stato Italiane. Detenuti formati e poi impiegati in stazioni e uffici ferroviari. Arrivano dalla casa di reclusione di Milano Opera le prime cinque persone assunte, a partire dal prossimo mese di settembre, per Rete ferroviaria italiana e per Trenitalia, rispettivamente capofila dei Poli infrastrutture e passeggeri del Gruppo FS italiane. Lavoreranno con contratti a tempo determinato di 6 mesi. È quanto prevede il primo accordo attuativo del Protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia e Ferrovie dello Stato italiane, firmato il 22 luglio dello scorso anno. La nuova intesa - messa a punto, per il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento - è stata sottoscritta oggi da Silvio Di Gregorio, direttore della casa di reclusione di Milano Opera, e da Massimo Bruno, chief corporate affairs officer del Gruppo FS italiane e arriva a un anno di distanza dalla stipula del Protocollo “Mi riscatto per il futuro” che impegna le parti a promuovere attività lavorative in favore della popolazione detenuta, al fine di favorire il reinserimento delle persone private della libertà, individuando percorsi di formazione, riabilitazione e reinserimento sociale. I candidati sono stati selezionati all’interno della casa di reclusione sulla base dei requisiti giuridici e sotto il controllo della magistratura di sorveglianza. Insieme a rappresentanti delle Risorse umane delle società del Gruppo FS, sono stati poi individuati i primi cinque detenuti che, superata la visita medica e il percorso formativo, saranno assunti per essere impiegati in posizioni già stabilite: tre lavoreranno per Rete ferroviaria italiana, con i ruoli di addetto alla Sala Blu per i servizi di assistenza ai viaggiatori con ridotta mobilità, addetto a supporto del referente di stazione e addetto a supporto dello staff di formazione della scuola professionale; due per Trenitalia, con i ruoli di addetti alla segreteria tecnica di impianto. “Ringrazio Ferrovie dello Stato per questa importantissima collaborazione che oggi si è concretizzata in questo primo accordo attuativo e che, mi auguro, sarà foriera di numerose altre iniziative”. Lo ha detto il capo del Dap, Giovanni Russo, che ha sottolineato: “Lo svolgimento di attività lavorative da parte dei detenuti contribuisce in maniera significativa all’abbassamento dei casi di recidiva e, di conseguenza, all’innalzamento del livello di sicurezza dei cittadini. Inoltre, costituisce uno dei capisaldi del trattamento penitenziario, finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti, in attuazione del mandato istituzionale dell’Amministrazione penitenziaria”. “L’accordo sottoscritto oggi conferma l’impegno del Gruppo FS nel sostenere iniziative socialmente inclusive, per favorire la formazione professionale di persone in condizioni di marginalità e contribuire al reinserimento dei detenuti nel tessuto comunitario civile e sociale”, ha dichiarato Massimo Bruno, chief corporate affairs officer del Gruppo FS. “Ringraziamo il ministero della Giustizia e il Dap per aver collaborato a questa Intesa, che si inserisce pienamente tra le iniziative promosse dal Gruppo per fare rete e creare una cultura di responsabilità diffusa a tutti i livelli. La nostra mission è infatti quella di ‘muovere’ il Paese garantendo la libera circolazione di persone, merci e idee, sostenendo allo stesso tempo quei cambiamenti necessari e fondamentali per lo sviluppo della comunità e del sistema Paese”. A metà settembre, nel corso di uno specifico evento, Dap e Ferrovie dello Stato italiane faranno il punto sui primi risultati dell’accordo e su altre iniziative di collaborazione. Sassari. Marco Di Lauro sepolto al 41bis come il fratello Cosimo di Andrea Aversa L’Unità, 21 luglio 2023 L’avvocato difensore: “Da due anni non vede e non parla con nessuno”. Non sta più mangiando e oltre ai chili avrebbe perso anche i capelli. Non parla più con nessuno e da due anni ha rifiutato di incontrare i suoi parenti e l’avvocato difensore. Stiamo parlando delle condizioni di salute di Marco Di Lauro, ex reggente dell’omonimo clan e arrestato a Secondigliano (quartiere ‘fortino’ della sua famiglia) nel marzo del 2019 dopo 15 anni di latitanza. ‘F4’ (chiamato così perché è il quarto di 10 figli di Paolo Di Lauro, alias Ciruzzo ‘o Milionario) sta vivendo da almeno due anni in totale isolamento, oltre quello garantito dal carcere duro: il regime del 41 bis. Di Lauro, detenuto nel penitenziario di Sassari, potrebbe essere affetto da una grave patologia psicofisica. Secondo quanto riportato oggi da Il Mattino, i giudici della Corte di Assise di appello di Napoli hanno disposto una perizia psichiatrica da effettuare dopo Ferragosto, il cui esito dovrà arrivare entro 45 giorni. Abbiamo approfondito la vicenda con l’avvocato Gennaro Pecoraro, legale di ‘F4’, che si è visto approvare l’istanza dal Tribunale. Il penalista ha spiegato a l’Unità che, “Sono due anni che non incontro Di Lauro. Cinque, sei mesi fa è stata l’ultima volta che mi sono recato in carcere ma lui, nonostante il nostro rapporto fosse sempre stato sereno e trasparente, non ha voluto incontrarmi. Cosa ancora più strana - ha proseguito l’avvocato - Di Lauro ha avuto lo stesso atteggiamento con la storica compagna Cira. Lei va a Sassari ogni mese e ogni volta lui rifiuta di incontrarla. Anzi, rimanda indietro parte del cibo e dei vestiti che lei gli fa avere. Una volta - ha concluso Pecoraro - Si è recata presso il penitenziario anche la madre 80enne, sperando che almeno con lei Di Lauro volesse parlare. E invece, niente: non ha voluto incontrare neanche il genitore”. Di Lauro non era affetto da particolari patologie prima dell’arresto. Tuttavia, ‘F4’ è noto per essere sempre stata una persona, “particolare, introversa e chiusa in se stessa - ha raccontato l’avvocato Pecoraro - aspetti del suo carattere riconosciuti anche dalla Procura. Ricordo su tutti due aneddoti, ai quali però non ho dato importanza perché non credevo fossero riconducibili a uno specifico malessere. Durante uno dei nostri ultimi incontri, Di Lauro mi aveva dato la sensazione di avvertire la presenza di persone che non c’erano fisicamente in quel momento e di sentirne le voci. Avevo associato quel fatto ad un controllo più rigoroso nei suoi confronti da parte degli agenti della Penitenziaria. Il secondo episodio - ha continuato il legale - ha riguardato il suo atteggiamento immediatamente successivo all’arresto: Di Lauro era preoccupato soltanto dei gatti che aveva nella casa dove aveva trascorso l’ultimo periodo della latitanza. Ecco, forse già quell’isolamento avrà causato dei disagi al mio assistito”. Ora il prossimo step del procedimento giudiziario che vede coinvolto ‘F4’ è il seguente: la difesa può decidere di nominare un proprio perito di parte entro il 27 luglio. Poi dovrà essere effettuata la perizia e a prescindere dall’esito (che arriverà a settembre), quello che si augura l’avvocato Pecoraro, è “la cura del mio assistito al quale deve essere garantito il diritto alla salute. Cosa che purtroppo nelle carceri e soprattutto al 41bis non sempre avviene. Di Lauro è una persona complessa, non ha mai parlato di collaborare con la giustizia, ma forse non ha mai avuto l’assoluta consapevolezza del cognome pesante che porta. La sua storia fa quasi pensare a un clamoroso retroscena: che lui sia una sorta di fantoccio nelle mani di qualcun altro. Insomma che stia pagando al posto di qualche figura più grande e potente di lui”. La storia di Marco Di Lauro ricorda quella del fratello Cosimo. Quest’ultimo prese le redini del clan dopo l’arresto del padre nel 2005 e fu protagonista della sanguinosa faida di Secondigliano e Scampia. Cosimo Di Lauro ha perso la vita nel carcere di Opera a Milano, dove era detenuto al regime del 41bis. Era il giugno del 2022. Il primogenito di Ciruzzo ‘o Milionario è deceduto a causa di un avanzato degrado psicofisico. Rifiutava il cibo, non curava l’igiene personale, fumava decine di sigarette al giorno e non vedeva e parlava con nessuno. Considerati alcuni aspetti come le pseudo-allucinazioni uditive, reazioni depressive, ansiose e turbe del sonno, il suo avvocato Saverio Senese aveva fatto richiesta per una perizia psichiatrica che dimostrasse l’incapacità di intendere e di volere del suo assistito. La richiesta fu respinta e la storia è finita come tutti sappiamo. Cosimo non avrebbe ricevuto adeguata assistenza sanitaria ed è morto seppellito in carcere. Lo Stato deve evitare che lo stesso accada al fratello Marco. Trento. “Nessuno tocchi Caino” in viaggio nelle carceri per dare speranza di Augusto Goio Vita Trentina, 21 luglio 2023 La richiesta di istituire un apposito provveditore per il carcere, con sede e competenza sugli istituti penali della Regione Trentino-Alto Adige, è rilanciata con forza e solidità di argomenti dall’associazione Nessuno tocchi Caino, che sabato 15 luglio, nel pomeriggio, presso il Centro Rosmini ha promosso, insieme alla Camera Penale di Trento, L’incontro “Alternative al carcere. Per una giustizia di comunità”. L’appuntamento, moderato dall’avv. Filippo Fedrizzi, presidente della Camera Penale di Trento, si è aperto con l’intervento di Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, che ha illustrato le ragioni del “Viaggio della speranza” in Trentino-Alto Adige e in Veneto organizzato dall’associazione in collaborazione con l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane con tappe che toccheranno - dopo Trento il 15 luglio, Bolzano il 17 e Belluno il 19, a Treviso giovedì 20, Venezia venerdì 21, Padova lunedì 24, Rovigo il 25, Vicenza il 26 e infine Verona giovedì 27. L’iniziativa vuole essere occasione per fare il punto sulla situazione delle carceri del Nord-Est e per parlare di misure alternative, reinserimento, diritto a all’affettività di chi è ristretto, e proporre un’idea di giustizia che ripara, secondo il dettato costituzionale, e non separa. Tutte le tappe del “Viaggio delta Speranza” sono caratterizzate dalla visita al carcere del territorio interessato. Così anche a Trento, dove la mattina di sabato 15 è stata visitata la Casa Circondariale di Spini di Gardolo. “Il carcere è realtà poco conosciuta ai più, è un mondo a parte, mentre noi vorremmo che fosse parte del mondo. Il concetto di contenimento ci deve essere per chi è pericoloso per sé e per gli altri, ma tutto ciò che è aggiunta di afflizione credo debba essere superato”, ha riassunto Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino, richiamando le condizioni riscontrate nel carcere di Trento, una struttura nuova “architettonicamente all’avanguardia, sicuramente migliore rispetto ad altri Istituti che abbiamo visto”, ma penalizzata dal sottodimensionamento del numero di operatori polizia penitenziaria e soprattutto educatori) rispetto all’attuale popolazione detenuta. Dal colloquio con le persone ristrette sono tre i problemi maggiori riscontrati: la mancanza di una magistratura di sorveglianza adeguata a conoscere le singole individualità “non può decidere soltanto sulla base di quello che raccontano le carte”); la mancanza di educatori e di attività per carenza di risorse; la predominanza dell’elemento afflittivo e punitivo rispetto alle opportunità per far prendere consapevolezza del danno arrecato, condizione da cui partire per un percorso effettivo di recupero. Lo aveva in precedenza ricordato Antonia Menghini, Garante per i detenuti della Provincia di Trento: a fronte di una capienza originariamente concordata tra Provincia Dipartimento Amministrazione penitenziaria (Dap) per 240 de-tenuti, negli ultimi anni essa è stata elevata a 412 posti e attualmente vi sono 350 reclusi; ma rimane l’elevata criticità dell’area educativa, che dovrebbe poter contare su otto educatori, mentre sono due quelli in servizio. Sulle attività trattamentali in corso, rese possibili anche grazie all’intervento di cooperative e associazioni di volontariato„ e sulle misure di comunità hanno portato testimonianze due persone ristrette, la presidente di Apas Trento Maria Coviello, e l’operatore di “Dalla Viva Voce” Carlo Scaraglio. Non la soluzione, ma un aiuto alla soluzione di molti problemi potrebbe venire proprio dall’istituzione di un Provveditorato regionale competente solo per i due carceri di Trento e Bolzano, oggi sottoposti a un Provveditorato macro-regionale lontano dal territorio, che comprende anche Veneto e Friuli Venezia Giulia: lo chiedeva già una mozione approvato senza alcun voto contrario nel gennaio 2013 dal Consiglio regionale del Trentino - Alto Adige, ha ricordato l’avv. Fabio Valcanover di Nessuno tocchi Caino. Le poche competenze legate al funzionamento della giustizia oggi domandate alla Regione trovano una soluzione più veloce. Vogliamo dare la possibilità di funzionamento al carcere di Trenta e a quello di Bolzano, sollecitati anche dal personale di polizia penitenziaria, facendo in modo che il desiderio espresso con un voto del Consiglio regionale possa realizzarsi. Come arrivarci? “La strada più celere - indica Valcanover è l’interlocuzione con la Commissione dei Dodici”, che esprime pareri sulle norme di attuazione detto Statuto di Autonomia. È doloroso vedere uomini e donne ristretti così, è doloroso anche per chi svolge la funzione di contenimento - ha conclusa l’incontro Elisabetta Zamparutti ma è doloroso per chi ha il senso dello Stato di diritto: perché lì c’è il volto brutto dello Stato. A Spini di Gardolo le condizioni materiali erano migliori, ripeto, rispetto ad altre parti, ma dispiace vedere lo Stato presentarsi in questa maniera. Verrebbe da dire che il nostro Nessuno tocchi Caino, concepito per innalzare la soglia della dignità umana, anche di chi è Caino, sempre più in realtà riguarda lo Stato stesso, affinché - in nome delle giuste ragioni di Abele - il modo in cui fa giustizia non lo porti ad essere lui stesso Caino”. All’incontro a Trento ha portato il suo sentire la direttrice della Casa Circondariale di Spini di Gardolo, Annarita Nuzzaci. Sono intervenuti anche Veronica Manca, del direttivo della Camera Penale di Trento e membro dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane; Vanni Ceola, dell’Ordine degli Avvocati di Trento; Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino; Vincenzo Carbone, Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia e il senatore Marco Boato. Termoli (Cb). Abolire il carcere, dibattito pubblico alla comunità “Il Noce” in occasione dei 30 anni di attività quotidianomolise.com, 21 luglio 2023 La Comunità “Il Noce” di Termoli compie 30 anni di attività: anni di lungo e paziente lavoro al fianco di persone alcoldipendenti, tossicodipendenti e delle loro famiglie. Anni di radicato lavoro sociale nel territorio, che ha dato tanti frutti, generando nuovi processi. Le azioni di reinserimento sociale e lavorativo promosse dalla Cooperativa Sociale Il Noce, gli interventi in favore delle persone senza dimora e di altre adulte gravemente emarginate de La Città Invisibile, i vari progetti a supporto delle persone migranti, contro lo sfruttamento e la tratta e per una vita degna. Per l’occasione speciale, dunque, è in programma un dibattito pubblico che si terrà venerdì 28 luglio alle ore 10.30 presso la Comunità stessa in via delle acacie, 4. Al centro del dibattito un tema: abolire il carcere come proposta ragionevole. La questione affonda le sue radici in un passato lontano e torna nuovamente centrale oggi. Come ben evidenziano L. Manconi, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta in Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini edito da Chiarelettere nel maggio 2022: il carcere “a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole per sempre”. Quindi fare a meno del carcere è necessario ed è “possibile, innanzitutto nell’interesse della collettività, di quella maggioranza di persone che pensano di non essere destinate mai a finirci e che con lo stesso mai avranno alcun rapporto nel corso della intera esistenza. L’abolizione del carcere è, insomma, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, che ne avrebbero tutto da guadagnare”. Prenderanno parte al dibattito Italo Di Sabato, dell’Osservatorio sulla Repressione, che approfondirà i tratti della società securitaria in cui siamo immersi oggi, stretta tra Stato sociale minimo e Stato penale massimo; interverrà inoltre Vincenzo Boncristiano, di Antigone Molise, che introdurrà il XIX Rapporto di Antigone pubblicato nel maggio 2023, dal titolo È vietata la tortura, sulle condizioni di detenzione in Italia, con un focus sulla situazione delle carceri molisane; infine Antonio De Lellis, dell’Associazione Faced, che si concentrerà sulla necessità di superare il carcere come forma della pena prevalente, puntando invece sulle alternative al carcere, valorizzando la funzione pedagogica e di reinserimento sociale della pena, come vorrebbe la Costituzione. Dopo gli interventi ci sarà spazio per un confronto e per altri eventuali approfondimenti da parte dei presenti. Sarà inoltre possibile conoscere e sostenere ST’Orto, il progetto di Orto Sociale Comunitario attivo presso la Comunità. Dopo il dibattito seguirà un buffet offerto dalla Comunità Il Noce. Pavia. Nuovi spazi per i detenuti e installazioni artistiche nei giardini di Luca Pattarini milanopavia.news, 21 luglio 2023 Nuovi campi sportivi e il rifacimento dei laboratori, il carcere di Pavia prova a ripartire dopo i mesi difficili delle proteste - da parte dei detenuti - e delle manifestazioni dei sindacati della polizia penitenziaria. I lavori, spiega la direttrice Stefania Mussio, dovrebbero partire a breve. Il carcere di Torre del Gallo è stato spesso al centro di episodi di cronaca in passato: qui nel 2022 si sono verificati sei suicidi da parte di detenuti. Una struttura che, come altre, è sovraffollata e con poco personale. Ecco perchè, prosegue la direttrice, occorrono interventi e investimenti. In questi giorni, nei giardini dove si svolgono i colloqui con i figli dei detenuti, sono state installate tre opere degli artisti del movimento Cracking Art, una rondine gigante e due gatti. Si tratta di installazioni colorate realizzate dando nuova vita alla plastica scartata. Un piccolo gesto che vuole essere un segnale per aiutare a cambiare le cose nel penitenziario. Arresto per occupanti e sfrattati: la proposta di legge leghista scatena un’altra caccia al povero di Massimo Pasquini* Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2023 Alla Camera dei deputati siamo giunti alla stretta sulle proposte di legge, in Commissione Giustizia, relative all’inasprimento delle pene per occupanti. Si era partiti con l’affrontare le questioni relative alle odiose occupazioni di prime case abitate da proprietari, momentaneamente libere per esempio per vacanze o per motivi di salute, in realtà un numero minimo ma soggette ad una martellante campagna mediatica. Ora gli emendamenti sia di maggioranza che del relatore hanno svelato pienamente il vero obiettivo: quello di far diventare le occupazioni come una questione di solo ordine pubblico, anzi di più, di puro approccio repressivo. Questo senza tenere conto del contesto sociale e della assoluta insufficienza cronica di alloggi sociali e di sostegni pubblici per i precari della casa. In questo modo la proposta di legge in esame - a firma della deputata leghista Ingrid Bisa Atto 566 - oltre al già ambiguo, previsto intervento di arresto immediato e di conseguente pena da 2 a 7 anni per chi occupa un “domicilio altrui”, ha portato questi ad una definizione molto più ampia di “occupazione o detenzione illegittima di alloggio altrui”. Qui non siamo più nella odiosa e inaccettabile casistica del povero proprietario che si ritrova con la prima casa di abitazione occupata perché andato in ospedale o a trovare momentaneamente i nipoti, siamo all’allargamento a dismisura delle casistiche, nelle quali potrebbero entrare anche gli sfrattati, che a seguito di sentenza esecutiva e non uscendo nei termini previsti dal giudice, oggettivamente possono essere definiti soggetti che detengono illegittimamente un alloggio altrui e in questo caso non l’abitazione principale del proprietario. Si tratta di tematiche molto delicate che non possono e non devono essere affrontate solo con un ghigno giustizialista che semmai aggrava il contesto nel quale si dovrebbero attuare queste norme eventualmente approvate. In questo modo, la norma non si applica più, quindi, a una singola fattispecie, estremamente limitata, di occupazioni di alloggi in cui ha il domicilio un’altra persona, momentaneamente assente. E’ generalizzata a tutte le occupazioni per necessità di immobili pubblici o privati vuoti, spesso abbandonati o in disuso, fino ad estenderla a famiglie con sfratto esecutivo. Solo per promemoria voglio ricordare che in Italia abbiamo circa 100.000 sfratti in esecuzione e sono 50.000 le case popolari occupate senza legittimo titolo. Una applicazione feroce di quanto previsto dal testo base e di quello che sarebbe con gli emendamenti proposti, tenendo conto solo di questi due dati, dovrebbe allarmare per le ricadute sulla coesione sociale del Paese. Questo senza tacere sulle ricadute sulle forze dell’ordine, sui tribunali e sui comuni che si troverebbero a gestire complicate situazioni di ordine pubblico. Eppure sul testo in esame in commissione Giustizia, le note negative non si fermano qui. Con la proposta di legge (art.7), si introduce un potere alle forze dell’ordine, talmente ampio, che si configura come una norma da “stato di polizia”. Si prevede, infatti, che le forze dell’ordine intervengano direttamente, su denuncia del proprietario, per l’accertamento dei fatti, l’irruzione nell’alloggio e il conseguente sgombero e arresto degli occupanti. Solo successivamente, gli organismi giudiziari intervengono per verificare e convalidare tali interventi. Un emendamento del relatore aggiunge una norma (art. 4 bis) che impone il distacco delle utenze (acqua, luce, gas, riscaldamento) “entro 14 giorni” su semplice denuncia, con la sola necessità del parere favorevole del Procuratore della Repubblica, senza nessuna sentenza dell’autorità giudiziaria. Di particolare gravità l’art. 6 che stabilisce l’applicazione di una pena da 6 mesi a 5 anni di carcere a carico di chi resiste, anche passivamente, allo sgombero, colpendo non solo gli occupanti per necessità ma anche gli attivisti dei diritti umani che intervengono a protezione del diritto alla casa. L’iter della proposta di legge ha sollevato grande allarme tra le organizzazioni sociali e L’Unione Inquilini ha promosso un appello alle organizzazioni sociali, del volontariato, a tutta la società civile, alle autorità locali e alle forze politiche progressiste. Un appello, che dice No alla Pdl Bisa, a prima firma di Silvia Paoluzzi, dell’esecutivo nazionale Unione Inquilini, in sole 48 ore ha visto un ampio numero di adesioni, e tra queste quelle di: Giuseppe De Marzo di Libera; Alex Zanotelli; Angela Ronga della Casa internazionale delle donne; Alberto Campailla Nonna Roma; docenti universitari come Carlo Cellamare, del Movimento di lotta per la casa di Firenze, Bruno Papale presidente della Coop. “Inventare l’abitare”, urbanisti come Paolo Berdini, degli studenti universitari di Link, giornalisti come Sarah Gainsforth, forze politiche della sinistra, Stefano Zuppello presidente di Verdi Ambiente e Società, Sabina de Luca Forum Disuguaglianze; Nunzia De Capite Caritas e Misha Maslennikov, Oxfam. Governo e maggioranza, invece di affrontare i nodi strutturali della sofferenza abitativa, investendo sull’edilizia residenziale pubblica e rifinanziando i fondi per le famiglie in difficoltà, che hanno azzerato, si accaniscono così in una nuova caccia contro i poveri. Fermiamoli. *Attivista per il diritto alla casa, Responsabile Centro Studi e Ricerche di Unione Inquilini Giustizia per Assange di Mario Serio e Armando Spataro* La Stampa, 21 luglio 2023 La vicenda umana e professionale di Julian Assange merita di essere resa nota per le gravi implicazioni che ne derivano sul terreno del rispetto della dignità e della libertà della persona umana e su quello della compiuta realizzazione del diritto/dovere di informazione a livello globale. Assange è un giornalista professionista australiano che, grazie ad un’accurata, documentata e ricca attività di giornalismo investigativo, condotta attraverso l’accreditata organizzazione giornalistica Wikileaks da lui fondata, ha diffuso preziose informazioni attestanti la commissione in vari paesi del mondo di gravi crimini implicanti pesanti responsabilità di Stati nazionali (in primo luogo gli Stati Uniti) e la relativa flessione di credibilità in termini planetari. Nella maggior parte dei casi le informazioni si riferivano a fatti tenuti gelosamente segreti e così sottratti alla doverosa conoscenza da parte dell’opinione pubblica. Questa coraggiosa opera è costata ad Assange l’esposizione ad una molteplicità di procedimenti giudiziari in vari Paesi, tutti in qualche modo finalizzati all’accoglimento della richiesta di estradizione negli Stati Uniti dove le accuse formulate a suo carico prevedono una pena massima di 175 anni di reclusione. Attualmente è alla battute finali il ricorso proposto dallo stesso Assange contro la decisione di una corte inglese di riconoscere la fondatezza della richiesta di estradizione statunitense, malgrado la scientificamente accertata esistenza del rischio che egli, sottoposto da oltre 4 anni ad un regime detentivo di massima sicurezza in un carcere del Regno Unito, possa cedere a pulsioni suicide ed il fondato timore che, una volta estradato, possa praticarsi a suo carico un trattamento umano e degradante. La circolazione del documento “Per Julian Assange”, in cui sono presenti precisi riferimenti ai fatti riguardanti il giornalista ed a cui hanno aderito in cospicuo numero giuristi di varia estrazione e titolari di rilevanti ruoli istituzionali, si propone di consolidare un ampio movimento di pensiero che al contempo lanci l’allarme per la mancanza di un’efficace cura delle condizioni fisiche e psichiche di Assange e faccia sentire la propria voce a difesa della libertà di informazione, soprattutto se rivolta a porre gli appartenenti alla comunità internazionale nella condizione di essere pienamente ed incondizionatamente a conoscenza dell’operato dei titolari di pubblici poteri. E ciò perchè si possa adeguatamente esercitare il controllo democratico sul loro operato senza timori o condizionamenti. Tenendolo in carcere, eventualmente estradandolo negli Stati Uniti e punendolo si lancia un messaggio chiaro ai media, che così ha già sintetizzato Vladimiro Zagrebelsky: “Cani da guardia della democrazia… Sì, ma non dovete mordere!”. Ma come ha scritto la professoressa Donatella Di Cesare “il complice più stretto ed efficace della tortura è il silenzio”. Ed è per questo che auspichiamo un’ampia adesione all’appello, perchè “il mondo apra finalmente gli occhi e veda quello che stanno facendo a lui e, attraverso di lui, a tutti noi”: così Nils Meltzer, fino al 2022 relatore speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura. *100 giuristi per Julian Assange Così l’Ue delega alle autocrazie la difesa delle sue frontiere di Nadia Urbinati* Il Domani, 21 luglio 2023 L’Unione europea è nata con l’ambizione di realizzare l’ideale universalista di difendere la pace attraverso la libertà. Che ne sarà dell’ideale della pace attraverso la libertà in un globo iperpopolato? Prendiamo il caso dell’immigrazione. È come se le democrazie avessero bisogno di essere circondate da non-democrazie per riuscire a proteggere se stesse. Si tratta di una svolta verso un’Europa nazionalista con l’ausilio di paesi non democratici. Possono i democratici accettare il declino dell’ideale universalista? L’Unione europea è nata con l’ambizione di realizzare l’ideale universalista di difendere la pace attraverso la libertà. Un’utopia che ha attraversato il pensiero occidentale dall’antichità classica e ha trovato la più compiuta sistemazione morale e giuridica con Immanuel Kant e Hans Kelsen. La democrazia (per Kant il “governo costituzionale”) ispira relazioni di fiducia e di cooperazione perché è governo della legge che opera sotto l’occhio vigile e libero dell’opinione dei cittadini. La politica come rendicontazione. In prospettiva, questo debilita i poteri arbitrari e crea una rete di relazioni internazionali nella quale i tiranni saranno meno liberi di esercitare impunemente il loro potere. La democrazia costituzionale dentro gli stati facilita relazioni tra gli stati basate sul diritto. Questa non è una favola bella e lo stesso interesse economico vi contribuisce. Probabilmente questa filosofia riposava su un assunto non detto: l’equilibrio demografico, anzi la sottopopolazione del globo. Da Locke fino a Kelsen, l’idea era che le risorse del pianeta bastassero comunque per i suoi abitanti. Con la crescita economica del secondo dopoguerra e la globalizzazione, questo assunto decade. Che ne sarà dell’ideale della pace attraverso la libertà in un globo iperpopolato? Prendiamo il caso dell’immigrazione, che mette sotto stress le ambizioni delle nostre democrazie pronte a fare accordi con paesi non-democratici o autoritari al fine di “governare i flussi migratori”. È come se le democrazie avessero bisogno di essere circondate da non-democrazie per riuscire a proteggere se stesse. Questo è un vulnus della filosofia sulla quale è nata l’Ue. Nel 2017, il governo a guida Paolo Gentiloni (con il ministro Marco Minniti) siglò accordi con i maggiorenti libici perché si occupassero di “contrasto all’immigrazione clandestina”. Poi fu la volta del governo “tecnico” di Mario Draghi (con il ministro Luigi Di Maio) che fece accordi sia con la Turchia sia con la Libia, impegnandosi a finanziare le attività di contenimento dei flussi ai confini sud, con il Ciad e il Niger da dove provenivano i migranti dell’Africa subsahariana. Oggi Giorgia Meloni persegue la stessa politica e fa accordi con la dittatura tunisina: le stesse parole e gli stessi obiettivi dei governi di centro sinistra e “tecnici” che l’hanno preceduta. Chiediamoci se questo tipo di accordi per “fermare l’immigrazione” sarebbero possibili con paesi democratici. Non lo sarebbero. Ciò significa che, oggi, l’Unione europea ha quasi bisogno di essere circondata da paesi non democratici che facciano i cani da guardia alle sue frontiere. Si tratta del rovesciamento del principio kantiano, di una svolta verso un’Europa nazionalista con l’ausilio di paesi non democratici. Possono i democratici accettare il declino dell’ideale universalista? *Politologa Rifugiati spariti, così Tunisia e Libia violano i diritti con i soldi europei… di Gianfranco Schiavone L’Unità, 21 luglio 2023 Nonostante la Tunisia sia un Paese in cui arrivano molti rifugiati in cerca di protezione non c’è nel Memorandum nulla relativamente al diritto d’asilo e al rafforzamento delle capacità di gestione dei rifugiati da parte di Tunisi. Sono trascorsi solo pochi giorni dalle brutali operazioni di deportazione e respingimento attuate dal regime autoritario del presidente tunisino Saied nei confronti di almeno un migliaio di stranieri di origine sub-sahariana e documentate da tutte le più autorevoli fonti internazionali. Le persone sono state abbandonate nel deserto al confine con la Libia e un numero imprecisato di persone sono morte di stenti. Poco dopo questi tragici fatti, lo scorso 16 luglio, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha annunciato la stipula di un Memorandum d’intesa per un partenariato strategico tra Tunisia e UE. Assieme ai temi delle relazioni economiche, all’impegno a sostenere un Forum sugli investimenti europei in Tunisia, a un partenariato sull’energia verde e a fumosi impegni per un nuovo partenariato su “gli scambi culturali, scientifici e tecnici”, il Memorandum prevede una parte denominata “migrazione e mobilità” nella quale le “parti concordano di promuovere lo sviluppo sostenibile nelle aree svantaggiate ad alto potenziale migratorio, sostenendo l’empowerment e l’occupabilità dei tunisini in condizioni di vulnerabilità, in particolare attraverso il supporto alla formazione professionale, all’occupazione e all’iniziativa privata”. (….) “la Ue si adopererà per adottare misure appropriate per facilitare la mobilità legale tra le due parti, anche agevolando la concessione dei visti riducendo i ritardi, i costi e le procedure amministrative”. Le due parti “convengono di lavorare per l’attuazione di un Partenariato dei talenti per promuovere la migrazione legale, nell’interesse di entrambe le parti, in base alle esigenze reciproche della Tunisia e degli Stati membri dell’UE, e a beneficio dei settori di attività e dei mestieri individuati congiuntamente.” Dalle azioni a supporto di una (per ora solo annunciata) migliore mobilità migratoria regolare dei cittadini tunisini rapidamente il testo passa alla comune “priorità di combattere la migrazione irregolare per evitare la perdita di vite umane, nonché di sviluppare canali legali per la migrazione. La Tunisia ribadisce la sua posizione di non essere un Paese di insediamento per i migranti irregolari. Ribadisce inoltre la sua posizione di presidiare solo le proprie frontiere. Questo approccio si baserà sul rispetto dei diritti umani e comprenderà la lotta contro le reti criminali di trafficanti di migranti e di esseri umani, nel quadro del partenariato operativo rafforzato contro il traffico di migranti e la tratta di esseri umani, annunciato nell’aprile 2023, il cui contenuto è attualmente in discussione, una gestione efficace delle frontiere e lo sviluppo di un sistema di identificazione e di rimpatrio dei migranti irregolari già presenti in Tunisia verso i loro Paesi di origine”. Il testo prosegue affermando che “le due parti convengono di continuare a collaborare per affrontare le sfide poste dall’aumento della migrazione irregolare in Tunisia e nell’ UE, riconoscendo gli sforzi compiuti e i risultati ottenuti dalle autorità tunisine”. Non è chiaro se il riconoscimento che la UE fa degli sforzi compiuti dalla Tunisia nel contrastare le migrazioni irregolari comprenda anche le deportazioni violente accadute pochi giorni prima; in ogni caso le parti “convengono di lavorare per migliorare ulteriormente il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio in mare e l’attuazione di misure efficaci per combattere il traffico di migranti e la tratta di esseri umani”. Nonostante la Tunisia sia un Paese in cui arrivano molti rifugiati in cerca di protezione non c’è nel Memorandum nulla relativamente al diritto d’asilo e al rafforzamento delle capacità di gestione dei rifugiati da parte della Tunisia, paese che non ha neppure ancora una legge sul diritto d’asilo che dia attuazione alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati che pure la Tunisia ha ratificato senza però prevedere alcuna procedura di riconoscimento della protezione (ancora affidata ad UNHCR) né un sistema di accoglienza ed integrazione dei rifugiati. Altresì non una parola compare nel testo in relazione ad un altro intervento tanto necessario quanto rimosso, ovvero l’impegno alla realizzazione da parte dell’UE di programmi di reinsediamento/ingresso protetto di rifugiati dalla Tunisia. Si dirà, non senza un qualche fondamento, che la Presidente della Commissione sa che si tratterebbe di una promessa impossibile alle condizioni politiche attuali nell’Unione, ma ciò nulla toglie al fatto che, nel Memorandum, tutti gli stranieri sono solo oggetto di programmi di contrasto al loro ingresso e soggiorno in Tunisia e di rimpatrio, senza distinzioni. In un vacuo passaggio del testo si fa riferimento al “rispetto dei diritti umani” ma le nozioni di asilo e di protezione dei rifugiati non compaiono mai. Secondo le parti che sottoscrivono il Memorandum pare che i rifugiati in Tunisia non ci siano, ne vi arrivino. Il testo del Memorandum è di straordinaria vaghezza e certo la sua adozione non rappresenta una sconfitta per il dittatore tunisino, che incassa denaro utile a mantenere il suo potere mentre si vincola a pochi e generici impegni e soprattutto respinge al mittente la richiesta europea (e soprattutto italiana) di utilizzare la Tunisia come piattaforma internazionale per il rimpatrio di tutti gli stranieri non tunisini che arrivano in Europa. Sarebbe però un errore sottovalutare le potenziali conseguenze di questo pur vago Memorandum in termini di violazioni gravi e massicce dei diritti umani e di negazione del diritto d’asilo verso coloro cui verranno realizzate, con soldi europei, le azioni di respingimento. La questione di fondo che il Memorandum solleva, al pari di tutta la politica di esternalizzazione delle frontiere messa in atto dall’UE, riguarda la responsabilità giuridica dell’Unione europea e degli Stati membri per le potenziali ma probabili gravissime violazioni dei diritti delle persone straniere che possono avvenire in un paese come la attuale Tunisia (e in altri Paesi) nell’ambito di una collaborazione che preveda l’invio da parte UE di consistenti aiuti economici e logistici. Alla luce della situazione politica attuale in Tunisia, dove vige un sistema autoritario e dove gravissimi episodi di violenza efferata contro la popolazione straniera sono già avvenuti diverse volte, una collaborazione da parte della UE e dei suoi Stati membri con il locale governo nella gestione dei flussi migratori porterebbe a un indiretto ma chiaro coinvolgimento nella violazione del divieto di non respingimento di cui all’art. 33 della Convenzione sui rifugiati di Ginevra, nonché, in forma anche più ampia, una violazione dell’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e le Libertà fondamentali) come interpretato dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU che afferma il divieto per ogni Stato di allontanare uno straniero quando la persona rischi di subire nello Stato di invio torture o pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché violazione dagli artt. 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Che il divieto di respingimento abbia una portata extraterritoriale si ricava agevolmente dall’inciso “in nessun modo” contenuto nel citato art. 33 della Convenzione di Ginevra, un divieto ulteriormente rinforzato dal citato diritto dell’Unione. Il divieto di respingimento non opera dunque solo quando una persona si trova nel territorio o nelle acque territoriali di un dato Stato, ma investe ogni azione posta in essere, anche in un’area extra territoriale, da un’autorità statale che abbia effetti diretti o indiretti che si configurino come violazione del principio di non respingimento. Sul punto, proprio la Sentenza della Corte EDU del 23 febbraio 2012 nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia relativa ai respingimenti attuati allora dall’Italia costituisce una pietra miliare. Spostiamo ora l’attenzione sulle responsabilità che potrebbero derivare da una grave violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU attuati da uno stato terzo al quale uno stato dell’Unione abbia fornito aiuto ed assistenza materiale, logistica o di altra natura per finalità formalmente legittime (nel caso di contrasto all’immigrazione irregolare). Lo Stato dell’Unione, quindi soggetto agli obblighi della CEDU e in particolare agli obblighi di cui all’articolo 3 che sono inderogabili, che è coinvolto nelle azioni di supporto allo Stato terzo può forse dirsi sempre estraneo a ogni responsabilità se vi è piena e chiara conoscenza dell’esistenza di una persistente e grave violazione dei diritti umani fondamentali che viene attuata dallo Stato terzo destinatario in modo determinante tramite gli aiuti e i supporti ricevuti? Certamente è privo di fondamento sostenere che non v’è responsabilità giuridica in quanto non vi sarebbe giurisdizione, ai sensi dell’art.1 della CEDU, da parte dello Stato UE coinvolto. Già la Corte EDU nella citata Sentenza Hirsi c. Italia ha ritenuto infatti che le azioni degli Stati contraenti “compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possano costituire esercizio da parte degli stessi della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione”. Se quindi se è ben vero che una singola azione illecita commessa grazie a mezzi e risorse fornite da uno Stato UE a un paese terzo come la Tunisia, ma analogamente la Libia, la Turchia o altri, non può certo coinvolgere la responsabilità giuridica di uno Stato UE, ben diverso è il ragionamento nel caso della responsabilità derivante da un ampio insieme di azioni finanziate e sostenute dall’UE e dagli Stati membri se è provato che la commessa violazione dei diritti fondamentali è stata resa possibile, o la sua attuazione concreta è aumentata in dimensione e peso in modo rilevante, proprio grazie all’aiuto fornito dallo Stato membro dell’Unione. L’efficacia della strada dell’azione giudiziaria per porre fine ai crimini commessi fuori dall’Europa da poteri terzi, ma con il concorso di poteri statali europei, è però ancora lunga e incerta (per non parlare del risveglio di una consapevolezza politica) e ho dunque il timore che moltissime nefandezze saranno ancora commesse grazie all’assopimento che oggi avvolge la nostra coscienza. Tuttavia, prima o dopo dovremo fare i conti con questo pezzo atroce della nostra storia di europei del ventunesimo secolo. Egitto. Patrick Zaki, Tajani: “Non c’è stato alcun baratto. Ora serve un passo in avanti anche sul caso Regeni” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 21 luglio 2023 Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha quel suo modo di minimizzare, quasi a non volersi dare importanza, eppure la grazia a Patrick Zaki concessa in 24 ore dal presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, non è proprio una cosa da tutti i giorni: “Qualcuno mi ha detto che è stato un capolavoro diplomatico - si schermisce il ministro, vicepremier e ora pure segretario di Forza Italia -. Beh allora vorrei ricordare la liberazione in Iran di Alessia Piperno, il 10 novembre scorso. In fondo, il metodo, il modus operandi, è stato lo stesso, con l’Egitto come con l’Iran: grande gioco di squadra tra Palazzo Chigi, noi della Farnesina, i nostri ambasciatori, la nostra intelligence. E poi silenzio, discrezione, concretezza, toni bassi, nessuna minaccia e assolutamente nessun baratto. La liberazione di Alessia e di Patrick sono avvenute senza nulla in cambio”. Ecco, il baratto. Qualcuno ha pure pensato che Al Sisi, in cambio di Zaki, abbia chiesto all’Italia di mettere definitivamente la sordina al caso di Giulio Regeni, il giovane ricercatore trovato morto assassinato al Cairo ormai più di 7 anni fa. “Una balla colossale - dice Tajani -. Nei nostri incontri al Cairo il presidente egiziano ha sempre tirato fuori per primo il caso Regeni, conscio dell’importanza della vicenda per il futuro delle relazioni tra i nostri Paesi. Anche su Zaki, Al Sisi mi ha sempre promesso tutte le volte che ci siamo visti che lui avrebbe affrontato direttamente il problema. Nessuno ci credeva, eppure io gli ho dato fiducia. Perciò lo ringrazio così come sono grato a Sameh Shoukry, il ministro degli Esteri egiziano, per l’impegno profuso. Ora aspettiamo che anche sul caso Regeni l’Egitto faccia un passo avanti: che ci dia più informazioni, per sapere finalmente cosa accadde davvero a Giulio. Per lui, com’è stato per Zaki, mai lasceremo la presa”. Gli incontri, quest’anno al Cairo, del ministro Tajani con il presidente egiziano, sono stati due, il 21 gennaio e il 14 marzo. “Abbiamo lavorato tanto, in perfetta intesa, in condivisione, all’unanimità, fin dalla nascita di questo governo. La premier Giorgia Meloni si è spesa in prima persona per riportare in Italia il ragazzo e la voglio ringraziare pubblicamente. Ricorderete il suo primo incontro con Al Sisi il 7 novembre dell’anno scorso a Sharm el Sheikh. Quando poi su quella scia sono andato al Cairo, a gennaio e a marzo, il governo egiziano ha apprezzato molto che avessi portato con me anche rappresentanti del mondo imprenditoriale agro-industriale per parlare di sviluppo delle colture nell’area del Nilo. Problemi concreti. Ecco perché due giorni fa quando sono andato in Parlamento, dopo che Zaki era stato condannato dal tribunale egiziano a tornare in carcere, c’era chi mi chiedeva di fare dichiarazioni di fuoco. Io sapevo che eravamo vicini ad una soluzione, ho raccomandato prudenza ai colleghi, ho ripetuto pure intelligenti pauca... a buon intenditor poche parole. Pazientate e vedrete”. Domenica prossima a Roma, alla Farnesina, Giorgia Meloni presiederà la Conferenza sullo Sviluppo e le Migrazioni: “Un appuntamento importantissimo - osserva il ministro degli Esteri - ci sarà la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e tanti capi di Stato europei, decine di leader africani e dei Paesi del Golfo. Si parlerà non solo di immigrazione, anche di crescita, stabilità, lotta ai trafficanti. E il giorno dopo, sempre a Roma, comincerà il vertice Onu sulla sicurezza alimentare, con oltre 200 fra Paesi e agenzie internazionali, fino a mercoledì. É significativo che il governo abbia ottenuto dall’Onu la scelta di Roma come sede di questo evento, in un momento delicatissimo per l’economia mondiale. L’Italia vuol essere protagonista di pace”. La vicenda del grano ucraino però crea problemi, lo stop della Russia rischia di scatenare grandi tensioni sociali. Tajani è molto preoccupato: “Questo in futuro potrebbe provocare per esempio la fuga dai Paesi africani di migliaia di persone che non possono più nutrirsi, nel giro di un paio di mesi certamente ci saranno dei rischi”. Ecco perché da domenica a mercoledì Roma diventa centrale: “Certamente - conferma il ministro degli Esteri -. Noi stiamo lavorando molto, anche attraverso le Nazioni Unite, sostenendo le azioni del Vaticano e della Turchia, affinché si possa riaprire il confronto tra russi e ucraini. Accanirsi con popoli che non hanno nulla a che fare con la guerra, come sta facendo la Russia bloccando il grano, è profondamente ingiusto, disumano. Se non arriva più il cibo in Africa a pagarne il prezzo saranno milioni di africani innocenti. Perciò seguiteremo ad operare perché almeno il corridoio di solidarietà che oggi veicola il grano attraverso la Romania e lo fa arrivare al porto di Trieste possa continuare a funzionare, magari con maggiori quantitativi di prodotto”. Il colloquio è finito, Tajani sta per rientrare a Roma da Bruxelles. L’ultimo pensiero è per Zaki: “So che dopo la liberazione ci ha tenuto a ringraziare l’ambasciatore e il governo italiano, noi siamo molto contenti per lui, ora finalmente potrà venire nel nostro Paese e avere davanti una bella carriera”. Egitto. La clemenza di El Sisi è urgente bisogno di aiuti di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 luglio 2023 Crisi economica e del grano. Petromonarchie stufe di sostenere senza condizioni il raìs, che allora guarda a Ue e Usa. Intervistato da Radio 24, ieri il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, insisteva ancora sul “ruolo determinante” che avrebbe avuto il governo Meloni nel persuadere il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi a concedere la grazia a Patrick Zaki. E l’ambasciatore egiziano a Roma, Bassam Rady, è stato pronto a descrivere la clemenza di El Sisi come un atto volto “a sostenere le relazioni italo-egiziane” le quali, ha spiegato, “si sono estese attraverso la storia che ha unito le sue due grandi civiltà”. Sarà, ma dietro la liberazione di Zaki e di altri prigionieri politici c’è l’intenzione del regime egiziano non tanto di compiacere Giorgia Meloni quanto di lanciare messaggi concilianti a tutta l’Unione europea e agli Usa - che hanno già applaudito alla “magnanimità” del raìs - in una fase in cui il Cairo ha bisogno di aiuti ingenti e urgenti per puntellare la sua economia vacillante e fare fronte al riacutizzarsi della crisi del grano. L’Egitto è il più grande importatore al mondo - 12 milioni di tonnellate l’anno - e circa l’80% di queste importazioni proviene dalla Russia e dall’Ucraina in guerra. Le scorte si stanno esaurendo ha annunciato mesi fa il ministro dell’approvvigionamento Ali Al-Mosselhi. Anche del grano El Sisi parlerà al vertice e forum economico Russia-Africa che si svolgerà a San Pietroburgo dal 26 al 29 luglio. La liberazione di Patrick Zaki renderà più caloroso il benvenuto che le Nazioni unite e l’Italia riserveranno domenica a Roma al primo ministro egiziano, Mostafa Madbouly, atteso a una conferenza e alle riunioni della Fao, l’agenzia che si occupa di sviluppo agricolo. Il presidente egiziano ha bisogno di un incremento sostenuto della cooperazione bilaterale con l’Europa - è già in trattative con la Banca europea per gli investimenti (Bei) per finanziare lo sviluppo di un grande silo nel porto di Damietta - poichè le petromonarchie del Golfo, tradizionali sponsor dell’Egitto, sono stanche di intervenire a suo sostegno. Lo scorso novembre, il Qatar ha trasferito un altro miliardo di dollari alla Banca centrale dell’Egitto dopo i 3 del 2021. L’Arabia saudita ha depositato 5 miliardi di dollari nella banca nel maggio 2022. E gli Emirati hanno firmato una partnership di investimento da dieci miliardi di dollari con l’Egitto. A tutto però c’è un limite. “Con l’Egitto c’è un rapporto commerciale: fornire solo sovvenzioni e beneficenza non è più il caso per il Qatar”, ha detto a Bloomberg due mesi fa il ministro dell’economia qatariota Ali Al-Kuwari. A inizio anno il ministro delle Finanze saudita Mohammed Al Jadaan ha avvertito che il regno non fornirà più aiuti esteri “senza condizioni”. Parole che hanno contribuito ad accrescere il pessimismo sulle possibilità di El Sisi di portare l’Egitto fuori dalla crisi economica e finanziaria più grave degli ultimi decenni. A giugno l’inflazione è stata del 36,8% e in meno di un anno la sterlina egiziana ha perso la metà del suo valore mentre decine di miliardi di dollari hanno lasciato il paese. Pesantemente indebitato, l’Egitto ha dovuto contrarre un nuovo prestito dal Fondo monetario internazionale e non servono a molti i circa due miliardi di dollari che il governo ha ottenuto vendendo aziende di proprietà statale. Le uniche notizie positive arrivano dal Canale di Suez - El Sisi per mania di grandezza lo aveva fatto raddoppiare qualche anno fa - che ha portato nelle casse dello Stato 8,6 miliardi di dollari tra tasse e altri costi di passaggio. Non basta in un paese dove gli interessi sul debito pubblico hanno raggiunto quota 42 miliardi di dollari. La magnanimità di El Sisi, perciò, è una richiesta di aiuto all’Europa e l’Occidente. Egitto. Ci sono ancora avversari politici in carcere e il caso Regeni è irrisolto di Emma Bonino Il Riformista, 21 luglio 2023 Certamente la liberazione di Zaki non è dovuta al buon cuore del generale Al-Sisi. È il risultato di una serie di pressioni diplomatiche, della politica, dell’opinione pubblica. E non va dimenticata l’insistente presenza dell’Università di Bologna. La Farnesina si è mossa con il suo peso, ma lasciatemi dire che non saremmo arrivati allo straordinario risultato della liberazione di Patrick senza un gioco di squadra che ha visto in campo tanti soggetti diversi, dalle associazioni dei ricercatori alla stessa Giorgia Meloni, che credo abbia avuto un ruolo diretto. E la presidente Meloni ha fatto bene a ringraziare il generale Al-Sisi. Perché va preso nota di un passetto. Ma ci sono altri che sono stati liberati, insieme a Zaki? Mi sembra di no. E allora che cosa vogliamo chiudere qui? Il caso Egitto è drammaticamente aperto. Non si chiude qui il caso Regeni, che temo non arriverà mai a una soluzione. Ma in Egitto ci sono non so quante centinaia, se non migliaia, di cosiddetti “avversari politici” in carcere. Centinaia, se non migliaia, di persone di cui le famiglie non sanno più niente. E per i quali non sono noti i capi di imputazione. Ci sono blogger, influencer, persone che postavano sui social network la loro posizione critica, il loro punto di vista. E che per questo spariscono in carcere, o in una segreta sottoterra. Bene dunque il passetto, ma il caso Egitto rimane aperto. L’Italia non ha mai voluto portare in Europa il caso Egitto, che è il caso Regeni ma non solo. Io lo dico da anni: la questione andava posta ai livelli più alti, ma neanche il commissario Gentiloni mi ha voluto dare retta. Il caso Egitto esiste, anche se ce ne occupiamo poco. Studenti, attivisti, blogger scompaiono nel vuoto, oggi, al Cairo. E non ne sappiamo quasi nulla. Sappiamo però qualcosa del generale Sisi: che è una delle persone più impenetrabili, per quanto mi dicono. Con una mente strategica che lo porta a muoversi con disinvoltura quando serve e all’occorrenza, all’opposto, con grande attenzione diplomatica. Niente mi toglie dalla mente che nei giorni scorsi può aver chiesto alla Corte penale del Cairo di applicare una condanna forte con l’intento di calare subito dopo l’asso della grazia. Un colpo di teatro studiato nella sua dinamica. D’altronde, non ce lo nascondiamo: l’Egitto è un Paese importante. Una potenza regionale fatta di ottanta milioni di abitanti. E purtroppo in difficoltà economiche: una potenziale bomba sulla sponda sud del Mediterraneo. Quali siano i rapporti commerciali attuali non saprei dirlo, ma c’è un problema aperto di diritti umani e di democrazia. Come è normale, ci occupiamo dei Paesi senza democrazia quando c’è implicato qualche italiano. Chi si occupa di diritti in quell’area ce lo rimprovera: “Vi muovete solo se c’è un italiano a rischio”. In parte hanno ragione. Dobbiamo invece ragionare sui problemi in modo più aperto, a prescindere dalle questioni di casa nostra. Ne cito una: quella dei migranti. Sembra che il problema numero uno del nostro Paese sia quello. E dall’Egitto potrebbero arrivarne tanti. Allora ecco che, come si è fatto in Tunisia, come si vorrebbe fare con la Libia, l’Egitto diventa un partner con il quale vanno messi in sicurezza i rapporti. Giorgia Meloni dopo anni in cui urlava l’urgenza di un blocco navale armato si è trasformata nella paladina dei partenariati con il Nord Africa. So che la Presidente Meloni ha convocato una conferenza sul Mediterraneo, nei prossimi giorni. Oltre ai migranti vorrei capire se qualcuno accenna anche alla questione dei diritti civili. E vorrei sapere se la Conferenza dei ministri degli Esteri europei, convocata a Bruxelles, vuole mettere il tema dei diritti in agenda. Per concludere: no, la grazia a Patrick Zaki non basta. Anzi, non solo non basta. Non è neanche un inizio. +Europa Gran Bretagna. Per gli immigrati clandestini l’esilio in Ruanda e la “prigione galleggiante” di Andrea Aversa L’Unità, 21 luglio 2023 Perché l’Inghilterra ospita 500 migranti sopra una chiatta. L’applicazione della linea dura contro i clandestini del governo Sunak. Si chiama Bibby Stockholm ed è la chiatta che ospiterà circa 500 migranti giunti illegalmente in Inghilterra. L’imbarcazione sarà ormeggiata al porto della penisola di Portland, nel Dorset. La decisione del governo inglese ha già scatenato forti polemiche e diviso l’opinione pubblica del Regno Unito. Da una parte ci sono gli attivisti per i diritti umani che hanno manifestato contro il Primo Ministro Rishi Sunak a causa della sua linea dura nei confronti dei migranti. Dall’altra ci sono i residenti che sono contrari ad avere 500 clandestini vicino le proprie case. La Bibby Stockholm, lunga 100 metri, è vista come una sorta di ‘prigione galleggiante’, dentro la quale vi sono 222 stanze dotate di bagno in camera. Tuttavia la decisione del governo conferma quella che è sempre stata la politica del partito conservatore nei confronti dei migranti: nessuno sconto per i clandestini che arrivano illegalmente nel Regno Unito. Queste le motivazioni di Downing Street: negli ultimi mesi gli sbarchi irregolari dalla Manica sono aumentati (al 9 luglio 2023 sono giunte sulle coste inglesi 12.722 persone, 45.755 nel 2022); fino ad ora lo Stato inglese ha speso circa 7 milioni di euro per garantire ai migranti clandestini un soggiorno in hotel o strutture dedicate. Recuperare consenso sulla pelle dei migranti - Quella di Sunak e del suo esecutivo è una strategia volta al consenso. Il prossimo anno, nel 2024, ci saranno le elezioni e quello dei migranti è un tema molto caldo e sentito anche nel Regno Unito. Al momento le 500 persone a bordo della Bibby Stockholm, che avrebbe in dotazione anche cucine e palestre, sono in un certo senso detenute. Non è noto se hanno o meno una certa libertà di movimento. Tra loro ci sono tutti uomini dai 18 ai 65 anni. La loro permanenza è temporanea, giusto la durata della pratica di richiesta d’asilo: a chi non verrà concesso sarà rispedito in Ruanda. Questa norma è stata per ora bloccata dalla Corte d’Appello. Il governo ha fatto ricorso contro la decisione dei giudici presso la Corte Suprema. Strage in Yemen con le bombe Rwm, i parenti delle vittime ora denunciano l’Italia di Costantino Cossu Il Manifesto, 21 luglio 2023 Guerra dimenticata. Archiviato dal tribunale di Roma, il caso arriva alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2016 un raid saudita sterminò un’intera famiglia e il marchio sui frammenti degli ordigni fece il giro del mondo. Per il gip invece procedure della vendita di armi rispettate. L’8 ottobre 2016, durante un attacco aereo condotto dall’aviazione dell’Arabia saudita contro il villaggio yemenita di Deir-Al-Hajari, quasi tutta la famiglia Husni fu sterminata: sei morti e un unico sopravvissuto. Tra le macerie della casa distrutta furono trovati resti di bombe che portavano il marchio della Rwm Italia, la società con stabilimenti a Ghedi in Lombardia e a Domusnovas in Sardegna controllata dal colosso tedesco degli armamenti Rheinmetall. Le foto del marchio Rwm Italia impresso sui frammenti degli ordigni recuperati tra le rovine a Deir-Al-Hajari fecero il giro del mondo. Ora i parenti delle vittime e l’unico membro della famiglia Husni scampato alla morte hanno presentato una denuncia contro l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ricorrono contro l’archiviazione, da parte del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, del procedimento giudiziario avviato dalla procura della Repubblica nel 2018 in seguito a un esposto che metteva sotto accusa sia i manager Rwm Italia sia i funzionari dell’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti (Uama). L’esposto era firmato da Rete pace e disarmo, dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani e dalla ong yemenita Mwatana for human rights. “Vendendo le armi ai Sauditi - sostenevano le tre associazioni promotrici dell’esposto - i vertici Rwm Italia e Uama si sono resi responsabili della violazione del trattato Onu sul commercio delle armi ratificato nel 2013 dal parlamento italiano, che proibisce agli stati firmatari la vendita di armi se si è a conoscenza del fatto che esse verrebbero utilizzate contro obiettivi civili o per commettere crimini di guerra”. È con una sentenza del marzo dello scorso anno che il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma ha invece dichiarato Rwm Italia e Uama non perseguibili. Impossibile infatti, secondo il giudice, dimostrare che l’azienda abbia “tratto profitto dall’abuso di potere”: i funzionari Uama hanno “rispettato le procedure formali del processo di autorizzazione all’esportazione di armi” e rispettata la procedura, le conseguenze (i morti sotto le bombe) sono giuridicamente irrilevanti. In opposizione alla decisione del gip romano arriva ora il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo da parte dei parenti della strage del 2016 nel villaggio di Deir-Al-Hajari. A sostenere l’azione giudiziaria sono, ancora una volta, Rete pace e disarmo, Centro europeo per i diritti costituzionali e umani e Mwatana for Human Rights. “Il fatto che non sia stata aperta un’indagine su un caso di omicidio colposo, mentre sono stati commessi migliaia di crimini di guerra contro la popolazione dello Yemen, è scioccante”, dice Radhya Al-Mutawakel, presidente e fondatrice di Mwatana for Human Rights. E aggiunge: “In assenza di giustizia, che valore hanno norme giuridiche come il diritto penale internazionale e il diritto umanitario internazionale? Quando le norme nazionali e internazionali sul commercio di armi non vengono applicate, a cosa serve averle se i trasgressori non sono chiamati a risponderne?”. “I paesi europei Italia compresa - spiegano le tre organizzazioni che sostengono il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo - alimentano il conflitto in corso in Yemen fornendo bombe, missili e jet da combattimento. Rifiutandosi di indagare sulle responsabilità delle autorità e delle aziende che rilasciano le licenze e i cui armamenti sono collegati a potenziali crimini di guerra sotto la sua giurisdizione, l’Italia non soltanto sta legittimando queste esportazioni di armi e limitando l’accesso alla giustizia per le vittime, ma sta anche violando i suoi stessi obblighi di proteggere il diritto alla vita sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. Una scelta pericolosa e insensata”. Nel Perù in crisi: la marcia dei 20mila su Lima in un Paese sospeso tra dissenso e povertà di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 21 luglio 2023 In piazza contro il governo Boluarte si affrontano manifestanti e oltre 8mila agenti. Dallo spettro del terrorismo alla ambientale, stavolta le tensioni sono rientrate ma resta l’incognita di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni. Qualche tafferuglio, un cordone della polizia sfondato. Una decina di feriti, una manciata di fermi. Partono i primi candelotti lacrimogeni, niente proiettili di gomma e proiettili veri. Volano le pietre, gli agenti alzano gli scudi. La folla riesce a superare le barriere di ferro piazzate dagli agenti, raggiungere la sede del Congresso, lanciare qualche slogan. Ma tutto finisce lì. La polizia spinge, piano piano; costringe la gente ad arretrare. La riporta verso i punti da dove era partita. La manifestazione si scioglie come previsto: alle 20 in punto. Un pareggio tra governo e opposizione - Si chiude con un pareggio la sfida della terza “Toma de Lima”, la presa della città. Sfuma l’assalto al Potere. Nessuna violenza, rispettata la libertà di manifestazione: escono tutti vincenti. Governo e opposizione. Ma il problema rimane. La presidente Dina Boluarte, come il Congresso che la sostiene tra mille compromessi, non godono della fiducia della gente. Tutti vogliono un cambio, nessuno sa come. La prima donna alla guida del Perù cercherà di riunificare un paese lacerato dalle 60 vittime, ancora senza giustizia, morte durante le rivolte del dicembre e gennaio scorsi. Lo farà con il discorso che dovrebbe pronunciare il giorno dell’Indipendenza dalla Corona spagnola, il prossimo 28 luglio. Alle 15, piazza San Martín, cuore storico di tutte le manifestazioni, è piena di gente. Ci sono altri quattro punti di concentramento, anche questi affollati. Dovranno compattarsi, una tattica a ragnatela. La polizia lo sa. Ha imparato dal passato. Non si farà trovare impreparata, ha mobilitato 8 mila agenti. Ha chiuso con le transenne fisse e mobili gli accessi al centro storico dove sorgono i palazzi del potere. Eviterà di essere stretta nella tela. Lo spettro del terrorismo - Non è chiaro quanti siano i manifestanti. Ventimila, chi dice 15 mila. Le notizie sono confuse, i media sono cauti. Le due volte precedenti sono stati accusati dal governo di aver soffiato sul fuoco, ritenuti quasi corresponsabili del sangue versato. Tv e giornali non godono di grande fiducia tra chi ha raggiunto Lima dai quattro angoli del paese, è sceso dalle montagne della Sierra, risalito dalla giungla amazzonica, uscito dai villaggi che punteggiano le Ande. Il ministro dell’Interno e quello della Difesa hanno agitato fino a due giorni fa lo spettro del terrorismo. La marcia, avvertivano, potrebbe essere infiltrata da provocatori al servizio di Sendero Luminoso. Gente che vuole il caos, che punterà allo scontro, che non ama il proprio paese. Ma è solo spauracchio. È roba passata. Non c’entra nulla. Paure strumentali. Propaganda. Come l’eterno ritorno dei comunisti, di Cuba, del Venezuela di Maduro. Chi protesta qui, almeno la maggioranza, è semplicemente stufo di questo sistema. Ci sono stati 6 presidenti in sette anni. Quattro sono agli arresti. Chi a casa, chi in comode caserme. Un ex, come Alan Garcia, si è suicidato. Un altro nome di peso, come Alberto Fujimori, sconta una condanna per strage e lesa umanità. Gli altri sono spariti. Una media di 15 mesi a testa. Uno ha resistito una settimana. Un record. Sembra una burletta. Ma il Perù è ricco, ha la più grande riserva monetaria dell’America Latina. Ha materie prime, ottimi rapporti con la Cina, ha un potenziale da vendere. Deve stabilire ancora come. La corruzione, alimentata dal benessere che scorreva a fiumi, lo ha impoverito. La gente ha lavorato e prodotto come formichine operose, ma alla fine si è fatta prendere la mano dalle tangenti. Ha smesso di produrre, di crescere, ha solo corrotto e si è fatta corrompere. Gli elettori hanno la loro responsabilità. Votano quegli uomini e quelle donne che adesso vogliono sfiduciare. Lo hanno fatto per cinque volte negli ultimi dieci anni. Ma il Congresso, a differenza del Presidente, è inamovibile. E’ il vero regista della partita. Decide quando e come scalzare il capo del governo. Lo ha fatto anche con Pedro Castillo, indotto a proclamare un autogolpe che lo ha portato in carcere. Potrebbe farlo con Dina Boluarte che ha preso il comando senza voti, solo perché così prevede la Costituzione. La tengono in sella per evitare di andare alle elezioni che rischierebbero di mandare tutti a casa. Lavorare per mangiare - Così tutto cambia e tutto resta uguale. Deputati e senatori continuano a legiferare, mentre il resto viene travolto. Perché nel Congresso ci sono i fondi pubblici, quelli che drenano consensi, che assegnano gli appalti, che soddisfano i vari collegi elettorali. Soldi e potere. La storia di sempre. Ma la storia non funziona più così. È cresciuto il numero di poveri e poverissimi. Sono la maggioranza. La classe media, motore del miracolo economico degli ultimi vent’anni, è sparita. Prima il Covid, poi la convinzione che tutto sarebbe stato diverso, ci hanno messo del loro. Sono arrivati gli echi della guerra in Ucraina, è spuntata l’inflazione, i pezzi al consumo sono aumentati, i salari hanno perso il loro potere d’acquisto. La gente ha bisogno di lavorare. Più di prima. Deve mangiare. Soprattutto gli informali, quelli costretti ad andare per strada ogni giorno e raccattare qualcosa per tirare avanti. Una marcia che punta a conquistare Lima significa riposo obbligato. E’ un lusso che la maggioranza dei peruviani non si può permettere. Chi poteva si è chiuso in casa, è andato nelle seconde case al mare o in campagna. Gli altri devono fare quello che sono obbligati a fare sempre. Chi non manifesta, afferra il suo carretto, anche un semplice sgabello, si piazza lungo i marciapiedi, e si sgola per vendere ciò che ha comprato a credito. Li vediamo anche ora mentre si affannano tra i vicoli del Barrio Chino, il quartiere quartiere cinese immerso nel cuore della città vecchia. Ci siamo rimasti tre giorni, in attesa della marcia. E’ la vera Lima. Quella antica assorbita dalla nuova. Sono a due passi da chi ha deciso l’assalto al potere. Non hanno tempo per solidarizzare e magari unirsi a chi protesta. Potrebbe accadere di tutto, ma loro resistono sullo spazio che hanno conquistato a fatica, proponendo di tutto. Frutta, stracci, cibo, orologi contraffatti, musica, video, unguenti, giocattoli, zainetti, libri e matite, spremute d’arance, di ananas e anguria. Il mercato della sopravvivenza. Ricorda le domeniche d’estate a Ipanema. Una folla scende dalle favelas e apre il più grande suk sulle spiagge di Rio. Il ritorno del Niño - C’è il sole, fa caldo. Non è normale. Di solito, in questo periodo d’inverno, Lima è avvolta da una nebbia e bagnata dalla garúa, la pioggerellina fitta che ti entra nelle ossa. Dicono che dipenda dal Niño. Quest’anno si è fatto rivedere. Un problema soprattutto per i pescatori: l’acqua è più calda ma il pesce che affolla questo tratto di Pacifico cerca le correnti fredde. Quindi, è sparito. Sono gli stessi che guidano uno spezzone dei cortei pronti a sfilare. Lamentano i danni provocati un anno fa dal travaso di petrolio che ha inquinato quasi 100 chilometri di mare e costa a nord di Lima. Non sono stati ancora compensati come promesso. Poco lavoro e pochissimo pesce. Protestano le comunità indigene aymara colpite da altri inquinamenti in Amazzonia. Si lamentano i contadini di Puno e Tacna, a sud est, minacciati dalla concorrenza boliviana e cilena; i commercianti di Piura, nel nord, invasa dai grilli e accerchiata dalla dengue che uccide e mette in fuga i turisti. Urlano quelli del Cusco che si sentono sempre ai margini del potere sebbene siano il cuore del tesoro archeologico incaico. Protestano i maestri di scuola e gli edili, minatori e infermieri, agricoltori e autotrasportatori. C’è chi insiste nel chiedere la liberazione di Castillo, chi giustizia per le vittime, chi la condanna degli ultimi protagonisti dell’ennesimo scandalo per corruzione. Chi punta a una modifica della Costituzione, chi elezioni generali, chi lo scioglimento del Congresso. Sono divisi e insieme uniti. Travolto il muro di agenti - Quando cala il buio inizia la marcia. Saranno ventimila. Premono verso il palazzo del Congresso che è a quattro incroci da piazza Dos de Mayo, il punto di concentramento previsto. Un cordone compatto di polizia sbarra la strada. La folla avanza, preme, sfonda il muro di agenti che arretrano senza caricare. Sparano qualche candelotto lacrimogeno per allentare la pressione. La folla urla e inveisce, volano sassi e bottiglie. Ma non ci sono impatti. La polizia arretra, le inferriate messe a protezione cedono sotto la pressione. E’ accaduto così anche in passato. Tutti temono che scatti la guerriglia. Non sarà così. La marcia prosegue senza scossoni fino all’altezza del Congresso, si disperde, si raccoglie di nuovo. Resta qualche minuto davanti al palazzo blindato da barriere e centinaia di poliziotti. Gli elicotteri volteggiano e illuminano dall’alto questa folla che ondeggia e quindi arretra, spinta, quasi accompagnata, da altri agenti che invitano a tornare al punto di partenza. Non c’è resistenza. Nessuno voleva una manifestazione violenta. Neanche la polizia che doveva dimostrare professionalità, nemmeno il governo che era messo alla prova sotto l’occhio vigile degli organismi internazionali e le associazioni dei diritti umani. Tutto finisce dove era iniziato. Resta l’incognita di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni. Chi ha fatto ore di viaggio resta in città. Forse per nuove manifestazioni, forse per trattare impegni e soluzioni. La crisi non è risolta. E’ solo rinviata.